Euphoria: ecco 5+1 motivi per guardarla (e subito)

Oltre ogni ragionevole dubbio, Euphoria è la serie di cui il mercato dei teen drama ha disperatamente bisogno. Non perché ecceda nella bellezza della trama o nella verve, ma per la sua sincera vocazione di regalare allo spettatore la sensazione di vivere in un trip allucinogeno lungo cinquanta minuti. E noi l’apprezziamo per questo.

Al momento, la seconda stagione di Euphoria va in onda ogni domenica su HBO. In Italia è disponibile su Sky Atlantic ogni lunedì alle 3 di notte e in streaming su Now.

Se non l’avete ancora iniziata, ecco a voi 5+1 motivi per guardare questa serie tv firmata HBO.

1)  La perfetta combinazione tra musica e fotografia

Sappiamo che sono passati cinque minuti e vi state già chiedendo cosa vi abbia spinto ad iniziare questa serie. Lo sappiamo, ma fidatevi di noi: è più un’esperienza sensoriale che altro. Non pretende di farsi capire, ma di essere vissuta. Ponendo la vostra attenzione sulla musica, gli effetti sonori, così come anche sulla fotografia, riuscirete forse ad addentrarvi nel pieno dell’esperienza.

Jules ( Hunter Schafer) in una scena della prima stagione

Dopotutto, siete nella testa della protagonista Rue (Zendaya), la teenager tossicodipendente narratrice dell’intera storia (ecco il perché di tante scelte stilistiche del regista Sam Levinson).

Famosissima, poi, la colonna sonora Still don’t know my name di Labirinth, che potreste già aver sentito sui social.

 

2)  I casting

Ovviamente questa è una di quelle serie tv che si segue per la trama – e la trama è Jacob Elordi (benché sullo schermo interpreti l’odioso Nate)! Ma andando oltre le mere apparenze, i casting director si sono davvero superati. Non solo per aver sottoposto gli attori a molti provini (come Barbie Ferreira per il ruolo di Kat, ed Hunter Schafer per quello di Jules), ma anche per essere riusciti ad assumere le perfette versioni in miniatura degli attori, per interpretare flashback legati all’infanzia dei personaggi.

A sinistra: Kyra Adler interpreta Cassie da bambina.  A destra: Sydney Sweeney nel ruolo di Cassie da teenager.

Alcuni dei personaggi sono stati cuciti a pennello sugli interpreti, come nel caso della già citata Rue, di Lexi (Maude Apatow), e Fezco (Angus Cloud). Tra l’altro, per alcuni di loro si tratta della prima esperienza attoriale. Niente male, dal momento che la recitazione non lascia a desiderare (tranne che in sporadici momenti).

Lexi e Fezco durante una scena della seconda stagione

Curiosità: Zendaya ha ricevuto un Emmy Award per la sua interpretazione nella serie, diventando la donna più giovane a vincere un Emmy per la miglior performance drammatica.

3)  Lo stile dei personaggi

Un “normale” giorno di scuola per Maddy e Cassie

«Ma non è possibile che degli adolescenti si vestano così a scuola». Certo, i modi di vestire abbastanza esuberanti non verrebbero mai accettati in un vero sobborgo americano della classe media. Ma Euphoria non ha la pretesa di essere realistica, anzi.

Lo stile dei personaggi rappresenta un diretto riflesso del loro stato d’animo: lo notiamo soprattutto nel trucco, spesso esagerato, portato fino allo stremo nel caso della vanitosa Maddy (Alexa Demie). La truccatrice ha confermato quest’ipotesi, affermando che le gemme e l’eyeliner vamp di Maddy nella prima stagione rappresentano il suo carattere forte e tenace; tuttavia, ha anche aggiunto che i makeup sono destinati a variare col tempo ed in base alle esperienze dei personaggi.

Alcuni dei makeup utilizzati durante le riprese

Oltremare, infatti, il trucco alla Euphoria è già diventato moda ed in tantissimi provano a ricrearlo: che questo trend sbarchi presto anche in Italia?

4)  Questa scena

Questa scena, tratta dal primo episodio della prima stagione, raffigura uno dei trip di Rue subito dopo aver assunto delle sostanze stupefacenti ad una festa.

Vi risulta già vista? Probabilmente sì. Infatti è un riferimento ad un’altrettanta rinomata scena tratta dal film Inception. Levinson ha fatto installare un set girevole per rendere realistico l’effetto no-gravity.

Tra l’altro, per tutto l’arco della prima stagione è possibile trovare riferimenti a molti altri film cult. Tenete gli occhi ben aperti per notarne altri!

5)  Ogni personaggio rappresenta una debolezza

Sebbene a primo impatto possa sembrare che sia Rue il personaggio più disastrato della serie, non lasciatevi ingannare. Tutti i personaggi rappresentano una debolezza diversa, che va dalla sindrome dell’abbandono all’incapacità di fuggire da un rapporto tossico fino alle difficoltà di farsi valere o di far valere la propria sessualità. Questo è forse l’aspetto che più avvicina lo spettacolo al genere “teen drama”, benché venga affrontato in modo molto crudo e spassionato.

Cassie in una scena della seconda stagione

Nulla sfugge dalla lente di cinica della nostra protagonista, il cui racconto ribalta l’archetipo classico del personaggio. Non siamo in presenza di personaggi con alcuni difetti che vengono fuori durante l’arco evolutivo, anzi, qui è addirittura difficile trovare dei pregi. Ciononostante, il lavoro degli attori è stato davvero magistrale, inducendo lo spettatore a trovare sempre e comunque qualcuno in cui rispecchiarsi o per cui provare simpatia… Anche se quel qualcuno dovesse essere uno spacciatore di droga.

5+1) Bonus: anche Leonardo DiCaprio ha ammesso di guardare la serie

E quale persona più autorevole dello stesso DiCaprio?

A dire il vero, i nuclei tematici di Euphoria non rappresentano qualcosa di fittizio, ma si calano bene nella realtà di oggi – una realtà che il pubblico adulto può e deve conoscere, al fine di fornire protezione ai giovani che ne hanno disperato bisogno. Tant’è che lo stesso cast ha raccomandato più volte di guardare la serie facendo molta attenzione al contenuto sensibile, affinché gli spettatori più fragili non ne rimangano negativamente segnati. Alla fine di ogni episodio, poi, viene trasmesso un messaggio che invita chiunque ne abbia bisogno a cercare aiuto.

Insomma, la cura sta nei dettagli.

Valeria Bonaccorso

“Emily in Paris 2” : everything coming up roses

Serie family friendly, adatta ad ogni fascia d’età, ma con qualche piccola sbavatura – Voto UVM: 4/5

 

«Everything coming up roses» recitava una vecchia canzone. Una frase tra l’altro già sentita e pronunciata da Emily Cooper (Lily Collins), protagonista della serie tv di successo mondiale Emily in Paris, produzione targata Netflix. Il significato sembra racchiudere perfettamente quello che è il carisma, la grinta, la passione e la positività della protagonista.

Come ci eravamo lasciati?

Tra una storia d’amore giunta al termine e l’incontro con un’evidente nuova fiamma, lo chef francese Gabriel (Lucas Bravo), Emily riesce ad affermarsi, stravolgendo le regole dell’azienda in cui lavora, nonostante sia un’americana sbarcata a Parigi che –  come ormai risaputo – è terra di veri patriottici duri a staccarsi dai propri costumi e dalle proprie convinzioni, anche in ambito lavorativo.

Nuove amicizie, nuove prime volte e l’eccessivo entusiasmo, però, portano la protagonista a fare scelte sbagliate, come quella di tradire la propria amica, Camille (Camille Razat), andando a letto con il suo fidanzato.

Nonostante ciò, Emily continuerà a vivere godendo appieno la vita, e facendo quasi sentire questo senso di totale leggerezza anche agli spettatori. Se trasmettere questa sensazione al pubblico era l’intento dei produttori, si può dire che ci siano riusciti alla grande!

Primo selfie di Emily a Parigi 

Ecco cos’è cambiato nella seconda stagione

Sempre più francese, ma senza mai abbandonare le radici, i valori e le strategie (di marketing) del proprio Paese, Emily è ancora più determinata nel proprio lavoro, pur vivendo un crescendo di fatiche e difficoltà. Rimasta imbrigliata nel triangolo amoroso con Gabriel, nonché suo vicino di casa, e la sua prima amica conosciuta a Parigi, Camille ( ex o “quasi” di Gabriel), la vita di Emily andrà a sfociare in un susseguirsi di eventi negativi. Diverrà dnque meno “rosea”, seppur vissuta sempre con il sorriso in volto e il coraggio di mettersi in gioco.

Sarà Alfie ( Lucien Laviscount), affascinante inglese, suo compagno a scuola di francese, a portare grandi cambiamenti nelle sue giornate. Ma ancora una volta gli sceneggiatori decideranno di lasciarci col fiato sospeso. La stagione termina infatti con una difficile scelta che deve compiere la protagonista, scelta che può incidere sulla sua futura carriera (e anche sulla vita privata). Ci tocca aspettare un po’ per sapere come andrà a finire.

Da sinistra a destra: Lucien Laviscount, Lily Collins e Lucas Bravo nella foto promozionale di “Emily in Paris 2”

To be continued…

Passerà un anno, o forse più, prima dell’uscita della terza stagione già ufficialmente confermata insieme alla quarta  (quest’ultima del tutto inaspettata).

Per cui, cari fan, se avete passato una brutta giornata, questa è un’ottima notizia per cui gioire.

Inoltre, sono molte le voci che girano riguardo ad un’interessante aggiunta nel cast: si tratta di Kim Cattrall (la seducente Samantha di Sex and the City), che dopo aver rifiutato di partecipare all’attesissimo sequel And Just like that, sembra voler approdare proprio nella Parigi di Emily.

Un po’ meno per i detrattori di una serie che ha toccato il gradino più alto del podio delle tendenze mondiali, divenendo in poco tempo una delle produzioni Netflix più amate e redditizie degli ultimi anni.

Petra e Madeline: pregiudizi o solo ironia?

“Nella serie c’è un’inaccettabile caricatura di una donna ucraina. Un vero e proprio insulto. Ma è così che vengono visti gli ucraini all’estero?”

Una tra le tante voci critiche arriva dall’Ucraina: il ministro della cultura Oleksandr Tkachenko ha sottolineato come il personaggio di Petra (Daria Panchenko), compagna di classe di Emily nel corso di francese, sia costruito sul solito vecchio stereotipo degli abitanti dell’est Europa. È possibile che nonostante la globalizzazione e il multiculturalismo, ci si fermi ancora a questo genere di pregiudizi?

Ad ogni modo, possiamo notare come effettivamente molti personaggi della serie siano un po’ caricaturali: Madeline (Kate Walsh), ad esempio, rappresenta quella che potrebbe essere considerata l’americana tipo che non rispetta gli usi francesi e pretende di imporsi con arroganza su tutti ( tralasciando i suoi modi molto poco fini).

Per quanto gli stereotipi che riguardano la figura di Madeline siano certamente meno offensivi di quelli che caratterizzano  il personaggio di Petra, è chiara una tendenza in tutta la serie alle generalizzazioni facili.

Petra ed Emily fanno shopping. Fonte: New.Fox-24.com

Serie da vedere tutta d’un fiato

Emily in Paris – la prima come la seconda stagione – è una serie leggera, piacevole da seguire, con tutti i suoi intrighi amorosi, i suoi grandi eventi ed outfit alla moda (fin dai primi episodi non si è potuto fare a meno di notare lo stile di Emily).

Allo stesso tempo, però, è molto interessante il multiculturalismo presentato: nonostante alcune forzature (come nel caso di Petra), la serie gira tutta intorno a come Emily riesce ad integrarsi nella società francese, sempre però mantenendo una sua individualità.

A questo punto direi che non ci resta che aspettare – con ansia! – la terza stagione per scoprire le nuove avventure di Emily. Au  revoir!

Ilaria Denaro, Marco Abate

 

 

Il fragile “Universo” di Mara Sattei

Mara Sattei
Mara Sattei si rivela in “Universo”, viaggio all’interno dell’inconscio fatto di sogni, dubbi e speranze del passato, senza uscire però dalla sua zona comfort. – Voto UVM: 3/5

Mara Sattei si mette a nudo e, nel suo Universo, ci racconta la solitudine, quel senso di angoscia e di inadeguatezza che molto spesso accompagna le nostre vite. Ma ci parla anche dell’importanza della fede e di come conquistare questa consapevolezza sia il primo passo per riconciliarsi con le proprie fragilità.

“Bisogna prendersi dei momenti per sé stessi per capire chi siamo, da dove veniamo, cosa vogliamo dire e cosa vogliamo comunicare.” (Mara Sattei)

Il 9 aprile 2021 esce Scusa, il primo singolo ufficiale di Mara Sattei, prodotto dal fratello Tha Supreme. Un brano che rappresenta la forza gigantesca che una parola può avere, e con cui la cantante romana iniziò a dar vita al suo “mondo minimal”. Segue poi Ciò che non dici, pubblicato il 3 dicembre, e che vorrebbe essere un invito ad agire piuttosto che aspettare che accada qualcosa.

Finalmente il 14 gennaio arriva Universo, uno degli album più attesi dell’anno. Mara è una delle voci più originali del nuovo panorama musicale e questo disco ne è la dimostrazione. È come un viaggio, dentro l’anima di chi ha trovato nella musica “la strada per sentirsi libera”.

Copertina di Universo. Fonte: Columbia Records

Come dentro un teen drama

Non sempre è semplice attraversare i propri limiti e andare oltre le proprie paure. Ansia, solitudine e costante ricerca di libertà sono solo alcuni dei temi trattati all’interno dell’album. Non stupisce dunque il fatto che in alcuni momenti sembra quasi di ascoltare chiari riferimenti a storie adolescenziali. Ne sono un esempio Shot e Blu Intenso ft. Tedua, che sembra trovarsi particolarmente a suo agio all’interno del brano.

“Mi sono presa del tempo per capire su quale brano inserire dei featuring. E dovevano essere affini al mio mondo, altrimenti si rischiava troppo contrasto sulla scrittura del brano. Questa riflessione mi ha portato a scegliere anche artisti con cui non avevo mai collaborato, come Tedua.” (Mara Sattei in un’intervista su “Billboard”)

Si riconferma vincente la collaborazione con Flavio Pardini, in arte Gazzelle, con cui l’artista aveva già collaborato al singolo Tuttecose, una delle hit estive di quest’anno. Ad un primo ascolto Occhi Stelle sembrerebbe una classica canzone indie che non ha niente di nuovo da dire, ma nonostante tutto funziona piuttosto bene. Il ritornello risulta uno dei più orecchiabili dell’intero album e la firma di Gazzelle e del suo “sexy-pop” è più che evidente.

“Mentre in sottofondo passa il tuo ricordo
Perso, vagabondo, il mondo è capovolto
E sei tu come le stelle che non vanno giù
E io come le mutande che non togli più”

Miscela di dubbi e rimorsi

Inaspettato è invece il featuring con la cantante Giorgia, in Parentesi, che fa davvero da spartiacque all’interno dell’album, e in cui Mara finalmente ci dà una dimostrazione completa della sua intonazione precisa e della sua notevole estensione vocale. Per il resto il pezzo avrebbe tutte le carte in regola per partecipare ad un festival come Sanremo. Che sia davvero questo il brano scartato da Amadeus?

Insieme a quello di Giorgia, il featuring con Carl Brave, Tetris, sembrerebbe una delle canzoni più riflessive del disco. Che Mara fosse un’ottima liricista si era già intuito dai suoi precedenti lavori, soprattutto grazie a metriche serrate, neologismi e libertà di linguaggio, Sara Mattei (questo il suo vero nome) qui dà libero sfogo a dubbi e rimorsi del passato, facendosi sempre più piccola e vulnerabile e lasciando allo scoperto le proprie fragilità. Trova largo spazio anche il tema dell’amore, come in Cicatrici e in Sabbie Mobili, e infine il forte rapporto della cantante con la fede e con Dio:

“In Perle racconto proprio di quanto, a volte, ci si possa sentire avvolti da un contrasto; la conseguenza è la richiesta di aiuto. In questi momenti, io solitamente prego, nel brano lo dico esplicitamente. Nei periodi più bui ho sempre mantenuto un legame molto forte con la fede.”

 L’universo perfetto di Mara Sattei?

Ogni album ha i suoi alti e bassi e purtroppo, anche Mara alcune volte sembra non volersi proprio smuovere dalla sua comfort zone, costringendoci a dover skippare la canzone forse un po’ troppo “ritornellosa”. Purtroppo, all’interno di Universo questo accade e non si può non farci caso. Come in Antartide o in Tamigi, che pur essendo state “impacchettate” perfettamente dall’ormai noto fratello minore di Mara, tha Supreme, che si è occupato dell’intera produzione del disco, lasciano l’amaro in bocca, come se mancasse qualcosa.

In definitiva, l’album non è perfetto, ma funziona. Tutti noi possiamo ritrovarci in almeno una di queste canzoni perché ognuno ha i propri punti deboli, le proprie vulnerabilità. L’obiettivo di questo disco sembra proprio quello di buttarle fuori, come in un lungo flusso di coscienza, e trasformarle in punti di forza. Siamo esseri fragili, “facili alla rottura”, ma non per questo soli.

Domenico Leonello

Don’t Look Up: un film che ci prende in giro (e a buon diritto)

Un film che critica la nostra società in maniera brillante. Adam McKay non smette di stupire – Voto UVM: 4/5

 

Le potenzialità di un film alle volte non incontrano limiti. È incredibile come la stessa pellicola possa essere guardata e giudicata con occhio diametralmente opposto in base alla forma mentis di persone appartenenti ad orientamenti politici o culturali diversi.

Tra chi “a sinistra” l’ha elogiato quale capolavoro sulla crisi climatica e chi invece, tra i repubblicani, no ne ha digerito i riferimenti alla politica di Trump, Don’t Look  Up, si è rivelato un film che ha letteralmente spaccato in due l’opinione pubblica, soprattutto quella americana. Proprio per questo noi di UniVersoMe, non potevamo rinunciare ad analizzarlo.

Trama

Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), una specializzanda di astrofisica, scopre un’enorme cometa, la cui traiettoria impatterà molto presto con la Terra causando l’estinzione di ogni forma di vita. La dottoressa. assieme al professor Randall Mindy, (Leonardo Di Caprio) sarà convocata immediatamente nello studio ovale del Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep).

Da qui in poi ha inizio il teatro dell’assurdo: le istituzioni ed i media non si preoccuperanno minimamente dell’imminente catastrofe, anzi non faranno altro che sminuire la vicenda e trattarla come se fosse una qualunque questione all’ordine del giorno.

Cast

Il cast della pellicola è di primissima qualità.

Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence danno vita ad un duo che funziona perfettamente. I loro personaggi sono gli unici a rendersi conto della terribile minaccia che incombe sulla Terra. Gli attori, calati interamente nei rispettivi ruoli, riescono perfettamente ad incarnare due scienziati impauriti che cercano con ogni mezzo di informare l’intera razza umana anche mettendo a nudo tutte le sue debolezze. Nonostante tutto, continueranno imperterriti nel proprio intento.

Il professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoressa Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) in una scena del film

Allo stesso tempo, confusi e impacciati, i due personaggi riusciranno a conquistarsi l’empatia dello spettatore che per tutta la durata del film dovrà convivere con lo stato di nervosismo e di ansia provato dai protagonisti.

Meryl Streep interpreta il Presidente degli USA mettendo a segno – come sempre – un’interpretazione magistrale. Dà vita ad una creatura che si ciba di consensi, populista oltre ogni misura, insomma una vera e propria macchina politica. Si può quasi definire una rivalsa personale per l’attrice nei confronti di un noto presidente che l’aveva definita “sopravvalutata”.

Da segnalare anche le ottime interpretazioni di Jonah Hill nei panni di Jason Orlean (figlio della presidentessa) e del premio Oscar Mark Rylance in quelli di Peter Isherwell (una sorta di Steve Jobs o Elon Musk).

Stile Mckay

Il regista Adam Mckay, in passato, non si è fatto problemi ad affrontare con i suoi film tematiche delicate. Con La grande scommessa (2015) ha ripercorso le origini della crisi finanziaria del 2008, mentre con Vice – L’uomo nell’ombra (2018) ha raccontato la vita di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush, uno degli individui più loschi della storia americana.

Rappresentare ed affrontare problematiche odierne quindi non lo intimorisce per nulla.

Il presidente degli USA Janie Orlean (Meryl Streep) in una scena del film

Come già fatto in passato, il regista è riuscito a identificare quale sia la causa di fenomeni negativi che interessano il mondo intero: l’operato umano.

I politici, i programmi Tv ed i cittadini stessi sono gli artefici di tutto ciò che accade in Don’t Look Up.

Ripudiamo la scienza per ascoltare  – e ammirare come pecorelle – chi sproloquia per soddisfare esclusivamente un interesse personale.

Una delle scene più emblematiche, a questo proposito, è quella in cui i due scienziati sono invitati in uno studio televisivo. Tanto per cominciare, il loro intervento viene messo in scaletta dopo l’apparizione di una famosa cantante (interpretata da Ariana Grande) che dà vita ad uno spettacolo super trash con il proprio ex compagno, spettacolo che tuttavia raccoglierà il picco massimo di spettatori della trasmissione. Solo dopo viene dato spazio alla questione della cometa, problematica affrontata con molta leggerezza, scherzandoci su e ridicolizzando la povera Kate Dibiasky. Quest’ultima, dopo aver provato a spiegare i pericoli cui la Terra sarebbe andata incontro, sclera divenendo lo zimbello del mondo di Internet.

Una storia raccontata in perfetto stile Mckay, unico nel suo genere: l’autore mira diretto al problema e lo mostra per quello che è senza usufruire di metafore o riferimenti esterni e raccontandone le conseguenze con un ritmo incalzante.

La locandina del film

 

Un film che va visto per ciò che è: un film. Non un attacco a una specifica frangia politica o una satira esagerata sui complottisti.

E’ solo una pellicola che ci apre gli occhi su cosa sia oggi la nostra società e lo fa in maniera brillante. Ci prende in giro ed è normale e giusto che sia così. Guardatelo, godetevi lo spettacolo e distogliete l’attenzione dalle guerre mediatiche condotte per accalappiare consensi inutili.

Vincenzo Barbera

 

Hawkeye: un graditissimo regalo per chiudere il 2021

 

      Un ottimo regalo firmato Marvel per le feste natalizie   – Voto UVM: 4/5

 

Arrivata al suo quarto prodotto seriale, Marvel offre agli spettatori un prodotto molto più leggero rispetto agli intricati Wanda Vision e Loki ed al più politico The Falcon and The Winter Soldier (uscite sempre nel 2021).

La serie Hawkeye, trasmessa dal 24 novembre al 22 dicembre scorso su Disney +, vede per la prima volta come protagonista – dopo oltre 10 anni di film del MCU – Clint Barton (Jeremy Renner) alias Occhio di Falco, affiancato da una freschissima new entry, Kate Bishop (Hailee Steinfeld).

Clint (Jeremy Renner) con il classico costume viola. Fonte: Disney +

Gli eventi hanno luogo – come di consueto nelle ultime produzioni Marvel – dopo Avengers Endgame (2019), e sono per la prima volta piuttosto semplici e tranquilli.

Clint si prepara a trascorrere un felice Natale con la sua famiglia fino a quando non vede in televisione un oscuro fantasma del suo passato. Qualcuno sta indossando il suo vecchio costume di Ronin, identità adottata da Clint dopo il “Blip” (conseguenza dello schiocco di dita di Thanos avvenuto in Avengers Infinity War), in cui l’arciere, divorato dalla perdita della sua famiglia, diviene un giustiziere di criminali assetato di sangue.

Clint scoprirà immediatamente che chi si cela dietro la maschera non sarà altro che Kate Bishop, e da lì la serie impennerà verso vette qualitative decisamente elevate. Descritta così la storia potrebbe sembrare caratterizzata da quei toni cupi da cui Hawkeye in realtà si distanzia subito.

Infatti, la sceneggiatrice Katrina Mathewson pesca a piene mani dalla storia migliore dello scanzonato arciere ossia l’Occhio di Falco di Matt Fraction e David Aja, da cui riprende interamente i “nemici”: la Tracksuit Mafia (Mafiosi in Tuta), versione tremendamente caricaturale di qualunque associazione criminale.

 

Clint e Kate in una scena della serie

Ma l’aspetto per cui Hawkeye brilla di più non è la trama (che resta comunque piacevole e ben congeniata) bensì il legame tra Clint e Kate.

Con il succedersi degli episodi il loro rapporto maestro-allieva progredisce sempre di più fino a diventare quasi quello che c’è tra un padre e una figlia. L’entusiasmo di una novizia Kate e la stanchezza di un Clint, ormai sovraccarico di tutte queste dinamiche, spiccano in un dualismo ben caratterizzato.

Ogni loro dialogo è impattante, sia che si soffermi sulle tematiche più profonde sia che tocchi quelle più leggere e divertite. Le prove attoriali dei due protagonisti, poi, rendono la serie la gemma che chiude un 2021 ricco di produzioni Marvel.

Da sottolineare anche le coreografie di combattimento totalmente inedite nel panorama MCU data la massiccia presenza di arco e frecce che rende i combattimenti mai ripetitivi.

La serie non è tuttavia esente da difetti, seppur divertente e spensierata. Non si percepisce mai un vero senso di pericolo che coinvolga i due protagonisti: la già citata Tracksuit Mafia è del tutto innocua e funge solo da esilarante “punching ball” ( valvola di sfogo), mentre l’introduzione di Echo (Alaqua Cox) risulta troppo frettolosa e volta esclusivamente a presentare al pubblico il personaggio per il suo futuro spin-off.

Infine un ritorno graditissimo potrebbe risultare quello di un personaggio reso magistralmente nelle sue precedenti apparizioni su Netflix, ma che qui viene decisamente “svilito”. Di chi si tratta non saremo noi a svelarvelo!

 

Da una copertina della serie di Fraction e Aja – Fonte: Marvel Comics

 

In conclusione, Hawkeye è una serie che scorre via piacevolmente chiudendo linee narrative senza lasciare buchi, ma che pecca un po’ di ingenuità nella costruzione della trama. Ciò nonostante, resta un ottimo regalo per le feste di Natale.

Giuseppe Catanzaro

Matrix Resurrections: un sequel che divide il pubblico

Film che promette bene, ma si perde col passare dei minuti. Da “Matrix” ci si aspettava di più – Voto UVM: 2/5

 

Dopo circa 18 anni dalla conclusione della trilogia, Matrix ritorna sul grande schermo con un sequel/reboot atteso dai migliaia di fan della saga.

Matrix Resurrections, questo è il nome della pellicola disponibile nelle sale cinematografiche dal 1° gennaio. Il film vede protagonisti nuovamente i personaggi di Neo e Trinity, sempre interpretati da Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Presenti anche altri personaggi centrali della trilogia, come Morpheus e l’ agente Smith, in questo caso però impersonati da attori differenti (rispettivamente Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff).

La regia è stata affidata stavolta alla sola Lana Wachowski, che ha curato anche la sceneggiatura.

Neo e Trinity

Molti dubbi aleggiavano sul successo e sulla validità di un sequel del genere: le vicende si erano ormai concluse in Matrix Revolutions, un seguito sembrava abbastanza forzato. In sintesi, Matrix Resurrections sembrava il classico tentativo di fare incassi sfruttando un brand di successo. Tuttavia l’uscita dei trailer aveva riacceso l’entusiasmo e la curiosità tra i fan e non solo.

Prime impressioni: quei difetti che balzano all’occhio

La trama di base non è male: Neo si ritrova ancora intrappolato in Matrix facendo i conti con il suo passato che riemerge. Diversi sono i cambiamenti che avvengono all’interno di questo mondo (il che è più che legittimo). Il problema è lo sviluppo: il film infatti va a perdersi col passare dei minuti risultando non molto interessante.

Alcuni personaggi risultano spenti, altri si vedono poco e finiscono per avere ruoli secondari, altri ancora risultano delle macchiette che definirei “fastidiose”.

Il finale poi mi sembra troppo affrettato – nonostante il film arrivi quasi alle 2 ore e 20 – con molte situazioni che non vengono spiegate in maniera adeguata. Abbiamo pur sempre a che fare con della fantascienza, ma qui le forzature sembrano essere troppe e alcuni avvenimenti risultano incoerenti con i film precedenti, classico difetto dei sequel e motivo per cui difficilmente riescono bene.

Morpheus in una scena del film

In più la storia sembra priva di spunti filosofici interessanti: troviamo solamente argomenti già affrontati e quest’aspetto la depotenzia molto. Vengono riprese le tematiche della scelta e del libero arbitrio, ma il discorso si era già esaurito nei capitoli precedenti: questa appare solo una ripetizione. Perciò complessivamente ho trovato il film piuttosto vuoto: da Matrix si pretende qualcosa in più.

Metacinema e altre note di merito

Il film si pone, però, come una critica spietata verso la situazione cinematografica attuale: da una parte ci sono gli spettatori, affezionati a determinati prodotti, e dall’altra l’esigenza delle case di produzione di adattarsi a queste richieste per riuscire a vendere. Ciò che traspare è un intento da parte della regista di prendere in giro questo sistema, come possiamo notare nella prima parte della pellicola.

Lana Wachowski sembrerebbe girare e scrivere questo sequel quasi di controvoglia, costretta dalle esigenze di mercato della Warner. Tuttavia, quello che ne viene fuori sono alcuni siparietti metacinematografici di alto livello, che ironizzano sul film stesso.

Sembrerebbe esserci stata una presa di coscienza da parte della regista che, consapevole di aver già tirato fuori il meglio dal brand, decide comunque di realizzare questo quarto capitolo, adottando di proposito certe soluzioni infelici, ma offrendo all’industria ciò che vuole.

Forse il cinema, come ogni forma d’arte contemporanea – per usare un termine proprio del film – si trova davvero intrappolato in un loop, in cui si ritorna sempre a proporre il classico “usato sicuro”, qualcosa di già visto (non a caso uno dei temi affrontati in questo Matrix è quello del déjà-vu).

Fonte: Zimbio.com – Carrie Anne Moss, Lana Wachowski e Keanu Reeves alla première del film

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la regia è stata curata magistralmente, la CGI ben utilizzata e le scene d’azione non dispiacciono, anche se a volte confusionarie e comunque al di sotto di quelle viste nei film precedenti.

Presenti anche molte citazioni e riferimenti alla trilogia: puro fan-service verso gli appassionati che però non guasta, anzi è ben realizzato e rientra tra le note più positive.

Un Matrix diverso?

È molto difficile valutare questa pellicola: se si dovesse considerare una parodia voluta contro il sistema dello sfruttamento estenuante dei brand cinematografici, allora il giudizio sarebbe ottimo. Se si dovesse considerare, invece, esclusivamente come sequel della trilogia allora lo reputerei insufficiente.

Matrix Resurrections può convincere come film a sé stante, ma, posto in confronto con i capitoli precedenti della saga, rivela la sua vacuità.

In sostanza è un Matrix diverso, lontano dai canoni e dalle atmosfere dei primi film. Ma forse questo cambiamento è stato voluto e ci si dovrebbe focalizzare non tanto sulla trama, ma sul messaggio che la regista vuole dare.

È vero che si può trovare sempre qualcosa da raccontare: le storie potenzialmente non finiscono mai, ma ad un certo punto diventano ridondanti, rischiando di cadere nella mediocrità.

 

Sebastiano Morabito

Dalle stalle bahamensi alle stelle hollywoodiane: Sidney Poitier

Se n’é andato ieri l’attore, attivista, diplomatico, in una parola: il trailblazer Sidney Poitier. Nato il 20 febbraio 1924 in Florida da una famiglia di contadini, trascorre i suoi primi anni di vita nell’arcipelago delle Bahamas che lascia da adolescente diretto alla volta di Miami e poi di New York. Dopo l’esperienza dell’esercito e della vita “alla giornata”, negli anni Quaranta finalmente imbocca la strada della recitazione a teatro, prima, e sul grande schermo dopo.

Nella sua carriera da attore ha recitato in oltre cinquanta film, dal primo indimenticabile Uomo bianco tu vivrai! (1950), passando per I gigli del campo (1964), che gli fece guadagnare l’Oscar come miglior attore protagonista, e Indovina chi viene a cena? (1967), fino a The Jackal (1997).

“Una buona azione qui, una buona azione lì, un buon pensiero qui, un buon commento lì, tutto ha aggiunto alla mia carriera in un modo o nell’altro.”

Il messaggio dietro la semplice commedia

Indovina chi viene a cena? presenta in maniera molto leggera una problematica rilevante e – purtroppo – ancora attuale, ovvero il razzismo.

Nel guardare questo film bisogna tenere a mente il suo background storico: la pellicola uscì nelle sale cinematografiche nel 1968, solamente quattro anni dopo il Civil Rights Act, la legge federale con cui formalmente si poneva fine ad ogni forma di segregazione razziale negli Stati uniti d’America. Di conseguenza, i pregiudizi e le discriminazioni nei confronti delle persone di colore erano ancora tutt’altro che accantonati.

Katherine Houghton e Sidney Poitier nei panni di John e Johanna in una scena del film

Matt (Spencer Tracy) e Christina (Katharine HepburnDrayton, lui proprietario di un giornale e lei di una galleria d’arte, ricevono la notizia che la loro Joanna “Joey” (Katharine Houghton) sta per sposarsi. Novella più lieta i due genitori non potrebbero ricevere, soprattutto perché il futuro sposo è un importante medico.

Ma c’è un problema: John Prentice (Sidney Poitier) è anche un uomo di colore. I genitori di lei sono sconvolti ma di ampie vedute, mentre lo stesso non può dirsi dei genitori di lui.

“Tu sei mio padre e io sono tuo figlio. Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto e te ne vorrò sempre. Ma tu ti consideri ancora un uomo di colore, mentre io mi considero un uomo.”

È evidente la contrapposizione dei due protagonisti, John e Johanna. Lei, nella sua purezza e ingenuità giovanile, vive al di fuori di qualsiasi tipo di pregiudizio. Lui, più razionale, si rende conto di come la sola differenza del colore della loro pelle possa rappresentare un problema nell’America in cui vivono.

Un grande attore e un grande film

Sidney Poitier. Fonte: atlantablackstar.com

Sidney Poitier, oltre ad essere stato un attore talentuoso, è riuscito a portare un grande cambiamento nel mondo del cinema, tale da essere considerato un pioniere. Dall’Oscar come miglior attore protagonista vinto nel 1964 (primo attore di colore a vincere questa statuetta!) alla sua interpretazione in Indovina chi viene a cena, ha spianato la strada al black power per tutti quegli afroamericani che ancora oggi possono seguire le sue orme sia nel mondo dell’industria cinematografica, sia nella lotta non violenta per la causa antirazzista.

Grazie alle sue semplici performance, è riuscito a smantellare tutta una serie di pregiudizi, rispondendo sempre «all’ingiustizia con quieta risolutezza, all’odio con la ragione e il perdono».

“La lotta contro il razzismo non è stata solo la mia carriera, è stata la mia vita.”

Arrivato a New York con soli tre dollari in tasca, ha realizzato il sogno americano, non solo quello cinematografico ma, anche e soprattutto, umano.  Perché, come Joanna “Joey” e John erano “due esseri speciali“, anche lui lo è stato e continua a esserlo anche oggi, nel 2022,  in cui non abbiamo ancora imparato a capire e amare il diverso.

C’è poco altro da aggiungere. Grazie Sidney, i tuoi film e la tua storia continueranno a essere un’ispirazione per tutti noi!

Ilaria Denaro 

Angelica Terranova

Incastrati: un giallo siculo

 

Un giallo comico, dipinto con i colori della Sicilia – Voto UVM: 5/5

 

Anno nuovo vita nuova. Lo stesso vale per il duo comico Ficarra e Picone, che sono sbarcati su Netflix il 1 gennaio con la loro prima serie TV.

Un nome una garanzia:  i due siciliani sono sempre pronti a deliziarci col loro umorismo- non quello banale e volgare alla Pio e Amedeo– ma quello che fa riflettere e porre domande, sempre pronti a difendere i diritti degli italiani con l’arma dell’ironia.

 

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: tvserial.it

Una storia ricca di imprevisti

“Voglio una vita piena di imprevisti”. Queste sono le parole che pronuncia Salvatore che voleva sfuggire dalla monotonia, avere una vita come il commissario di una serie tv, in cui non esiste la parola noia, ma solo tante avventure. Come non detto, il suo desiderio verrà esaudito, ma di certo non come aveva immaginato. Il caro Salvatore dovrà ricredersi. Per quale motivo? Andiamo a scoprirlo. 

Incastrati è una serie scritta e diretta da Ficarra e Picone- composta da sei puntate di 30 minuti ciascuna- e racconta l’avventura di Salvatore (Ficarra) e Valentino (Picone), due riparatori di elettrodomestici che col loro furgoncino girano di casa in casa.

Da un lato abbiamo Salvatore, sposato con Ester (Anna Favella), ossessionata dallo yoga e dalla vita salutista, che impone pure al povero marito, dall’altro Valentino (fratello di Ester e cognato di Salvatore), un uomo ingenuo ma dal cuore d’oro, che vive ancora con la mamma morbosa, che vuole il figlio tutto per sé e fa di tutto per tenerlo lontano dalle donne, viziandolo come un bambino.

I due, oltre ad essere cognati, sono pure grandi amici e, un giorno come un altro, si recano in una casa per lavoro, ma finiscono nei guai: si ritroveranno dentro la dimora di un ex mafioso, ammazzato dalla mafia stessa in quanto pentito.

Da quel momento in poi per i protagonisti inizierà veramente una vita piena di avventure e imprevisti. I due per non essere incolpati si cacceranno ancor di più nei guai e da semplici testimoni rischieranno di passare per probabili assassini.

Non piangere,  che le lacrime contengono DNA


Cast, luoghi e folklore

La serie è ricca di personaggi, interpretati da: Leo Gullotta (Procuratore Nicolosi), Marianna di Martino (Agata Scalia), Anna Favella (Ester), Tony Sperandeo (Tonino Macaluso), Maurizio Marchetti (il Portiere Martorana), Mary Cipolla (Antonietta), Domenico Centamore (Don Lorenzo), Sergio Friscia (il giornalista Sergione), Filippo Luna (vicequestore Lo Russo), Sasà Salvaggio (Alberto Gambino) e Gino Carista (Frate Armando).

Un cast che con il talento fa divertire il telespettatore, utilizzando un’ironia tutta siciliana.

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: Today

La mafia viene descritta per quello che è: una barzelletta fatta di uomini stolti, privi di etica, un’organizzazione poco furba ma allo stesso tempo pericolosa.

Nota di merito va per la sceneggiatura che descrive nei minimi dettagli la terra del sole: Ficarra e Picone disseminano i tipici luoghi comuni che il sud è condannato a indossare a causa delle menti più arretrate. I due comici però ci offrono anche paesaggi immensi, strade abbellite da cittadini col loro accento, i loro colori, il cibo, e tanto altro che solo il mezzogiorno può offrire.

Un messaggio nascosto?

Usiamo il crimine per farvi ridere

Cosa vuol dire questa frase? Cosa vogliono farci intendere i due attori? La serie va vista non solo come una produzione comica, ma bisogna avere un occhio critico. Come citato sopra, al centro vi è il tema della mafia, un morbo della nostra società.

Forse i due comici ci vogliono portare un esempio di “pornografia del dolore”, che ipnotizza gli individui anche con scene drammatiche, scene agrodolci che deliziano gli animi delle persone, facendole rimanere inermi davanti alla prepotenza? I due protagonisti però non rimarranno di certo immobili e faranno trionfare la giustizia. Un dovere a cui pochi riescono ad adempiere.

Una serie così piacevole, che la si vede tutta in un colpo solo. Ci erano mancati Ficarra e Picone, due comici che hanno portato su Netflix non solo la loro ironia, ma anche la sicilianità, fatta di arancini(e), culture e paesaggi da far invidia al mondo intero.

                                                                                                 Alessia Orsa 

 

Natale su Netflix: 5 nuovi film da guardare in queste feste

Da sempre il fascino del Natale cattura e conquista grandi e piccini. Ci si ritrova d’un lampo catapultati in un nuovo mondo, in cui le strade sono piene di luci, addobbi e regali. Tutti aspettano con grande desiderio il momento più atteso dell’anno.

Noi nel frattempo abbiamo deciso di rinvigorire lo spirito natalizio, stilando una lista contenente alcuni film di Natale, usciti tutti nel 2021, presentati da Netflix e adatti a tutte le età.

Cosa aspetti a tagliare una bella fetta di pandoro, versare una buona cioccolata calda nella tua tazza preferita e iniziare insieme a noi questa fantastica maratona? Cominciamo!

1) Un bambino chiamato Natale

Nella top list di Netflix scavalca quasi tutte le pellicole, raggiungendo il quarto posto. Un bambino chiamato Natale è un film colorato, luminoso e pieno di fantasia che nasconde un messaggio molto importante: non dimenticarsi mai del Natale e della sua atmosfera di gioia.

È un film principalmente adatto ad un pubblico di minori, ma questo non significa che dispiacerà ai più grandi. E’ ottimo infatti da guardare tutti insieme, su un bel divano, con genitori e nonni compresi.

La trama è tratta da un romanzo per bambini di Matt Haig. Il regista Gil Kenan ha ben pensato di inserire una storia nella storia con un personaggio narrante e di impostare la trama oltre che su un registro nettamente natalizio, anche sui temi dell’abbandono e della convivenza con un lutto.

Nikolas, insieme al suo amico topo, fa dei suoi sogni la propria torcia e inizia ad incamminarsi verso una fantastica terra, la quale è minata da uno scontro tra gli adulti, che vorrebbero rubarne una parte per ottenere una ricompensa dal re.

Un bambino chiamato Natale; fonte: Netflix

Grazie alla buona recitazione di tutti gli attori, la pellicola risulta leggera, ricca di panoramiche, ma soprattutto molto natalizia grazie al fascio bianco della neve e rosso della festività, colori che ricorr0no spesso nelle scene.

2) David e gli elfi

È il turno di David e gli elfi e ancora una volta ci ritroviamo alle porte della città di queste piccole creature, dove Babbo Natale e la Signora Natale danzano sotto le note di Beyond the Sea.

Il film di Michal Rogalski, racconta alcuni giorni di fantastiche avventure trascorse da un bambino polacco che crede davvero a Babbo Natale assieme ad Albert, l’elfo migliore ed il preferito tra tutti. Dopo diverse marachelle, Babbo Natale deciderà di scendere proprio in città per cercare Albert e riportarlo al polo Nord.

Cosa succederà? Riusciranno a trovare il piccolo elfo che gironzola per la città con l’intento di avverare i desideri di ogni passante?

David e gli elfi

Il racconto si mostra molto spensierato e ricco di riferimenti al magico Natale. Al contrario della precedente pellicola, questa volta la famiglia farà da cornice all’intero quadro.

Nonostante la buona riuscita della produzione però, il film rimane comunque molto anonimo, quasi come se fosse solo uno dei tanti titoli di Natale presenti su Netflix.

3) Love Hard

Una volta, quando ancora non esistevano i social, ci si incontrava quasi per caso e ci si innamorava magari davanti ad un buon caffè. Oggi non funziona proprio così. Possiamo scegliere fra milioni di piattaforme e parlare con tantissime persone nuove senza averle mai viste, affidandoci alle foto del profilo.

E se la realtà non rispecchiasse le nostre aspettative? Love Hard è una commedia sentimentale di Hernán Jiménez García, basata su uno dei temi più sensibili degli ultimi anni: gli incontri online. È una pellicola che coinvolge il Natale e tutti i preparativi festivi di una tipica famiglia degli Stati Uniti.

Natalie, la protagonista è una giovane scrittrice che decide di fare una pazzia d’amore per Josh, il ragazzo che aveva recentemente conosciuto in rete.

Love Hard

Un film molto romantico e allo stesso tempo comico, adatto al clima delle feste ma sconsigliato a chi si sente un po’ come il Grinch.

4) Natale in California: Luci della città

Se stai cercando un film super romantico, fra campagne e grandi lussi della città sotto le luci del Natale, questo è quello che devi guardare.

Diretto da Shaun Paul Piccinino e disponibile su Netflix da metà dicembre, Natale in California: Luci della città racconta la storia di Callie e Joseph, due giovani innamorati che dovranno affrontare una crisi molto importante di coppia data da scelte e stili di vita opposti. La loro storia d’amore avrà un lieto fine?

Nella top list della piattaforma, Natale in California è davvero una scoperta eccezionale e stimolante, dalla trama leggera, molto simpatica e a tratti elegante.
Non possiamo svelare nulla se non che questa volta il Natale per Callie e Joseph avrà un messaggio da dare!

5) Nei panni di una principessa: Inseguendo la stella

Dopo il successo dei precedenti capitoli della saga Nei panni di una principessa, Netflix riporta Vanessa Hudgens sullo schermo nei triplici panni di duchessa, pasticcera e della new entry Fiona. Questa volta le protagoniste saranno impegnate con il furto di una preziosissima reliquia. Ma, sotto le luci del Natale, sembra succedere qualcosa di veramente inaspettato.

Nei panni di una principessa

Una delle caratteristiche più particolari del film è il far impersonare tre personaggi differenti – con diverse movenze e modi di porsi – ad una sola attrice.  Ciò a cui assistiamo sembra sia una grande caccia al tesoro che però porterà a galla tante verità.

Un film per ragazzi, veramente carino e scorrevole,  con un velo di romanticismo e comicità.

Annina Monteleone

 

House Of Gucci: tra superbia e cliché

 

Un film che aveva tutte le carte in regola per diventare cult, ma si perde nella banalità dei clichè – Voto UVM: 2/5

 

“Era un nome dal suono così dolce, così seducente, sinonimo di ricchezza, di stile, di potere. Ma il loro nome era anche una maledizione”

 

“Nel nome del padre, del figlio e della famiglia Gucci”. È questa la frase che racchiude la nuova pellicola di Ridley Scott, che racconta gli ultimi anni di gloria della sfortunata famiglia Gucci.

Chi non conosce il famoso marchio Gucci? Chi non ha mai sognato di avere nel cassetto l’iconica cintura? O di avvolgere al collo il foulard flora, indossato dalle grandi dive del cinema, che ci hanno fatto sognare con la loro eleganza e bellezza?

Adam Driver, Lady Gaga e Al Pacino in una scena del film

House of Gucci è un film diretto e scritto da Ridley Scott, che ripercorre gli antefatti dell’omicidio di Maurizio Gucci ( un affascinante Adam Driver), uno dei casi di cronaca nera più famosi al mondo avvenuto nel 1995, commesso per rabbia e superbia da Patrizia Reggiani, ex moglie di Gucci, interpretata dall’artista Lady Gaga. L’uomo fu ucciso davanti agli uffici della Maison Gucci da due sicari, pagati dalla stessa Reggiani, condannata poi a 27 anni di reclusione, ma scontati a 18 per buona condotta.

Il film è tratto dal libro The House Of Gucci: A Sensational Story of Murder, Madness, Glamour and Greed, scritto da Sarah Gay Forden ,e si apre con l’incontro dei due innamorati, belli e pieni di vita. Già dai loro primi sguardi si nota una passione alla Romeo e Giulietta, con l’unica differenza che il bel giovane si stava innamorando della propria assassina. Sarà proprio Rodolfo Gucci ( Jeremy Irons) a mettere in guardia il figlio Maurizio, facendogli notare che la donna è innamorata solo del suo cognome.

A sinistro Lady Gaga e Adam Driver. A destra Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci proprio matrimonio nel 1972. Fonte: Ossona.it

Possiamo notare come la pellicola già dalle prime scene non abbia niente di originale: impazzano soprattutto i soliti cliché con cui noi italiani veniamo dipinti nel resto del mondo. Basti osservare come i personaggi gesticolino troppo e di come il doppiaggio originale – ma anche quello italiano – presenti un accenno di accento mafioso.

In particolare Aldo Gucci (interpretato da un grande Al Pacino, che sembra però rimasto nei panni di Micheal Corleone), l’unico che ci teneva a salvare il marchio, viene dipinto come un boss. Dall’altre parte troviamo suo figlio, Paolo Gucci ( Jared Leto) uno “sfortunato erede” privo di gusto per la moda, sebbene cresciuto dentro la maison Gucci. La tipica “pecora nera” della famiglia che tutti disprezzano perché troppo “audace” – nonostante essere audaci sia il primo comandamento nel mondo della moda come negli affari.

Paolo sarà raggirato dai suoi stessi familiari che riponevano tutti speranza in Maurizio, futuro direttore di Gucci, ingenuo e manipolato dalla consorte, un’arrampicatrice sociale piuttosto sempliciotta, capace di confondere un Klimt con un Picasso, ma, in compenso, donna con un “forte senso degli affari”.

Sarà proprio Patrizia infatti a manovrare abilmente il marito, facendolo diventare unico erede, eliminando dall’azienda di famiglia gli altri membri con astuzia, mossa da un’avidità che i costumi Gucci – indossati da Lady Gaga – sembrano esaltare.

Lady Gaga e Adam Driver in una scena del film

Per quanto la pellicola vanti attori stellari, tra i migliori di Hollywood (Al Pacino e Jeremy Irons sono icone del grande schermo), il film perde di credibilità, ricade nel banale. Ridley Scott sembra dimenticare che la famiglia Gucci era toscana e della bella Firenze, città in cui, grazie alla propria arte, aveva dato il via alla costruzione di un impero della moda, e non una tipica famiglia “rozza” che sembrerebbe uscita direttamente da Gomorra.

Altro errore è stato definire il film un “giallo”, quando quest’ultimo lascia in genere lo spettatore col fiato sospeso fino agli ultimi minuti, mentre qui – per ovvie ragioni – gli assassini sono noti e vengono già mostrati prima dell’atto e la scena dell’uccisione descritta senza veli di mistero. Ma nei gialli non si scopre il colpevole all’ultimo? Seguendone le tracce e gli indizi disseminati sulla scena del crimine? Forse sarebbe stato più giusto parlare di “noir” in questo caso.

Direttamente dal set di House of Gucci, Adam Driver e Lady Gaga in uno degli scatti più pubblicizzati dell’intero film. Fonte: ElleDecor

Nonostante queste pecche, la pellicola è piacevole da guardare, non annoia e si salva in calcio d’angolo, ma soprattutto per i nomi degli attori e l’enorme pubblicità che ha preceduto l’arrivo nei cinema.

House of Gucci è in definitiva un film in cui si erano riposte grandi aspettative, ma che si è andato a perdere dentro un bicchier d’acqua tra cliché e stereotipi vari. Ridley Scott, tuttavia, non ha perso il suo smalto nel rendere due ore e mezza di pellicola scorrevoli e coinvolgenti.

Alessia Orsa