Stranger Things 4 parte I: tra realtà e fantascienza

      Una serie avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo – Voto UvM: 5/5

 

Esser felici dura il tempo di un ballo
Fra Dustin e Nancy
(La Storia Infinita – PTN)

Una strana atmosfera avvolge Netflix, i colori si sono spenti, è tutto sotto sopra, giochi da tavolo come Dungeons & Dragons vengono rispolverati. Strane cose avvengono sulla piattaforma streaming.

Dopo tre anni finalmente ritorna Stranger Things con la prima parte della quarta stagione. Ritardo dovuto soprattutto all’emergenza pandemica che ha più volte costretto il regista a rimandare le riprese. La seconda parte della stagione debutterà il 1 luglio 2022 con altri due episodi ma non sarà l’ultima! Netflix ha infatti già annunciato una quinta stagione per il gran finale.

Con l’annuncio di questa quarta stagione internet è esploso. I fan ormai aspettavano l’uscita della serie, il 27 maggio, più di ogni altra cosa. Non saranno mancati i rewatch di una terza stagione che ci aveva lasciati col fiato sospeso, del duetto di Dustin e Suzy sulle note di Neverending Story, canzone tratta da La Storia Infinitafilm che ha ispirato i Pinguini Tattici Nucleari nella realizzazione dell’omonimo brano. Abbiamo capito che la serie TV è entrata nei cuori di molte persone. E per i più nostalgici sarà un colpo al cuore vedere i protagonisti che da teneri bambini sono diventati dei veri e propri adolescenti isterici. È proprio in casi come questi che la vecchia che è in te penserà: “Ai miei tempi queste cose io non le facevo”.

Da sinistra verso destra gli attori: Caleb McLaughlin (Lucas), Gaten Matarazzo (Dustin), Finn Wolfhard (Mike),  Milly Bobby Brown (Unidici). Fonte: Netflix

Un tuffo nel passato

Ritorniamo indietro nel tempo: con le stagioni precedenti abbiamo avuto modo di conoscere tutti i personaggi. Li abbiamo visti scappare in bici dai “cattivi” che trattavano Undici come un topo da laboratorio. E abbiamo visto nascere i primi amori, come quello tra “Undi” e Mike o quello tra Max e Lucas. E poi, chi non ha mai desiderato creare l’alfabeto, costruito da Joyce nella prima stagione, per ritrovare Will?

“Gli amici non mentono”

Ci siamo innamorati di Stranger Things per la sua storia avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo. Autentico, perché ci mostra l’interiorità di ogni personaggio. Ci fa scoprire il mondo del Sottosopra, una dimensione alternativa, “arredata” di flora e fauna. Sono quest’ultime ad allevare e controllare il Mind Flayer, un super organismo e villain principale della serie, che produce i Demogorgoni, creature alte 3 metri, con corpi antropomorfi e con una “carnagione” verdastra – che nemmeno con un po’ di sole di Agosto si può rimediare – e una testa che sembra un simpatico fiore di tulipano.

Undici che combatte contro il Demogorgone. Fonte: Netflix

Il Ritorno

Stranger Things con la sua storia avvincente ha affascinato tutti – nerd e non – rendendola una delle serie TV più amate di tutti i tempi. L’opera tiene lo spettatore incollato allo schermo anche grazie ai tanti temi trattati: amore, amicizia, mistero, ecc…

“Solo l’amore ti rende così folle e così dannatamente stupido”

La quarta parte è composta da 7 episodi e il Sottosopra ritorna a minacciare gli abitanti di Hawkins. Nuovo mostro, nuova avventura!
I ragazzi come dei segugi cercheranno di risolvere il mistero, per salvare la loro cittadina, che sembra essere diventata la nuova Salem – ma con i Demogorgoni al posto delle streghe! In questa stagione un nuovo cattivo fa il suo debutto. Stiamo parlando di Vecna, un “demone” che minaccia i cittadini.

La nuova stagione è come un puzzle: all’inizio lo spettatore si sente confuso e non capisce cosa sta accadendo ma andando avanti, pian piano, riceve delle risposte.

The Hellfire Club. Fonte: SmartWorld

Stagione nuova, personaggi nuovi

Nel cast troviamo delle new entry, come l’affascinante Jamie Campbell Bower, che interpreta Peter Ballard, un uomo empatico che lavora come assistente nel laboratorio del Dottore Martin Brenner, (Matthew Modine) colui che tiene sotto osservazione i bambini e i ragazzi come Undici (Milly Bobby Brown). Ci sarà poi  Joseph Quinn, a vestire i panni di Eddie Munson, un liceale, leader del Hellfire Club.

I protagonisti principali sono ormai cresciuti, sono cambiati, e anche il gruppo questa volta non sarà unito “fisicamente” come nelle stagioni precedenti. Ognuno di loro affronterà un’avventura diversa. Ma anche se in Stati diversi, tutti lotteranno per lo stesso scopo.

Joyce, interpretata dalla bellissima Winona Ryder, volerà in direzione Alaska, assieme a Murray Bauman (Brett Gelman), per salvare Hopper (David Harbour). Nancy, Lucas, Steve, Dustin, Max e Robin, rimasti ad Hawkins, cercheranno indizi per salvare la loro città. Mentre Mike, Will e Jonathan, saranno alla ricerca di … non ve lo dico, dovrete guardare la serie!

Alla fine abbiamo Undici, che tornerà nel laboratorio, da cui in passato era scappata, per cercare di riacquistare i propri poteri. Tre gruppi, tra cui Undici che sarà sola, dovranno affrontare mille avventure accomunate dallo stesso obiettivo.

“Non avevano bisogno di me. Avevo bisogno di loro”

Caleb McLaughlin (Lucas Sinclair), Priah Ferguson (Erica Sinclair), Sadie Sink (Max Mayfield) e Gaten Matarazzo (Dustin Henderson). Fonte: Netflix

Musiche

L’opera è amata per tante ragioni, a partire dall’ambientazione: i mitici anni ’80, un’era di capigliature eccentriche, outifit stravaganti ma sempre alla moda, e una musica che ha creato leggende. È proprio grazie a Stranger Things che sono tornate alla ribalta canzoni come “Every Breath You Take” dei The Police, “Beat It” di Michael Jackson, “Girls Just Wanna Have Fun” di Cyndi Lauper o “Should I Stay Or Should I Go” del mitico gruppo The Clash , vere e proprie colonne sonore dei mitici anni ’80 che ci fanno alzare dalla sedia e ballare. Con la quarta stagione la canzone Running Up that Hill di Kate Bush, si è posizionata al primo posto tra i brani più ascoltati sulle piattaforme digitali.

Darling you got to let me know
Should I stay or should I go?
If you say that you are mine…
(“Shoul I Stay Or Sholud I Go” -The Clash)

Una serie TV che riesce a dare spazio a tutti i suoi personaggi, anche a quelli secondari, mostrandoci le loro fragilità e paure. Dopo un’attesa durata tre anni, noi fan possiamo ritenerci soddisfatti e pronti a rivedere, fra un paio di settimane, le avventure dei ragazzi di Hawkins.

Alessia Orsa

Da un estremo all’altro della follia. Cosa sta succedendo nel MCU?

Dopo ormai 14 anni di MCU, c’era bisogno di una nuova corrente creativa che portasse un po’ di innovazione nel genere supereroistico.

Figli di questa nuovo “filone” sono senza dubbio Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia e la serie basata sul personaggio di Moon Knight.

Filo comune tra i due prodotti è il diverso modo di raccontare e sviluppare l’elemento della follia.

Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia

La pellicola diretta da Sam Raimi è indubbiamente il film più particolare mai prodotto e apparso all’interno di una cinematografia Marvel finora sempre fedele ai propri schemi.

Descrivere questo prodotto è tutt’altro che semplice, in quanto la trama risulta essere molto lineare e quasi elemento di secondo piano nell’insieme del film.

Il film riparte esattamente dalla fine di Spider-Man No Way Home, continuando a narrare anche gli eventi accaduti in Wanda/Vision.

                                                                                                                                     

Viene introdotto il personaggio di America Chavez (Xochitl Gomez), fulcro degli avvenimenti narrati in quanto ha il potere di aprire portali che conducono in altri universi. Ed è per merito/a causa di questo potere che si ritroverà nell’universo 616 (lo stesso numero utilizzato all’interno dei fumetti per descrivere l’universo principale) dove incontrerà Doctor Strange (Benedict Cumberbatch).

Il regista però è poco interessato agli eventi che deve narrare: lo è molto di più a ciò che deve far vedere allo spettatore e a come lo vuole far vedere.

Attraverso un ritmo incessante, Raimi riesce a realizzare sequenze che raccontano il suo cinema da tutti i punti di vista: quel gore alle volte così diretto da spiazzare lo spettatore, altre camuffato ma impattante al tempo stesso; transizioni così maestose ma anche folli e straordinariamente creative, e citazioni che galvanizzano come non mai i fan delle opere a fumetti (e non solo).

La nuova pellicola sullo stregone supremo risulta avere una trama un po’ soffocata dal ritmo frenetico datogli dal regista, che aggiunge pochi tasselli all’enorme puzzle narrativo del MCU. Ma dato l’estro e l’autorialità di Raimi che confeziona un prodotto eccellente, per una volta ( e ci auguriamo molte altre) va bene così.

Moon Knight

L’ultimo prodotto seriale confezionato in casa Marvel era uno di quelli più attesi dal pubblico, data l’enorme potenzialità del personaggio.

Steven Grant (Oscar Isaac) è un timido ed impacciato addetto ai souvenir nel British Museum, la cui vita verrà presto sconvolta quando il mercenario Marc Spector e la divinità egizia della luna Konshu irromperanno nella sua quotidianità cambiandola per sempre.

Per analizzare la serie possiamo concentrarci su due aspetti: trama e protagonista.

Parlando della prima, all’interno del MCU si sta cercando di dare una scossa agli ormai più che decennali schemi narrativi o di infrangere alcuni dogmi.

Moon Knight riesce parzialmente in ciò, in quanto all’epoca della sua presentazione fu descritta come la serie più dark e violenta vista finora sulla piattaforma Disney. Le aspettative sono state soddisfatte per quanto riguarda la violenza, ma in tutto ciò ancora una volta è la narrazione a risentirne.

 

                                                                                                                    

Si ha una premessa narrativa interessante nei primi due episodi, che però va pian piano scemando nel corso della serie per chiudere con un finale davvero molto debole e che non lascia nulla allo spettatore – che sia qualche emozione o la curiosità di sapere l’evoluzione futura del personaggio.

Ben altro discorso va fatto per la prova attoriale di Oscar Isaac, il quale riesce con una naturalezza disarmante ad interpretare le varie personalità del personaggio protagonista della serie. Una performance che lo eleva a migliore attore protagonista di un prodotto seriale Marvel. La follia connaturata in Moon Knight e nella sua controparte Steven Grant/Marc Spector riesce a trovare la sua massima espressione proprio grazie alla sua interpretazione.

Insomma, Moon Knight si rivela un’enorme occasione sprecata dal punto di vista narrativo ma che è riuscita a cristallizzare l’ormai affermato talento di Oscar Isaac.

La follia è l’elemento centrale attorno a cui ruotano queste due nuove produzioni. Da un lato abbiamo quella visiva esaltata da Raimi, dall’altro quella mentale perfettamente interpretata da Oscar Isaac. Entrambi riescono egregiamente nel trattare con due modi diversi – ma entrambi validi -un tema tanto difficile.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Giuseppe Catanzaro

 

3 canzoni “rubate” da Jeff Buckley

Come diceva il grande Massimo Troisi ne Il Postino? «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve». Una massima che apre anche a noi comuni mortali – che poeti non siamo – il privilegio di attingere alla bellezza dell’universale poetico. Possiamo dire lo stesso di una canzone? Non è forse vero che certe melodie eterne, a dispetto del genio di chi le ha composte, sono piuttosto di chi riesce a portarne alla luce l’anima nascosta? Di chi riesce a rivelarne la bellezza incompresa, di chi presta corde vocali e talento a quell’arte che in quanto tale non ha diritti d’autore ma appartiene ad ogni uomo?

E’ questa la poesia di voci come quella di Jeff Buckley, cantautore degli anni ’90 morto a soli 30 anni, figlio di un altro grande artista: Tim Buckley. A 25 anni dalla sua tragica morte, avvenuta per annegamento il 29 maggio 1997, non vogliamo fare un torto al Buckley cantautore raffinatissimo, compositore di canzoni delicate e allo stesso tempo potenti come Forget Her, Everybody here wants you, Lover you should’ve come over. Preferiamo però ricordare il Buckley grande interprete – tra gli altri – di successi di mostri sacri come Led Zeppelin, Bob Dylan, Edith Piaf ( penso alla sua commoventissima rivisitazione di Je n’en connais pas la fin).

Ecco a voi 3 canzoni ( e potevamo sceglierne tante altre!) che il nostro ha meravigliosamente “rubato” ad altri artisti portandole sulle vette del capolavoro.

1) Mama you been on my mind: più di un tributo al grande Dylan

Ogni cantautore americano che si rispetti non può non misurarsi col grande Bob Dylan. Diversi sono i classici che Buckley ha reinterpretato nel corso della sua carriera anche durante i live, ma ce n’è uno della discografia dylaniana, inciso nel ’64 e rimasto inedito fino al ’91, che ha davvero fatto suo. Mama you been on my mind è una folk ballad su cui l’orecchio subito si adagia e si fa cullare, una melodia semplice e leggera nel tipico stile del menestrello.

La voce flautata e quasi sussurrata di Buckley e il riff acustico dell’intro, nella versione pubblicata su Grace Legacy Edition (2004), traghettano questa canzone del ‘64 fuori da ogni tempo, portandone a galla la delicatezza nascosta, quella che forse nemmeno Dylan che l’ha composta era riuscito ad afferrare

2)  I know it’s over: quando una rock ballad diventa poesia

Si può soffrire per una storia d’amore finita se in fondo non era mai davvero cominciata? E a chi confessare il nostro dolore quando non sappiamo in quale altro posto andare?

Se avessimo il talento di Johnny Marr e Steven Morrisey, rispettivamente voce e chitarra degli Smiths, gruppo rock degli anni ’80, comporremmo una canzone per ammettere “I know it’s over”. Rock ballad uscita nell’86,   l’omonimo brano del gruppo britannico è un mantello di note che avvolge l’ascoltatore col suo sound vellutato, in cui il basso fa da padrone, e lo trascina nel mood di chi si rassegna sentendo «il terreno cadere sopra la propria testa».

A dispetto delle parole cupe, nella versione degli Smiths ( per quanto bellissima) non avvertiamo realmente il “crac” del cuore spezzato.

Doveva arrivare Jeff Buckley per infondere al pezzo una malinconia inedita, quasi dark, nella sua versione live ai Sony Studios di New York. L’arpeggio di chitarra in stile Hallelujah apre qui una confessione sincera sostenuta dalla voce pulita e più acuta di Buckley, una confessione poetica che arriva più diretta alle orecchie di chi ascolta.

Il finale rabbioso, quasi urlato, sembra suggerire, a differenza della versione originale, che chi canta non vuole rassegnarsi e lasciarsi andare al corso delle cose.

3) Hallelujah: l’apoteosi di Buckley

Se vi diciamo che Jeff Buckley era di Orange County a cosa pensate? Ci siamo intesi: ad O.C., il teen drama per eccellenza che tra gli altri meriti ventava una colonna sonora alternative e indie rock d’eccezione.

Punta di diamante della soundtrack e canzone simbolo dell’amore tragico Ryan/Marissa, era proprio l’Hallelujah di Buckley, canzone che non a caso è un inno solenne all’unione tanto cercata e sperata con la donna amata.

Dire di Buckley e non di Cohen che è il vero autore ( e molti non lo sanno!) non è un caso. Perché quella dell’album Grace (1994) è a tutti gli effetti un’altra canzone che ancor meglio dell’originale – cantata su un tono più grave – trasmette la spiritualità con cui viene trasfigurata l’unione fisica tra i due amanti. E’ quel ritornello sussurrato, le corde della Telecaster che suonano prepotenti e cristalline ad una ad una che ci elevano in un sublime crescendo.

E poi l’esplosione commovente della voce di Buckley nel verso più bello: «l’amore non è una marcia vittoriosa, ma una fredda e spezzata Halleluja».

Quindi ciliegina sulla torta non poteva che essere lei: Hallelujah, la canzone che più di ogni altra appartiene veramente a Buckley. Dobbiamo forse ringraziare O.C. se la nostra generazione conosce questo classico di Cohen.

O forse dobbiamo ringraziare proprio lui: Jeff Buckley, una voce angelica, “messaggera” appunto della musica dei grandi all’alba dei primi 2000. A metà strada tra Robert Plant e Nina Simone, tra semplicità e sperimentazione, tra il folk “chitarra e voce” dei nostri nonni e il punk potente dei nostri padri, la musica di Jeff sembrava davvero provenire da un altro mondo, ineffabile, etereo: non trovava definizione. Useremo perciò le parole di Bono degli U2, che disse di lui:

“Era una goccia pura in un oceano di rumore.”

 

Angelica Rocca

 

 

Anna dai capelli rossi o Maria Chiara Giannetta?

Tutti sull’attenti quando passa il capitano Anna Olivieri, ruolo che ha consacrato Maria Chiara Giannetta attrice co-protagonista per la prima volta, che, grazie alla sua semplicità, simpatia e talento, è riuscita ad attenuare l’addio al capitano Tommasi (Simone Montedoro) in Don Matteo, facendo innamorare gli spettatori italiani.

“Il mio desiderio è intrattenere: conta cosa dirò”

Maria Chiara Giannetta è un’attrice italiana nata a Foggia il 20 maggio 1992 che, seppur amata e conosciuta, trova l’apice della sua notorietà nel nostro Paese nel 2021, grazie alla fiction Rai Blanca. Da sempre appassionata al mondo del teatro, comincia a fare spettacoli a livello amatoriale già dall’età di 11 anni, per poi iniziare ufficialmente a studiare recitazione, fino ad approdare al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma a 19 anni, conducendo in contemporanea gli studi in Lettere all’Università degli Studi di Foggia. 

Comincia ad ottenere i primi ruoli importanti in spettacoli teatrali, per poi apparire per la prima volta nella TV italiana proprio grazie ad una comparsa in Don Matteo nel 2014, senza sapere che qualche anno dopo ci sarebbe tornata da co-protagonista. 

Nel frattempo esordisce sul grande schermo con La ragazza del mondo nel 2016, senza mai abbandonare però la TV grazie a piccoli ruoli in fiction note quali L’allieva, Un passo dal cielo e Che Dio ci aiuti. 

Ciò che non vedono gli occhi…

Maria Chiara Giannetta in Blanca. Fonte: RaiPlay

“Ho imparato ad andare oltre le cose che vedo.”

Blanca è la nuova serie tv Rai di produzione Lux Vide e Rai Fiction, debuttante per la prima volta il 22 novembre 2021 su Rai 1 e disponibile ad oggi anche su Netflix.  Regina di ascolti del lunedì sera con oltre 5 milioni e mezzo di telespettatori a puntata, racconta la storia di Blanca Ferrando, una ragazza non vedente stagista in un commissariato di polizia a Genova, che ha perso la vista a soli 12 anni a seguito di un tragico evento, il cui ricordo la accompagna nel corso della sua quotidianità.

Nonostante la sua cecità, Blanca, accompagnata dal suo compagno di vita – nonché suo cane Linneo – ha un’enorme abilità nel risalire, tramite gli altri sensi sovrasviluppati, a casi irrisolti in campo poliziesco.

Per interpretare questo personaggio, Maria Chiara Giannetta ha seguito la consulenza di cinque tutor non vedenti affinché la facessero entrare in questo nuovo mondo, così da immedesimarsi al meglio nel ruolo di Blanca, rivelandosi una vera professionista.  Inoltre, la serie è stata girata interamente sotto la consulenza artistica di Andrea Bocelli.

Nello stesso periodo, su Canale 5 va in onda “Buongiorno Mamma“, la cui storia ruota intorno ad Anna (non il capitano). La protagonista, madre e moglie di Guido (Raoul Bova), è entrata in coma nel 2013 e da allora non si è più svegliata. Questo ha portato la famiglia a continui drammi e frustrazioni, ma a rimanere – nonostante tutto – sempre unita a lei.

Da universitaria al palco dell’Ariston

“E quante volte io per orgoglio non ho mai chiesto aiuto. Che stupida.”

Un po’ inaspettatamente, Maria Chiara Giannetta è ufficialmente entrata nel cuore di milioni di persone grazie alla sua presenza come co-conduttrice al 72esimo Festival di Sanremo.

Maria Chiara Giannetta a Sanremo 2022. Fonti: Rai, AP Magazine

Tra fanatismo e scetticismo, lei, così semplice, sorridente e spigliata, ha infranto ogni forma di pregiudizio nei suoi confronti, riuscendo a conquistare chiunque grazie alla sua comicità e umiltà, tratti messi in evidenza durante la quinta serata del Festival, soprattutto nel divertente dialogo che ha v isto protagonisti lei e Maurizio Lastrico (il PM in Don Matteo). I due hanno interpretano una coppia di innamorati gelosi ma infedeli: il tutto basato su testi di canzoni celebri della musica italiana, passando da Parole parole di Mina a Musica leggerissima di Colapesce e DiMartino.

Non è mancato il suo monologo, accompagnata dai “Guardiani di Blanca”( così chiamati da lei stessa: sono tutti coloro che l’hanno sostenuta e accompagnata durante il viaggio di Blanca), in cui racconta la sua evoluzione artistica all’interno della serie, e come, grazie ad essa, è riuscita a “vedere oltre le cose”. Ha toccato un argomento difficile, sensibile, ma con il suo grande cuore ha incantato chiunque la sentisse parlare.

Nonostante la giovane età e la poca esperienza, ha mostrato un elevatissimo grado di capacità, rivelandosi all’altezza e meritevole di stare sul palco del più grande Festival della musica italiana.

Ma oggi, quante volte dovrà tirarsi le orecchie?

Proprio oggi, 20 maggio 2022, Maria Chiara Giannetta spegne 30 candeline, e noi non possiamo che essere orgogliosi che sia, ad oggi, uno dei volti più celebri della televisione italiana. Nonostante i pochi anni di carriera, le auguriamo un futuro pieno di successi come quelli ottenuti finora ( o anche maggiori).

Da tutta la redazione UniVersoMe, buon compleanno Maria Chiara.

Nei secoli fedele, capitano!

Marco Abate

Dallas Buyers Club: quando l’amicizia vince sui pregiudizi

Un film che spiega il dramma dell’Aids tra autenticità e amicizia– Voto UVM: 5/5

 

Gli anni ’80 li conosciamo grazie a film come Flashdance, Stand By Me, Karate Kid e tanti altri che ci hanno fatto sognare e desiderare di vivere in quell’epoca fatta di capigliature voluminose, palette fluo, e sale giochi che si riempivano di bambini e ragazzi dopo il suono della campanella.

I mitici anni ’80, però, avevano un’altra faccia: quella dei pregiudizi e delle “malelingue”. Per il mondo si diffondeva per la prima volta la malattia dell’Aids, e con essa false credenze alimentate dall’ignoranza, tra chi pensava che fosse un virus che potevano contrarre solo gli  omosessuali e chi aveva paura di stringere anche solo la mano di un sieropositivo.

Dallas Buyers Club è un film uscito nel 2013 diretto da Jean-Marc Vallée, che vede come attori protagonisti i due premi Oscar Matthew McConaughey  e Jared Leto, che, grazie alle loro interpretazioni in questa pellicola, si sono portati a casa rispettivamente l’ambita statuetta di “miglior attore protagonista” e  quella di “miglior attore non protagonista”.

Qui i due attori racconteranno la vera storia del cowboy Ron Woodroof, malato di AIDS, costretto a curarsi da solo per via dei costi esorbitanti dei farmaci.

Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

L’amicizia che sfida i pregiudizi

Tra il 1985 e il 1986, nel sud del Texas si svolge la vicenda di un cowboy di nome Ron Woodroof (Matthew McConaughey), che conduce una vita allo sbaraglio tra droga, alcool e sesso non protetto. Infatti per via della sua incoscienza, (o della mancanza di conoscenza), contrae il virus dell’HIV e successivamente si ammala d’AIDS. Durante quegli anni, i malati di AIDS erano considerati dei veri e propri appestati, anche per la scarsità di informazioni che giravano attorno a questo nuovo virus. La sanità negli Stati Uniti – come sappiamo – è accessibile solo per coloro che hanno una buona assicurazione, perciò il cowboy deciderà di contrabbandare farmaci non approvati in Texas, per curarsi da solo, ma anche per aiutare le persone con la sua stessa malattia. Dopo poco tempo aprirà  il “Dallas Buyers Club” , sfidando l’opposizione della Food and Drug Administration.

“Avvocato, voglio un’ordinanza restrittiva contro il Governo e la FDA.”

Ron, all’inizio pensa che la diagnosi sia sbagliata: essendo omofobo, crede che l’AIDS sia una malattia che contagi solo i gay. Col passare del tempo, però, i suoi sintomi peggiorano: Ron finalmente accetterà  la sua malattia, ma perderà il proprio lavoro e tutti i suoi amici, giacché quest’ultimi pensano che sia gay.

Durante una delle proprie visite in ospedale, Ron conoscerà Rayon (Jared Leto), una transgender tossicodipendente e sieropositiva.

A sinistra Rayon ( Jared Leto) a destra Ron ( Matthew McConaughey) in una scena del film. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Rayon è un uomo, che ha sempre desiderato nascere in un corpo femminile, ma a causa della sua vita difficile non ha mai potuto cambiare il proprio sesso e così si sente imprigionato dentro un corpo che non riconosce.

Rayon: Signore, quando ci incontreremo voglio essere molto bella. Fosse l’ultima cosa che faccio. Sarò un bellissimo angelo.”

Nonostante all’inizio tra i due non corra buon sangue, per via dell’omofobia che condiziona il protagonista, da lì in poi nascerà un’amicizia senza confini, pura e vera. Col tempo Ron vedrà in Rayon l’unica vera amica che abbia mai avuto, la sola che gli è rimasta vicina mentre tutti gli avevano voltato le spalle. Assieme affronteranno l’atroce sofferenza dell’Aids, abbattendo i pregiudizi e aiutando le persone malate e abbandonate dal proprio Paese.

La forza dei legami umani

Matthew McConaughey e Jared Leto al momento sono tra gli attori più bravi in circolazione e, grazie al loro talento, riescono a dare dignità ai propri  personaggi, rendendoli unici, storici. Come hanno fatto con Ron e Rayon, due soggetti non facili da interpretare. Come fanno due attori a colpire così profondamente nell’anima rendendo il telespettatore partecipe del dolore dei due protagonisti?

Ci mostrano le sofferenze e la crudeltà dietro cui si nasconde l’ignoranza con un realismo che parla di dolori e di gioie, che trasmette il messaggio che, per quanto possa essere difficile una situazione, se hai qualcuno accanto a te sembrerà meno dolorosa. Questa è la meravigliosa forza intrinseca degli sforzi  umani, che si riaccende quando meno te l’aspetti, restituendo valore a ciò in cui non credevi più.

L’abbraccio fraterno tra Rayon e Ron. Fonte: Truth Entertainment, Focus Features, Good Films

Alessia Orsa

Clementino ritorna indossando la più famosa maschera napoletana

Clementino ritorna in grande stile, ma con il costume di un “pulcinella nero”– Voto UVM: 5/5

 

Napoli è quella terra dove le maschere popolano il territorio: basta girare ogni angolo per vedere  “volti” creati secoli fa. Troviamo Zeza, Don Nicola, Tartaglia e tanti altri che hanno fatto conoscere la terra “bianca e azzurra”, da tutti noi ammirata nei film di Sorrentino, nella bravura di attori come Totò, Massimo Troisi e Tony Servillo, nel mito di Maradona, che hanno reso Napoli una delle mete più belle e amate al mondo.

Proprio pochi giorni fa è ritornato sulle scene Clementino, ma con un altro volto: quello di Pulcinella, la maschera più amata nella storia del teatro. Dopo averci lasciato tre anni fa con Tarantelle, il 29 aprile il rapper ha pubblicato un nuovo album: Black Pulcinella.

Black Pulcinella( 2022)

“Contro i cantanti ca nun sann chell c’hann scritt
Copia incolla da motivazione.it
Indosserò una maschera non sai cosa c’è dietro” (Black Pulcinella)

La iena ritorna vestita di nero (qualcuno dice che sia il lato oscuro del rapper di Avellino, ma non è così). Ascoltando le nuove canzoni, possiamo ancora sentire e “osservare” la simpatia di Clementino, quella che ci ha fatto innamorare e apprezzare ancor di più la sua arte. La tracklist è composta da quindici brani, in cui Clementino non è solo: ad accompagnarlo ci sono tanti artisti come Rocco Hunt, Geolier, Nerone, che già in passato avevano lavorato con lui.

Il dialetto napoletano si mischia con il rap, le basi musicali sono accattivanti, le sinfonie ci trascinano e ci catapultano nel magico mondo dell’incoerenza. Il rapper, da perfetto sagittario, punta la sua freccia e la scaglia verso il finto perbenismo, che ormai la nostra società è costretta a subire ogni giorno. Ma in fondo – lo sappiamo – il nostro Cleme non ha peli sulla lingua.

E’ lui stesso a spiegarci che il suo nuovo lavoro si rifà al proprio modo di vivere la musica: già in passato si definiva un “black pulcinella”, per via della musica afroamericana che ha influenzato lo stile del cantante, facendolo divenire un “Pulcinella travestito di nero”.

 “In passato quando mi chiedevano «ma tu che genere fai?», spesso rispondevo «il Black Pulcinella» “

La musica – come la poesia, la scrittura e gli stessi simboli – esiste per esprimere a volte ciò che non si può dire nel linguaggio parlato. Anche Pulcinella è un simbolo: rappresenta Napoli, è il personaggio che si dice sia nato dentro il Vesuvio, altro elemento iconico della città.  Pulcinella è un mito, al pubblico regala solo sorrisi, ma la sua maschera nasconde quella malinconia di chi ha passato tanti guai durante la sua vita – così ha dichiarato anche il nostro artista.

Maschera di Pulcinella. © Alessia Orsa

Per questo l’album  è “the dark side of Ienawhite”, il lato “nero” di Clementino,  che ci mostra come tutti i mali sociali possano condizionare l’essere umano. Ci fa percepire anche il suo lato più fragile, ci fa entrare dentro la sua anima, mostrandone le insicurezze e le paure. Quindi Clementino ha un lato “dark”, da non confondersi col buio, col male che caratterizza i personaggi solitari alla Joker. Qui il pulcinella nero non è solo, ma accompagnato da altri rapper in feat. che rendono l’album “puro” e la purezza non ha niente a che vedere con l’oscurità.

“Iamm sott acqua Bombap tu nun respir compà
Ngop a nu palc bombard e po’ m circ pietà
Miettm nterr e contant” ( The dark side of Iena White)

Il rapper Clemente Maccaro, in arte “Clementino”. Fonte: flickr.com

 

L’ultimo capolavoro di Clementino non delude i suoi vecchi fan: il rapper non si è lasciato trascinare dallo stile commerciale che rende tutto finto e iper-velocizzato e che ormai siamo costretti a sorbire ogni giorno. Il Pulcinella Nero rimane fedele a sé stesso, regalandoci un’opera emozionale.

Alessia Orsa

 

 

Siamo tutti “fate ignoranti”. Il significato della nuova serie di Ferzan Özpetek

La nuova serie tv conferma la genialità di Özpetek nel narrare il mistero dell’amore e della vita e ci fa sperare in una seconda stagione. Voto UVM: 4/5

 

«Perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene» affermava una saggia Monica Vitti ne L’eclisse (1962). Se ci pensate bene, quando baciamo o abbracciamo lo facciamo ad occhi chiusi. Possiamo conoscere perfettamente l’altro, vedere nitidamente il suo volto quando ne siamo innamorati? O il sentimento forse si nutre soprattutto sul nascere di quella necessaria ignoranza che serve a tenere in piedi l’illusione? Amore e conoscenza sembrano due binari che non corrono paralleli, ma tutt’al più qualche volta si scontrano in quelli che sono imprevisti incidenti di percorso, momenti rivelatori in cui apriamo gli occhi e scopriamo che chi ci sta accanto nasconde più segreti di quanti pensiamo.

Proprio in questo scontro, si incrociano Antonia (Cristiana Capotondi) e Michele (Eduardo Scarpetta), persone apparentemente molto diverse, due treni che deragliano in seguito alla morte di Massimo (Luca Argentero). Sono loro i protagonisti della serie tv Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, lanciata il 13 aprile su Disney Plus e remake dell’omonimo film che lanciò la carriera del regista italo-turco.

“Tutti abbiamo un segreto …”

Per chi non avesse visto il film del 2001 con Margherita Buy e Stefano Accorsi, tracciamo brevemente delle coordinate. Antonia e Massimo sono una coppia felicemente sposata da 15 anni che vive una comoda esistenza borghese in una villa con tanto di giardino sul lago. L’equilibrio idilliaco quanto monotono si rompe nel momento in cui Massimo muore e la moglie lo perderà due volte scoprendo che da qualche tempo il marito aveva una doppia vita e intratteneva una relazione addirittura con un uomo, Michele.

Mossa inizialmente dalla tipica curiosità masochista della donna tradita di scoprire sempre di più, Antonia si ritroverà a frequentare Michele. Si affezionerà così a lui e al suo gruppo di amici stravaganti, una vera e propria famiglia che di rito si riunisce nei pranzi domenicali, una “piccola comunità arcobaleno” che si difende dal mondo esterno andando orgogliosa della propria diversità.

Ma chi sono le “fate ignoranti”?

C’è ancora la stessa storia fuori dalle righe nella serie del 2022, riproposta fedelmente anche in alcuni dialoghi, nelle situazioni, negli interni e nelle atmosfere che compongono gli universi distanti di Antonia e Michele (la villa dove lei conduce un’esistenza ovattata è praticamente identica: stessi toni grigi, stesso arredamento geometrico). Ma c’è anche molto di più (o di meno, secondo qualche detrattore).

A partire dagli attori perfetti anche nei volti per i ruoli che incarnano: abbiamo i tratti da dama rinascimentale della Capotondi a racchiudere la purezza della moglie ingenua. E poi gli occhi sporgenti, quasi disturbanti di Scarpetta che mettono in discussione le certezze della protagonista, la verve di Carla Signoris, nei panni della madre quasi ingombrante nella sua frivola joie de vivre. Uno su tutti: Argentero, col tipico sorriso da ragazzo della porta accanto, solare e affascinante benché poco acculturato. Ma non finisce qui.

Özpetek, insieme a Gianluca Mazzella (regista di alcuni degli otto episodi), si prende stavolta tutto il tempo per dipingere nei minimi dettagli l’intero affresco di personaggi che circonda il triangolo Antonia- Michele – Massimo, le cosiddette “fate ignoranti”.

 Luce vs ombra. Serie tv e film a confronto

Perché Massimo non aveva solo un amante, “aveva una famiglia, un intero mondo”. E qui questo mondo, più che nel film, emerge in tutta la sua gioia ed esuberanza, che si manifesta nella solarità, nei colori caldi di quella tavola imbandita ogni domenica a festa, che contrasta invece con le tinte fredde (anche nel vestiario) di Antonia. Sparite sembrano le ombre della discriminazione, dell’Aids che aleggiavano sulla casa di Michele nel film del 2001 (un personaggio “tragico” come quello di Ernesto viene eliminato dalla sceneggiatura). C’è più  luce, il dramma lascia il posto a toni comici per narrare la magia di un gruppo di amici che si alimenta di condivisione, feste (e anche di pettegolezzi).

Lo spettatore ha il tempo di conoscere Serra (Serra Yilmaz), Vera (Lilith Primavera), Luisella (Paola Minaccioni) , Annamaria (una sottovalutata Ambra Angiolini) e tutti gli altri, di cogliere il senso di famiglia che li lega, anche in rapporto a Massimo che questa famiglia la vive. Qui un’altra differenza fondamentale col film: conosciamo Michele e gli altri ancor prima dell’incidente che sarà il preludio della scoperta di Antonia. La relazione di Michele e Massimo, la seconda vita di quest’ultimo qui non è clandestina, ma corre in parallelo a quella coniugale, ha la stessa dignità, lo stesso diritto d’esistenza.

La doppia vita di Massimo. Nella serie le due scene sono praticamente sincroniche.

Forse i tempi sono cambiati e adesso Özpetek può raccontare con più leggerezza un mondo quale quello LGBT che prima si nascondeva ai margini della società. O forse, andando più a fondo, ci accorgiamo che le storie di Antonia e Michele si sviluppano in parallelo perché entrambi sono “fate ignoranti” ( nel senso proprio del termine “ignorare”). Ad entrambi i punti di vista manca “qualcosa”.

Loro che pensavano di poter confinare Massimo nella galassia sicura del proprio sguardo, si trovano a scoprire invece che la persona che amiamo è sempre e comunque un universo sconosciuto, una stella che continua a brillare di luce propria, anche quando non stiamo a guardarla.

“Per quella parte di te che mi manca e che non potrò mai avere” (dalla dedica di Michele a Massimo, che Antonia trova dietro il quadro)

 

 Angelica Rocca

I segreti di Silente: un altro flop?

Con un intreccio che fa acqua da tutte le parti, il terzo capitolo di “Animali Fantastici” non soddisfa le aspettative dei fan – Voto UVM: 2/5

I segreti di Silente arriva nei cinema dopo il poco convincente secondo capitolo della saga Animali Fantastici e dove trovarli, che ha fatto arrivare molti scettici in sala. È riuscito quindi a farci uscire soddisfatti?

La riposta è più no che si, purtroppo. Molti elementi risultano essere frutto di una gestione confusionaria, con personaggi ed intere sequenze poco rilevanti per lo sviluppo della trama. Risaltano invece la doti attoriali dei due veri protagonisti del film, Jude Law e Mads Mikkelsen, vere gemme della pellicola. Ma andiamo più nello specifico.

Il film parla ancora dello scontro “fratricida” tra Silente (Jude Law) e Grindelwald (Madds Mikkelsen). La loro lotta si sposta ora in campo politico: il mago oscuro sta infatti cercando di scalare le gerarchie del potere per scatenare la sua guerra contro i babbani. A Silente sta quindi il compito di fermarlo, con l’aiuto del suo gruppo.

Cosa non ci ha convinto de I segreti di Silente

I pregi in questo film non mancano: anche gli animali, dopo essere scomparsi nel secondo capitolo, tornano con un ruolo predominante in questo. Un grande aiuto è stato dato alla Rowling nella scrittura: dopo il secondo film era chiaro a chiunque infatti che la scrittrice non fosse la più adatta a scrivere sceneggiature, avendo esperienza solo coi romanzi. Il film infatti ha un ottimo ritmo e riesce a coinvolgere lo spettatore.

Sebbene quindi ci siano note positive ne I segreti di Silente, non riusciamo a promuoverlo del tutto, per degli errori molto evidenti che nascono dalla cattiva gestione della saga in toto: anche questo film infatti non è nient’altro che un riempitivo e la sensazione generale che si ha è che sia servito di fatto solo ad aggiustare ciò che di critico vi era stato nel secondo capitolo.

Molti personaggi diventano estremamente secondari se non veri e propri figuranti che, se eliminati, non avrebbero avuto effetto sullo sviluppo dell’intreccio. La stessa cosa succede a molte sequenze per cui ci siamo ritrovati a sperare che finissero il prima possibile affinché la trama andasse avanti.

Jude Law in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Anche i motivi stessi per cui la trama va avanti sono costruiti su un castello di carte. Badate bene, l’intera saga di Harry Potter non ha mai brillato nella scrittura delle sue parti strettamente politiche, ma in questo film si raggiungono assurdità quasi ridicole.

Secondo la tradizione, l’elezione del Capo Supremo del mondo magico avviene in questo modo: il candidato prescelto sarà quello davanti cui si inchinerà il qilin, sorta di creatura magica capace di discernere i puri di cuore.  Ma chi di voi alla fine darebbe il potere ad un puro di cuore? E come si fa a trovare sempre quel puro di cuore, nel corso della storia del mondo magico, tra i candidati delle varie fazioni? La lungimiranza non è di casa neanche nella politica del nostro mondo – sia chiaro – ma almeno dalle nostre parti, sembra che tutto si “riesca a tenere in piedi”.

Parlando poi anche delle azioni dei buoni, il piano messo in atto per combattere un nemico che conosce in anticipo le mosse (Grindelwald ha il potere di prevedere il futuro) è si dichiaratamente un “non piano”, ma ciò arriva a discapito della comprensione generale. Lo spettatore che si ritrova sballottato da una parte all’altra e a “dover dare tutto per buono”. Ingaggiare un “non mago” per combattere un mago oscuro ha senso? Beh, se il capo dice di sì, allora va bene!

Cosa salviamo de I segreti di Silente

Insomma l’impalcatura del film non riesce a reggersi del tutto sulle sue gambe, ma è capace invece di farti interessare al legame tra Silente e Grindelwald. I due attori hanno una chimica incredibile, riescono benissimo a trasmettere il legame tra i due personaggi, soprattutto all’inizio e sul finale in cui interagiscono e comunicano tra loro e allo spettatore solo con gesti e sguardi.

Jude Law e Madd Mikkelsen nei panni di Silente e Grindelwald. Fonte: Warner Bros.

Dopo due capitoli che risultano riempitivi ed un primo che serviva solo a tastare le acque, possiamo quindi aspettarci un miglioramento nei prossimi film, sperando che gli sceneggiatori colgano gli errori dei precedenti.

Rimane comunque un peccato che il primo pensiero dopo la visione di un film sia: speriamo che il prossimo, adesso, sia migliore.

Matteo Mangano

Tra mistero e luci rosse: cosa è andato storto in Élite 5?

Classico esempio di serie tv di successo portata avanti perché fa tendenza, sebbene le idee sembrano essere terminate – Voto UVM: 2/5

 

Élite, serie tv targata Netflix, è una delle produzioni di maggior successo degli ultimi anni. Uscita per la prima volta nel 2018, è entrata subito nel cuore della gente.

È la tipica serie adolescenziale, ma arricchita di crimini e misteri che avvengono all’interno del liceo d’élite più famoso di Spagna e nelle vite dei protagonisti, attorno a cui ruota la trama di ogni stagione.

Inoltre, tratta temi sociali importanti quali le dipendenze dalla droga e dal sesso, l’ossessione compulsiva, il razzismo, la ricerca della propria sessualità, ma anche la disuguaglianza economica e la fede religiosa, il tutto sul filo di un grande valore ricorrente: l’amicizia

Giallo ed erotismo a Las Encinas

La stagione inizia con il caso irrisolto di Armando de la Ossa, ucciso nel finale della quarta stagione durante la festa di capodanno di Philipe (Pol Granch): ciò che sembrava essere ormai passato, è tornato letteralmente a galla.

Anche questa volta i produttori decidono di lasciarci sulle spine fin dal primo episodio, mostrando scene di una nuova apparente morte. L’identità della vittima verrà svelata solo nelle ultime puntate, sebbene la storia venga lasciata in sospeso e con l’evidente intento di proseguire la serie con la sesta stagione già confermata.

Ma durante tutta la stagione, lo spettatore non è rimasto “a bocca asciutta”:  non sono mancate relazioni tossiche – a tratti passionali – e scene erotiche, che non sembrano più essere un tabù. Il tutto, però, risulta un po’ forzato, come se si volessero accontentare i fan di una serie priva colpi di scena, ma anzi molto prevedibile.

Samuel (Iztan Escamilla), Ari (Carla Diaz), Ivàn (André Lamoglia) e Patrick (Manu Rios). Fonte: NerdPool

New entry: promosse o bocciate?

Non mancano certamente le new entry, pronte a sconvolgere la storia e con l’intento di conquistare il grande pubblico. Ci sono riuscite?

Si tratta di Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia): rispettivamente “l’imperatrice di Ibiza”, ereditiera e proprietaria di molti locali dell’isola, e il figlio di un famoso calciatore.

Entrambi portano scompiglio nella vita dei protagonisti e, tra orgoglio e confusione, risulteranno quasi odiosi all’occhio dello spettatore. Ma alla fine dei conti, si sa, a tutto c’è un perché: lo script approfondirà i loro personaggi man mano, rendendo la loro immagine più limpida, e riuscendo quindi a farli piacere a chi li guarda.

Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia). Fonte: SpettacoloFanpage

The show must go on: Élite 6 confermata

Nonostante sia diventata piatta e banale, il nuovo delitto irrisolto stavolta riguarderà uno dei protagonisti che ci accompagna dalla prima stagione: per cui è proprio il caso di dirlo: lo spettacolo deve andare avanti.

Ad attenderci, però, sarà un cast del tutto nuovo (o quasi) i cui ruoli sembrano essere già stati assegnati, seppur ancora senza alcuna conferma da parte dei sospetti nuovi attori.

A quanto pare, le riprese per la nuova stagione inizieranno a breve a Madrid, mentre la sua uscita è prevista nel corso del 2023. Non ci resta che attendere!

Like o dislike?

Come già detto, la serie sembra continuare per il gusto di cavalcare l’onda del successo, che in ogni caso arriva puntuale tutti gli anni. Infatti, a poche ore dalla sua uscita, Élite 5 è subito entrata nella top ten delle serie più viste del momento nel mondo, a conferma del fatto che i suoi episodi riescono a fare tendenza nonostante gli anni che passano e i vari cambiamenti.

C’è meno adrenalina e le aspettative sono ridotte, d’altronde è raro che una serie tv rimanga bella, originale e appassionante come per la prima stagione, ma questo è uno dei casi estremi.

La trama sembra essere incentrata solo su un tema – o meglio – su più temi strettamente collegati tra loro: sesso, droga, feste e crimine.

Senz’altro ormai si vive Élite per sapere come andrà a finire, con la speranza, però, che nella sesta stagione ci sia una nuova impennata di qualità.

 

Marco Abate

 

Peaky Blinders 6 è davvero l’ultimo atto di Thomas Shelby?

Un finale di serie dai ritmi un po’ lenti ma che permette di completare l’identità di tutti i personaggi di Peaky Blinders – Voto UVM 4/5

 

 

“Ero arrabbiato con il mio amico:
glielo dissi, e la rabbia finì.
Ero arrabbiato con il nemico:
non ne parlai, e la rabbia crebbe.”

È con questi versi, tratti da “L’albero del veleno” di William Blake, che ha inizio un nuovo capitolo di vita per Thomas Shelby (Cillian Murphy). Siamo nel 1933 e il proibizionismo viene abrogato dopo quattordici anni dalla sua attuazione. Tommy è ormai un uomo diverso. Ha abbandonato il whisky – che prima utilizzava per proteggersi dal dolore e dal freddo – ritenendolo ora colpevole dei moti rumorosi dentro la sua testa.
Per la prima volta nella sua vita si mette in dubbio, cercando di far pace con tutti i fantasmi del passato.

Tommy Shelby – Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd, © Matt Squire

Thomas Shelby: Dio, diavolo o comune mortale?

“È vero, io non sono Dio. Non ancora.”

Per quasi cinque stagioni, abbiamo osservato il delirio di onnipotenza di un giovane Tommy in continua ascesa, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere il tanto bramato potere. Da sempre per lui, ogni catastrofe è stata un’opportunità per ricominciare. Ma in questa stagione c’è qualcosa di diverso. Tommy, ormai visto da tutti – in particolar modo da Michael (suo nipote) – come il diavolo in persona, diventa vulnerabile. In seguito a una serie di traumi, cerca la redenzione dei suoi peccati e prova ad essere un uomo migliore, per sé e per chi gli sta attorno.

“Non sono il diavolo…ma solo un comune uomo mortale.”

Solo nel finale di stagione Tommy ritrova la fede, in Dio, e soprattutto in sé stesso come figura quasi immortale.

 Un obbligato ritorno alle radici per i Peaky Blinders

Dopo che il regista della serie Steven Knight, ha cercato in ogni modo di convincere tutti sulla veridicità degli eventi soprannaturali, il finale di quest’ultima stagione ha finalmente confermato che ogni maledizione e ogni previsione sul futuro erano reali.

Le visioni che hanno accompagnato “il capo della famiglia Shelby” per tutto questo tempo non sono state semplicemente il risultato del suo disturbo da stress post-traumatico. I fantasmi in Peaky Blinders esistono e sono sempre esistiti.

“Ma tu devi seguire le voci che senti, dargli ascolto, devi fare ciò che dicono.” (Il fantasma di Grace a Tommy)

Thomas e il fantasma di Grace. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

Se in passato è stato il fantasma di Grace (Annabelle Wallis), la defunta moglie, a guidare Tommy, sostenendolo quando nessuno lo ascoltava, in questa stagione sarà la zia Polly ad apparire in sogno sia a lui che al figlio Michael (Finn Cole).

Non dobbiamo infatti scordarci che la famiglia Shelby è di origine irlandese-rom. Thomas e i suoi fratelli hanno sangue rom da parte di entrambi i genitori, mentre Polly Gray (Helen McCrory) è la figlia della “principessa gitana”. Sarà proprio in assenza di quest’ultima che Thomas, sarà costretto a fare i conti con quella tradizione che ormai per troppo tempo aveva rinnegato.

Peaky Blinders: il mondo tra le due guerre

Fin dalla prima stagione, la serie ha esplorato l’impatto devastante della Grande Guerra sui personaggi. Accanto alle lotte contro nemici sempre pronti a minacciare la loro posizione di potere, Tommy e il fratello Arthur (Paul Anderson) combattono un’altra guerra contro i loro demoni interiori. Tentano di superare i traumi della guerra utilizzando alcolici e oppiacei come meccanismo di difesa per rimanere a galla.

Siamo nel 1933 e, con la nomina di Adolf Hitler a cancelliere, comincia l’ascesa del nazismo. Sarà proprio sulle note della struggente Blackbird che assisteremo a una scena di violenza nei confronti di Ada Shelby (Sophie Rundle), sorella di Tommy e vedova del comunista Freddie Thorne (Iddo Goldberg), colpevole di essere la madre di una bambina nera e di un figlio per metà ebreo, oltre che lei stessa una zingara. Le immagini ci mostrano come il fascismo bussi ormai anche alle porte dell’Inghilterra. “Merito” di Oswald Mosley (Sam Claflin), fondatore nel 1932 dell’Unione Britannica dei Fascisti, formazione politica di estrema destra, vicina al Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini.

Da una parte, dunque, vedremo le conseguenze di quanto iniziato da Oswald Mosley nella quinta stagione, dall’altra approfondiremo il viaggio interiore dei fratelli Shelby, ancora fortemente provati dalla Prima Guerra Mondiale.

“Stop al fascismo” in Peaky Blinders. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

…è davvero tutto finito?

L’ultima stagione della serie, che ha già debuttato nel Regno Unito su BBC One il 27 febbraio, arriverà in Italia sulla piattaforma Netflix il 10 giugno 2022. Inoltre, il regista che ha già confermato le riprese di un film, previste per il 2023, sembra non aver ancora intenzione di abbandonare l’universo dei “fo***ti Peaky Blinders”!

“Vedremo ancora la Gran Bretagna tra le due guerre. Scopriremo come il primo conflitto non sia stato d’insegnamento e come sia semplice ricadere negli stessi errori. Vedremo anche la fine dell’Impero: entreremo nella Seconda Guerra Mondiale e mostreremo quanto sia stata devastante. Ho rivisitato la storia che racconteremo, e andremo anche oltre la fine del conflitto. Voglio andare avanti, voglio vedere come procederanno le vicende narrate.” (Steven Knight)

 

Domenico Leonello