Una famiglia vincente: la storia di un padre e del suo sogno

“King Richard” è un film che fa riflettere molto sul ruolo della famiglia e sul contesto storico di qualche decennio fa- Voto UVM: 5/5

«Vinceremo e condivideremo la nostra vittoria con ogni persona del mondo». Sono queste le  parole di King Richard, allenatore ma soprattutto padre delle due campionesse di tennis, Serena e Venus Williams, le quali hanno contribuito a far la storia e portato orgoglio al popolo afroamericano. Sono state le figure ispiratrici di intere generazioni, hanno trasmesso la forza di chi è disposto a sacrificarsi per raggiungere i suoi obiettivi e realizzare i propri sogni.

Tuttavia non possiamo mettere in secondo piano l’uomo che ha plasmato le sorelle Williams all’insegna di questi valori. Passato alla storia come ‘Re Riccardo’, Richard Williams è andato contro ogni pregiudizio, ha lottato per dare il meglio e garantire un futuro di successo alle sue figlie.

Lasciamoci ispirare anche noi dalla loro storia, assaporiamola e viviamola attraverso il film biografico “King Richard-Una famiglia vincente” diretto da Reinaldo Marcus Green. Lasciamoci commuovere dalla recitazione di Will Smith, nei panni di  King Richard ,e delle giovanissime co-protagoniste Saniyya Sidney e Demi Singleton, nei panni rispettivamente di Venus e Serena Williams .

Un piano per il successo

Facciamo un salto nel passato: siamo negli ‘90 a Compton, un malfamato quartiere di Los Angeles, ed è lì dove tutto ha inizio. Richard Williams ha sempre avuto chiaro il futuro di queste due – allora – bambine: sarebbero state delle campionesse di tennis e non avrebbe fatto vivere loro l’ingiustizia sociale che era ancora tipica di quegli anni e di cui lui stesso portava i segni.

Padre di cinque figlie, con una situazione patrimoniale quasi precaria, e una conoscenza di questo sport inesistente, Richard inizia ad allenarle insieme alla moglie; prodigandosi tra lavoro, allenamenti, e la ricerca costante del  miglior coach che le possa portare al successo. 

La famiglia Williams al completo durante la vittoria,alla competizione juniores ,di Venus Williams. Fonte Overbrook Entertainment, Star Thrower Entertainment, Warner Bros

Il suo motto «se non pianifichi, hai intenzione di fallire» si ripete continuamente durante le scene del film, segno inconfondibile di quella che era la sua visione; questo suo atteggiamento potrebbe essere valutato come quasi ossessivo ma  non biasimabile. Dietro ogni sua parola e decisione troviamo sempre  il desiderio di dare il meglio alle proprie figlie.

Richard Williams : Questo mondo non ha mai avuto rispetto per Richard Williams. Ma rispetterà voi.”

 

Cambio di protagonista

Diversamente da come ci si potrebbe aspettare da un biopic, la storia non è incentrata sulle vicende delle sorelle: il focus che Green ha deciso di centrare  è il “nostro” formidabile allenatore. Destreggiandosi tra il ruolo di coach e padre, King Richard ci mostra le sue diverse sfaccettature e il proprio ruolo nella carriera delle figlie. 

A sinistra Richard Williams; a destra l’attore Will Smith nel ruolo di Richard. Fonte: IoDonna

Importante il messaggio di solidarietà e famiglia che impronta la trama: la famiglia come punto di ancoraggio e conforto nei momenti più bui – che sicuramente non possono mancare – e la solidarietà come forza contrastante di quel male chiamato diseguaglianza. La solidarietà che vive intrinsecamente nel cuore di un popolo che si sente affiatato. Ed è per questo che la vittoria delle sorelle Williams è anche la vittoria del popolo nero.

Richard Williams: il prossimo passo che stai per fare non rappresenterà solo te. Rappresenterà ogni ragazzina nera sulla Terra.”

Verso gli Oscar

Una famiglia vincente- King Richard, dopo aver vinto un premio Golden Globe, come migliore attore in un film drammatico a Will Smith e un premio Bafta, sempre per la performance di Will Smith, lo troveremo prossimamente sul palco degli Academy Awards con sei nomination: miglior film, miglior montaggio a Pamela Martin, migliore attore protagonista a Will Smith, migliore attrice non protagonista a Aunjanue Ellis, migliore canzone a Beyoncé, e migliore sceneggiatura originale a Zach Baylin.

 

Will Smith in una scena del film insieme a Saniyya Sidney e Demi Singleton. Fonte: Overbrook Entertainment, Star Thrower Entertainment, Warner Bros

Dopo due candidature Oscar come miglior attore, per i film Alì (2002) e La ricerca della felicità (2007), Will Smith sarà stato in grado di dimostrare, di essere degno di ricevere il premio cinematografico più prestigioso e antico del mondo?

Giada D’Arrigo

Disney, Pixar, Sony o indie: quale sarà il miglior film d’animazione 2022?

Quest’anno la lotta per la statuetta di miglior film d’animazione si preannuncia ostica, con contendenti equipaggiati di un ottimo arsenale. Dal lato Disney abbiamo Encanto e Raya e l’ultimo drago, che continuano la tradizione recente dei classici con forti eroine in copertina, e Luca, il nuovo film co-prodotto con Pixar, dai tratti nostalgici.

Sony presenta invece I Mitchell contro le macchine continuando sulla strada di “Into the spiderverse”. Entra poi da outsider il documentario Flee, progetto di nicchia venuto alla ribalta.

L’incanto dei Madrigal

Il nuovo musical Disney, Encanto, si presenta come un’avventura vivace e piena di colori, con personaggi carismatici. Si avvicina molto all’immaginario dei Paesi dell’America Latina, ricalcando i paesaggi e la cultura di quella parte di mondo. Tutto si basa sul dono fatto alla famiglia dei protagonisti: ognuno dei Madrigal ottiene un potere magico grazie al quale ha la possibilità di aiutare la famiglia e l’intero villaggio sorto intorno alla loro “Casìta”.

Un concept semplice ma che funziona. Purtroppo il film risente, a parer nostro, di una parte musical che si estrania dalla narrazione. Soffre inoltre di un finale poco coraggioso, con un risvolto che va quasi ad annullare lo sviluppo dell’intero film. Riesce comunque a divertire ed emozionare fino alla fine, lasciando addosso una piacevole sensazione di positività.

La famiglia Madrigal. Fonte:  Walt Disney Studios

La ricerca delle quattro gemme

Raya è invece un’avventura ambientata in un mondo orientaleggiante che deve tanto a Dune e Star Wars. È infatti una classica avventura fantasy, in cui seguiamo un’eroina nella sua ricerca di quattro artefatti magici. Le terre esplorate ed ogni popolo presentano una forte identità, invogliando il pubblico a seguire il percorso della trama.

Ciò aiuta il film a reggersi, tra alti, rappresentati dalle sequenze più seriose che rendono più realistico ed adulto il mondo ed i suoi personaggi, e bassi che potevano essere tranquillamente evitati. Soprattutto un finale alla ”tarallucci e vino” che avremmo preferito non vedere, in un serioso mondo post apocalittico con grande enfasi sulla politica e sui popoli. Rimane comunque un ottimo film che avrebbe potuto essere grande.

Le due protagoniste nemiche-amiche. Fonte: insidethemagic.net

I mostri marini di Portorosso

Passando sul versante Pixar, Luca è un film che tocca corde molto nostalgiche e personali. Ambientato in Liguria durante il boom economico dell’Italia, mostra tutto quello che risulta iconico di quel periodo, ricordando molto da vicino anche le pellicole di quegli anni. La salsedine sulla pelle sembra quasi di sentirla e tra la case dalle mura crepate nei vicoli stretti acciottolati, si respira la stessa sensazione di un’indimenticabile estate da turista. Il mare è reso in maniera eccellente e – non a caso – è stato scelto come elemento centrale della storia.

Il film quindi è – e rimane -una vera gioia per gli occhi e per il cuore, anche se di fatto ci troviamo di fronte ad una storia trita e ritrita, di genitori apprensivi e della crescita personale di un protagonista timido che scopre il mondo preclusogli fino a quel momento.

I tre bambini protagonisti. Fonte: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures

Real life versus web

La produzione Sony, invece, risulta essere molto diversa. Ne I Mitchell contro le macchine, la commistione di animazione 2d e 3d è il vero elemento di forza. Traspira da ogni fotogramma una grande creatività grazie alle nuove possibilità realizzative. La famiglia di protagonisti risalta per la sua eccentricità (evidenziata dalle giganti onomatopee a schermo e dalla dinamicità dell’animazione) e per il suo essere ”freak”. Ma la loro fisicità e il loro carattere risultano estremamente umani ed empatici ad un occhio più adulto.

L’intera trama è un pretesto per far avvicinare il padre e la figlia maggiore. Questa premessa riesce, nella sua semplicità, a creare una storia a cui il pubblico di qualunque età può legarsi. Questo anche grazie al buon ritmo e alle buone sequenze d’azione, assieme ad un finale rocambolesco, in cui – grazie a Dio! – buoni e cattivi non si abbracciano.

L’unico difetto del film è l’estremizzazione di alcuni motivi narrativi, che coinvolgono tutto il pianeta e avrebbero invece funzionato di più  se confinati agli USA. Ultima nota positiva a margine è la frecciatina a certe aziende, a cui al giorno d’oggi abbiamo dato troppo potere.

La ”stravaganza dei Mitchell”. Fonte: Sony

Vivere in fuga

Per finire parliamo di Flee. Nato come progetto estremamente low budget, è riuscito ad ottenere una candidatura a ben tre premi: miglior film d’animazione, miglior film internazionale e miglior documentario.

Lo strazio e l’angoscia si percepiscono, riuscendo a far sentire al pubblico, una vicinanza intima al protagonista e alla sua famiglia, anche grazie all’uso di un’animazione grezza, incredibilmente riuscita. La pellicola si presenta come una traduzione su carta di un documentario filmato dal vivo, inframezzato dai ricordi narrati dal protagonista, in cui si racconta la fuga dall’Afghnistan successiva alla guerra civile degli anni ’80. Seguiamo la famiglia nella sua fuga verso la Russia e poi verso l’Europa, vivendo i drammi dell’illegalità e del trovarsi senza aiuti, con la costante speranza di un futuro migliore per sé e per i propri cari.

La pellicola, raccontando una storia cruda e reale, ha buone probabilità di rimanere nella mente di coloro che la guarderanno, a maggior ragione in un momento storico come questo. 

Il peschereccio dei trafficanti umani. Fonte: Sun Creature Studios

Pronostico?

La scelta dell’Accademy quest’anno potrebbe essere scontata o coraggiosa: se da un lato sarebbe ovvio premiare Encanto, dall’alrtro speriamo nella vittoria de I Mitchell, perché ci auguriamo che la classica animazione 3d occidentale possa evolvere rispetto alla staticità di quella Disney o Pixar.

Ci sentiamo di escludere dal podio gli altri tre, ma saremmo felicemente sorpresi di veder trionfare Flee, magari anche in altre categorie.

 

Matteo Mangano

“A’ pistola lasciala e guarda Il Padrino”: 5 motivi per recuperare un cult

Il 15 marzo 1972 fu proiettato per la prima volta quello che non è un semplice film, ma un vero e proprio capolavoro con la “C” maiuscola: Il Padrino (The Godfather), tratto dall’omonimo romanzo di Mario Puzo.

Proprio in occasione del suo “compleanno d’oro” – oro che ha, effettivamente, intascato con un botteghino da ben 1.144.234.000 di dollari! –, è tornato in sala in versione restaurata, dandoci l’opportunità  per scoprire e, chissà, innamorarci del gangster-movie per eccellenza, di un lungometraggio che ha fatto la storia del cinema e che tutti, dal più appassionato dei cinefili al più giovane dei profani, dovrebbero conoscere.

E se non foste ancora convinti del perché questa pellicola è ancora oggi così famosa, ecco a voi 5 motivi (in realtà, ce ne sarebbero molti di più!) per cui dovreste  mettervi comodi ad ammirare l’opera d’arte del regista Francis Ford Coppola 

1) Il tema della famiglia

Non esiste citazione più adatta per descrivere Il Padrino di questa: «Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo». E non è un caso che il film si apra proprio con uno degli eventi più importanti per una famiglia, che può finalmente riunirsi: il matrimonio della figlia di Don Vito Coreleone, Connie (Talia Shire).

La trilogia, infatti, narra dell’ascesa e della caduta di una “famigghia” di immigrati, prima che di un clan mafioso, nell’America del secondo dopoguerra che, spesso, contrasta la vita “alla siciliana”  o – peggio – gli interessi della Famiglia.

Il matrimonio di Connie Corleone. Fonte. Paramount Pictures

In particolare, racconta del passaggio del testimone da un padre a un figlio. Il primo, Vito Corleone ( Marlon Brando), è un uomo saggio che, agli spargimenti di sangue, preferisce l’uso della ragione e che, nel momento del declino, si avvicina al figlio. Il secondo, Mike Corleone ( Al Pacino), è un po’ la “pecora bianca” di una famiglia che, come lo stesso afferma, “non gli somiglia”. Ma si sa, nessuno può sfuggire al proprio destino (e ai propri doveri), neanche lui…

E in questa Famiglia, il ruolo della fimmina è sacro fino a Donna Carmela Corleone (Morgana King) perché, con il passare delle generazioni, si assiste a una loro progressiva marginalizzazione. Basti pensare a Kay Adams (Diane Keaton) che, da amata fidanzata cui raccontare tutti gli intrighi della Famiglia, diventa moglie scomoda cui sbattere la porta in faccia.

Diane Keaton e Al Pacino in una delle prime scene del film. Fonte: Paramount Pictures

Coppola è riuscito a presentarci, senza pregiudizi e buonismo, una famiglia che poteva sedersi tranquillamente a tavola e, tra una portata e l’altra – rigorosamente della tradizione sicula – organizzare lo sterminio di un clan nemico o il battesimo di un neonato.

2) Più di un assaggio di Sicilia (e del messinese)

La Sicilia e non New York o il Nevada, sfondo dei loschi affari dei Corleone nel secondo film, è il vero teatro dell’ascesa e dell’epilogo del clan. Evocata nell’accento dei personaggi, nelle tradizioni, nelle musiche, che portano la firma di un fuoriclasse quale Nino Rota (compositore del maestro Fellini) e persino in quelle arance presagio costante di malaugurio, l’isola spicca nella bellezza delle sue campagne arse e dei suoi paesini tipici in molte scene.

Oltre alla stazione in stile liberty di Giardini Naxos, che compare nel terzo capitolo e al Teatro Massimo di Palermo con le sue scale, scenario perfetto per l’ultimo tragico atto di questa saga familiare, innumerevoli sono le location sicule in cui Coppola scelse di girare sin dal primo film. E quasi tutte in provincia di Messina (Forza d’Agrò, Motta Camastra). Una su tutte Savoca, con la sua Chiesa di San Nicolò, dove Michael sposerà Apollonia e il celebre Bar Vitelli, in cui chiede la mano della ragazza al padre di lei, che altro non è in realtà che un antico palazzo baronale.

Il corteo nuziale di Michael e Apollonia ( Simonetta Stefanelli) per le strade di Forza d’Agrò. Fonte: Paramount Pictures

La fotografia di Gordon Willis a questo proposito è straordinaria: con i suoi chiaroscuri crea delle scene – dipinto in grado di trasmettere una sensazione di mistero, di “mala sorte” e di intrighi sottaciuti agli spettatori, che enfatizzano personaggi che, come ognuno di noi, nascondono un lato cattivo. Un cambio di lente si ha, invece, proprio nelle scene girate in Sicilia. Fotogrammi che richiamano quasi delle vecchie polaroid, o forse i ricordi catturati nei pomeriggi estivi che gli immigrati, costretti a scappare da questa terra tanto bella quanto maledetta, portavano nella loro memoria una volta giunti in terra straniera.

3) La finzione che incontra la realtà

Nonostante la sceneggiatura scritta a quattro mani, molte delle scene diventate cult del film sono state spontanee. Il gatto che Don Vito accarezza nella prima sequenza del film non era un membro scritturato del cast ma, dopo essersi imbattuto nelle coccole della troupe, rimase sul set costringendo il neo-padroncino Marlon a ridoppiare la scena per via delle fusa troppo rumorose.

Marlon Brando assieme alla sua costar felina. Fonte: Paramount Pictures

“Naturale” è anche il nervosismo di Luca Brasi (Lenny Montana) alla presenza del temuto Padrino alias la star Marlon Brando. Talaltro Marlon, per mettere a suo ago il collega o, più probabilmente, per fargli uno scherzo (si dice che fosse un gran burlone), entrò in scena con un biglietto sulla fronte con scritto: «Vai a fare in…».

Fortunata perché poi diventata di uso comune, sebbene non prevista, è la frase di Peter Clemenza (Richard S. Castellano):  «A pistola lasciala… Pigliami i cannoli», che avrebbe dovuto dire solo «lascia la pistola», dopo l’omicidio  del sospettato traditore Paulie Gatto (John Martino). E, infine, è vera la reazione del “cinematografaro” Jack Woltz (John Marley) alla vista di una testa di cavallo vera nel suo letto… effetto sicuramente bene riuscito ma, Francis, avremmo preferito di gran lunga un manichino!

4) Lo charme di Al Pacino

Ci perdoni Sylvia Plath per questo sacrilegio, ma rivisitando un suo verso possiamo ammettere (a malincuore!) : “ogni donna adora un gangster”. E questo gangster è proprio Michael Corleone, alias l’affascinante Al Pacino nell’interpretazione che l’ha fatto conoscere al grande pubblico. Fu proprio un occhio femminile – quello della moglie di Coppola – a scorgere il potenziale dell’attore.

Se il don Corleone di Brando rimane impresso nell’immaginario comune per la parlata strascicata e le battute tipiche del vocabolario di un uomo d’onore, quello di Pacino, il nuovo Don Corleone consacrato con quel “baciamo le mani” a chiusura del primo film, punta tutto sullo sguardo di due grandi occhi scuri che “bucano lo schermo”, sul silenzio ambiguo – quasi passivo aggressivo – e autoritario dell’uomo d’affari, sui binari del non detto su cui corre il nuovo codice mafioso.

Al Pacino ne “Il Padrino I”

Come non dar ragione a questo punto a Diane Keaton che prese una sbandata per il suo collega di set? Artisticamente azzeccata ma “eticamente pericolosa” la scelta di Coppola: di Michael Corleone finiamo scena dopo scena per innamorarci e – ancor peggio – ci ritroviamo a spalleggiarlo nelle sue scelte al di là del bene e del male.

5) Il più famoso film di mafia in cui la “mafia” non è mai nominata

Coppola ha raccontato che, dal primo all’ultimo ciack, ha dovuto lottare più volte con la casa produttrice, rischiando anche il licenziamento.

Uno scontro si ebbe al momento del casting. Il regista fece di tutto per affidare la parte di Don Vito a Marlon Brando e quella di Michael ad Al Pacino, nonostante il parere contrario dei produttori, avversi al primo perché caduto in disgrazia e notoriamente una “testa calda”, e al secondo perché allora “sconosciuto”.

E pensare poi che per la Paramount, che voleva un regista italo-statunitense, Coppola non era nemmeno la prima scelta! Se non erano loro nemici, chi altro lo è?

Aveva ragione Don Vito a dire:

“Tieni i tuoi amici vicino, ma i tuoi nemici ancora più vicini”

Ma nemico numero uno della celebre major cinematografica fu proprio uno dei veri boss delle “cinque famiglie” di New York: l’italoamericano Joe Colombo, che osteggiò la produzione dietro l’alibi della cattiva pubblicità che il film avrebbe inferto alla comunità di Little Italy. Volantinaggio e sabotaggio fino ad arrivare ad esplicite minacce nei confronti di Al Ruddy, produttore esecutivo, e di Robert Evans, uno dei capi della Paramount, furono le strategie messe in atto da Colombo e dai suoi adepti affinché l’occhio della cinepresa non illuminasse il fenomeno mafioso. Poi la deposizione delle armi: Colombo incontrò i produttori e si arrivò al compromesso.

La produzione poteva proseguire con la benedizione del “padrino” a patto che nello script non comparisse mai la parola “mafia”. Una concessione omertosa? Forse, considerando che da allora non poche furono le intrusioni della malavita reale nel set: molti scagnozzi furono scritturati nel cast (uno su tutti Al Martino nei panni di Johnny Fontaine) e la produzione non conobbe ostacoli per girare in molti quartieri di Little Italy.

Francis Ford Coppola sul set de “Il Padrino III”. Fonte: LaPerrera.mx

 

Ad ogni modo, in questo controverso e oscuro intreccio di arte e vita, ci rendiamo conto perché Il padrino può considerarsi cult e pochissimi suoi epigoni possono vantare lo stesso titolo. C’è una regola aurea che circola nelle scuole di cinema ed è quella di non esprimere con tante parole un concetto che puoi rappresentare con le immagini.

Non importa allora che Don Vito Corleone e i satelliti che gli gravitano attorno non siano chiamati “mafiosi”: lo spettatore lo sa già sin dalla prima scena, dal primo cenno, dai rituali con cui si decide e si comunica con freddezza spietata il destino della famiglia e dei suoi nemici. Coppola la mafia non la nomina, ma la racconta, in maniera più che realistica. Una narrazione mitologica? Troppo romantica come qualche detrattore ha affermato? O azzardatamente priva di etica? La risposta  è racchiusa come al solito nelle immagini, in quell’ultima celebre scena ( silenziosa!) che conclude la trilogia … e che non vi sveleremo.

Angelica Rocca

Angelica Terranova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

West Side Story: ritorna la storia d’amore più romantica di sempre

Steven Spielberg no ne sbaglia una e rende “suo” un classico come “West Side Story”- Voto UVM: 5/5

Chi rinnega l’amore, chi odia San Valentino, chi è single “per scelta”, non può però non amare Romeo e Giulietta, una delle storie d’amore più belle mai scritte. No, cari lettori, non parleremo della struggente vicenda dei due innamorati di Verona, ma del musical ad essa ispirato che trasferisce il dramma shakespeariano nei quartieri e vicoli di New York degli anni ’50.

Verso la fine del 2021, nelle sale cinematografiche è arrivato West Side Story, remake del fortunato film del 1961 diretto da di Robert Wise e Jerome Robbins, che decisero di crearne una pellicola dopo che videro a Broadway l’omonimo musical del 1957, che vinse vari Tony Awards.

Richard Beymer e Natalie Wood in “West Side Story” (1961). Fonte: Seven Arts Productions, Dear Film

Il film del ’61 ebbe un successo stratosferico: ottenendo 11 candidature agli Oscar e vincendone 10; al Box Office in Italia guadagnò tremila euro, una cifra modesta se guardiamo a campioni di incassi come Avatar, Spiderman No Way Home e tanti altri. Ai quei tempi però era un vero e proprio record.

La pellicola, infatti, entrò nella storia del cinema, tanto che un “qualunque”  regista di nome Steven Spielberg decise di farne un remake, chiudendo il 2021 in bellezza.

Trama

Cari lettori, non preoccupatevi, non ci saranno spoiler dato che il film è ispirato all’opera di William Shakespeare. La storia è ambientata nella New-York degli anni ’50, tra foto in bianco e nero, gonne lunghe, nastri e outifit che fanno sognare. In quelle strade, camminando, possiamo incrociare due gang rivali: da una parte abbiamo i Jets ( alias Montecchi– famiglia di Romeo),un gruppo di ragazzi di origine Europea, e gli Sharks ( rivisatazione dei Capuleti– casata di Giulietta),  immigrati dal colorato Portorico. I due gruppi si contendono il territorio, tanto che molte volte deve intervenire la polizia per fermali.

Nel frattempo i ragazzi si preparano per l’imminente ballo, dove si incontreranno i futuri innamorati: l’affascinante Tony (Ansel Elgort) e la bella Maria (Rachel Zegler).

A  sinistra i “Jets”, a destra gli “Sharks” mentre si sfidano tra balli e canzoni. Fonte: Disneyplus

Proprio durante la scena del ballo, possiamo notare la bravura degli attori, dei veri e propri artisti. Voci, passi, colori … Niente è fuori posto, Tanto che lo spettatore sembra che guardi dei quadri animati che prendono vita. Durante la sfida di ballo, Tony e Maria si vedono per la prima volta: è amore a prima vista. Non si staccano gli occhi dI dosso, e dopo nemmeno due minuti si incontrano sotto la gradinata per non farsi notare. Già sanno che il loro amore non verrà mai riconosciuto, ma – si sa – al cuor non si comanda. Da quel momento in poi, per i due inizierà una storia d’amore clandestina. Mi fermo qui cari lettori, dovrete gustarvi la pellicola.

Valentina : La vita è importante, perfino più dell’amore

Tony: Sono la stessa cosa.”

Musiche

Lo sappiamo, non tutti amano i musical, personalmente li adoro. West Side Story è un film pieno di canzoni entrate nella storia, da Tonight ad America, canzoni scritte dal compositore Leonard Bernstein per il musical di Broadaway del lontano 1957.

Steven Spielberg non ne sbaglia una: nel suo remake ogni voce non solo si armonizza col personaggio, ma anche con la canzone stessa. La colonna sonora risulta così un capolavoro, sotto la supervisione di David Newman e l’orchestra diretta da Gustavo Dudamel.

Il sogno colorato di Spielberg

Steven Spielberg, non ha bisogno di presentazioni: i suoi lavori fatti di dinosauri, bici volanti e squali hanno segnato la storia del cinema e la nostra infanzia. Quando sentiamo il suo nome, la nostra mente ritorna indietro di 20 anni ( per qualcuno di meno), a quei sabato sera passati davanti alla tv, dopo aver mangiato la pizza fatta in casa o ordinata . Il regista sognatore, ha sempre amato West Side Story, e solo lui poteva riportare in scena un tale capolavoro, facendolo suo e aggiudicandosi ben 7 nomination agli oscar, tra cui – ovviamente- quella di miglior regia.

l film è “pieno” nei colori, negli oggetti di scena, nel cast, nelle musiche e in tanto altro ancora: tutto è studiato nei minimi dettagli, la firma del regista si vede anche dal punto più nascosto.

Spielberg ha dichiarato di amare la diversità, forse perché attraverso quest’ultima l’essere umano non smette mai di conoscere. West Side Story non è solo una storia d’amore, ma anche un film in cui si parla di xenofobia, la paura del diverso. Questa parola non viene adoperata all’interno del lungometraggio, ma possiamo coglierne il significato, osservando le due gang rivali, che non si odiano solo perché sono avversari, tesi a far prevalere la legge del più forte, ma si detestano perché provengono da  due Paesi diversi.

Steven Spielberg non è solo uno tra i più grandi registi mai esistiti, ma anche un pedagogo che con la sua arte educa il pubblico.

“Mi piace l’idea che all’interno della stessa sala cinematografica si generino diversi nuclei di spettatori: quelli che lo spagnolo lo conoscono e quelli che, invece, ne rimangono esclusi come i Jets

Steven Spielberg, dietro la cinepresa. Fonte: RollingStone

Verso gli Oscar

Oltre a quella già citata di “miglior regista”, il film concorrerà agli Oscar con ben altre 6 nominations: miglior film, fotografia, scenografia, costumi, sonoro e migliore attrice non protagonista. Per l’ultima categoria è in gara la bellissima e talentuosa Ariana DeBose, per l’interpretazione di Anita, uno dei personaggi più amati.

Anita: Se vai con lui, nessuno ti perdonerà più

L’attrice ha svolto un ottimo lavoro, rubando la scena ai due protagonisti (e non parlo dei personaggi!). Anita, che da sempre è stata vista come la “dama di corte” della bella innamorata, qui è tutt’altro. Non è solo un personaggio secondario, ma una ragazza forte e determinata, che con la sua voce incanta il pubblico, rendendo il film immortale. Molti critici hanno infatti ammirato di più la performance di Ariana che quella dei due attori principali.

 

Ariana DeBose in una scena del film. Fonte: DisneyPlus

 

Quella di West Side Story è una delle storie più romantiche mai scritte e viste, che ci ha fatto sognare e innamorare. Perché nel profondo tutti vorremmo trovare la nostra Maria ( Giulietta) o il nostro Tony ( Romeo ), per vivere quei momenti in cui ti dimentichi di essere nel mondo e davanti a te ritrovi solo la tua metà.

Ma chi sei tu, che avanzando nel buio della notte, inciampi nei miei più segreti pensieri?

Alessia Orsa

“Zombie” e “Bella Ciao”: i canti della resistenza a Putin

Sono passati vari giorni da quando il presidente Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina: in quel momento si è spezzato un altro filo nella “tela dell’umanità”, in quell’istante il tempo si è fermato, migliaia di persone si sono ritrovate senza cibo, acqua, le loro vite sono cambiate per sempre e la loro innocenza è stata distrutta.

Una parte del popolo russo si è rivoltato contro il proprio Presidente (o per meglio dire dittatore), scendendo in piazza, protestando con cartelloni, fiori e simboli di pace. Per dire a Putin, ma specialmente al mondo, che loro non stanno dalla parte della disumanità, mettendo spesso a rischio la loro stessa libertà, la loro vita. Qualche giorno fa un gruppo di russi è stato arrestato dalla polizia, proprio mentre manifestava il proprio dissenso verso la guerra.

Incatenati e portati sopra il furgone come bestie dalle forze armate, armati di coraggio e di sorrisi anziché di bombe, i manifestanti hanno iniziato a cantare a squarciagola la canzone Zombie, dando esempio di disobbedienza civile.

 Chi non conosce la melodia di Zombie? O almeno una volta l’ha sentita passare in radio o mentre faceva zapping da un canale all’altro? Appena i manifestanti russi hanno iniziato a cantare, siamo quasi stati riportati indietro nel tempo, a quando ancora questa guerra non c’era. Guardando sui nostri cellulari quel video ormai diventato virale, ci siamo sentiti cittadini del mondo, il patriottismo per un attimo ha lasciato il posto all’empatia e ci siamo trovati a condividere la resistenza del popolo russo al suo dittatore.

La storia dietro Zombie

“Nella tua testa stanno ancora combattendo
Con i loro carri armati e le loro bombe
E le loro bombe e i loro fucili
Nella tua testa
Nella tua testa stanno morendo”

Zombie, è una canzone del gruppo rock Irlandese The Cranberries, pubblicata il 12 Settembre del 1994 (28 anni fa). Considerato il maggior successo del gruppo irlandese, ha vinto durante gli  MTV Europe Music Awards del lontano 1995 il prestigioso premio di  “Canzone dell’anno”.

Dolores O’Riordan,cantautrice e frontman del gruppo, ha affermato che la canzone è stata scritta in seguito all’attentato di Warringotn del 1993 da parte dell’IRA, in cui avvenne la morte di un bambino. Il testo contiene dei riferimenti alla Rivolta di Pasqua (una sommossa scoppiata durante la settimana di Pasqua in Irlanda) avvenuta nel 1916.  

Erroneamente si associa Zombie alla denuncia della situazione nordirlandese, ma in realtà è più una canzone che si schiera contro la violenza in generale.

Per quale motivo infatti è diventata anche il simbolo dei “partigiani” russi?  Cosa la rende adatta a raccontare anche questa guerra?

Come ci indica già il titolo, coloro che portano la guerra sono zombie che eseguono ordini, smettono di pensare e camminano lasciandosi dietro terrore e e distruzione. Gli stessi Cranberries affermarono di aver scritto Zombie come simbolo di pace per il proprio Paese, per far capire come la violenza travestita di ideali politici e religiosi possa portare alla perdita di vite innocenti.

“Un’altra testa ciondola umilmente
Il bambino viene lentamente preso e
La violenza ha causato un tale silenzio
Chi stiamo fraintendendo?”

Bella Ciao: la canzone di ogni resistenza

Bella Ciao è un’altra canzone simbolo della resistenza, ma quella ucraina stavolta.  E’ stata riadattata infatti dalla cantante ucraina Khrystyna Solovij, con il testo nella sua lingua madre e con due soli strumenti: chitarra e voce.

Che storia nasconde dietro di sé Bella Ciao? Per noi italiani è simbolo di libertà assoluta, è la canzone che ha accompagnato la liberazione dal morbo fascista. Ancora oggi la cantiamo per affermare quei diritti che ancora non hanno una legge a loro tutela; con essa invochiamo la ribellione per riportare l’ordine ( si, sembra quasi un paradosso).

Gli storici non conoscono le sue origini, molti la associano addirittura al ‘500 francese o ai canti di lavoro delle mondine. Non si conosce né la penna né la data di composizione: il mistero rende questa canzone ancor più affascinante. Anche se associata alla lotta partigiana, dietro di sé non ha precisi riferimenti religiosi e politici: è libera da qualsiasi vincolo, è pura.

“E se muoio da partigiano
Tu mi devi seppellir”

Oggi Bella Ciao è stata riscoperta a livello internazionale anche per via della serie tv La Casa Di Carta, o di migliaia di cover che girano su Youtube. Possiamo considerarla una canzone universale, che fa nascere nell’essere umano la voglia di apportare qualche cambiamento.

La musica è l’unica lingua (se così possiamo definirla) che unisce e mai divide, l’eccezione alla regola: con essa, come con la scrittura e con le azioni, diamo il via a moti rivoluzionari. Ogni evento, ricorrenza, ma soprattutto ogni ideale è rappresentato da una melodia capace di accomunare popoli con lingue e tratti diversi, abbattendo non solo le differenze ma anche i poteri forti.

 

Vignetta satirica di Mauro Biani. Fonte: LaRepubblica

Di Putin si può dire solo una cosa: con i suoi interessi e il proprio potere, ha perso ogni tipo di senso morale, è diventato piccolo come i coriandoli, mentre il “suo” popolo – che non è più suo – si sta dimostrando più forte di lui. Le urla e le azioni dei dissidenti, ma soprattutto i loro canti sono più assordanti delle bombe. 

Alessia Orsa

 

 

 

Belfast: l’Irlanda del conflitto vista attraverso gli occhi di un bambino

 Film leggero da seguire, ma che trasmette comunque molto al pubblico – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema non è solamente quell’arte meravigliosa che ci permette di evadere, immergendoci in qualche mondo lontano. A volte i film possono aiutarci a vedere delle pagine di storia da un punto di vista differente.

Belfast, scritto e diretto da Kenneth Branagh, è un altro dei film di cui andremo a parlare in questa road to oscar 2022.

Dove la finzione si intreccia con la realtà

Belfast,1969. La città è scossa da manifestazioni molto violente da parte di gruppi di militanti protestanti contro le minoranze cattoliche. Questo è lo sfondo storico in cui vivono Buddy, bambino vivace interpretato da Jude Hill, la madre, il fratello e i due nonni, interpretati da Ciaràn Hinds e dalla già premio Oscar, Judi Dench. Qui il racconto dell’allegra infanzia di Buddy, costellata di giochi, scuola e primi amori, si unisce a quello delle ansie e preoccupazioni della madre, sola in una città animata da scontri, con gravi problemi economici e del padre, interpretato dall’affascinate Jamie Dornan, costretto a separarsi dalla sua famiglia per lavorare in Inghilterra.

 

Buddy che gioca nelle vie di Belfast

 

In Belfast, vediamo raccontata l’origine di quello che sarà il lungo conflitto nordirlandese ma in una chiave più leggera, secondo il punto di vista di un bambino: un po’ come avviene per la Germania nazista in Jojo Rabbit, anche se in questo caso con un’impronta meno caricaturale.

Un film da Oscar (o da sette!)

A meno di un mese dalla cerimonia, Belfast si afferma come una delle pellicole favorite, assicurandosi ben 7 candidature, di cui alcune in categorie molto rilevanti. Kenneth Branagh ottiene la candidatura per miglior regia e miglior sceneggiatura originale, insieme a quella per la statuetta più ambita, come miglior film.

Candidati a miglior attore non protagonista e miglior attrice non protagonista per le loro performance più che autentiche sono anche Ciaran Hinds e Judi Dench.

Un inno all’Irlanda

Belfast è una rappresentazione fedele e meticolosa dell’Irlanda del nord della fine degli anni ’60: Kennet Branagh, nordirlandese, ha scelto un cast formato prevalentemente da attori irlandesi, con l’inglese Judi Dench come unica eccezione. La quale compensa, naturalmente, con la sua maestria ed il suo talento. Questo ha permesso di portare sul grande schermo un linguaggio più verosimile. Guardando il film in lingua originale, infatti, non risulta difficile notare l’accento molto particolare degli attori e molte locuzioni tipiche della cultura irlandese.

Il cast di Belfast. Fonte: belfastlive.co.uk

 

Oltre tutto, la pellicola più che essere un semplice inno all’Irlanda, è anche una trasposizione autobiografica del regista stesso. Branagh nasce a Belfast nel 1960 e vive la sua infanzia un po’ come quella di Buddy, costellata da violenti scontri e proteste, fino a quando all’età di nove anni lascia Belfast con la sua famiglia trasferendosi a Reading, in Inghilterra, per poi ritornarci idealmente in quest’opera cinematografica.

Un pezzo di Nuovo Cinema Paradiso

“Go Now. Don’t Look Back.” 

“Non tornare più, non ci pensare mai a noi, non ti voltare, non scrivere.

Due citazioni tratte da film di registi differenti, che raccontano storie diverse, ma che mantengono un fortissimo punto di contatto: la difficoltà di doversi separare dai propri cari e la necessità di doverli lasciar andare.

La prima è la frase di chiusura di Belfast, mentre l’altra è tratta dal capolavoro di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso, in particolare dalla scena in cui Alfredo dice addio al giovane Salvatore. Non passa inosservata nemmeno la somiglianza tra questi due film per quanto riguarda le riprese.

In entrambe le pellicole ritroviamo, infatti, un fotogramma praticamente identico: si tratta della scena di Buddy in Belfast e di Salvatore bambino in Nuovo Cinema Paradiso, seduti in sala con la luce del proiettore alle loro spalle.

Buddy e Salvatore al cinema

 

Nonostante Belfast racconti un importante capitolo di storia, alla fine risulta essere molto più di un semplice film storico e in parte autobiografico. Belfast si rivela una pellicola sui valori della famiglia, sull’attaccamento verso la propria città natale e le proprie tradizioni, ed è proprio questo che lo rende speciale.

Ilaria Denaro

 

Tick, Tick… Boom! La stoffa del miglior attore cucita a tempo di musical

 

Un musical scoppiettante e coinvolgente è la perfetta occasione di rivalsa per un talentuoso Garfield – Voto UVM: 5/5

 

Sentirsi in tempo, nel tempo. Come se tutto fosse in perfetto equilibrio tra te ed il mondo. È così che un giovane quasi trentenne, nonché compositore teatrale vive i rapporti umani – l’amicizia e l’amore – ma anche i propri obiettivi e sogni. Ciò che emerge è la continua spinta che un uomo determinato ha nel perseguire e realizzare qualcosa di grande, prima che il tempo porti via qualsiasi speranza di successo.

Tick, Tick è il continuo ticchettio dell’orologio, il tempo che scorre e si consuma dietro una piccola lancetta. Boom è suspence o anche realizzazione. È con questa titolo che Andrew Garfield si aggiudica il posto nella scalata agli Oscar come miglior attore protagonista.

Tick,Tick…Boom! Fonte: Netflix

Il profilo dell’attore

Classe 1983, Andrew Garfield è stato senza dubbio una fantastica sorpresa alle nomination degli Oscar di quest’anno. Grazie alla sua favolosa interpretazione, nel film Tick, Tick… Boom! si è aggiudicato il Golden Globe 2022 come miglior attore protagonista. La nomina è stata confermata anche alla categoria degli Academy Awards dove troviamo a fargli compagnia l’attore Benedict Cumberbatch ne Il potere del cane.

Quello di miglior attore è sempre stato un trofeo ambito da tutti e per questo risulta anche un premio molto combattuto dai tanti attori in gara. La performance di Andrew lungo tutta la durata di Tick, Tick… Boom! è stata geniale, inaspettato, brillante e molto vivace: proprio per questo l’attore dovrà quindi confrontarsi con grandi professionisti del campo come Will Smith, Javier Bardem e Denzel Washington.

Nel corso della sua carriera, del resto, Garfield, ha sempre mostrato il proprio talento ed è stato in grado di lasciar inciso nei nostri ricordi il proprio ruolo di Peter Parker in The Amazing Spiderman dove ha dimostrato un grande valore attoriale proprio così come anche nella pellicola The Social Network di David Fincher.

Andrew Garfield candidato a miglior attore protagonista

Sotto ritmi diversi

È vero che non tutti amano i musical e per questo il film – con 1 ora e 55 minuti di durata – potrebbe risultare a tratti noioso. Nonostante questo limite molto soggettivo, ciò nonostante esistono dei personaggi canterini che tutti abbiamo amato, ad esempio Mary Poppins, la vecchia tata che canta ninnenanne ai piccoli o Christian che conquista la bella Satine cantando al Moulin Rouge. E poi c’è Jonathan Larson, compositore e amante della musica che lavora alla scrittura e alla realizzazione del suo nuovo musical.

 Larson nella pellicola mostra in che modo tiene impegnato il suo tempo: componendo. Lo fa continuamente e su tutto, addirittura anche su un barattolo di zucchero. Qualsiasi cosa lo circondi diventa musica e riesce addirittura a coinvolgere anche i suoi amici, che a loro volta cantano e ballano insieme a lui, come se si trovassero tutti in una grande festa.

La scena più simpatica è sicuramente quella in cui cerca di riappacificarsi con la propria ragazza e le canta una canzone usando il suo braccio come se fosse una tastiera. Non una scelta di cattivo gusto, bensì ironica e molto dolce.

Il musical e la grande interpretazione dell’attore racchiudono la vita e le giornate di un artista innamorato del proprio talento. Dalla trama scoppiettante e ironica che suscita un vivace coinvolgimento, una pellicola musicalmente moderna e a tratti poetica: è questo quello che si può dire di Tick,Tick… Boom!

Sui social sono diversi i commenti generati dal pubblico che affermano quanto questo film sia vicino alla perfezione. L’interesse è rivolto soprattutto ai monologhi, i quali ricostruiscono arte e vita privata del protagonista.

Tick,tick…boom! Fonte: stagechat.co.uk

La ribalta

Una scena che rende evidente il lavoro ben fatto è quella in cui Garfield mette tutto sé stesso nella voce, nonostante non abbia mai studiato canto prima di quel momento. Uno sforzo sicuramente apprezzato dal pubblico e non solo, che ha cucito addosso ad Andrew il vestito da miglior attore protagonista. La rara maturità attoriale è stata subito riconosciuta.

Il merito non va solo all’attore ma anche a chi ha esaltato le sue doti e ha saputo scegliere bene: il regista Lin-Manuel Miranda. Sono diversi i tratti del profilo di Miranda che ricalcano quelli di Larson. Miranda durante la sua carriera è passato attraverso il rap e il freestyle e ha iniziato presto a scrivere musical: è per questo che la sua fama nasce a Broadway. Il messaggio lanciato dall’attuale pellicola sembra richiamare anche qualche passaggio della vita del regista. È anche questo che rende il suo lavoro un qualcosa di strettamente personale e intimo.

Cos’altro dire? Corri a vederlo su Netflix. C’è un gran sogno da realizzare prima che sia troppo tardi.. Nel frattempo Tick…..Tick…..Tick….

Boom!

Annina Monteleone

Fedeltà: quando i sentimenti si declinano in cliché

Una serie con un buon potenziale, ma che si perde nei classici stereotipi -Voto UvM: 1/5

 

«M’ama o non ama, mi è fedele o non lo è?»

Essere fedeli, dopo anni accanto alla stessa persona, viene difficile, forse perché troppo stanchi dalla routine o perché non abbiamo trovato l’altra metà della mela, quella nominata da Platone nel Simposio, quella metà così difficile da raggiungere ai giorni nostri, in cui le relazioni vengono sminuite, e il tutto si riduce ad una storia o a un post sui nostri “amati” social, luoghi dove spesso abbiamo incontrato la nostra “amata” anima gemella. Colei su cui proiettiamo la nostra immagine ideale e in essa sfuggiamo dalla vita reale, perché come dice un Fellini citato da Sorrentino: «la realtà è scadente». Ma il celebre regista si nascondeva nei propri film, mentre noi oggi ci rifugiamo sui social esibendo qui la nostra dolce metà, come se fosse un premio.

Michele Riondino e Lucrezia Guidone in “Fedeltà” Fonte: Sara Petraglia/Netflix

 

Fedeltà è una serie tv tratta dal celebre libro di Marco Missiroli, prodotta da Netflix e diretta da ben due registi: Andrea Molaioli e Stefano Cipani. E’ uscita sulla famosa piattaforma il 14 Febbraio, giorno degli innamorati ( sembra quasi che Netflix faccia parte di quella categoria che odia San Valentino). La serie dalla sua messa in onda ha subito fatto parlare di sé, inserendosi nella top 1o delle produzioni più viste del momento.

Quel famoso malinteso

La storia è ambienta in una grigia Milano, la città che non dorme mai, dotata di ipervelocità. I protagonisti principali sono Carlo (Michele Riondino) e Margherita (Lucrezia Guidone), due giovani sulla trentina, belli e pieni di vita. Come la loro città, corrono velocemente, e assieme a loro sembra correre il loro amore, fatto di eros e gelosia.  Tutti li invidiano, chiunque vorrebbe la loro relazione e nessuno riesce a dividerli. Ma le cose belle non durano in eterno: il loro equilibrio verrà distrutto in poco tempo da un “malinteso”…

Carlo è uno scrittore, ma per tirare avanti tiene un corso universitario di scrittura creativa, mentre Margherita è laureata in architettura e lavora in una agenzia immobiliare. Donna furba e solare, nulla le sfugge. Infatti non si fida di Carlo e, dopo un fraintendimento avvenuto nei bagni universitari, come un segugio, andrà a caccia di prove.

Da quel momento in poi la loro relazione comincerà a scalfirsi, a poco a poco.

Carlo (Michele Riondino) e Margherita (Lucrezia Guidone) in una scena della serie TV. Fonte: Netflix

 

Per Carlo e Margherita non ci sarà più niente da fare: cominceranno ad allontanarsi sempre di più, immischiandosi in situazioni pericolose per il loro rapporto e distruggendolo del tutto. Da una parte Carlo intreccerà un rapporto con una giovane studentessa universitaria di scrittura creativa, Sofia (Carolina Sala): sarà lei che scatenerà la crisi tra i due innamorati. Qui abbiamo il primo cliché: il professore che tradisce la moglie con una studentessa. Dall’altra parte, Margherita inizierà una relazione con Andrea ( Leonardo Pazzagli), il  suo affascinante fisioterapista – e anche qui abbiamo un altro stereotipo!

Una serie che scade nella banalità?

Fedeltà è una serie che sottovaluta i propri personaggi (non traspare niente della loro anima, di cosa provino o meno), che non sembrano “persone”, ma meri oggetti sessuali, quasi dei “robot”, degli individui immaturi.

Vince colui che fa il dispetto più grande per affermare la propria superiorità; ne esce ridicolizzato l’amore, quella sfera sentimentale, che in pochi hanno la fortuna di comprendere interamente, e ancor meno di vivere. Perché alla fin fine vogliamo solo essere visti appieno, con i nostri difetti, senza la resa alla prima difficoltà da parte dell’altro o di noi stessi: questo significa essere “fedeli”.

Allo stesso tempo, nonostante gli innumerevoli cliché, la serie ci mostra però come sia importante mantenere la fedeltà e quanto sia facile, per contro, cadere nelle tentazioni carnali. L’amore platonico ci ricorda che alla fine l’essenziale è il sentimento. Seguire “la carne” è invece un istinto alla base di ogni essere umano e possiamo soddisfarlo con chiunque, ma l’amore no, è talmente esclusivo da apparire a volte irraggiungibile.

Alessia Orsa

Rileggere “Il grande Gatsby” in un graphic novel


Il riadattamento a fumetti de “Il grande Gastsby” è un’opera emblematica per i contenuti e le caratteristiche – Voto UVM: 4/5

 

Pubblicato a New York, nel 1925, Il grande Gatsby, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, è tra le opere letterarie  più importanti del romanziere americano.

L’opera, dopo diverse trasposizioni cinematografiche,  è stata adattata per la prima volta al linguaggio delle immagini, in un romanzo a fumetti pubblicato in Italia dalla casa editrice Tunué. Il graphic novel curato dalla pronipote dello scrittore americano, Blake Hazard, è illustrato dall’artista Aya Morton, scelta dalla stessa e dal team di creativi dopo un’ attenta e articolata ricerca.

Le trasposizioni cinematografiche o teatrali dei grandi romanzi corrono infatti  il rischio di tradire l’essenza dell’opera nell’adattamento: di qui la necessità di rintracciare tra diversi artisti, quello dallo stile capace di restituire al lettore il vero spirito del protagonista e l’atmosfera del racconto. Aya, come la stessa Hazard scriverà nell’introduzione del graphic novel

“E’ riuscita a cogliere perfettamente lo spirito travolgente delle feste di Gatsby a West Egg, l’atmosfera languida dei pomeriggi trascorsi a casa Buchanan e lo strepitoso paesaggio urbano di New York.”

L’adattamento del testo originale è stato affidato invece al sapiente lavoro di Fred Fordhan, che oltre alla sua esperienza con lavori precedenti come quello su Il buio oltre la siepe di Harper Lee, vanta anche una carriera come illustratore.

 Il grande Gatsby, graphic novel. Fonte: Tunué

 

Pagina dopo pagina, tavola dopo tavola, vediamo delinearsi la vicenda di Jay Gatsby, il protagonista dell’opera, un uomo ricco e dal passato misterioso, le cui memorabili feste nella villa di Long Island sono note a tutti e a cui tutti possono partecipare. Nonostante la sua grandezza e la sua fama siano sulla bocca di tutti, nessuno degli ospiti sa veramente chi egli sia. Il lettore è accompagnato nel mondo di Gatsby attraverso la voce narrante, quella di Nick Carraway, suo vicino di casa e cugino di Daisy, amore giovanile del protagonista.

Daisy è il motore immobile che muove l’intero mondo di Gatsby, mondo che Fitzgerald ci presenta in nove capitoli disvelando piano piano la sua personalità e il suo passato attraverso il racconto della sua ossessione per quest’amore ideale e irraggiungibile.

 

Il bacio tra Jay Gatsby e Daisy

 

Dalla trama emerge un senso di disagio e inadeguatezza nei confronti della società americana di inizio secolo scorso, società caratterizzata  dalla perdita di ogni senso morale e guidata dal mito del guadagno ad ogni costo. Si delinea un’ideale di ricchezza che si sovrappone in modo grottesco ai valori fondanti dell’identità di popolo americano, quelli della cultura del lavoro e del sacrificio. Dunque non solo il racconto di giovani eleganti del mondo newyorkese, di macchine, ville lussuose, amori e omicidi, ma anche cronache di quella stagione indimenticabile degli anni Venti definita età del Jazz.

Il jazz è il genere musicale che  meglio si presta per cogliere le contraddizioni della società americana degli anni Venti. Nato per esprimere la pena e la sofferenza degli afroamericani in schiavitù, viene assunto dai benestanti come colonna sonora di una vita frenetica e sfrenata. Età segnata dall’apparente spensieratezza di una vita ricca e da un’euforia collettiva e individuale che si esprime in un vortice di danze, tradimenti, frivolezze e alcool in bilico tra il tutto e il nulla, all’insegna di un sentimento di solitudine, incomunicabilità, vuoto e sconfitta che permea ogni vita e ogni interazione.

 Il grande Gatsby, disegno.

 

Il grande Gatsby è sicuramente il capolavoro della carriera di Fitzgerald. Riportando le parole di Blake Hazard, stampate all’interno di una cornice dorata nella sua introduzione del graphic novel, celebriamo ancora una volta questa magnifica opera restituita ai lettori in una veste del tutto nuova, incorniciandole a nostra volta tra le virgolette:

 “Il mio bisnonno era un uomo che sapeva apprezzare le novità tanto quanto i classici e i capolavori senza tempo. So che sarebbe stato incantato dalla freschezza di queste immagini, perché fedeli all’originale. [..] mi auguro davvero che questo Graphic novel possa essere apprezzato da tutti coloro che hanno letto e amato il grande Gatsby. Per quelli che invece si confrontano per la prima volta con il capolavoro di Fitzgerald, il mio augurio è quello che queste pagine rendano l’originale ancora più fruibile.”

Martina Violante

«Oh, oh! Mi è semblato di vedele un gatto…»

“Esploratori”, “indipendenti” e “dormiglioni” sono solo alcuni degli aggettivi che descrivono i protagonisti dell’odierna Giornata Nazionale del gatto.

Personaggi noti con i loro gatti

Pensando alla Regina Vittoria e a John Lennon con i loro White Heather e Salt, a Winston Churchill e a Edgar Allan Poe con i rispettivi Nelson e Cattarina, ci chiediamo se dietro ogni grande uomo, oltre a una grande donna, non ci sia anche un amico pelosetto che fa le fusa. E allora quale modo migliore per festeggiare questi compagni di vita se non accoccolandosi sul divano insieme – cioè con loro su di noi, i loro padroni-sofà – a guardare le opere di cui sono stati protagonisti?

Gatti famosi nell’arte e nella musica

Dai disegni di Louis Waine raffiguranti colorati gatti antropomorfizzati dai grandi occhi al libro illustrato“25 Cats name Sam and one Blue pussy” (1954) che Andy Warhol dedicò ai suoi mici newyorkesi, le opere pittoriche dedicate a questi animali sono numerose, così come lo sono quelle musicali.

Opere pittoriche e musicali sui gatti

Pensiamo a “La Gatta” (1960) di Gino Paoli, che racconta con nostalgia della gatta con cui condivise, nei primi anni della sua carriera, una soffitta genovese o a “Delilah” (1991) di Freddy Mercury, che si dice fosse un vero e proprio gattaro tanto da telefonargli quand’era in tournée. Oppure a pezzi ormai diventati cult, come Siamo gatti(1998), interpretata da Samuele Bersani, un vero e proprio inno alla vita felina, e Il gatto e la volpe (1977) di Edoardo Bennato, ispirato alla favola di Pinocchio.

 

Gatti da pellicola

“Everybody wants to be a cat”: alcune scene de “Gli Aristogatti” (1970)

Se vi dicessimo crème de la crème alla Edgard, non verrebbe in mente anche a voi il classico dei classici Disney, “Gli Aristogatti” (1970)? La celebre storia della gatta Duchessa e dei suoi cuccioli Bizet, Matisse e Minou salvati dal gatto randagio Thomas O’Malley che, nella traduzione italiana, si presenta come “Io so ‘Romeo, er mejo der Corosseo“. Ci dispiace per gli amici irlandesi, ma per noi Romeo è un romano de Roma!

 

I gatti “magici”

La superstizione popolare che lega gatti e magia è diffusissima, basti pesare che il mese di febbraio è noto come «mese dei gatti e delle streghe».

“Sono un aiutante furbo e affascinante che non stanca mai”. Salem nella versione cartoon e serie tv.

Salem (“Sabrina, vita da strega”) è il mentore (non troppo affidabile) di Sabrina. Ricordiamo tutti le sue gaffe e i trasferimenti spesso esilaranti, il temperamento megalomane e un tantino arrogante dello stregone che, per aver tentato di conquistare il mondo, è condannato a vivere sotto forma felina. In realtà, non ha perso le sue manie di grandezza nemmeno da gatto e noi lo amiamo anche per il suo essere un bad-cat!

 

Cagliostro nei fumetti e nell’omonimo film del 1985 con Kim Novak

Cagliostro (Dylan Dog”) è un potente felino che stringe un legame di sangue con Dylan Dog a seguito della morte della strega Kim. Per gli straordinari poteri di cui è in possesso, è condannato a vivere a vita in un limbo. Riuscite a immaginare un gatto, che ha le capacità di far sparire la Terra, rinchiuso in un limbo? Ecco, non fatelo perché tanto non si farà catturare… Ma tranquilli, alla fin fine, è un gatto buono!

Gatti prodigio: a destra Luna, a sinistra Grattastinchi

Grattastinchi (“Harry Potter”) è l’incrocio Gatto-Keazley di Hermione Granger. Apparentemente pigro e malandato, è uno straordinario cacciatore di ragni con la capacità di distinguere i buoni dai cattivi. E infatti avrebbe impedito il ritorno del Signore Oscuro, se solo gli avessero permesso di mangiare il topo Crosta alias Peter Minus… Della serie: affidiamoci all’istinto di questi animali, non sbagliano mai (tranne quando tentano di conquistare il mondo…)

Luna (“Sailor Moon”), invece, è la consiglier – con la capacità di parlare con gli uomini e di trasformarsi in donna – di Bunny che le affida la missione di trovare i Sailor Guardians e la Principessa Serenity. Sebbene spesso severa nei confronti di Bunny, per lei ci sarà sempre e, chissà, forse c’è sempre stata…

Per gli amanti dei gatti arancioni

Gli occhi ammalianti che girano in tanti meme: il Gatto con gli Stivali di Shrek

E che dire del fuorilegge Gatto con gli stivali (“Shrek”)? L’accento ispanico e il look da moschettiere francese lo rendono un perfetto micio macho o “chat fatale” capace di far cadere dinanzi alle sue zampette stivalate qualsiasi “gattina” (non solo felina…) perchè, davanti ai suoi occhioni, chi non si scioglierebbe?

“In passato mi hanno dato molti nomi: Diablo gatto, Gatanova, Chubacabras, amante picante e veleno rosso ma per tutti sono…”

Garfield in vari cartoon

Tra i gatti arancioni, spicca il paffuto e impertinente “Garfield”. Vive nell’assoluto ozio, mangiando e dormendo tutto il giorno (hobby strani per un gatto, vero?), fino a quando il padrone Jon s’innamora di Liz e adotta il cagnolino Odie.

Per fortuna Dio ha creato le lasagne! Attenzione però: le lasagne non sono adatte a nessun gatto! Garfield fa eccezione, essendo nato in una pizzeria (beato lui!).

 

Gatti famosi un pò sfigatelli

“Quasi amici”. In alto Tom e Jerry. In basso Titti e Silvestro.

Tra i gatti più sfortunati di sempre non possiamo di certo non menzionare gli iconici  Tom (“Tom and Jerry”) e Silvestro (“Looney Tunes”). Entrambi destinati a non catturare i loro furbi e adorabili nemici, Jerry e Titti, e a vivere continue disavventure nel tentativo di farlo. Ma si sa, spesso dietro grandi inimicizie si nascondono anche rispetto e lealtà, (speriamo non anche appetito!)

Gatti “cinegenici”: Fiocco di Neve e Sfigatto

E chi non ricorda gli occhi celesti di Sfigatto (“Ti presento i Miei”, 2000), il meraviglioso himalayano diventato famoso per la capacità di andare da solo alla toilette? Capacità di cui, siamo sicuri, sono dotati anche i vostri mici…

E, infine, lo splendido persiano Fiocco di Neve (“Stuart Little”,1999) che si ritrova a convivere con un nuovo padroncino: niente meno che un topo! Vi lasciamo immaginare gli innumerevoli tentativi di liberarsi di lui, da un giro in lavatrice a uno scambio di genitori-topi.

I gatti “tata”

 

“Siamo gatti siamo noi. Siamo gatti beati noi. Per le strade noi felici incontriamo i nostri amici!”. I gatti del film d’animazione del 1998 tratto dal romanzo di Luis Sepulveda.

Non possiamo dimenticare Zorba (“La gabbianella e il gatto”, 1998), il micio che si ritrova ad accudire una pulcina di gabbiano dopo aver promesso alla sua mamma, avvelenata dal petrolio, di insegnargli a volare. Questa improvvisata e “innaturale” mamma ci insegna che, se si regala tanto amore incondizionato (soprattutto a chi è diverso da noi), se ne riceve altrettanto. Pensate a quell’amore che ogni animale domestico regala al suo padrone, non chiedendo altro che un po’ di buon cibo, tante coccole, un corpo caldo umano su cui dormire … e in cui infilzare le proprie unghiette.

 

Il gatto più famoso degli anime: Doraemon

Un’altra tata, stavolta robotizzata, è “Doraemon”. Venuto dal futuro per assicurare un’infanzia felice a Nobita, ha delle ottime doti culinarie (chi non ha, almeno una volta nella vita, desiderato assaggiare i suoi famosi dorayaki?) e una tasca quadridimensionale dalla quale estrae i chiusky. Salvo nelle situazioni di stress dove si fa prendere dal panico e tira fuori solo cianfrusaglie inutili; al che ci viene spontaneo urlare, insieme a Nobita: “Doraemon!!!”.

 

Gatti guida. A sinistra lo Stregatto nella versione cartoon e poi live action di “Alice nel Paese delle meraviglie”. A destra Balzar

E poi ci sono Balzar (“Dragon Ball”), il maestro di arti marziali di Goku e coltivatore dei fagioli magici, e lo Stregatto (“Alice nel paese delle meraviglie”) che invita Alice, e tutti noi, a “incamminarci” senza preoccuparci troppo di imboccare la strada giusta o sbagliata perché ciò che conta, nel tragitto della vita, è camminare.

” E continuò: “Vorresti dirmi che strada devo prendere, per favore?”

“Dipende, in genere, da dove vuoi andare” rispose saggiamente il Gatto.

“Dove, non mi importa molto” disse Alice.

“Allora qualsiasi strada va bene” disse il Gatto.

“…purchè arrivi in qualche posto” aggiunse Alice per spiegarsi meglio.

“Per questo puoi stare tranquilla” disse il Gatto. “Basta che non ti stanchi di camminare.” “

 

Come faremmo senza di loro?

 

 In alto Lucifero in “Cenerentola” e il gatto di Ernst Blofeld (007 – Dalla Russia con amore). In basso un “innocuo” peloso in braccio a don Vito Corleone ( Il padrino I) e “Gatto” in “Colazione da Tiffany”. 

Da ottime muse ispiratrici a sveglie mattutine armate di artigli, da sopramobili miagolanti (soprattutto nelle ore notturne) a compagni di gioco pronti a seguirci ovunque (anche dove non dovrebbero, come alla toilette…), ci regalano gioie e tanti graffi.  D’altra parte, come disse il veterinario Joseph Mery, “Dio ha creato il gatto per procurare all’uomo la gioia di accarezzare la tigre”. 

Si meriterebbero una festa che duri 365 giorni l’anno ma – anche qualora gliela organizzassimo – state certi che loro ci guarderebbero sempre come coinquilini (e schiavi) e mai come padroni reclamando, con un’autoritaria zampetta sulla ciotola, altri croccantini.

Perché, come disse Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), «lei e il suo gatto non appartengono a nessuno e nessuno gli appartiene».

 

Angelica Terranova