Siamo tutti “fate ignoranti”. Il significato della nuova serie di Ferzan Özpetek

La nuova serie tv conferma la genialità di Özpetek nel narrare il mistero dell’amore e della vita e ci fa sperare in una seconda stagione. Voto UVM: 4/5

 

«Perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene» affermava una saggia Monica Vitti ne L’eclisse (1962). Se ci pensate bene, quando baciamo o abbracciamo lo facciamo ad occhi chiusi. Possiamo conoscere perfettamente l’altro, vedere nitidamente il suo volto quando ne siamo innamorati? O il sentimento forse si nutre soprattutto sul nascere di quella necessaria ignoranza che serve a tenere in piedi l’illusione? Amore e conoscenza sembrano due binari che non corrono paralleli, ma tutt’al più qualche volta si scontrano in quelli che sono imprevisti incidenti di percorso, momenti rivelatori in cui apriamo gli occhi e scopriamo che chi ci sta accanto nasconde più segreti di quanti pensiamo.

Proprio in questo scontro, si incrociano Antonia (Cristiana Capotondi) e Michele (Eduardo Scarpetta), persone apparentemente molto diverse, due treni che deragliano in seguito alla morte di Massimo (Luca Argentero). Sono loro i protagonisti della serie tv Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, lanciata il 13 aprile su Disney Plus e remake dell’omonimo film che lanciò la carriera del regista italo-turco.

“Tutti abbiamo un segreto …”

Per chi non avesse visto il film del 2001 con Margherita Buy e Stefano Accorsi, tracciamo brevemente delle coordinate. Antonia e Massimo sono una coppia felicemente sposata da 15 anni che vive una comoda esistenza borghese in una villa con tanto di giardino sul lago. L’equilibrio idilliaco quanto monotono si rompe nel momento in cui Massimo muore e la moglie lo perderà due volte scoprendo che da qualche tempo il marito aveva una doppia vita e intratteneva una relazione addirittura con un uomo, Michele.

Mossa inizialmente dalla tipica curiosità masochista della donna tradita di scoprire sempre di più, Antonia si ritroverà a frequentare Michele. Si affezionerà così a lui e al suo gruppo di amici stravaganti, una vera e propria famiglia che di rito si riunisce nei pranzi domenicali, una “piccola comunità arcobaleno” che si difende dal mondo esterno andando orgogliosa della propria diversità.

Ma chi sono le “fate ignoranti”?

C’è ancora la stessa storia fuori dalle righe nella serie del 2022, riproposta fedelmente anche in alcuni dialoghi, nelle situazioni, negli interni e nelle atmosfere che compongono gli universi distanti di Antonia e Michele (la villa dove lei conduce un’esistenza ovattata è praticamente identica: stessi toni grigi, stesso arredamento geometrico). Ma c’è anche molto di più (o di meno, secondo qualche detrattore).

A partire dagli attori perfetti anche nei volti per i ruoli che incarnano: abbiamo i tratti da dama rinascimentale della Capotondi a racchiudere la purezza della moglie ingenua. E poi gli occhi sporgenti, quasi disturbanti di Scarpetta che mettono in discussione le certezze della protagonista, la verve di Carla Signoris, nei panni della madre quasi ingombrante nella sua frivola joie de vivre. Uno su tutti: Argentero, col tipico sorriso da ragazzo della porta accanto, solare e affascinante benché poco acculturato. Ma non finisce qui.

Özpetek, insieme a Gianluca Mazzella (regista di alcuni degli otto episodi), si prende stavolta tutto il tempo per dipingere nei minimi dettagli l’intero affresco di personaggi che circonda il triangolo Antonia- Michele – Massimo, le cosiddette “fate ignoranti”.

 Luce vs ombra. Serie tv e film a confronto

Perché Massimo non aveva solo un amante, “aveva una famiglia, un intero mondo”. E qui questo mondo, più che nel film, emerge in tutta la sua gioia ed esuberanza, che si manifesta nella solarità, nei colori caldi di quella tavola imbandita ogni domenica a festa, che contrasta invece con le tinte fredde (anche nel vestiario) di Antonia. Sparite sembrano le ombre della discriminazione, dell’Aids che aleggiavano sulla casa di Michele nel film del 2001 (un personaggio “tragico” come quello di Ernesto viene eliminato dalla sceneggiatura). C’è più  luce, il dramma lascia il posto a toni comici per narrare la magia di un gruppo di amici che si alimenta di condivisione, feste (e anche di pettegolezzi).

Lo spettatore ha il tempo di conoscere Serra (Serra Yilmaz), Vera (Lilith Primavera), Luisella (Paola Minaccioni) , Annamaria (una sottovalutata Ambra Angiolini) e tutti gli altri, di cogliere il senso di famiglia che li lega, anche in rapporto a Massimo che questa famiglia la vive. Qui un’altra differenza fondamentale col film: conosciamo Michele e gli altri ancor prima dell’incidente che sarà il preludio della scoperta di Antonia. La relazione di Michele e Massimo, la seconda vita di quest’ultimo qui non è clandestina, ma corre in parallelo a quella coniugale, ha la stessa dignità, lo stesso diritto d’esistenza.

La doppia vita di Massimo. Nella serie le due scene sono praticamente sincroniche.

Forse i tempi sono cambiati e adesso Özpetek può raccontare con più leggerezza un mondo quale quello LGBT che prima si nascondeva ai margini della società. O forse, andando più a fondo, ci accorgiamo che le storie di Antonia e Michele si sviluppano in parallelo perché entrambi sono “fate ignoranti” ( nel senso proprio del termine “ignorare”). Ad entrambi i punti di vista manca “qualcosa”.

Loro che pensavano di poter confinare Massimo nella galassia sicura del proprio sguardo, si trovano a scoprire invece che la persona che amiamo è sempre e comunque un universo sconosciuto, una stella che continua a brillare di luce propria, anche quando non stiamo a guardarla.

“Per quella parte di te che mi manca e che non potrò mai avere” (dalla dedica di Michele a Massimo, che Antonia trova dietro il quadro)

 

 Angelica Rocca

I segreti di Silente: un altro flop?

Con un intreccio che fa acqua da tutte le parti, il terzo capitolo di “Animali Fantastici” non soddisfa le aspettative dei fan – Voto UVM: 2/5

I segreti di Silente arriva nei cinema dopo il poco convincente secondo capitolo della saga Animali Fantastici e dove trovarli, che ha fatto arrivare molti scettici in sala. È riuscito quindi a farci uscire soddisfatti?

La riposta è più no che si, purtroppo. Molti elementi risultano essere frutto di una gestione confusionaria, con personaggi ed intere sequenze poco rilevanti per lo sviluppo della trama. Risaltano invece la doti attoriali dei due veri protagonisti del film, Jude Law e Mads Mikkelsen, vere gemme della pellicola. Ma andiamo più nello specifico.

Il film parla ancora dello scontro “fratricida” tra Silente (Jude Law) e Grindelwald (Madds Mikkelsen). La loro lotta si sposta ora in campo politico: il mago oscuro sta infatti cercando di scalare le gerarchie del potere per scatenare la sua guerra contro i babbani. A Silente sta quindi il compito di fermarlo, con l’aiuto del suo gruppo.

Cosa non ci ha convinto de I segreti di Silente

I pregi in questo film non mancano: anche gli animali, dopo essere scomparsi nel secondo capitolo, tornano con un ruolo predominante in questo. Un grande aiuto è stato dato alla Rowling nella scrittura: dopo il secondo film era chiaro a chiunque infatti che la scrittrice non fosse la più adatta a scrivere sceneggiature, avendo esperienza solo coi romanzi. Il film infatti ha un ottimo ritmo e riesce a coinvolgere lo spettatore.

Sebbene quindi ci siano note positive ne I segreti di Silente, non riusciamo a promuoverlo del tutto, per degli errori molto evidenti che nascono dalla cattiva gestione della saga in toto: anche questo film infatti non è nient’altro che un riempitivo e la sensazione generale che si ha è che sia servito di fatto solo ad aggiustare ciò che di critico vi era stato nel secondo capitolo.

Molti personaggi diventano estremamente secondari se non veri e propri figuranti che, se eliminati, non avrebbero avuto effetto sullo sviluppo dell’intreccio. La stessa cosa succede a molte sequenze per cui ci siamo ritrovati a sperare che finissero il prima possibile affinché la trama andasse avanti.

Jude Law in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Anche i motivi stessi per cui la trama va avanti sono costruiti su un castello di carte. Badate bene, l’intera saga di Harry Potter non ha mai brillato nella scrittura delle sue parti strettamente politiche, ma in questo film si raggiungono assurdità quasi ridicole.

Secondo la tradizione, l’elezione del Capo Supremo del mondo magico avviene in questo modo: il candidato prescelto sarà quello davanti cui si inchinerà il qilin, sorta di creatura magica capace di discernere i puri di cuore.  Ma chi di voi alla fine darebbe il potere ad un puro di cuore? E come si fa a trovare sempre quel puro di cuore, nel corso della storia del mondo magico, tra i candidati delle varie fazioni? La lungimiranza non è di casa neanche nella politica del nostro mondo – sia chiaro – ma almeno dalle nostre parti, sembra che tutto si “riesca a tenere in piedi”.

Parlando poi anche delle azioni dei buoni, il piano messo in atto per combattere un nemico che conosce in anticipo le mosse (Grindelwald ha il potere di prevedere il futuro) è si dichiaratamente un “non piano”, ma ciò arriva a discapito della comprensione generale. Lo spettatore che si ritrova sballottato da una parte all’altra e a “dover dare tutto per buono”. Ingaggiare un “non mago” per combattere un mago oscuro ha senso? Beh, se il capo dice di sì, allora va bene!

Cosa salviamo de I segreti di Silente

Insomma l’impalcatura del film non riesce a reggersi del tutto sulle sue gambe, ma è capace invece di farti interessare al legame tra Silente e Grindelwald. I due attori hanno una chimica incredibile, riescono benissimo a trasmettere il legame tra i due personaggi, soprattutto all’inizio e sul finale in cui interagiscono e comunicano tra loro e allo spettatore solo con gesti e sguardi.

Jude Law e Madd Mikkelsen nei panni di Silente e Grindelwald. Fonte: Warner Bros.

Dopo due capitoli che risultano riempitivi ed un primo che serviva solo a tastare le acque, possiamo quindi aspettarci un miglioramento nei prossimi film, sperando che gli sceneggiatori colgano gli errori dei precedenti.

Rimane comunque un peccato che il primo pensiero dopo la visione di un film sia: speriamo che il prossimo, adesso, sia migliore.

Matteo Mangano

Tra mistero e luci rosse: cosa è andato storto in Élite 5?

Classico esempio di serie tv di successo portata avanti perché fa tendenza, sebbene le idee sembrano essere terminate – Voto UVM: 2/5

 

Élite, serie tv targata Netflix, è una delle produzioni di maggior successo degli ultimi anni. Uscita per la prima volta nel 2018, è entrata subito nel cuore della gente.

È la tipica serie adolescenziale, ma arricchita di crimini e misteri che avvengono all’interno del liceo d’élite più famoso di Spagna e nelle vite dei protagonisti, attorno a cui ruota la trama di ogni stagione.

Inoltre, tratta temi sociali importanti quali le dipendenze dalla droga e dal sesso, l’ossessione compulsiva, il razzismo, la ricerca della propria sessualità, ma anche la disuguaglianza economica e la fede religiosa, il tutto sul filo di un grande valore ricorrente: l’amicizia

Giallo ed erotismo a Las Encinas

La stagione inizia con il caso irrisolto di Armando de la Ossa, ucciso nel finale della quarta stagione durante la festa di capodanno di Philipe (Pol Granch): ciò che sembrava essere ormai passato, è tornato letteralmente a galla.

Anche questa volta i produttori decidono di lasciarci sulle spine fin dal primo episodio, mostrando scene di una nuova apparente morte. L’identità della vittima verrà svelata solo nelle ultime puntate, sebbene la storia venga lasciata in sospeso e con l’evidente intento di proseguire la serie con la sesta stagione già confermata.

Ma durante tutta la stagione, lo spettatore non è rimasto “a bocca asciutta”:  non sono mancate relazioni tossiche – a tratti passionali – e scene erotiche, che non sembrano più essere un tabù. Il tutto, però, risulta un po’ forzato, come se si volessero accontentare i fan di una serie priva colpi di scena, ma anzi molto prevedibile.

Samuel (Iztan Escamilla), Ari (Carla Diaz), Ivàn (André Lamoglia) e Patrick (Manu Rios). Fonte: NerdPool

New entry: promosse o bocciate?

Non mancano certamente le new entry, pronte a sconvolgere la storia e con l’intento di conquistare il grande pubblico. Ci sono riuscite?

Si tratta di Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia): rispettivamente “l’imperatrice di Ibiza”, ereditiera e proprietaria di molti locali dell’isola, e il figlio di un famoso calciatore.

Entrambi portano scompiglio nella vita dei protagonisti e, tra orgoglio e confusione, risulteranno quasi odiosi all’occhio dello spettatore. Ma alla fine dei conti, si sa, a tutto c’è un perché: lo script approfondirà i loro personaggi man mano, rendendo la loro immagine più limpida, e riuscendo quindi a farli piacere a chi li guarda.

Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia). Fonte: SpettacoloFanpage

The show must go on: Élite 6 confermata

Nonostante sia diventata piatta e banale, il nuovo delitto irrisolto stavolta riguarderà uno dei protagonisti che ci accompagna dalla prima stagione: per cui è proprio il caso di dirlo: lo spettacolo deve andare avanti.

Ad attenderci, però, sarà un cast del tutto nuovo (o quasi) i cui ruoli sembrano essere già stati assegnati, seppur ancora senza alcuna conferma da parte dei sospetti nuovi attori.

A quanto pare, le riprese per la nuova stagione inizieranno a breve a Madrid, mentre la sua uscita è prevista nel corso del 2023. Non ci resta che attendere!

Like o dislike?

Come già detto, la serie sembra continuare per il gusto di cavalcare l’onda del successo, che in ogni caso arriva puntuale tutti gli anni. Infatti, a poche ore dalla sua uscita, Élite 5 è subito entrata nella top ten delle serie più viste del momento nel mondo, a conferma del fatto che i suoi episodi riescono a fare tendenza nonostante gli anni che passano e i vari cambiamenti.

C’è meno adrenalina e le aspettative sono ridotte, d’altronde è raro che una serie tv rimanga bella, originale e appassionante come per la prima stagione, ma questo è uno dei casi estremi.

La trama sembra essere incentrata solo su un tema – o meglio – su più temi strettamente collegati tra loro: sesso, droga, feste e crimine.

Senz’altro ormai si vive Élite per sapere come andrà a finire, con la speranza, però, che nella sesta stagione ci sia una nuova impennata di qualità.

 

Marco Abate

 

Peaky Blinders 6 è davvero l’ultimo atto di Thomas Shelby?

Un finale di serie dai ritmi un po’ lenti ma che permette di completare l’identità di tutti i personaggi di Peaky Blinders – Voto UVM 4/5

 

 

“Ero arrabbiato con il mio amico:
glielo dissi, e la rabbia finì.
Ero arrabbiato con il nemico:
non ne parlai, e la rabbia crebbe.”

È con questi versi, tratti da “L’albero del veleno” di William Blake, che ha inizio un nuovo capitolo di vita per Thomas Shelby (Cillian Murphy). Siamo nel 1933 e il proibizionismo viene abrogato dopo quattordici anni dalla sua attuazione. Tommy è ormai un uomo diverso. Ha abbandonato il whisky – che prima utilizzava per proteggersi dal dolore e dal freddo – ritenendolo ora colpevole dei moti rumorosi dentro la sua testa.
Per la prima volta nella sua vita si mette in dubbio, cercando di far pace con tutti i fantasmi del passato.

Tommy Shelby – Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd, © Matt Squire

Thomas Shelby: Dio, diavolo o comune mortale?

“È vero, io non sono Dio. Non ancora.”

Per quasi cinque stagioni, abbiamo osservato il delirio di onnipotenza di un giovane Tommy in continua ascesa, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere il tanto bramato potere. Da sempre per lui, ogni catastrofe è stata un’opportunità per ricominciare. Ma in questa stagione c’è qualcosa di diverso. Tommy, ormai visto da tutti – in particolar modo da Michael (suo nipote) – come il diavolo in persona, diventa vulnerabile. In seguito a una serie di traumi, cerca la redenzione dei suoi peccati e prova ad essere un uomo migliore, per sé e per chi gli sta attorno.

“Non sono il diavolo…ma solo un comune uomo mortale.”

Solo nel finale di stagione Tommy ritrova la fede, in Dio, e soprattutto in sé stesso come figura quasi immortale.

 Un obbligato ritorno alle radici per i Peaky Blinders

Dopo che il regista della serie Steven Knight, ha cercato in ogni modo di convincere tutti sulla veridicità degli eventi soprannaturali, il finale di quest’ultima stagione ha finalmente confermato che ogni maledizione e ogni previsione sul futuro erano reali.

Le visioni che hanno accompagnato “il capo della famiglia Shelby” per tutto questo tempo non sono state semplicemente il risultato del suo disturbo da stress post-traumatico. I fantasmi in Peaky Blinders esistono e sono sempre esistiti.

“Ma tu devi seguire le voci che senti, dargli ascolto, devi fare ciò che dicono.” (Il fantasma di Grace a Tommy)

Thomas e il fantasma di Grace. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

Se in passato è stato il fantasma di Grace (Annabelle Wallis), la defunta moglie, a guidare Tommy, sostenendolo quando nessuno lo ascoltava, in questa stagione sarà la zia Polly ad apparire in sogno sia a lui che al figlio Michael (Finn Cole).

Non dobbiamo infatti scordarci che la famiglia Shelby è di origine irlandese-rom. Thomas e i suoi fratelli hanno sangue rom da parte di entrambi i genitori, mentre Polly Gray (Helen McCrory) è la figlia della “principessa gitana”. Sarà proprio in assenza di quest’ultima che Thomas, sarà costretto a fare i conti con quella tradizione che ormai per troppo tempo aveva rinnegato.

Peaky Blinders: il mondo tra le due guerre

Fin dalla prima stagione, la serie ha esplorato l’impatto devastante della Grande Guerra sui personaggi. Accanto alle lotte contro nemici sempre pronti a minacciare la loro posizione di potere, Tommy e il fratello Arthur (Paul Anderson) combattono un’altra guerra contro i loro demoni interiori. Tentano di superare i traumi della guerra utilizzando alcolici e oppiacei come meccanismo di difesa per rimanere a galla.

Siamo nel 1933 e, con la nomina di Adolf Hitler a cancelliere, comincia l’ascesa del nazismo. Sarà proprio sulle note della struggente Blackbird che assisteremo a una scena di violenza nei confronti di Ada Shelby (Sophie Rundle), sorella di Tommy e vedova del comunista Freddie Thorne (Iddo Goldberg), colpevole di essere la madre di una bambina nera e di un figlio per metà ebreo, oltre che lei stessa una zingara. Le immagini ci mostrano come il fascismo bussi ormai anche alle porte dell’Inghilterra. “Merito” di Oswald Mosley (Sam Claflin), fondatore nel 1932 dell’Unione Britannica dei Fascisti, formazione politica di estrema destra, vicina al Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini.

Da una parte, dunque, vedremo le conseguenze di quanto iniziato da Oswald Mosley nella quinta stagione, dall’altra approfondiremo il viaggio interiore dei fratelli Shelby, ancora fortemente provati dalla Prima Guerra Mondiale.

“Stop al fascismo” in Peaky Blinders. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

…è davvero tutto finito?

L’ultima stagione della serie, che ha già debuttato nel Regno Unito su BBC One il 27 febbraio, arriverà in Italia sulla piattaforma Netflix il 10 giugno 2022. Inoltre, il regista che ha già confermato le riprese di un film, previste per il 2023, sembra non aver ancora intenzione di abbandonare l’universo dei “fo***ti Peaky Blinders”!

“Vedremo ancora la Gran Bretagna tra le due guerre. Scopriremo come il primo conflitto non sia stato d’insegnamento e come sia semplice ricadere negli stessi errori. Vedremo anche la fine dell’Impero: entreremo nella Seconda Guerra Mondiale e mostreremo quanto sia stata devastante. Ho rivisitato la storia che racconteremo, e andremo anche oltre la fine del conflitto. Voglio andare avanti, voglio vedere come procederanno le vicende narrate.” (Steven Knight)

 

Domenico Leonello

L’Attacco dei Giganti: verso la conclusione di un capolavoro

A dir poco entusiasmante: una delle serie più coinvolgenti degli ultimi anni – Voto UVM: 5/5

 

L’Attacco dei Giganti, titolo tradotto dall’originale giapponese “Shingeki no Kyojin”, è senza dubbio una delle opere più importanti e conosciute prodotte nel paese del Sol Levante.

Nato come manga nel 2009 dalla mente del giovane Hajime Isayama, ha acquisito grossa popolarità grazie al suo adattamento anime.  Proprio nei giorni scorsi, si è conclusa la seconda parte della stagione finale, con l’opera sempre più vicina alla sua conclusione che avverrà con una terza parte in uscita nel 2023.

 

“L’Attacco dei Giganti”: locandina della quarta stagione. Fonte: MAPPA Studio

Il perché del successo dell’opera

Il manga è stato pubblicato sulla rivista Bessatsu Shonen Magazine, il target quindi sarebbe quello dello “shonen”, ossia un pubblico adolescenziale, benché l’opera presenti anche tratti da “seinen”, fruibili quindi da una categoria più matura.

Partendo dal contesto iniziale, le vicende sono ambientate in uno scenario alternativo dai caratteri medievali. L’umanità è soggiogata dalla presenza di creature denominate appunto “giganti”, esseri antropomorfi di grandi dimensioni che hanno come unica finalità quella di divorare più umani possibili. Per proteggersi da questa minaccia, gli uomini si sono ritirati all’interno di un territorio delimitato da tre cerchie di mura che li tiene temporaneamente al sicuro, ma li costringe a vivere come se fossero “in gabbia”.

La situazione peggiorerà con la comparsa di due giganti anomali che faranno breccia tra le mura, dando inizio alla serie di eventi che costituiranno la trama dell’anime. E’ proprio quest’ultima ad aver generato il grande successo dell’opera, poiché ricca di diversi risvolti e colpi di scena che mantengono alti picchi di qualità in tutte le stagioni.

Un’altra locandina della quarta stagione. Fonte: MAPPA Studio

Non vi sarà solo lotta per la sopravvivenza contro queste mostruose creature, ma anche la lotta interna, segno che spesso il peggior pericolo per l’uomo è rappresentato dall’uomo stesso.

L’ambiente, per la gran parte degli episodi, è cupo e tetro: pochi sono i sorrisi, le storie d’amore, i momenti di gioia… Non c’è spazio per tutto questo! Distruzione, morte e miseria prendono il sopravvento nel mondo, considerato più volte dagli stessi personaggi così crudele: un contesto perfetto per far notare l’orrore della guerra. Ma nell’animo umano è presente la speranza, il motore che porta ad andare avanti alla ricerca della libertà e della verità.

I nuovi episodi: un’altalena di emozioni

Questa seconda parte della quarta stagione è stata a tratti molto entusiasmante, a tratti invece un po’ lenta ed esplicativa. Si riprende da dove ci eravamo lasciati: Marley cerca di ottenere la sua vendetta, dopo la disfatta di Liberio, arrivando allo scontro con Eren, il cui obiettivo è entrare in contatto con Zeke per ottenere il potere del gigante fondatore.

I primi episodi di questa parte sono tutti un crescendo, che proietta luce su eventi passati con nuove e fondamentali rivelazioni, con il terzo episodio in particolare che può essere definito uno dei più entusiasmanti dell’intera serie. Dopo di che notiamo un rallentamento nei ritmi delle puntate, con meno azione e scoperte eclatanti.

Osserviamo comunque come in questa parte i personaggi secondari si prendano la scena, con un’analisi psicologica importante ai fini dell’evoluzione delle vicende. Le ultime puntate, infine, riprendono il tenore delle prime: combattimenti, flashback e chiarimenti importanti vanno a creare terreno fertile per un gran finale. Nota di merito per le scene conclusive dell’ultimo episodio, che fanno venire i brividi.

Cosa è cambiato (in bene e in male) ?

I nuovi episodi mettono in discussione ancora di più lo stereotipo classico del “villain” in una storia: ognuno può essere il cattivo dal punto di vista dell’altro. Uno degli aspetti distintivi, che rende l’opera superiore rispetto ad altre, è appunto la presenza di un protagonista caratterizzato magistralmente, molto complesso a livello psicologico, che allo stesso tempo risulta un’antagonista pericolosissimo, ma con delle motivazioni e uno scopo ben preciso.

Lo studio di animazione, MAPPA Studio, ha svolto un lavoro notevole dal punto di vista visivo: si nota maggior cura dei dettagli, grande fluidità nell’ animazione, computer grafica migliorata rispetto agli episodi precedenti, grazie a un budget più ampio stanziato per la produzione.  Il tutto accompagnato da un’impeccabile colonna sonora che dà quel tocco in più all’opera.

Frame di una puntata dell’anime. Fonte: MAPPA Studio

La vera pecca consiste nella mancanza di un doppiaggio in lingua italiana, che fino a questo momento era stato sempre realizzato (e anche in maniera impeccabile). L’anime, infatti, è fruibile solamente in lingua originale con sottotitoli, da quando la piattaforma di streaming Crunchyroll, che non è interessata a curare gli adattamenti nelle lingue degli altri Paesi, ne ha acquisito i diritti. Si spera che si sblocchi la situazione e si possa arrivare a un accordo, anche per dare continuità al lavoro magistrale realizzato dai doppiatori nostrani.

In conclusione, non ci resta che attendere l’anno prossimo per la trasposizione degli ultimi capitoli del manga, che chiuderanno il cerchio di questa fantastica opera.

 

Sebastiano Morabito

 

 

Scrubs: la serie che ci fa ridere ed emozionare allo stesso tempo

“Con il cuore di JD e la testa di Kelso” (AntartidePTN)

Fin da piccola ho avuto una passione: quella del cinema, della musica e dello spettacolo. Non come interprete, ma come osservatrice: guardo, analizzo e mi commuovo. Essendo un amore il mio, ho visto tante opere, alternando il mio interesse verso più direzioni. Scrubs è quella serie tv che mi ha colpito particolarmente. Ideata dal regista Bill Lawrence, la serie ha ottenuto una fama internazionale, andando in onda dal 2001 al 2010: 9 anni, 9 stagioni e 182 episodi che hanno coinvolto il pubblico.

Scrubs ha lanciato la carriera dell’attore Zach Braff, che interpreta il Dottor John Michael “J.D.” Dorian. (Curioso sapere che proprio oggi la star della fortunata serie spenga 47 candeline).

Da sinistra a destra: Turk (Donald Fraison) Elliot (Sarah Chalke) Carla (Judy Reyes) e JD (Zach Braff). Fonte: Disneyplus

Di cosa parla Scrubs?

“Un saggio disse che lo spirito umano può superare ogni ostacolo… Quel saggio non aveva mai fatto triathlon”

Le vicende avvengono all’Ospedale Sacro Cuore con “sale bianche”, mascherine, medici e pazienti che corrono da una stanza all’altra. Nei corridoi possiamo notare il tirocinante John Dorian, un ragazzo dal cuore d’oro, fresco di laurea, alle prese con questo mondo nuovo – fatto non solo di lavoro, ma d’amore e amicizia – composto di attimi di paura e felicità. John comincerà questa nuova avventura assieme al suo migliore amico Christopher Turk (Donald Fraison).

Nel primo episodio farà la conoscenza di tutte le persone che entreranno a far parte dalla sua vita. Come il Dottor Cox (John C. McGinley) nonché il suo mentore, poi l’amore della sua vita Elliot Ridd (Sarah Chalke), l’inserviente (Neil Flynn) di cui non si saprà mai il suo vero nome e che renderà la vita di JD un vero inferno. Abbiamo il Primario di medicina, il Dottor Kelso (Ken Jenkins), più interessato ai soldi che alla cura dei suoi pazienti, e infine troviamo la Capa infermiera Carla Espinosa (Judy Reyes), una specie di “madre” per tutti i nuovi arrivati.

Le prime otto stagioni sono interamente narrate dal punto di vista di JD, ad eccezione di alcuni episodi.

I personaggi principali di Scrubs. Fonte: Disneyplus

Sigla e titolo

Il titolo è un gioco di parole: “scrubs” indica le divise indossate da medici e infermieri. E come ci ha insegnato la pandemia, sappiamo che è importante lavarsi le mani accuratamente, strofinando per bene. Medici e chirurghi devono eliminare ogni tipo di germe prima di compiere qualsiasi operazione. “To scrub”, in italiano, vuol dire proprio “strofinare”.

La sigla della serie è Superman, un brano della band musicale Lazlo Bane. Durante la canzone vediamo i protagonisti, in sequenze alternate, passarsi un radiogramma che infine viene poggiato su un diafanoscopio. La canzone rappresenta non solo la serie ma tutto il mondo della medicina perché molte volte pensiamo ai dottori come a degli “eroi”, un po’ come quelli dei fumetti. Ma si sa, anche Superman ha la sua Kryptonite.

“Ma non posso fare tutto ciò da solo
No, lo so non sono Superman”

Perché è diversa?

“È per questo motivo che l’emicrania non le passa: qui vede, questo si legge “analgesico”, non “anale-gesico”. Signore, le prenda per bocca…”

Per anni è andato di moda il genere medical drama. Si pensi a Doctor House o a Grey’s Anatomy. Tutte opere che suscitano un grande interesse nel pubblico, ma che purtroppo sembrano essere sempre uguali tra di loro: serie in cui il contenuto viene meno e si pensa solo all’immagine commerciale. Ed è proprio in questo caso che troviamo quegli episodi che vanno avanti solo per l’audience generata da un “senso di attaccamento” del pubblico.

Anche a me, quando finisco una serie, un libro o un film, succede spesso che mi salga un senso di angoscia, avendo in qualche modo creato un legame con la storia o con i personaggi. L’unica serie che si distacca dai gusti del mercato globalizzato è proprio Scrubs. Anch’essa è legata agli stessi elementi del genere medical, ma la trama, che più si avvicina alla realtà, è allo stesso tempo più leggera. Un paradosso se ci pensiamo! La vita in sé non ha attimi prolungati di felicità e di quiete: il nostro tempo è costituito soprattutto da istanti di infelicità e solitudine. Quindi perché Scrubs è cosi leggera?

Fonte: DisneyPlus

Scrubs è una delle poche serie che riesce a legare comicità e “dramma”, rendendole una cosa sola. Nel giro di 20 minuti, ridi e subito dopo scoppi in lacrime. Ogni particolare, anche il più piccolo, rende lo spettatore partecipe alla storia, mettendo in mostra “il reale” che viviamo giorno per giorno. Ricordandoci che alla fine, per quanto si possano incolpare gli altri, la persona con cui bisogna prendersela davvero è soltanto una: noi stessi. I pensieri di JD, i monologhi del Dottor Cox, e le azioni degli altri personaggi ci insegnano che tutti siamo fragili ed è normale sbagliare.

Per questo, di fronte a situazioni tragiche non dobbiamo abbatterci. A volte è giusto chiedere aiuto, ma non bisogna mai arrendersi. Scrubs è quella serie che lega il riso e il pianto in unico filo: due reazioni che scaturiscono da due stati d’animo opposti, ma che appartengono ad ogni essere umano. Bisogna mostrare le proprie fragilità e ammettere di avere paura: nessuno di noi è Superman, come dice la sigla.

  Alessia Orsa

Coda – I segni del cuore meritava di vincere gli Oscar?

Un film che parla della disabilità, proiettando allo spettatore ciò che provano i sordomuti. Voto UVM: 4/5

La notte degli Oscar si è conclusa qualche giorno fa: una serata magica tra abiti da sogno e “scene epiche”. Tutti erano incollati davanti alla televisione per assistere alle premiazioni, tra chi si è addormentato prima del finale, e chi è rimasto sveglio per vedere uno degli eventi mondani più attesi dell’anno.

L’Oscar per il miglior film e quello per “miglior sceneggiatura non originale” sono stati vinti da CODA – I segni del cuore, diretto dalla regista Sian Heder, arrivato nei nostri cinema ieri, 31 marzo, e disponibile su NOW e Sky Tv.

Un momento storico: è il primo film che trionfa con un cast composto da ben tre sordomuti, tra cui Troy Kotsur, che si è portato a casa la statuetta di “miglior attore non protagonista”, divenendo il primo attore sordomuto a vincere l’ambito premio.

Il cast di “CODA” sul palco degli Oscar. Fonte:StyleCorriere

Di cosa parla?

“Non posso restare con voi per il resto della mia vita!”

Nella cittadina di Gloucester, nel Massachusetts, troviamo la famiglia Rossi, un nucleo familiare abbastanza particolare,  composto da tre persone sordomute: il padre Frank (Troy Kotusur), la madre Jackie (Marlee Matlin) e il fratello maggiore Leo (Daniel Durant), mentre l’unica udente è la figlia Ruby (Emilia Jones) .

Ruby fin da piccola ha sempre aiutato la sua famiglia con la pesca e facendo loro da “uditrice”. Terminato il liceo, Ruby ha già deciso che svolgerà l’attività dei suoi familiari in modo permanente, perché non vuole lasciarli soli, perché sa che dipendono da lei in quanto l’unica udente.

La protagonista però ha una passione: quella del canto. Già a inizio film possiamo ascoltare la sua voce, mentre aiuta suo padre e suo fratello a lavoro. Nessuno dei due può sentirla, sono lì soli e attorno a loro c’è solo silenzio: i rumori delle onde del mare, i versi dei gabbiani non sanno cosa sono, così come la voce di Ruby. La ragazza sogna una carriera canora e perciò entra a far parte del coro della scuola dove incontra il maestro Bernardo (Eugenio Derbez). Quest’ultimo vedrà in Ruby qualcosa di magico, la aiuterà a migliorare nel canto e la spingerà verso questo mondo. Ma davanti alla protagonista si porranno due domande: abbandonare la famiglia? O proseguire verso un futuro diverso, lontano da loro?

Meritava l’Oscar?

A mio parere no. Coda – I segni del cuore ha vinto l’Oscar per un semplice motivo: perché emoziona. Guardando il film però non notiamo una trama completamente originale, ma ci vengono spesso riproposti i tipici stereotipi americani. Come quello della classica ragazza bullizzata da tutti che poi avrà la sua rivincita. La fotografia dai toni sdolcinati fa perdere punti all’opera, divenendo sinonimo di “banalità”: a primo impatto le scene sembrano uscite da qualche telenovela strappalacrime.

Il film ha funzionato per via del cast eccezionale: il lavoro svolto da Troy Kotsur è a dir poco sublime, mi sono commossa e divertita a guardare il suo personaggio, entrando in empatia con lui.

Ha funzionato perché la regista ha portato una storia di una disabilità, che ancora non comprendiamo del tutto perché spesso ci dimentichiamo che le persone che la vivono si sentono diverse dagli altri. Il paradosso in questo film è che sono proprio Frank, Jackie e Leo ad ascoltare e osservare tutti, mentre loro sono isolati.

C’è una scena in cui le musiche, i suoni e le voci scompaiono, e lo spettatore quasi si chiede se ci sia qualche problema con le casse o se il volume si sia abbassato da solo, ma non è così! La regista infatti abbassa i suoni di proposito, per far sentire la paura che può provocare il silenzio, mentre intorno a te tutti sorridono e parlano.

Da sinistra: Leo, Jackie e Frank mentre guardano Ruby cantare al concerto del coro della scuola. Fonte: Eagle Pictures

Nonostante alcuni cliché, il film mi ha fatto ridere e versare qualche lacrima. «Ogni famiglia ha il suo linguaggio» e il mio applauso va con la scrittura e nel linguaggio dei segni a questa famiglia.

Alessia Orsa

“Il mostruoso femminile”: la paura delle donne tra mito e cinematografia di massa

“La donna è sempre stata un mostro.
La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto.”

Si apre così Il mostruoso femminile, saggio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in Italia nel marzo del 2021 ed edito da Tlon. Al suo interno, l’autrice si avvale di molteplici fonti – in primis casi di cronaca nera, letteratura gotica e cinematografia horror – per ricercare i timori alla base delle storie terrificanti che da sempre il patriarcato perpetra sul femminile. La narrazione è suddivisa in tre parti: figlie, mogli, madri – gli unici ruoli che la nostra società legittima per una donna – e pone come fondamento della sua analisi miti e leggende popolari che hanno costituito la materia prima di tutte le opere moderne successive.

La copertina del saggio. Foto di Rita Gaia Asti

Fin dai primi capitoli l’autrice dimostra che le figure femminili demoniache, o in generale sovrannaturali, sono ritratte con connotati mostruosi perché paradossalmente forniscono un ritratto realistico di come sarebbero le donne se lasciate libere di comportarsi da esseri umani indipendenti.
Il primo passo con cui il patriarcato se ne assicura la sottomissione, e dunque la de-umanizzazione, è la repressione della loro rabbia fin dall’adolescenza. Non a caso il nostro contesto socio-culturale alimenta narrazioni nelle quali la rabbia provata durante la pubertà femminile è così disumana da evocare potenze infernali.
E’ il caso de L’esorcista, l’iconico film del 1973 diretto da William Friedkin. Nella pellicola, la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demonio e manifesta comportamenti che, a ben vedere, più che una “possessione” sembrano una spettacolarizzazione orrorifica della pubertà femminile:

“Esplode di rabbia, insulta le figure autoritarie e vi si oppone, si fa beffe di Dio e dell’uomo, lanciando inutili provocazioni. Parla ossessivamente di sesso, soprattutto per scandalizzare gli altri. Impreca, urla, odia tutti, e il minuto dopo è l’adorabile bambina che vuole la mamma.”

Regan MacNeil in una scena de L’esorcista. Fonte: Warner Bros Entertainment, Inc

Quando l’autodeterminazione rende la donna disumana

Per il patriarcato è cruciale assicurarsi che fin dalla prima adolescenza la donna percepisca la propria rabbia come anomala e dunque se stessa come un mostro da addomesticare, da controllare dall’esterno, piuttosto che come un essere umano con sentimenti umani, anche negativi. Così può condurla più facilmente verso gli unici due ruoli che ha in serbo per lei: sposa mansueta e madre amorevole.

Tuttavia, anche in epoche remote, poteva capitare che donne sposate, soprattutto se troppo padrone di sé e provviste di una rendita personale più consistente di quella del marito, potessero apparire così anomale da non essere considerate affatto umane, ma creature di un altro mondo. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le fate del folklore irlandese. Queste, scrive Doyle, non solo pretendevano rispetto nell’ambito di una relazione coniugale, ma avevano diritto a lasciare il marito umano se le percuoteva:

“In una delle storie raccolte da Evans-Wentz, l’uomo impara che non deve percuotere più di due volte la moglie senza ragione, e per percossa si intende anche un leggero colpetto sulla spalla.”

Fate dal folklore irlandese. Fonte: amazon.it

Purtroppo un marito violento è solo il prodotto più evidente di una gerarchia patriarcale. Le sue manifestazioni più distruttive gravano invece nel profondo del nostro inconscio ed assumono la forma di modelli inarrivabili.

E’ il caso di Carolyn Perron, la cui vicenda reale dei primi anni settanta ispirò il film L’evocazione – The Conjuring, uscito nel 2013. Carolyn, liberale giovane poetessa atea, costretta di peso a diventare una casalinga conservatrice e cristiana, si convinse di essere perseguitata da una strega di nome Bathsheba.

In realtà, le azioni violente che immaginava compiute dalla strega erano compiute da lei stessa, ridotta in uno stato di disperata prostrazione. Bathsheba altri non era che la rappresentazione di sentimenti a lungo repressi: il rancore per l’abbandono delle sue aspirazioni, sacrificate ai bisogni delle figlie, ed il senso di colpa per non riuscire a rispecchiare quell’ideale di amore incondizionato, da sempre richiesto alle madri, avevano creato il mostro.

La locandina del film L’evocazione – The Conjuring. Fonte: sentieridelcinema.it

Perché leggerlo?

La penna dell’autrice, cruda ed a tratti tagliente, sviscera con cura ogni risorsa a cui attinge. Traccia un quadro meticoloso di ogni forma di violenza che l’uomo ha adoperato nei secoli per assoggettare il femminile. Ne derivano pagine indimenticabili, che risucchiano il lettore nella loro infinita ed illimitata oscurità con lo scopo di guidarlo verso una progressiva quanto necessaria presa di coscienza. Inoltre la bibliografia è arricchita con preziose considerazioni personali dell’autrice su ciascuna fonte menzionata, con l’aggiunta di validi consigli per chi volesse approfondirne il contenuto.

Rita Gaia Asti

 

Il Miglior Film è recitato in lingua dei segni, trionfa la diversità. Lo stupore di una notte magica

E anche questo viaggio giunge a termine. Questa notte si è tenuta la celebrazione dei 94esimi Academy Awards, di nuovo presso il Dolby Theatre di Hollywood, di nuovo col suo pubblico ricco di celebrità, i suoi presentatori rinomati e un grande ritorno: il red carpet! E che Oscar sono stati. Noi di UniVersoMe, che abbiamo seguito i film “papabili” per tutto questo tempo, non potevamo che raccontarvi di questa serata magica e pazzesca, che ne ha viste di cotte e di crude.

 I “Big Five” che hanno conquistato la statuetta

Se dovessimo descrivere l’evento di stanotte con una parola, sarebbe forse stupore. Ed infatti, grande gioia e stupore ha destato il vincitore dell’attesissimo miglior film di quest’anno, premio che va a CODA – I segni del cuore, dalla regia di Sian Heder, e che racconta la storia dei Figli di Adulti Non Udenti dal punto di vista di una giovane ragazza udente. Un film che celebra la diversità e che ha la particolarità di essere raccontato nella lingua dei segni. Anche quest’anno, quindi, gli Academy si sono distinti per l’inclusività.

Per la miglior regia, the Oscar goes to… Jane Campion, con Il potere del cane (tra l’altro, candidato anche come miglior film!). Si tratta della terza vittoria di una donna alla regia nella storia degli Oscar, preceduta da Chloé Zhao lo scorso anno e da Kathryn Bigelow nel 2010. Un film che ha visto un’incredibile interpretazione della coppia Dunst-Cumberbatch (quest’ultimo candidato anche come miglior attore).

Benedict Cumberbatch in una scena de “Il potere del cane”. Fonte: Lucky Red, Netflix

Per le categorie miglior attore miglior attrice vediamo trionfare (rispettivamente) Will Smith (con King Richard) e Jessica Chastain (con Gli occhi di Tammy Faye). Due incredibili interpretazioni degne di nota; una scelta che l’Academy avrà compiuto in modo sofferto, visto l’incredibile livello di tutte le nomination di quest’anno, come quella di Javier Bardem (A proposito dei Ricardo), di Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!) o di Kristen Stewart (Spencer) e Penélope Cruz (Madres Paralelas). Tutte interpretazioni – a nostro avviso – degne di rimanere nella storia a prescindere dalla vittoria.

A conquistarsi i premi per miglior attore non protagonista miglior attrice non protagonista sono (rispettivamente) gli “emergentissimi” Troy Kotsur (CODA – I segni del cuore) e Ariana DeBose (West Side Story).

Il piccolo Jude Hill in una scena di “Belfast”. Fonte: TKBC, Universal Pictures

La miglior sceneggiatura originale spetta a Belfast di Kenneth Branagh, film di cui abbiamo avuto il piacere di parlarvi e che rappresenta un inno all’Irlanda, anche durante i suoi tempi più duri (come quelli del conflitto).

Non si ferma certo qui la lista dei grandi vincitori! Spicca la vittoria di Billie Eilish per la miglior canzone originale con No Time To Die, scritta assieme al fratello Finneas O’Connell per l’omonimo venticinquesimo film della serie di James Bond. E i nostri pronostici si sono – in parte – avverati con la magia di Encanto, che si conquista il premio al miglior film d’animazione.

A chi tutto e a chi niente

Ma una delle vittorie epocali è sicuramente quella di Dune, che porta a casa ben sei statuette su dieci (migliore fotografia, colonna sonora, sonoro, montaggio, scenografia ed effetti speciali).

Timothée Chalamet e Zendaya in una scena di “Dune”. Fonte: Warner Bros.

Che ci aspettassimo un tale trionfo per il film di Denis Villeneuve era certo, ma in cuor nostro speravamo di portarci a casa – almeno – il riconoscimento come miglior film straniero. Niente da fare: l’Oscar è andato al meritatissimo Drive My Car, diretto da Ryusuke Hamaguchi, che parla di un attore e regista che dovrà fare i conti con la scomparsa prematura della moglie drammaturga.

Rimasto a mani vuote quindi l’italiano Paolo Sorrentino, che tuttavia col suo film È stata la mano di Dio ci ha regalato un bellissimo spaccato della sua esistenza, in cui vita e arte si fondono in quell’esigenza ineluttabile chiamata cinema. E noi sappiamo già che quel suo verso messo in bocca ad Antonio Capuano, quel suo «non ti disunire», rappresenterà solo l’inizio di una grande storia d’amore per il regista nostro connazionale.

Toni Servillo e Filippo Scotti in una scena di “È stata la mano di Dio”. Fonte: Netflix

Una serata “insolita”

Sarà stato il ritorno alla “normalità”, saranno i tempi di guerra che percuotono l’Europa e minacciano una Terza Guerra Mondiale, sarà… Ma la serata di ieri ha senza dubbio avuto dei risvolti “strani”.

Basti pensare all’impensabile – ma realmente accaduto – ceffone tirato da Will Smith al presentatore Chris Rock per via di un’infelice battuta su una condizione medica che affligge la moglie di Smith, Jada Pinkett, seguito poi dalle parole dell’attore premiato: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua f*****a bocca». Una scenetta su cui il pubblico s’interroga: vera collera o piece messa su per fare audience? In ogni caso Rock ha affermato che non sporgerà denuncia, per cui Smith potrà godersi al meglio la propria vittoria – lui che, come ha affermato, quel ruolo di Richard Williams, feroce difensore della famiglia, l’ha fatto suo fino al punto da esserne sopraffatto.

Infine, il riferimento inevitabile al conflitto in Ucraina nelle parole di Mila Kunis, attrice ucraina naturalizzata americana, che è servito a riportare repentinamente il pubblico alla tragicità di queste ultime settimane.

Paolo Sorrentino e il suo cast indossano il lustrino azzurro per l’Ucraina. A sinistra l’attrice Mila Kunis.

Ora l’evento è finito e – probabilmente – le star si godono un meritato ristoro. A noi spetta il calcolo dei pronostici avverati contro quelli andati in fumo: quanti ne avete azzeccati?

Ma per adesso chiudiamo questo capitolo, in attesa di rivederci al nostro appuntamento fisso: quello sulla poltrona di un cinema, con in mano dei popcorn!

Valeria Bonaccorso

 

È stata la mano di Dio – Sorrentino e l’esigenza del cinema

Sorrentino si racconta attraverso il suo film più intimo, spingendoci a non “disunirci” – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema, la settima arte che da sempre ha avuto l’onere di raccontare ogni genere di storia, dalla creazione puramente immaginaria al racconto intimo e personale di una vita vissuta, trancia il filo che separa la finzione dalla realtà.

È il caso di Paolo Sorrentino e del suo ultimo capolavoro È stata la mano di Dio, campione d’incassi e nomination internazionali (speriamo anche di vittorie!), che ha portato l’Italia fino alla Hollywood degli Oscar.

Una lettera all’aldilà

” Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film.”

Parole commoventi e commosse quelle pronunciate da Sorrentino, nella lettera pubblicata sulla “Repubblica”, che dedica il film alla madre, scomparsa insieme al padre in un tragico incidente quando il regista era solo un ragazzino.

Il cineasta nel mettersi a nudo, si lascia andare alla nostalgia dei ricordi, descrivendoci l’ironia della madre come un sollievo per qualsiasi problema: uno strumento per minimizzare e sdrammatizzare.

 “Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica strada. Minimizzare.”

La lettera si chiude con un consiglio che può solo portare a riflettere tutti noi:

“A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L’unico modo, per una madre, di ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati. ”

Un primo piano del bravissimo Filippo Scotti nei panni di Fabietto Schisa. Fonte: Netflix

Tra il mare e la mano de Dios

Possiamo dire che il film colmi uno spazio che intercorre tra una distesa di profondo mare blu e il verde prato del San Paolo degli anni ’80, quando a solcare quel campo da calcio c’era lui: Maradona.

Il mare e Maradona diventano – ognuno a modo loro – costanti segni di mutamento che indicano punti cruciali della trama.

La pellicola si apre su un’immensa distesa blu, ricca di innumerevoli sfumature, con i suoi suoni e ritmi cadenzati che ripropone metaforicamente nel moto ondoso le stagioni della vita del protagonista, Fabietto Schisa (alter ego dello stesso Sorrentino). Il mare a cui vengono affidati i riti di passaggio, si fa sineddoche della stessa Napoli e della sua cultura senza trucco e senza inganno; si fa carico di quel surrealismo, raccontando l’autentica malinconia del cambiamento.

Dall’altra parte al Bipe de oro, il compito di metronomo dell’esistenza, testimone di gioia e dolore di Fabietto, al punto di essere rappresentato come una persona cara, di famiglia.

Le poche volte in cui appare al centro della scena, sembra parlare direttamente al protagonista quanto al regista e – indirettamente – anche a noi. Le punizioni di Maradona diventano metafora di vita e, seguendo traiettorie improbabili, ci spingono al bisogno di ostinazione, in quella parabola quasi impossibile mascherata da atto divino.

Dal dolore al racconto: la “nascita” di Sorrentino

Il film può essere simbolicamente diviso in tre parti.

1) Una ricetta di famiglia

La prima, piena di fragorose risate, dove ci viene presentata in tutta la sua bizzarria la famiglia Schisa raccontata per quella che è: una sorta di teatro disfunzionale.

Uno dei punti cardine della vita di Fabietto (Filippo Scotti) è la mamma Maria (Teresa Saponangelo), con il suo amore struggente, i suoi sorrisi, gli scherzi irriverenti ma anche i silenzi e il dolore, in un ritratto non tradizionale ma autentico che ribalta tutti i luoghi comuni sulle “mamme del sud”. Un altro è il padre Saverio (Toni Servillo), guitto e talvolta severo, che non sa davvero comunicare col figlio e non gli insegna davvero a vivere; eppure nella condivisione di alcuni momenti e in gesti d’amore imperfetto il ragazzo trova il suo senso di esistere.

Attorno al nucleo familiare centrale si affacciano altre figure, in un coro tragico che accompagnerà Fabio nel suo passaggio all’età adulta. Tra tutte lo zio Alfredo, presenza malinconica sincronizzata con l’anima della città. Personaggio di altissima intelligenza, sarà di fatto colui che traghetterà moralmente Fabio nel dolore.

Dall’altra parte la zia Patrizia (una bellissima Luisa Ranieri), considerata pazza, sarà con la sua anima cangiante la musa di Fabietto che lo condurrà invece nella dimensione del racconto.

La famiglia Schisa sulla vespa. Fonte: sorrisi.com

2) La realtà scadente

La seconda parte esplora l’ambiguità e la complessità dei legami, da quelli familiari a quelli d’amicizia, agli incontri intimi e alla fascinazione per il desiderio e l’amore. Ciò avviene in una serie di momenti assoluti, come un album di sequenze che non descrivono tanto un racconto di formazione, quanto un processo di decostruzione. Perché per ritrovarsi bisogna necessariamente perdersi.

Sorrentino in maniera magistrale fa coesistere risate sguaiate e lacrime brucianti. Sorprendente come tali momenti forti vengano rappresentati in maniera solenne, ma senza cadere nell’eccessività.

Perché bisogna accettare la perdita, bisogna accettare il crollo, come nel momento in cui, nel silenzio completo di una sala cimiteriale, si sente solo lo scatto di una serratura che rappresenta l’addio più doloroso che si possa vivere.

3) L’arte come esigenza, come salvezza

Nella terza parte, dopo le lacrime e il pianto, il cinema a quel punto diventa l’unico modo per unire gesto ed espressione, esigenza e necessità, arte e sopravvivenza.

Sorrentino cita e chiama in causa i suoi maestri, prima Fellini, “presente” durante la prima parte del film, e poi Antonio Capuano.

Capuano diventa un mentore capace di trasformare Fabietto in Fabio (e Fabio in Paolo, verrebbe da dire) in una delle sequenze più eloquenti del film, un feroce dialogo sulla ricerca d’identità, sul cinema e sul coraggio, che davvero segna le origini di Sorrentino come regista.

“Ma è mai possibile che ‘sta città non te fa venì in mente nient’ a raccuntà? Insomma, Schisa la tien’ coccos a ricer’? O si nu strunz come tutti quant’ llate?

È il racconto della nascita, la scoperta della vita, una vita in cui Fabio, dovrà capire come riuscire a non “disunirsi”, per trovare sé stesso e la sua voce.

Paolo Sorrentino e Filippo Scotti alla biennale del cinema di Venezia. Fonte: tgcom24news

 

Gaetano Aspa