Prisma: verso l’infinito spettro di colori

 

Prisma è una serie che brilla: di colori, di contemporaneità, di sensibilità, di nuove consapevolezze e di una realtà che amplia la visione nel suo insieme. – Voto UVM: 3/5

 

“Solo quando ci si sente pronti ad affrontare il mondo che tanto fa paura, si può spiccare davvero il volo e bisogna avere il coraggio per farlo. Perché, in fondo, tanti muri, vengono alzati dalle paure, non realmente da chi sta intorno”.

Non c’è incipit migliore per poter iniziare a parlare di Prisma, dal 21 settembre disponibile in otto episodi su Prime Video. La serie tv è stata presentata in anteprima mondiale, fuori concorso, al 75° Locarno Film Festival. Nata da un’idea di Ludovico Bessegato, già regista di Skam Italia e dalla sceneggiatrice e scrittrice Alice Urciuolo. Però l’autore ci tiene a fare una premessa: Prisma non è un semplice teen drama, è molto di più!

Da sinistra: Ludovico Bessegato e Alice Urciuolo, creatori di Prisma. Fonte: Amazon Prime Video.

Di cosa parla?

Ambientata a Latina, in provincia di Roma, è incentrata sulle dinamiche di vita di Andrea e Marco; due gemelli, identici ma al tempo stesso diversi, in ogni particolare, persino nello sguardo o nel sorriso. Entrambi interpretati magistralmente dall’attore emergente Mattia Carrano. I due sono profondamente diversi: Andrea è quello più estroverso, più casinista e ad un primo impatto più superficiale, uscito da poco dalla relazione con la sua ex, Micol. Marco, invece, è più timido e contrariamente al fratello è più impacciato nei confronti delle ragazze nonostante sia interessato a Carola (Chiara Bordi).

Ma c’è un’altra importante differenza che rende la trama ancora più interessante. Andrea è stato sospeso l’anno precedente, e successivamente bocciato, poiché scoperto a vendere illegalmente marijuana che, nonostante tutto, continua a vendere per poter guadagnare qualcosa. Mentre Marco, pur essendo stato vittima di un brutto incidente domestico al braccio, continua a praticare nuoto a livello agonistico.

Perché Prisma?

Il titolo scelto per la serie non è casuale. Il prisma ottico scompone la luce che, quando fuoriesce, si dirama nei sette colori dell’arcobaleno. E non è un caso che ogni puntata abbia proprio il nome di questi colori, quasi come se il protagonista si scomponesse alla ricerca di sé per poi ritrovarsi. Ma il termine “prisma” si riferisce anche alla fluidità di genere e alle sue mille sfumature, ai riverberi, a quei riflessi di luce abbagliante con i quali, quotidianamente, gli adolescenti si trovano a fare i conti. Non sono stati tralasciati nemmeno quei brevi e intensi momenti: quegli attimi, apparentemente vuoti, in cui ognuno di noi è sicuramente in grado di riconoscersi.

Durante gli otto episodi, attraverso una serie di flashback, tra comfort zone e safe space dove le inquietudini trovano pace, la tematica fondamentale è il percorso di scoperta dell’identità di genere di Andrea: il gemello che ad un primo impatto risulta essere il più estroverso e spavaldo ma così non è.

Mattia Carrano interpreta Andrea in una scena della serie tv. Regia: Ludovico Bessegato. Distribuzione: Amazon Prime Video. Fonte: birdmenmagazine.com

 

Esattamente come in SKAM ritornano le chat di Instagram e WhatsApp, le stories, i post, i messaggi vocali e i video girati con gli smartphone. Per sottolineare ancora una volta quanto ormai i social media siano parte integrante della vita della generazione Z. La serie televisiva include anche una nuova canzone firmata da Achille Lauro che appare in uno degli episodi, con un breve cameo, interpretando sé stesso. Sempre tramite cameo ci viene presentato Francesco Cicconetti, influencer transgender, tra i maggiori divulgatori LGBTQ+ attivi su Instagram.

La serie si propone come quello spaccato perfetto per trattare una molteplicità di temi sensibili: l’universo LGBTQ+, l’integrazione razziale, la disabilità, il sesso, l’inclusività e gli scontri generazionali tra genitori e figli. Tematiche affrontate in maniera del tutto reale. A tratti sembra quasi di essere catapultati all’interno di una qualsiasi giornata di un adolescente. Privilegiato dagli autori è, infatti, un linguaggio alla portata di tutti. Diretto ma senza troppe forzature ed estremante delicato che mai cade nel banale o nel ridicolo.

Prisma: verso l’infinito spettro di colori

Cos’altro dire se non che Prisma è una serie che brilla. Brilla di colori, di contemporaneità, di sensibilità, di nuove consapevolezze e di una realtà che, anche attraverso una foto sfocata o un grandangolo, amplia la visione nel suo insieme. Fatevi un regalo e guardatela!

 

Giorgia Fichera

Dante: un road movie diretto da Pupi Avati

Favola, umanità e redenzione. Il tutto condito dallo stile classico e raffinato del cinema italiano – Voto UVM: 5/5

 

Il nome di Pupi Avati riporta alla mente dei cinefili più navigati i titoli di “Regalo di Natale” (1986) e di “La casa delle finestre che ridono” (1976) che tra le innumerevoli splendide opere del regista (la bellezza di 53 titoli nella sua carriera) spiccarono nel cinema italiano il primo per lo stile narrativo di storie di attualità e dramma, il secondo per il personale gusto orrorifico.

Ma… quale direzione avrà voluto intraprendere Avati per raccontare la vita di una figura tanto imponente come quella del poeta Dante Alighieri? Partiamo dalla trama.

Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Il viaggio di Boccaccio

Alla sceneggiatura troviamo lo stesso Avati, il quale adotta una formula alquanto interessante e semplice: la storia segue il viaggio di Giovanni Boccaccio (interpretato da Sergio Castellitto) verso Ravenna, dove morì l’esiliato Dante Alighieri (il giovane Dante è interpretato da Alessandro Sperduti, mentre quello anziano da Giulio Pizzirani). Dopo ogni tappa o ricordo di Boccaccio giungeranno flashback sulla vita del Sommo Poeta grazie ai quali avremo modo di conoscere le sue sventure, gli incubi e i sogni ad occhi aperti.

L’incarico di Boccaccio è quello di consegnare 10 fiorini alla figlia di Dante, Beatrice (Valeria d’Obici), per risarcire simbolicamente la famiglia Alighieri per l’esilio al quale il poeta fu costretto – come la sua biografia ci insegna.

Inoltre, lo stesso racconto è stato pubblicato nel libro “L‘alta fantasia – Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” scritto dal regista stesso.

Beatrice (Valeria d’Obici) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Alla scoperta del “Prescelto”

Tra una tappa e l’altra, Boccaccio mostra costantemente un’immensa devozione per il Maestro che avrebbe sempre voluto incontrare di persona. Durante il suo viaggio viene a scoprire vari dettagli sulla sua vita. Grazie gli incontri che farà, verrà a conoscenza della sofferenza che subì Alighieri a causa dell’esilio e della sua ossessione per la sua opera più grande, quella che gli avrebbe permesso di riscattarsi, ottenere il titolo di poeta laureato e tornare alla sua amata Firenze.

Per non scadere in una semplice biografia celebrativa, Avati ha deciso di raccontare di un Dante Alighieri umano, quindi con i suoi peccati, le sue vergogne.  Ad esempio, dopo la vittoria nella battaglia di Campaldino, lo ritroviamo a saccheggiare i corpi dei soldati e poi a concedersi le grazie delle donne dei caduti, nonostante sia sposato con Gemma Donati (quella giovane è interpretata da Ludovica Pedetta, mentre quella anziana da Erika Blanc). Vedremo anche il rapporto di amicizia con Guido Cavalcanti (Romano Reggiani) che affiancherà il poeta fino alla sua scelta di ottenere il ruolo di priore.

L’autore della pellicola ha voluto anche trovare dei collegamenti tra il passato – la linea temporale di Dante – e il presente di Boccaccio. In particolare, una bambola posseduta dall’amata di Alighieri, Beatrice (Carlotta Gamba), arriva, tramite una mercante, nelle mani di Boccaccio, intenzionato a regalarlo alla figlia più piccola.

Dante Alighieri (Alessandro Sperduti) in una scena del film. Regia: Pupi Avati. Casa di produzione: Duea Film, Rai Cinema, MG Production. Distribuzione in italiano: 01 Production.

Tra sogni e realtà

Durante la visione del film, ho trovato interessante la fotografia e la composizione delle inquadrature che caratterizzano i due filoni temporali e i sogni del Sommo Poeta.

Nella maggior parte delle scene i soggetti sono posizionati al centro. I colori sono slavati e tendenti al giallo quando ci troviamo nel tempo passato, proprio come se stessimo leggendo da una pergamena; mentre al tempo di Boccaccio i colori sono poco più naturali e l’ambiente brilla sotto la luce del sole come se ci trovassimo in una favola.

L’unica eccezione a questo “centralismo” delle inquadrature è costituita dall’unica figura di potere in tutta l’opera di Avati: il papa Bonifacio VIII (Leopoldo Mastilloni). Le posizioni laterali costringono l’occhio a spostarsi ai lati. Infatti, secondo le regole compositive, questa scelta indica tipicamente potenza, la stessa potenza con cui si scontrerà il Nostro Poeta.

Infine, vorrei menzionare una scena. Avati è un esperto di cinema horror (vi consiglio fortemente la visione della già citata Casa delle finestre che ridono) ed è riuscito a imprimere l’angoscia tipica del suo cinema in un incubo ad occhi aperti di Dante che immagina a modo suo la morte di Beatrice. Sorvolo sui dettagli così da invogliare il lettore alla visione di questo interessante prodotto italiano.

In conclusione

Raccontare la vita di uno dei più importanti poeti al mondo non è di certo un’impresa facile. Eppure, abbiamo alla direzione un pezzo da novanta del cinema italiano. Ciò che ha fatto Pupi Avati è stato quello di rendere quanto più fruibili i punti cardine della vita di Dante Alighieri a un pubblico che potrebbe disconoscerli. Consiglierei la visione anche a chi non ricorda bene (o non ha ancora studiato) la vita del poeta, sicuramente dopo avrà dubbi e lacune che lo porteranno ad approfondire la sua vita (cosa buona e giusta!).

Per di più, a fare da condimento, ritroviamo un impatto visivo davvero forte e allo stesso tempo raffinato che sicuramente apprezzeranno coloro che il cinema lo amano, anche senza conoscere (a loro discapito) la vita di uno degli uomini che hanno contribuito alla nascita della lingua italiana.

 

Salvatore Donato

5 canzoni di maggior successo per i 50 anni di Eminem

Oggi compie gli anni un gigante del rap americano, ossia Eminem (al secolo Marshall Bruce Mathers III). Conosciuto anche dietro lo pseudonimo di Slim Shady, nasce a Detroit il 17 ottobre del 1972.

Nel corso della sua vita ha collezionato una serie di riconoscimenti, uno fra questi il premio Global Icon in occasione degli MTV Europe Music Awards nel 2013. In parallelo alla sua attività come rapper, Eminem si è affermato anche come produttore di album hip hop, producendo artisti attraverso la propria etichetta discografica, la Shady Records, fondata con il suo manager Paul Rosenberg. Ripercorriamo la sua carriera attraverso cinque sue canzoni che più hanno segnato il panorama musicale!

1) Lose Yourself (2002)

Non si può non cominciare da quella che è considerata a tutti gli effetti, la canzone più iconica della carriera di Shady. Estratta come singolo da Music from and Inspired by the Motion Picture 8 Mile, è stata la colonna sonora del film 8 Mile, basato sulla sua vita personale. Per 12 settimane rimase al primo posto nella classifica singoli di Billboard ed è stato anche al primo posto di varie classifiche mondiali.

Il testo è chiaramente la rappresentazione del personaggio che incarna il rapper, Jimmy “Rabbit” Smith Jr.

Nella prima strofa viene riassunta per buona parte la trama del film, mentre nelle altre due vengono descritti avvenimenti non presenti poiché probabilmente è ciò che accade nella vita di Rabbit/ Eminem dopo la storia raccontata in 8 Mile.

La canzone è un incoraggiamento a non abbattersi di fronte alle difficoltà della vita, continuando a perseguire i propri sogni anche quando ci sembrano impossibili da realizzare.

2) My Name Is (1999)

“Hi kids! Do you like violence?”

Altro singolo iconico, probabilmente il più dirompente nella carriera del rapper di Detroit, contenuto nell’album The Slim Shady LP che arrivò a vendere oltre 18 milioni di copie in tutto il mondo. Nel brano, Eminem si presenta con la maschera del suo alter ego Slim Shady, sputando in rima un insieme di frasi politicamente scorrette e oscenità, tratto essenziale del personaggio che ha costruito nel tempo, elemento ricorrente tra l’altro nei primi dischi della sua carriera.

A causa del carattere fortemente esplicito dei testi originari, la versione ufficiale del brano ha subito forti rimaneggiamenti. Il brano ha permesso al rapper di ottenere il il primo Grammy Awards nel 2000, vincendo nella categoria di Best Rap Solo Performance.

3) Stan (2000)

Uno dei brani più interessanti e al tempo stesso controversi, Stan è estratto dall’album The Marshall Mathers LP in cui il rapper, attraverso l’occhio di un fan accanito (di nome Stan appunto), riflette sull’attaccamento morboso di quest’ultimo nei suoi confronti. La canzone vanta la collaborazione della cantante Dido, che fornisce un valore aggiunto. Inoltre, la base in sottofondo è tratta da un campionamento di una canzone della stessa Dido, ossia Thank You.

Lo storytelling di Stan rappresenta ciò che accade spesso a moltissimi fan di un qualsiasi artista che – prima della fama -abbia vissuto situazioni di difficoltà simili a quelle dei suoi seguaci. I fan rimangono talmente ossessionati da tale figura poiché lo vedono come una sorta di punto di riferimento, che li porta a cercare di somigliare al proprio idolo il più possibile, toccando purtroppo il limite del patologico.

Grandiosa anche l’interpretazione di Eminem, che rappa con una voce più “giovanile” e nasale le strofe di Stan, mentre l’ultima strofa (in cui interpreta se stesso) è eseguita in maniera più naturale.

4) Not Afraid (2010)

Certamente Eminem lo ricordiamo per le controversie scatenate da molte sue canzoni (Kim, Without Me, Kill You, White America e molte altre), ma nel corso della propria carriera il rapper si è evoluto verso forme più introspettive e moderate rispetto agli esordi. Not Afraid, contenuta nell’album Recovery, rappresenta una vera e propria presa di posizione rivolta all’affrontare con coraggio questioni delicate, tra cui la terapia per contrastare la tossicodipendenza, di cui Shady era vittima.

Tra i propositi che più si evincono, vi è la promessa di rimanere fedele alla sua professione musicale perché – come lo dice lo stesso rapper – è “sposato con il gioco”. Egli esprime questo sentimento non solo in termini di continuare a fare musica in generale, ma anche canzoni che siano un autentico riflesso di chi è come individuo.

Tutto ciò lo vediamo nel video musicale, dove predominano momenti in cui l’artista cerca di fuggire dal suo passato e sul finale, finalmente, la rivalsa espressa attraverso un frame in cui il rapper guarda tutta la città dall’alto, vittorioso.

5) Rap God (2013)

 “Why be a king when you can be a God?”

Concludiamo questa disamina con Rap God, tratto da The Marshall Mathers LP2. Forse è la canzone in cui il rapper dà pieno sfogo della sua tecnica eseguendo barre intrise di punchline, rime e una serie di parole concatenate tra loro. Infatti, il brano è entrato nel Guinness dei primati con il maggior numero di parole pronunciate, ovvero 1.560  in 6 minuti e 4 secondi, con una media di 4,28 parole al secondo. Vanta anche un extrabeat in cui Eminem rappa 97 parole in 15 secondi.  
Insomma, tra successi e controversie, non potevamo che concludere con questa canzone per celebrare tutto il mostruoso talento del rapper più iconico degli anni 2000. Buon compleanno, Rap God!
Federico Ferrara

C@ra++ere s?ec!@le: il nuovo disco da record di thasup

Eccentrico, autentico ed introspettivo: un album capace di trasportare in un mondo parallelo chi lo ascolta – Voto UVM: 5/5

 

A tre anni dall’enorme successo del disco d’esordio 23 6452, thasup (pseudonimo di Davide Mattei) torna a dominare il panorama musicale italiano con c@ra++ere s?ec!@le, il secondo album in studio disponibile dalla notte del 30 settembre scorso, già disco d’oro e primo in classifica nella Top Albums Debut Global di Spotify.

L’inconfondibile talento romano classe 2001 aveva già iniziato a creare hype tra i fan questa estate, dapprima con l’uscita a luglio del singolo s!ri, in collaborazione con Lazza e Sfera Ebbasta, ed in seguito attraverso una curiosa strategia di marketing messa in atto qualche mese fa, affiggendo per le strade di Roma e Milano degli inequivocabili cartelloni pubblicitari, che lasciavano presagire l’imminente ritorno artistico del producer.

 

Ad inaugurare questo secondo capitolo della sua strepitosa carriera, due speciali eventi: l’installazione di una coinvolgente escape-room a tema nel Ticinese, e l’organizzazione di un release party gratuito per i seguaci più fortunati, ai quali è stata offerta l’imperdibile occasione di ascoltare i brani del nuovo disco in esclusiva.

Se il misterioso artista di Fiumicino, infatti, finora si era solo manifestato attraverso l’iconico avatar in stile cartoon dalla felpa viola e l’aureola in testa, la sera del 29 settembre, thasup ha deciso di abbattere ogni barriera che lo separava dai fan, esibendosi nel suo primo live in assoluto, portando in anteprima sul palco del Fabrique di Milano le 20 tracce che compongono c@ra++ere s?ec!@le.

Dal debutto ad oggi: l’evoluzione

Avendo alle spalle un disco quadruplo platino, dal sound estroso e innovativo, che nel novembre 2019 aveva completamente rivoluzionato lo scenario urban italiano, il tentativo di realizzare un sequel all’altezza di 23 6451 rappresentava una sfida tanto stimolante quanto complessa, per il giovane thasup. Eppure, ancora una volta, il suo genio lirico e strumentale è riuscito a sorprenderci, dimostrandosi all’altezza di un’artista multiforme e trasversale, in grado di evolversi e maturare, sia nella creatività che nella scrittura, senza però abbandonare o trascurare la propria vera natura.

Da un lato, infatti, l’artista ritorna mutando alcuni aspetti della propria musica, e lo fa a partire dal nome d’arte (da tha Supreme a thasup). Rispetto al precedente, il nuovo disco presenta un po’meno trap e più chitarra, offrendo così una sonorità più leggera, che ricorda molto quella del mondo dei videogames e che consente di immergersi in quell’atmosfera vivace – e a tratti teatrale – che caratterizza per intero la sua nuova opera.

Dall’altro, invece, emerge una certa coerenza all’interno della produzione di thasup, che traccia una sorta di linea di continuità tra il primo ed il secondo disco, aventi entrambi lo stesso numero di tracce e lo stesso numero di featuring (20 e 10, rispettivamente). Sia i nomi degli album che quelli dei brani, poi, sono scritti in alfabeto leet (utilizzando i cosiddetti caratteri speciali).

Infine, anche i testi del nuovo lavoro sono frutto del linguaggio esclusivo dell’artista ventunenne, che mixando insieme italiano, inglese e slang giovanili, riesce a renderli – seppur difficilmente comprensibili al primo ascolto – unici nel loro genere.

La diversità delle tracce

Quando si ha davanti il prodotto di un’artista eclettico come thasup, si sa che è bene abbandonare l’esigenza di porre definizioni alla sua musica: le etichette utilizzate nel mondo della discografia non sono in grado di catalogare rigidamente uno stile flessibile ed originale come il suo. I suoi brani sono, come dice l’artista stesso

“una risposta a chi pensa che la musica vada etichettata…un po’ la dimostrazione che se qualcuno spacca a fare musica, spacca su ogni tipo di beat”

In c@ra++ere s?ec!@le, la capacità di rompere gli schemi del cantante la si riscontra particolarmente nell’impostazione della tracklist, poco ragionata e organizzata. Anche dal punto di vista tematico, l’album non segue un vero e proprio concept, ma somiglia piuttosto al flusso di coscienza di un ragazzo che manifesta l’urgenza di comunicare alla sua generazione il proprio cosmo interiore.

“Non è scontato, ma le canzoni spesso servono tanto a chi le scrive quanto a chi le ascolta”

Thasup, quindi, sperimenta melodie e ritmi diversi, anche grazie alla varietà degli artisti che collaborano al progetto: dalla grinta di rock & rolla ft. Rkomi e c!ao ft. Rondodasosa, passando per il tono swing di okk@pp@ e b@by nel bed, al beat deciso di sci@ll@ ft. Tananai, e le strofe rap in cas!no nella m!a testa ft. Salmo.

Ma tra le tracce più interessanti vi sono sicuramente r()t()nda, in cui le voci di thasup e Tiziano Ferro si fondono perfettamente, come fossero fatte per stare insieme, o ancora i brani molecole e come t! vorre!, in cui emerge il lato più intimo ed emozionale dell’artista.

Un album (e un artista) dal carattere speciale

In conclusione potremmo definire c@ra++ere s?ec!@le un album variegato, scorrevole e al contempo complesso. Un album dedicato a chi fa della musica lo strumento chiave per esprimersi e dell’autenticità il proprio punto di forza.

“Questo disco si chiama c@ra++ere s?ec!@le perché, chi mi conosce lo sa, riesco a spiegarmi meglio con la musica, piuttosto che a parole”

Nell’insieme può sicuramente non piacere, ma il talento e la geniale personalità che contraddistinguono l’autore sono indiscutibilmente evidenti. Una cosa è certa: chi in passato aveva apprezzato 23 6451, non rimarrà affatto deluso.

Non ci resta che premere play e goderci il viaggio all’interno dell’eccentrico, ma accogliente e affascinante mondo di thasup!

 

Giulia Giaimo

Dragon Ball Super – Super Hero è un ritorno al passato

Il film ci lascia un sentimento di freschezza e una speranza di rinascita e redenzione. Dragon Ball è finalmente tornato. Voto UVM: 4/5

 

Dragon Ball Super: Super Hero, arrivato nelle sale italiane il 29 settembre, è un film riuscito. La sensazione che accompagna lo spettatore una volta fuori dalla sala è di aver visto una pellicola che riesce a tenersi in piedi perfettamente. Non mancano i difetti – di cui parleremo – ma i personaggi, la narrazione e lo stile lavorano assieme creando un’ottima sinergia.

Dragon Ball: un ritorno alle origini

L’ultimo film si era concluso con i protagonisti, Goku e Vegeta, che avevano lasciato la Terra per andare su un altro pianeta. E lì sono rimasti, non avendo nessun ruolo all’interno della nuova storia. I veri protagonisti di Dragon Ball Super: Super Hero sono, invece, Piccolo e Gohan. Abbiamo apprezzato particolarmente questo cambio radicale che dà modo a tutti i personaggi di esprimersi. La prima parte è infatti un vero e proprio ”slice of life” in cui vediamo tutti i vari primari e comprimari svolgere la loro normale vita. Gohan torna ad essere uno studioso, Crilin è diventato un poliziotto e Piccolo viene costretto a diventare praticamente lo zietto di Pan, la figlia di Gohan. La dinamica tra questi due ci introduce al film: la piccola è, infatti, il cardine che muove tutte le vicende, spostando il centro della narrazione verso una sfera di eventi più piccola.

Niente grandi minacce per l’universo ma un gradito ritorno dagli albori di Dragon Ball: il Fiocco Rosso. Tornano gli androidi si, ma torna anche il primissimo Dragon Ball, quello spensierato, giocoso e sognante. Gli avversari risultano ridicoli e la loro minaccia piccola, ma tutto ciò aiuta a creare una atmosfera leggera che porta freschezza a tutta la trama ed è una direzione che ci auguriamo venga ancora percorsa.

Una tecnica da perfezionare

Se quindi la leggerezza delle vicende tiene alto l’interesse, in alcuni frangenti, la tecnica del film non è sempre allo stesso livello. La pellicola utilizza una tecnica sperimentale: la CGI adattata allo stile anime e, sia chiaro, sappiamo che in molte produzioni risulta abbozzata e spesso scadente. Ma questo film riesce comunque a rimanere sopra la media: le coreografie degli scontri sono ottime ed il design di quasi tutti i personaggi viene trasposto bene, anche se tutto ciò non esclude comunque evidenti alti e bassi. Non siamo rimasti eccessivamente scottati ma ci auguriamo che se questa è la nuova direzione dell’animazione nipponica la tecnica venga migliorata e perfezionata ancora.

Serve un motivo per diventare più forte?

Finora però non abbiamo parlato di uno degli elementi, forse, più importanti del film. Questa è una pellicola d’azione e l’azione viene portata avanti anche dalle trasformazioni. Come sono allora questi power up?  Diciamolo subito: vengono fuori da un cilindro. Sono deus ex machina chiarissimi, come d’altronde sono sempre stati. Tutto il film ma in particolare questo aspetto non viene preso sul serio neanche per un attimo: sembra quasi che Dragon Ball sia diventato consapevole di se stesso. Non c’è serietà su queste trasformazioni e ciò è un bene.  L’unica pecca sono i design che non brillano: le trasformazioni dell’opera originale vengono ricordate per la loro entrata in scena, per il build up che veniva fatto ed anche per il loro lato puramente visivo. Ci sentiamo di penalizzare un minimo il film sotto questo aspetto, ma la riteniamo un pecca minima che non guasta l’economia generale.

Piccolo in una scena del film. Scritto da Akira Toriyama, diretto da Tetsuro Kodama e prodotto da Toei Animation. Fonte: aiptcomics.com

Tornate al cinema!

Quello che ci è rimasto della pellicola è un sentimento di freschezza e una speranza di rinascita e redenzione. Dragon Ball sembrava ormai destinato a ripetere in eterno le stesse dinamiche ma questo film dimostra il contrario.

In conclusione, quello che ci sentiamo di dire è questo: se siete fan di Dragon Ball non potete perdervi questo film. E se volete una pellicola di animazione spensierata e piena d’azione correte anche voi al cinema. Dragon Ball è finalmente tornato.

 

Matteo Mangano

 

Blonde: tra Norma Jeane e Marilyn Monroe

Un film che mette a nudo tutte le fragilità di Marilyn Monroe. Voto UVM: 5/5

 

Ricordo quando da bambina vidi per la prima volta una foto in bianco e nero in cui era ritratta Marilyn Monroe, rimanendo affascinata da quella donna, così bella ed elegante. Il mio pensiero fu: “non vedo l’ora di crescere, di vestirmi e di truccarmi come lei”. Ora sono una giovane donna ma cerco ancora in qualche modo di imitare quel mito tanto amato, non tanto per ricopiarne la bellezza quanto l’interiorità, ancora oggi nascosta ai nostri occhi.

In molti l’hanno definita come “la bionda stupida”, etichettandola con le famose misure 90-60-90. Ma Marilyn, anzi Norma Jeane, era una persona sola, alla costante ricerca dell’approvazione altrui. Voleva sentirsi desiderata e protetta, per questo scelse la carriera di attrice, quel lavoro in cui si è costantemente amati. Non confondete questo suo desiderio con l’egocentrismo, quest’ultimo porta l’individuo a vedere davanti solo se stesso. Vedrete, invece, in Norma Jeane una persona che per la proprie insicurezze è andata a rifugiarsi in Marilyn. Il film però ci fa capire come Norma odiasse quelle attenzioni, le detestava, perché tutti la vedevano solo e unicamente come un oggetto sessuale.

“Oh Daddy, quella cosa sullo schermo non sono io”

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn Monroe) in una scena del Film. Distribuzione: Netflix. Fonte: Consequence

Blonde (2022)

Blonde è un film del 2022, scritto e  diretto dal regista australiano Andrew Dominik. La pellicola, tratta dal romanzo della scrittrice Statunitense Joyce Carol Oates, ritrae la vita di Marilyn Monroe, la diva per eccellenza, interpretata dalla talentuosa Ana De Armas. Durante la visione però non vedremo la “donna più bella del mondo” ma Norma Jeane, colei che si rifugiò in Marilyn.

L’autrice del libro ha riscritto Marilyn tra realtà e finzione, mettendo a nudo le emozioni della diva e in particolare la sua disperazione. Joyce è rimasta affascinata dal Blonde, queste le sue parole:

Ho visto il primo montaggio dell’adattamento di Andrew Dominik ed è sorprendente, geniale, molto inquietante, e cosa forse ancora più sorprendente, è un’interpretazione completamente “femminista”…non credo che un altro regista abbia mai ottenuto qualcosa del genere”.

La scrittrice ha proprio ragione, Blonde è stato un film non facile da mettere in scena. Il regista ci ha messo ben 11 anni, tra copioni, attori e set. Tutto doveva essere perfetto per reincarnare la “bionda”.

Tra i colori e le ombre di Marilyn e Norma

Il film ha due realtà, quella dei colori e del bianco e nero. Dominik gioca con le luci e le ombre per rappresentare egregiamente il dualismo tra Marilyn e Norma Jeane. Da una lato abbiamo quella finzione creata da Hollywood e dall’altro lato abbiamo invece la disperata realtà che l’attrice viveva. Non è comunque per nulla semplice, quando il film cambia colori, distinguere la realtà dalla finzione. Il regista osa e amalgama il tutto, creando quel dualismo che pian piano va esso stesso ad annullarsi.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: actitudefilm

 

Una vita segnata dalle violenze e da quel lavoro che l’ha resa un’icona, – ottenuto con una vile molestia sessuale – facendola ricordare come una semplice “Bambolina Bionda”, perché ritenuta troppo stupida per ruoli più seri. Nella pellicola vediamo una scena in cui Norma dice di aver letto Dostoevskij e la risposta che si sente dare è: “ah perché tu leggi Dostoevskij?”.

Marilyn e l’amore

“Voglio studiare recitazione, ma recitazione vera. Ma soprattutto, io voglio sistemarmi, come ogni ragazza, e avere una famiglia”

Abbiamo sempre immaginato Marilyn Monroe come una donna forte e indipendente, in fondo lei stessa è cresciuta senza genitori, si è fatta strada da sola. Nel suo viso vedevamo uno sguardo dolce e sensuale, col suo sorriso riusciva a mascherare quella malinconia che l’ha strappata alla vita. Marilyn era una giovane donna, bisognosa d’affetto, che ricercava in quelle svariate storie d’amore un sostegno, quello che non ebbe durante la sua infanzia e adolescenza. Sopportando persino la violenza domestica, accettando delle volte solo l’amore carnale, per sentirsi desiderata e amata anche per un secondo. E di ciò lei era consapevole ma la sua fragilità la costringeva a compiere scelte non giuste verso se stessa.

Nel film vengono presentati i grandi amori di Norma/Marilyn, come Arthur Miller (Adrien Brody), Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), e il Presidente John F. Kennedy. Facendoci notare come Norma cercasse di aggrapparsi ad ognuno di loro.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) e Adrien Boy (Arthur Miller) in una scena del film. Fonte: cinema.everyeye.it

 

Chi era Norma Jeane?

Se non fosse Marilyn, chi sarebbe?

Norma Jeane nasce il 1 Giugno del lontano 1926, figlia di una madre mentalmente instabile e di un padre di cui non seppe mai il nome. Norma passò la sua infanzia e adolescenza in varie famiglie, dato che la madre fu dichiarata come “malata di mente”, e quindi incapace di crescere una figlia. Tutto ciò finì per scombussolare Norma. Ve la ricordate la voce nei film di Marilyn? Quella che sembrava un sussurro mischiato col sospiro? Norma Jeane era in realtà costretta ad utilizzare quell’intonazione, difatti, soffriva di balbuzie e il logopedista le aveva consigliato di parlare in quel modo. La vita di Norma fu costellata di abusi e violenze. Norma si rifugiò in Marilyn, si creò un personaggio da tutti amato e desiderato, con lei ottenne quell’amore che non ebbe mai. Marilyn era quella amata, non Norma Jeane.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: news9live

 

Blonde rappresenta la sofferenza e la fragilità di ogni essere umano. Chiunque dovrebbe vedere quest’opera cinematografica e non solo per la magnifica interpretazione di ogni singolo attore. Blonde è un lungometraggio che entra dentro l’animo di ogni spettatore, una piccola perla che mostra la parte più nascosta e fragile di Norma Jeane/Marilyn Monroe, e non “la donna più bella del mondo”. Ci mostra il suo fascino e tutto il suo dolore, proprio quello che  l’industria cinematografica, tra strass e perline, ha voluto sempre tenere nascosto.

Alessia Orsa

Marcello come here!

“Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io, sono pronti a mandarselo giù in un boccone”. (Federico Fellini)

Perché parlare proprio oggi di Marcello Mastroianni? Non è il suo compleanno, ma semplicemente i miti non muoiono mai, dopo anni il loro nome ancora riecheggia, perché Marcello era un attore vero, non costruito. Con i suoi film torniamo indietro nel tempo, a quell’Italia in bianco e nero dove vedevi una coppia di innamorati, trasportati dalle due ruote di una vespa che sfrecciava nei vicoli e nelle strade del bel paese.

Marcello e le maschere

Marcello viene considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre. Non solo in Italia, ma anche all’estero molti registi lo volevano con sé. Nella maggior parte dei film a cui ha preso parte, ha sempre ricoperto ruoli da protagonista, ha lavorato con cineasti i cui i nomi sono leggenda, tra cui il mitico Federico Fellini. Ha recitato con la bellissima Sophia Loren, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Attore molto versatile, ha indossato mille volti, dai ruoli drammatici fino ad arrivare a quelli comici.

Per tre volte è stato candidato all’Oscar, senza mai portarsi a casa l’ambita statuetta, ma in compenso ha vinto numerosi premi: due Golden Globe, otto Nastri D’argento ( di cui uno postumo), due Premi BAFTA, otto David di Donatello, cinque Globi d’oro e un Ciak d’oro. Nel 1990 ha vinto il Leone D’oro alla Carriera. Insomma il suo talento è stato riconosciuto, (anche se il genio non viene consacrato da un premio ma da ciò che un artista lascia ai posteri e Marcello ha trionfato in pieno).

Marcello Mastroianni in una scena de “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Marcello comincia a incamminarsi verso il mondo del cinema dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando inizia a prendere lezioni di recitazione e nel 1948 fa il suo debutto nel film I Miserabili tratto dal romanzo di Victorio Hugo, diretto da Riccardo Freda. Pian piano comincia a interpretare piccoli ruoli teatrali in compagnie di dilettanti, facendosi notare da Luchino Visconti, che gli offre il primo ruolo importante in “Rosalinda o Come vi piace”. Da lì in poi l’ascesa del nostro protagonista non conoscerà mai la parola fine.

Sono tanti e sono troppi i film di Marcello memorabili: oggi avrei voluto parlare di almeno due pellicole che sono entrate nel mio cuore, due opere che racchiudono non dialoghi, ma vere e proprie poesie, ma ci vorrebbe un articolo a parte …

La Dolce Vita (1960)

“Vorrei vivere in una città nuova, e non incontrare più nessuno”

Piccolo tesoro del cinema mondiale, La Dolce Vita è un film diretto e scritto da Federico Fellini e considerato uno dei suoi più grandi capolavori. Ha ottenuto quattro candidature agli Oscar vincendone una, nonché la Palma d’oro al 13º Festival di Cannes. Il titolo del film rappresenta il periodo storico di fine anni ’50 e inizio ’60 e racchiude tutte quelle vite mondane sbocciate in quell’era, tra champagne e hotel lussuosi.

In quelle stanze scintillanti troviamo Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) giornalista di cronaca mondana, il cui sogno però è quello di diventare un romanziere, stanco di quella vita costruita in cui l’immagine viene prima di ogni cosa.

“A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene.”

 

Marcello Mastroianni in “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Il nostro protagonista non è così, è un artista, quindi una persona che vede il mondo con occhi diversi. Il suo lavoro l’ha portato a vivere quella vita di eccessi che tanto detesta.

Marcello Rubini è fidanzato e convive con Emma (Yvonne Furneaux), ma la sua natura da “don Giovanni” lo fa passare da una donna all’altra, poi c’è Maddalena (Anouk Aimée), una donna che ama, ma con cui vuole solo un rapporto carnale. Con l’arrivo della bellissima Sylvia (Anita Ekberg), una celebre attrice americana, il nostro giornalista comincerà a provare emozioni nuove.

“Sylvia ma chi sei?”

Lei sembra la salvezza per il nostro Marcello. Quella scena che tanto amiamo della Fontana di Trevi, nient’altro rappresenta che l’illusione di una cambiamento per il protagonista che ormai odia quella vita mondana che Fellini ha messo in scena. Con Sylvia vorrebbe una storia d’amore ma non ci riesce, non si impegnerà nemmeno con Emma e Maddalena, illudendole e trattandole come meri oggetti, come gli ha insegnato la vita da “giornalista mondano”.

“Marcello, come here, hurry up”

Il declino dell’uomo contemporaneo ne La Dolce Vita

Come ci insegna Fellini, la dolce vita non può essere eterna, e quel vuoto che attanaglia Marcello rimarrà ancorato ad esso, nei suoi occhi spenti che vediamo alla fine del film. Lo spettatore quasi si arrabbia con Marcello, perché è un uomo che non si impegna e si abbandona a quella vita che dolce non è, arrendendosi a quell’esistenza che disprezza tanto, ma che, allo stesso tempo, non riesce a lasciare: una realtà fatta di donne, tradimenti e materialismo. Fellini, in tre ore di film, riesce a mostrare la decadenza dell’essere umano contemporaneo che tutto ha, ma per inerzia non fa niente per cambiare e migliorare la realtà.

Marcello (Marcello Mastroianni) e Sylvia (Anita Ekberg) nella celebre scena della fontana. Fonte: Cineriz

Che cos’è il Cinema se non l’arte di raffigurare il vero? Cos’è la recitazione se non il modo di mettere a nudo le emozioni umane? Chi sei tu Marcello? Che hai reso grande il nostro paese con il talento e la bontà, che abbiamo visto nei tuoi lavori? E dimmi, Marcello, ti sei mai rivisto in qualche tuo personaggio, ti sei mai rispecchiato in Guido Anselmi o in Domenico Soriano? Te ne sei andato via troppo presto, a soli 72 anni, ma purtroppo – si sa – non tutte le leggende vivono fino ai 100 anni.

“Marcello ritorna da noi!” Il cinema non è più lo stesso senza di te, il perfetto gentleman che ha rubato il cuore di milioni di italiane e che il talento ha consacrato come uno dei migliori attori che la cinepresa abbia mai inquadrato.

Alessia Orsa

1xbetm.infobetturkeygiris.orgwiibet.comkralbetz.comsupertotovip.com/tr/tipobetm.comoliviawilde.org

“Mare Mosso”. Un noir mediterraneo per gli amanti del mare

 

Una storia vera di mare, d’amore e mistero. L’ideale per una lettura estiva – Voto UVM: 5/5

 

Dopo il romanzo d’esordio L’attimo prima, uscito nel 2019 per Rizzoli, Francesco Musolino ritorna con Mare Mosso, edito per e/o. Raccontare una storia di mare non è sempre un’operazione semplice. Per farlo bisognerebbe prendere il largo (non solo metaforicamente). Eppure, l’autore è riuscito perfettamente a costruire l’atmosfera, studiando ogni dettaglio possibile da inserire nella storia e la lingua da utilizzare, ponendo al centro della narrazione il mare in tempesta dove un gruppo di marinai tenta in tutti i modi di portare a termine un’ardua missione di salvataggio che si infittisce di mistero.

Prima di entrare nel dettaglio della trama, è doveroso parlare in breve dello scrittore messinese.

Conosciamo lo scrittore

Francesco Musolino ( che abbiamo avuto modo di conoscere personalmente in quest’occasione!) nasce a Messina nel 1981. E’ laureato in Scienze Politiche e oggi è giornalista culturale per conto di diverse testate, tra cui L’EspressoLa Stampa.  Nel 2014 fonda il progetto no-profit di lettura @Stoleggendo per costruire una rete di rapporti su Twitter tra librai, scrittori ed editori con lo scopo principale di creare un canale concreto per la lettura di qualsiasi testo con la partecipazione simultanea dei lavoratori dell’editoria.

Lo scrittore Francesco Musolino. © Sofia Ruello

Oltre ai romanzi citati, l’autore ha pubblicato nel 2019 un saggio interessante dal nome Le incredibili curiosità della Sicilia per la casa editrice Newton Compton, il quale esplora le caratteristiche tipiche delle città siciliane e della nostra cultura. E’ inoltre anche docente di scrittura creativa presso la Scuola Holden di Torino.

L’impresa da compiere

La storia è incentrata su un salvataggio a largo della costa sarda – precisamente nella “golfatina di Santa Caterina di Pittinuri”- avvenuto la notte del 24 dicembre 1981. L’obiettivo è recuperare una nave cargo turca chiamata Izmir. È una nave imponente, quasi impossibile da trainare fino al porto, al punto tale da gettare nello sconforto i personaggi che accompagnano il protagonista, Achille Vitale, in questa impresa.

Il motivo per cui si ritrovano in mare è per via degli interessi di un uomo misterioso, Mr. K, interessato a recuperare il carico della nave. All’inizio i marinai pensano che essa contenga solo tonnellate di pesce, ma successivamente saranno costretti a ricredersi. È proprio in quel momento che prendono vita le ombre del giallo, grazie a un climax ascendente fornito da un io narrante mai ripetitivo, che non lascia alcun buco nella trama. In virtù di ciò, la storia si alterna tra l’azione dinamica e l’introspezione dei personaggi, grazie anche all’uso ben calibrato dei flashback.

L’animo forte e sensibile di Achille

Il protagonista è abituato a intraprendere il largo, al punto tale da mostrare una sintonia emozionante con il mare:

“La potenza selvaggia della natura mi ha sempre affascinato. Quella paura che ti acchiappa fra le onde, che ti aggroviglia le budella e fa tremare le gambe mentre tutto oscilla intorno, rischia di diventare come una droga e ti chiedi perché cazzo ti piace quella vita, perché non sai rinunciare alla malìa del rullaggio, alla salsedine che mangia ogni cosa e intanto l’orizzonte all’improvviso si apre, si spalanca e ti invita ad andare mentre il vento ti spinge o ti sfida, ti provoca o ti soccorre.”

Tuttavia, egli non vive soltanto nella burrasca. Infatti, nel corso della narrazione Achille si lascia andare a dei pensieri che vedono al centro Brigitta, la donna che ama tanto. Tra la bellezza primordiale dell’amore e i tormenti dovuti alla gelosia, il romanzo affronta delicatamente questi temi ponendo in risalto la sensibilità dell’eroe, dando dimostrazione del carattere solo all’apparenza “duro” di un marinaio:

“Giunti a Cagliari, la nostra routine di coppia è cambiata velocemente. Io ero spesso fuori, in mare aperto, a tutte le ore del giorno e della notte, mentre Brigitta restava da sola, in una città completamente diversa dalla sua amata Venezia. Poi è arrivata Nina e, fra alti e bassi, c’abbiamo provato. Oggi continuo a prendermi cura delle sue rose in terrazza, immergendomi con le bombole sui fondali della costa in cerca di un po’ di pace ma i ricordi possono essere acuminati come le rocce, pericolosi come una murena che ti punta dalla profondità degli abissi, ingannatori come un bagliore che luccica e ti attira, trascinandoti sempre più giù, dentro le tue stesse paure.”

È evidente l’importanza simbolica di questa missione. Tornare a casa per Achille significa anche ritornare da Brigitta, lasciare tutto e ricominciare daccapo per vivere più serenamente.

I temi e le caratteristiche del romanzo

Tra le pagine si evince una descrizione dettagliata degli ambienti sia interni, sia esterni alla nave, accompagnata da una continua suspense visiva. La scelta del mare è lungimirante poiché per lo scrittore, le storie sono estremamente importanti nella misura in cui evocano un profilo identitario che ci accomuni e che, quindi, ci appartenga. Questo principio viene rivendicato con forza grazie a una epigrafe di Stefano D’Arrigo (capitolo 20), tra le tante poste in apertura dei capitoli:

“Non c’è lido più lontano di quello dove non si approda”

Se ci pensiamo, è una condizione che nella vita quotidiana ci riguarda quasi sempre. L’autore ci sollecita a ricordare che il nostro è un viaggio continuo alla ricerca dell’appartenenza, del conflitto e, dunque, dell’approdo. Il lido spesso è lontano – come si evince dalla storia di Achille – però, solo se siamo in grado di affrontare le nostre paure, allora forse arriveremo alla meta.

“Mare Mosso”: copertina, Fonte: edizioni e/o

Chiudo questa recensione lasciandovi alla piacevole chiacchierata che ho intrattenuto con l’autore e invitandovi alla lettura del romanzo, con l’augurio che possiate prendere il mare con coraggio!

 

Federico Ferrara

25 anni di One Piece

Nel corso del tempo diverse serie si sono avvicendate sulle pagine di Weekly Shonen Jump, ma nessuna ha mai raggiunto la popolarità, la longevità e il successo di One Piece, opera scritta e disegnata dal maestro Eiichiro Oda.

La ciurma di Cappello di Paglia durante la saga dell’isola degli uomini-pesce. Autore: Eiichiro Oda, Shueisha. Fonte: wallpaperup.com

Gli inizi e i traguardi di One Piece

Il fumetto fa il suo debutto sulla rivista di Shueisha il 22 luglio 1997, riscuotendo subito un notevole consenso da parte del pubblico. Col tempo però l’idea originale dell’autore si trasformerà in qualcosa di molto più grande e vasto rispetto ai programmi iniziali. Oda ha, infatti, dichiarato in più interviste che la storia originaria avrebbe dovuto avere solo pochi anni di pubblicazione sulla rivista ma tra il successo senza eguali che stava avendo tra il pubblico e la volontà dell’editor di guadagnare il più possibile da questo fenomeno, si è arrivati ad oggi all’incredibile traguardo di più di 100 volumi, 1000 capitoli e 1000 episodi dell’adattamento animato ma soprattutto a 25 anni di pubblicazione. Uno dei pochi casi in cui portare avanti una storia per ragioni di marketing è legato anche ad un vero sfogo artistico.

Un’opera senza eguali nella storia del manga che ha infranto record su record, il primo nel 2011 divenendo il manga più venduto della rivista giapponese con oltre 200 milioni di copie vendute superando un colosso del calibro di Dragon Ball, riuscendo anche nell’incredibile impresa del 2021 di avere più copie vendute rispetto a Batman (490 milioni). Anche in Italia in questo momento si trova nella lista dei libri più venduti.

Un Mare di idee

Il suo autore è quindi partito con in mente una storia semplice. E invece siamo qua, ma cosa è successo nel mezzo?
Il manga narra la storia classica di un ragazzo con un sogno da realizzare. Ma il mondo narrativo comincia molto presto a diventare un vero e proprio caleidoscopio di vicende e personaggi. Il pregio dell’opera sta nel riuscire a dare risalto ad ogni singolo elemento di questo puzzle e ad arricchirlo sempre, facendo sembrare tra l’altro che tutto sia stato pensato dall’inizio (e questo è forse il talento maggiore dell’autore).
Ad ogni nuovo capitolo della storia vengono introdotte decine di personaggi ed ognuno di loro riesce ad emergere nella storia, per il suo modo di parlare, per il suo design, per il suo carisma o anche per la miriade di strampalati poteri che l’autore riesce ad inventare.

La ciurma di Cappello di Paglia dopo due anni dalla separazione. Autore: Eiichiro Oda, Shueisha. Fonte: wallpaperup.com 

L’intero mondo col fiato sospeso

Il manga si trova in questo momento nella sua fase finale: dopo 25 anni di pubblicazione costante c’è stata una pausa da parte dell’autore per raccogliere tutti i semi sparsi in giro per il suo mondo. Con un recentissimo messaggio Oda ha informato i lettori che questo mese e mezzo servirà a lui e agli editor per chiarirsi le idee sul finale. Non si tratta di un messaggio banale: da anni Oda ha dichiarato che le idee che ha sulla sua opera riguardano qualcosa che non si è mai visto nel panorama del fumetto giapponese e forse mondiale. Vuole davvero scrivere qualcosa che lasci l’intero mondo di stucco. Ma è davvero una cosa realizzabile?

Gli ultimissimi capitoli del manga ci hanno dato un’idea al riguardo. È stato appena rivelato uno dei punti centrali dell’intera storia. E qui l’interesse per il manga è di nuovo schizzato alle stelle e l’intero mondo è di nuovo caduto nella One Piece mania. Dopo due decenni insomma, il lavoro di Oda sembra ancora in grado di stupire come non mai. E l’intero mondo del fumetto è adesso sulle spine per quello che potrebbe rivelarsi un evento in grado di segnarne la storia.
Anche noi appassionati siamo qui ad attendere questo finale, come quando abbiamo atteso gli ultimi episodi di Dragon Ball in tv, o gli ultimi libri di Harry Potter facendo la fila in libreria.

Attendiamo solo che Oda ci mostri il suo finale!

 

Matteo Mangano
Giuseppe Catanzaro