The Fabelmans: il film testamento della vita di Steven Spielberg

Un film che pone in risalto la maturità artistica e umana del grande cineasta. – Voto UVM: 5/5

 

Parlare di Steven Spielberg non sembra quasi mai un’operazione semplice, specialmente se pensiamo al vissuto e alla carriera del regista. Eppure, dopo aver realizzato una serie di successi strepitosi, — per citarne alcuni Lo Squalo, E.T. l’extra terrestre, Jurassic Park, Schindler’s List (premi Oscar alla miglior regia e miglior film 1994) e molti altri, tra cui la saga su Indiana Jones, — il grande cineasta ritorna con The Fabelmans, un film capolavoro che parrebbe essere una sorta di testamento artistico oltre che introspettivo. Per la prima volta Spielberg decide di mettersi a nudo, raccontando la storia della sua vita dal punto di vista familiare.

Trama

Spielberg
Sammy Fabelman in una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

La pellicola inizia con la visione al cinema del film di John Ford, Il più grande spettacolo del mondo (1952, il primo che il regista abbia mai visto in vita sua) assieme ai suoi genitori (Paul Dano nei panni del padre Burt e Michelle Williams nei panni di Mitzi). Lo sguardo del bambino, inoltre, sembra ricordare quello del protagonista di Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore.

I film sono sogni che non dimenticherai mai.

Dopo la visione, Sammy resta folgorato dalla potenza evocatrice delle immagini e la madre, rimasta estasiata da ciò, decide di fargli usare la macchina da presa del padre. Naturalmente Sammy inizia ad usarla sempre insieme alle sue sorelle, finché divenuto grande non ne ottiene una tutta per sé (Bolex H8, doppia 8mm) con cui gira dei cortometraggi prettamente western insieme ai suoi amici. Un aspetto molto importante è la rappresentazione di come Sammy pulisce e taglia le pellicole per ottenere degli effetti speciali, quasi a voler ricordare che la tecnica è un dettaglio da non sottovalutare mai per la riuscita di un film.

Il film prosegue mettendo in evidenza anche il rapporto complicato con il padre, il quale inizialmente non vuole che Sammy faccia di questa passione un lavoro. Probabilmente, questo pensiero è dovuto al clima altalenante dell’epoca (fine anni ’50, inizio anni ’60), in cui la domanda di lavoro non soddisfaceva a pieno le esigenze di determinati nuclei familiari. Sammy comunque non si abbatte e prosegue per la sua strada, nonostante la morte della madre che provocherà un forte scossone all’interno della famiglia (una scena importante è nella seconda parte del film, rappresentata servendosi di un climax discendente). Per non parlare delle discriminazioni razziali (il protagonista così come lo stesso regista, è di origini ebraiche) che Sammy subirà a scuola, una volta approdato in Arizona.

Tra autorialità e filosofia del cinema

Spielberg
Una scena del film. Regia: Steven Spielberg. Casa di produzione: Amblin EntertainmentReliance Entertainment. Distribuzione in Italia: 01 Distribution.

 

L’arte ti darà corone nella testa e aria nel cielo, ma ti strapperà il cuore.

Il percorso di crescita del protagonista ci porta a vedere due lati della stessa medaglia, ovvero la concezione del cinema come mezzo in grado di canalizzare i propri sogni, ma anche la potenza di un medium in grado di manipolare la realtà a proprio piacimento. L’attenzione incredibile di Spielberg verso gli strumenti del suo futuro mestiere, come citato in precedenza, è una toccante dichiarazione d’amore verso il grande schermo, quasi commovente per la sua limpidezza e sincerità. In ogni scena traspare la forza dirompente della passione del Maestro; quella che gli ha permesso in oltre cinquant’anni di carriera di creare pellicole di grande spessore, assurte a veri e propri culti. La natura della storia, inoltre, permette a chiunque di relazionarvisi senza scadere nella banalità poiché, grazie allo sviluppo perfetto dei caratteri dei personaggi, possiamo ritrovare il significato della vita intesa come una sfida continua, con l’invito a non arrendersi mai.

Questo aspetto, infatti, è messo a fuoco negli ultimi minuti della pellicola, rappresentanti una forte lezione per i giovani autori: quello che conta, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, come suggerisce John Ford (interpretato da David Lynch, davvero!):

Quando l’orizzonte si trova in basso è interessante, quando si trova in cima è interessante, quando si trova in mezzo è una merda noiosa.

Questo sta a significare che solo l’occhio dell’artista, di chi sa guardare davvero oltre, è in grado di donare quell’aura di unicità al film. Qui risiede il segreto dell’arte cinematografica e Spielberg, non poteva spiegarcelo meglio di così.

 

Federico Ferrara

Avatar: The Way of Water, a repeat of the first movie?

 

Spectacular rehash of the first instalment of the Avatar saga – Vote UVM: 3/5

“Avatar: The Way of Water” is the long-awaited sequel to the 2009 blockbuster hit “Avatar” by James Cameron. While it is just as spectacular as the first movie, if not, even more, its plot is a rehash of the first film and lacks character development.

From “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

Same plot, different characters

I was quite sad to realise that the main plot of the movie was a rehash of the first film, which can be condensed into “(most) Humans bad, Na’vi good”.

The movie opens with a summary of what happened to Pandora more than a decade after the humans were repelled from the planet. We see that Jake is the leader of the Omaticaya, and he has created a family with Neytiri. They are raising two sons, and two daughters, one of which was adopted, and a human child, Spider, who was left by the humans on Pandora since he could not be transported back to earth via cryostasis, due to his young age. He is the son of Colonel Miles Quaritch.
The humans have once again invaded Pandora, and an avatar with Colonel Quaritch’s memories has been sent to hunt down and kill Jake Sully.

So we see the military once again hunting down Jake Sully, but also his family, and when Quaritch manages to capture Spider, Jake decides that to protect the Omaticaya they have to leave their village and head east to the Metkayina reef people clan, who choose to shelter them.
The daughter of the clan leader of the Metkayina, Tsireya, is now given instructions to teach the Sully family, and here we see the family learning, just like Jake did in the first movie.

Kiri nei regni dell'acqua; fonte: 20th Century Studios, Walt Disney studios
From film “Avatar: The Way of Water”. Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

 

Kiri, an interesting character and a missed opportunity
One of the most interesting characters in the film is Kiri, Jake and Neytiri’s daughter who is biologically Doctor Grace Augustine’s daughter, and was weirdly born after the doctor’s “cerebral” death, from her inert avatar. There is quite a bit of mystery surrounding her, she has a particularly profound relationship with Eywa, the deity of Pandora that connects every living being but also connects the Na’vi to their ancestors.
There are a few scenes in the movie that focus on her, showing us her deep spirituality and her longing to find out more about her biological parents. Her character could have been made the centre of the movie, this way we could have found out more about the world of Pandora, Eywa and the Na’vi. Instead, we only got a few scenes of her inexplicably using some weird powers that no one else seems to have.

From “Avatar: The Way of Water” . Source: 20th Century Studios, Walt Disney Studios.

The Metkayina

The Metkayina are deeply inspired by the Polynesian culture, in particular by the Māori.
We see this in the case of the clan chief Tonowari, with his face being tattooed in a way that looks like a tā moko (the tattoo traditionally practised by the Māori). We also see it when the clan rallies up to fight and the people perform a sort of pūkana, a facial expression that the Maori use to symbolize ferocity and passion during the performance of the haka, a ceremonial performance art.

It is fascinating to notice how different they are from the Omaticaya, the forest Na’vi, in their anatomy, having a body made to swim, in their language, having a sign language for underwater, and in general the slight variations in all of their customs.

Spectacular but not entertaining

Sadly the attention and care that was given to the overall design and background were not given to the plot and characters’ development, the characters don’t grow throughout the movie, even after their life has completely changed.
In general, the movie had spectacular cinematography, decent acting and amazing special effects, but it should have been condensed into a shorter runtime, as the story does not justify the film’s length.

Elena Succi

Lando Buzzanca era la voce indispensabile al grande cinema

Si è spenta ieri all’età di 87 anni l’ultima voce del grande cinema italiano, quella di Lando Buzzanca. Una voce qualche volte trascurata – seppur amata dal grande pubblico che lo conobbe anche sul piccolo schermo – proprio come quella del suo alter ego, il “merlo maschio” Niccolò Vivaldi, nella grande orchestra di strumenti – tra attori e registi- che hanno composto la magnifica sinfonia della storia del cinema nostrano.

Violoncellista col complesso di inferiorità accanto a Laura Antonelli ne “Il merlo maschio”, commedia del ’71 a tinte psicologiche, ingiustamente liquidata come “sexy”. Fonte: Clesi Cinematografica

 

Volto poco noto alla nostra generazione rispetto al pantheon di mostri sacri (Gassman, Tognazzi, Mastroianni, Sordi), spesso sottovalutato da una certa critica che lo considerò esponente di tutta una scena anni ’70 straripante di b movies  (quando invece Buzzanca decise presto di non prendere parte alle pellicole più eccessive della commedia sexy all’italiana), relegato alla provincialità con lo stereotipo di maschio siciliano sciocco, ma anche sanguigno e lussurioso, ruoli che ha spesso interpretato sul grande schermo, Lando Buzzanca è stato molto di più.

Nasone adunco, viso squadrato, occhi scuri e intensi, spesso attraversati da quel guizzo di follia che contraddistinse i suoi personaggi migliori, l’attore nato a Palermo nel 1935, aveva proprio quella che si può dire una faccia da cinema. Non la faccia da divo – come poteva essere quella del latin lover Mastroianni o dell’attraente e signorile De Sica – ma proprio da attore, da lavoratore che fa del cinema la sua vita e la sua professione. Riferendosi a lui una volta mio nonno disse: «Lavora bene!»

E forse con un’unica quanto “ingenua” frase, ha colto quello che l’inchiostro di tanti critici non ha saputo mettere in luce in miriadi di recensioni. Lando Buzzanca era un artigiano della recitazione, attività che iniziò a svolgere all’età di 17 anni affiancandola ad altri lavoretti umili.

Artigiano, nella fiction Rai “Il Restauratore”. L’attore negli anni recenti ha vissuto una vera e propria rinascita professionale grazie a molte serie Rai. Fonte: RaiPlay.it

 

Poi la notorietà, all’età di 22 anni, diretto da Pietro Germi nel suo capolavoro Divorzio all’Italiana, film a metà strada tra un neorealismo che conobbe la sua apoteosi nel decennio precedente e un certo cinema politico che si sarebbe affermato di lì a poco e si serviva spesso delle tinte della satira per dipingere quell’affresco di costumi strani e spesso ipocriti, di vizi e virtù della società italiana.

Accanto ai divi Stefania Sandrelli e Marcello Mastroianni, la coppia di adulteri che ripiega per una soluzione tutta italiana – anzi siciliana! – per porre fine a un matrimonio in crisi, Lando Buzzanca ha il ruolo per così dire secondario del focoso e giovane fidanzato della sorella disonorata dell’inetto barone Cefalù.

Sempre per Germi si ritroverà stavolta a vestire un ruolo più di rilievo nel 1964. Qui sarà Antonio Ascalone, fratello di una Sandrelli “sedotta e abbandonata”: sarà lui incaricato a vendicare l’onore della sorella in un dramma corale a tratti grottesco che vede però protagonisti più la Sandrelli (e l’interpretazione di quest’ultima a dire il vero non è nemmeno memorabile!) e Saro Urzì nel ruolo del pater familias strenuo difensore della morale domestica.

Eppure nella “partitura” della sinfonia cinematografica, nella composizione di un capolavoro, niente è lasciato al caso. E anche l’interpretazione minore (si fa per dire) di Buzzanca è la tessera piccola e indispensabile nel mosaico della Sicilia di Germi: calda e affascinante come ebbe a dire lo stesso attore, ma anche crudele e assolata, messa in mostra da un bianco e nero dal contrasto luminoso, quasi accecante.

Fratello disonorato, accanto al “seduttore” Aldo Puglisi e la “sedotta” Stefania Sandrelli. Fonte: Paramount

 

Buzzanca ci racconterà tutto questo in un’intervista anni dopo, con la chioma argentata e la sua voce “nuova” che ha preso il posto di quella nasale della gioventù, quella da meridionale tonto preso spesso per i fondelli dal settentrionale più scaltro. E’ una voce rauca ma solenne, da nobile siciliano d’altri tempi, ultimo di una stirpe di “gattopardi” del grande cinema, di attori di una certa statura anche intellettuale (penso a lui come al grande Gassman) che lo spettatore percepiva persino al di qua dello schermo.

 

Un “gattopardo” ben diverso da quello di Burt Lancaster, Lando Buzzanca lo interpretò davvero nel pluripremiato film del 2007 I Viceré di Roberto Faenza, ispirato al romanzo di Federico De Roberto. Padre autoritario di una famiglia nobile catanese in decadenza, quella degli Uzeda, sullo sfondo delle vicende risorgimentali, il personaggio di Buzzanca non si rassegna al suo mondo in rovina – quello dell’aristocrazia borbonica – davanti alla vittoria degli ideali unitari e cade in circolo vizioso di follia e superstizioni.

Ancora una volta l’attore porta sullo schermo il volto e la voce della sua Sicilia con i suoi chiaroscuri e le sue “tare”. Ma a ben pensarci, come lo era già stato nei film ad episodi degli anni ’60, (I mostri, Made in Italy, I nostri mariti) il volto di Buzzanca è quello dell’Italia intera con vizi e virtù che ci portiamo dietro nonostante anni di storia e un miracolo economico che in fondo «ha cambiato tutto per lasciare tutto com’era».

E questo i grandi registi lo sapevano. Per questo scelsero il talento e la voce di Buzzanca, il grande attore che per uno strano e crudele gioco del destino ha vissuto i suoi ultimi giorni relegato in una RSA, affetto da una forma acuta di afasia. Una voce che ci auguriamo non venga sommersa dal chiacchiericcio delle polemiche che circondano la sua triste morte, offuscando quelli che sono stati i meriti e le grandi intepretazioni dell’attore.

Siciliano ingenuo e seduttore accanto a Michele Mercier ne “I nostri mariti”. Fonte: Documento Films, Euro International Films

 

Perché quella di Buzzanca è una voce che merita di essere ancora solista nella storia del grande cinema italiano. E la nostra generazione, checché se ne dica, si merita di scoprire –  o anche riscoprire – un artigiano del cinema come lui.

Angelica Rocca

Fake News: nonostante il nome, un album sincero

 

L’album riesce ampiamente a trasmettere ciò che vuole, forse però senza variare troppo dalle recenti sonorità dei Pinguini. Voto UVM 4/5

 

Tutto ha avuto inizio questa estate, quando in rete cominciarono a diffondersi alcune indiscrezioni intorno ad un presunto scioglimento dei Pinguini Tattici Nucleari, la band musicale bergamasca più in voga in Italia. E proprio queste indiscrezioni, in seguito smentite dal frontman del gruppo Riccardo Zanotti, hanno poi ispirato i PTN per la realizzazione del loro nuovissimo progetto discografico, pubblicato lo scorso venerdì 2 Dicembre, intitolato Fake News.

Rilasciato con quattro copertine differenti tra loro, in cui in ognuna gli artisti sono raffigurati come protagonisti di falsi articoli di giornale, l’album contiene 14 tracce, di cui una (la settima) disponibile solo nel formato fisico del disco.

Tutta la verità sui Pinguini Tattici Nucleari

In un’epoca in cui disinformazione e manipolazione delle notizie sono fenomeni in crescita, le cosiddette ‘bufale’ finiscono per inquinare persino l’ambiente musicale. Inoltre, è solito degli artisti prendere “in prestito” esperienze di amici e conoscenti, andando ad arricchire così i contenuti dei loro testi. Ed è in questo clima che i Pinguini Tattici Nucleari sembrano invece voler raccontare una storia vera, regalandoci un album seppur molto autoreferenziale, ricco di situazioni in cui tutti possiamo immedesimarci.

Zen, la traccia d’apertura del disco, è il tentativo riuscito di narrare la realtà dei fatti: è un pezzo urban in cui Zanotti rivela al pubblico l’altra faccia della medaglia dell’avere successo, trasportandoci all’interno della propria coscienza, alla ricerca di un equilibrio tra le infinite pressioni e paure che incombono nell’approcciarsi con la sua professione.

Ma i dolori che ho annegato qualche volta tornan fuori
Come gocce nella doccia che non mi fan dormire mai
O come quelle che mi prendo per non sbagliare troppo ai live.

Ed è sempre Zanotti che in Barfly ci svela la realtà che spesso sta dietro l’illusoria promessa di un futuro migliore all’estero, riportandoci indietro nel tempo nella sua vita a Londra da studente e lavoratore part-time. Il brano deve il titolo all’omonimo pub di Chalk Farm, che il cantante era solito raggiungere nei suoi pochi momenti di svago.

Ma la traccia autobiografica per eccellenza è Dentista Croazia, secondo dei tre singoli che hanno anticipato l’album. E’ la storia della gavetta affrontata da un gruppo ancora agli esordi, che percorre tragitti immensi su un furgone noleggiato a poco prezzo, per riuscire ad esibirsi nei locali in giro per l’Italia. Rappresenta una significativa fase di vita della band, e la scelta di non trasmetterlo in radio lo rende ancora più speciale.

 

Tra citazioni e riferimenti alla pop culture

Componente essenziale della scrittura dei Pinguini, e punto di forza dei testi dell’album, è la presenza di numerosi giochi di parole ed inside joke. E tra sottili reference a canzoni dei Coldplay, musica degli U2 e performance dei Maneskin, il disco è un concentrato di molteplici richiami alla cultura popolare. Per citarne solo alcuni:

In Non Sono Cool si fa riferimento alla canzone Indietro di Tiziano Ferro, con il verso:

Hai nomen omen
E, se ci pensi, “raccordi” è l’anagramma del mio nome

E a chi li accusa di aver adottato nel tempo un sound esageratamente pop, i sei ragazzi di Bergamo rispondono con ironia:

A ventisette puoi morire, oppure diventare un po’ più pop (“Dentista Croazia”)

Nell’ottica commerciale, però, la scelta di seguire un percorso che vira al mainstream ha dato i suoi frutti, garantendo alla band un successo che ha permesso il tour negli stadi previsto per l’estate 2023:

Non so a che stadio siamo dell’evoluzione
Però forse in questa stessa frase trovo la risposta (“Dentista Croazia”)

Tirando le somme

Fake News non apporta importanti variazioni di stile alle sonorità che di recente hanno trascinato la band al successo ma bisogna riconoscere la messa in atto di una volontà di sperimentazione: Non sono cool e Fede sono forse le tracce più interessanti dal punto di vista strumentale poiché strizzano l’occhio alla vena rockeggiante dei Pinguini del passato. Anche Melting Pop, pur essendo caratterizzato da sonorità pop riesce a distinguersi, in quanto, come suggerisce il nome stesso, è contaminato da una miscela di influenze musicali diverse.

A chiudere il disco è Cena di Classe, ballad che per lo stile ricorda Freddie di Fuori dall’Hype (2019), e che riflette quindi la tradizione cantautorale e la grande abilità di storytelling del gruppo. E’ la traccia che forse rappresenta al meglio ciò che Fake News vuole comunicare, poiché attraverso la storia di un incontro tra vecchi compagni di scuola, condanna chi si rifugia nell’ ipocrisia per celare le proprie debolezze, chi resta fermo ai titoli “clickbait” senza leggerne davvero il contenuto. A tal proposito, merita di essere menzionato l’omaggio della band a Cloe Bianco, reso con lo scopo di veicolare al mondo un messaggio ben preciso: per progredire in quanto società, alcune storie non devono essere dimenticate.

Per far capire le stelle agli scemi servono Laika da poter bruciareMa Bianco ora è cenere che sporca i divani di chi ancora usa la parola “normale”

 

Giulia Giaimo

Amsterdam, la nuova crime comedy di David O. Russell

Film leggero e piacevole da vedere, ma con un cast del genere non rispetta interamente le aspettative -Voto UVM: 3/5

 

Proiettato per la prima volta il 7 ottobre nelle sale statunitensi, e distribuito in Italia dopo la presentazione al Festival del cinema di Roma il 21 dello stesso mese, Amsterdam è una crime comedy scritta e diretta dal regista David O. Russell. Come spesso è accaduto nel periodo post pandemico (West side story, Nightmare Alley), il film ha ricevuto scarsi incassi già dal primo weekend di proiezione: con il sempre maggiore sviluppo delle piattaforme streaming, sembra che i cinefili non avvertano più lo charme di andare a sedersi nelle poltroncine rosse in sala e vivere l’esperienza di guardare un film al cinema.

Amsterdam è in parte tratto dalla storia realmente accaduta del “Business Plot”, tentativo di complotto avvenuto nel 1933, volto a deporre il presidente Roosevelt per instaurare una dittatura in America.

Un medico, un’infermiera e un soldato in giro ad Amsterdam

Francia, 1918. Qui si ritrovano nello stesso momento un medico, Burt Berendsen, mandato al fronte su consiglio dei cognati (a suo dire probabilmente per liberarsi di lui)e  Harold Woodman, un soldato americano di colore che chiede, insieme ad altri soldati neri, di avere un comando che li guidi e li rispetti. Burt stabilisce un patto con Harold: ognuno si sarebbe assicurato che l’altro sarebbe sopravvissuto.

Da questo patto nasce una forte amicizia; feriti entrambi in battaglia, vengono aiutati e curati da Valerie. Per trovare un occhio nuovo a Burt, i tre partono per Amsterdam, dove Valerie conosce un tale Paul Canterbury, commerciante di occhi di vetro (in realtà agente sotto copertura). Dopo un periodo di perfetta felicità tra i tre (ed amore tra Harold e Valerie), i tre si separano.

Ma con la morte sospetta del loro vecchio comandante Bill Meekins (Ed Begley Jr.) e di sua figlia Liz, le loro vite finiranno per incrociarsi nuovamente: i tre collaboreranno per risolvere il caso e per smascherare le cospirazioni di un misterioso gruppo chiamato “Il consiglio dei cinque”.

Amsterdam
Burt, Harold e Valerie ad Amsterdam. Fonte: Regency Enterprises, Dreamcrew, 20th Century Studios

Un patto per la vita

Pur incentrandosi su una trama a tratti tendente al crime, Amsterdam mantiene dei toni leggeri ed ironici. In particolare, alcuni personaggi vengono costruiti in maniera molto comica, quasi caricaturale, primo fra tutti Burt. Burt è un medico con un occhio di vetro ed un rapporto molto contrastante ed altalenante con la moglie Beatrice ed il suocero, un rispettabile medico di Park Avenue.  Burt ha una clinica per veterani, dove sperimenta, prima di tutto su sé stesso, nuovi farmaci spesso fallimentari. Molto ironica è anche la scena finale, ricca di suspense, in cui Burt, colpito e sotto effetto di alcune “strane gocce”, si distacca dalla realtà, in una sorta di monologo interiore.

Altra figura caricaturale è Libby Woze, moglie di Tom. Per quanto si comporti in maniera odiosa nei confronti di Valerie, risulta essere allo spettatore una figura quasi satirica.

La tematica principale di Amsterdam è l’amicizia che lega Burt, Harold e Valerie. I tre, dopo aver passato il periodo migliore della loro vita insieme in Europa, restano legati dal patto di proteggersi sempre, patto che mantengono anche dopo molti anni.

Una piccola curiosità: nelle prime scene del film Burt canta, o meglio avrebbe dovuto intonare, una breve canzone con Liz Meekins – interpretata dall’attrice e cantante Taylor Swift – in onore del padre. In un intervista al The Hollywood Reporter, Bale ammette di essere stato molto emozionato dal dover cantare con una tale pop star, che anche sua figlia rimase molto sorpresa dal fatto che lui dovesse cantare con la Swift.

Tuttavia, alla fine nel film, è solo Liz a cantare principalmente, in quanto anche il regista David. O. Russell notò come Bale offuscasse il talento della Swift.

Amsterdam
Gil Dillembeck e Burt. Fonte: Regency enterprises, Dreamcrew, 20th Century Studios

Amsterdam: un cast stellare e tante aspettative

Uno degli elementi che faceva di Amsterdam una pellicola molto promettente, sia riguardo gli incassi sia riguardo eventuali riconoscimenti, era la presenza di un cast d’eccezione. Oltre Christian Bale  (Vice) , John David Washington (Tenet, Malcom & Marie) ed un’affascinante Margot Robbie nei panni dei tre protagonisti, Burt, Harold e Valerie, vi sono molte altre le stelle del cinema in Amsterdam.

Il premio Oscar Rami Malek (Bohemian Rapsody) interpreta Tom Woze, mentre l’attrice e modella Anya Taylor Joy (Ultima notte a Soho, La regina degli Scacchi) interpreta Libby. Il fantastico Robert De Niro qui è nei panni del generale Gil Dillenbeck. In ruoli secondari abbiamo Zoe Saldana come Irma, l’infermiera, la nota cantante Taylor Swift come Liz Meekins, figlia del comandante Meekins, e Chris Rock nel ruolo di Milton, veterano amico di Burt e Harold.

Amsterdam risulta essere una pellicola con una sfumatura comica e piacevole da seguire, caratterizzata da personaggi ironici e performance interessanti. Ciononostante, non è esattamente il capolavoro che magari ci si aspettava con un cast di questo genere.

Ilaria Denaro

Natale alle porte: 5 letture da non perdere sotto l’albero

Dicembre è il mese del Natale: si iniziano ad addobbare le case e le strade, la città si illumina con le caratteristiche lucine natalizie e le ghirlande decorate. L’inverno è anche la stagione preferita dagli amanti dei libri: cosa c’è di meglio di leggere un bel libro davanti al camino con una tazza di cioccolata calda fumante?

Qui 5 letture natalizie che ti faranno immergere nell’atmosfera di festa.

1) Questo inverno di Alice Oseman (2022)

Fonte: Mondadori

Dall’autrice di Heartstopper (2019, Mondadori) da cui è tratta la famosa serie omonima, in Questo Inverno – Una Heartstopper Story (Mondadori) ritroviamo i personaggi che tanto abbiamo amato di Heartstopper, ma con atmosfere e la magia del Natale. Ma per i protagonisti, i tre fratelli Springs, quello di quest’anno non sarà un Natale come tutti gli altri.

La sorella maggiore Victoria, per tutti Tori, nonostante il suo aspetto freddo e distaccato, tiene ai suoi due fratelli minori, Charlie e Oliver, più di qualunque persona al mondo. D’altro canto, per Charlie non sarà facile dopo essere stato dimesso dalla clinica psichiatrica in cui era in cura, anche se il sostegno di Nick gli darà la forza necessaria per andare avanti.

Le ultime pagine sono incentrate sul piccolo di famiglia, in un ritratto tenero e dolcissimo di un bambino che si sposa benissimo con un quadretto familiare dove ogni piccola sfaccettatura d’amore è ben accetta. Una lettura leggera e scorrevole, non troppo impegnativa, ma che ti avvolge di quel calore natalizio sereno.

2) Let it snow. Innamorarsi sotto la neve di John Green, Maureen Johnson, Lauren Myracle (2015)

Fonte: Rizzoli

Let it snow. Innamorarsi sotto la neve, romanzo natalizio edito da Rizzoli nel 2015, che ha ispirato l’omonimo film su Netflix del 2019.

Per chi cerca non un racconto ma ben tre, che parlano di un amore sotto i fiocchi di neve, è il libro perfetto.

In Jubilee Express la protagonista è Jubilee, una ragazza di sedici anni, con due genitori con la passione dei pezzi in ceramica per ricreare villaggi di Natale in miniatura. Come da tradizione, i genitori di Julie sono partiti per accaparrarsi uno dei pezzi più rari, ma qualcosa va storto perché si ritrovano a passare la nottata in galera. Il motivo è tutto da scoprire. Julie a questo punto dovrà raggiungere i nonni e così sale sul treno che la porterà da loro. Peccato che sia in arrivo una tormenta di neve e che il treno sia costretto a fermarsi nei pressi di Gracetown!

Un racconto sincero e adorabile, che ci catapulterà accanto alla protagonista nella sua avventura tra personaggi molto diversi tra loro.

In Un cheertastico miracolo di Natale le protagoniste saranno un gruppo di cheerleaders, presenti anche nel racconto precedente. Dopo aver occupato il vagone del treno rimasto fermo a Gracetown, tre amici cercano riparo alla Waffle House. Racconto meno natalizio, più avventuroso, ma sempre con quel tocco candido di John Green che non guasta mai.

Nell’ultimo racconto, Il santo patrono dei maiali, la protagonista è Addie. La narrazione si apre con Addie che ha fatto un’enorme stupidaggine e questo ha messo in crisi lei e la sua relazione con Jeb, personaggio apparso negli altri due racconti. Certo, il fatto che sia stata lei a rovinare tutto conta poco, perché Addie riesce a concentrarsi solo su se stessa. Saranno proprio un insieme di vicissitudini e di eventi straordinari – come un maialino che sta in una tazza, l’avvento di una donna che potrebbe essere un angelo e una sorpresa davvero speciale – a farle capire che l’egoismo non è la strada per la felicità.

La penna di tre straordinari scrittori rende questo libro l’incontro perfetto per tutti i gusti dei giovani amanti del Natale romantico.

 

3) All’improvviso a New York di Melissa Hill (2015)

Fonte: BUR

Non è solo uno dei tanti romanzi rosa natalizi di cui siamo indigesti, ma il romanzo rosa che non sfocia mai nel troppo melenso, una coccola davanti al camino mentre gli scoppiettii risuonano al di sopra delle pagine del libro.

Darcy Archer è una libraia di 33 anni che si rifugia tra i suoi adorati libri, immaginando il proprio futuro e sognando quell’amore che ritrova solo nei protagonisti dei suoi romanzi preferiti. Non è però una donna che basa la propria vita esclusivamente su una relazione, né intende forzare il corso delle cose per avere a tutti i costi un uomo. Anzi vive con il sorriso, credendo sempre che con un romanzo si possa curare ogni tipo di problema.

Sarà un’incidente in bicicletta a farle svoltare la vita in positivo. Infatti nello scontro con un uomo e un cane, il primo perderà la memoria. Per i sensi di colpa, Darcy deciderà di prendersi cura del cane di Aiden, un bellissimo Husky di nome Bailey, e di aiutare l’uomo alla ricerca del suo passato.

Nonostante la storia d’amore, il vero fulcro della narrazione sono i libri: tra le pagine troviamo vere e proprie citazioni a opere esistenti, basate sul contesto e sulle vicissitudini che la protagonista vive in prima persona.

All’improvviso a New York, edito da Rizzoli, è un romanzo da leggere tutto d’un fiato, che strizza l’occhio al “giallo”  incuriosendo e lasciando in sospeso per tutto il racconto.

4) Per mano mia. Il Natale del Commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni

Fonte: Einaudi

Per gli amanti dei gialli, e in particolare del commissario più famoso di Napoli, consigliamo questo libro ambientato nel Natale degli anni trenta.

Il Commissario Luigi Alfredo Ricciardi, protagonista di una famosa serie televisiva con Lino Guanciale, e il Brigadiere Raffaele Maione, nel giorno del 25 dicembre dovranno fare i conti con un omicidio di una coppia di coniugi: il funzionario della Milizia Fascista che controlla i pescatori, Emanuele Garofalo, e di sua moglie Costanza. La donna è stata sgozzata con un solo colpo di lama, mentre l’uomo è stato trafitto nel letto con oltre 60 coltellate.

Sulla scena del delitto, Ricciardi, che ha l’amaro dono di vedere e sentire i morti ammazzati, ascolta le oscure ultime frasi della coppia, che non gli dicono granché. Iniziano quindi le prime indagini, andate a vuoto, ma un colpo d’occhio al mercato del pesce rivelerà la tremenda verità agli occhi del Commissario.

Per mano mia. Il Natale del Commissario Ricciardi, edito da Einaudi, fa parte della fortunatissima serie di romanzi di Maurizio De Giovanni, non avendo niente da invidiare agli altri romanzi dello stesso ciclo.

Anche qui De Giovanni si è superato nella narrazione dedita ai minimi dettagli, con un focus importante sul periodo storico dove l’opera è ambientata, velato da un’atmosfera cupa e segreta.

5) Il tram di Natale di Giosuè Calaciura

Fonte: Sellerio Editore

Alla vigilia di Natale, un tram viaggia all’estrema periferia di una città non identificata, con i suoi addobbi natalizi luminosi e un allegro aspetto di festa. Al suo interno, ad ogni corsa, accoglie uomini e donne in qualche modo infelici e poveri. Tra loro non si conoscono, ma nasce come una sorta di rete solidale che li unisce inconsapevolmente. Nell’ultimo sedile, lontano da tutti, vi giace un neonato, avvolto in calde coperte, e più in là il conducente del tram, blindato così da non poter vedere l’infelicità dei viaggiatori.

La narrazione di Calaciura si sofferma su ognuno dei passeggeri, uno più diverso dall’altro, con storie differenti e spesso anche tragiche. Il messaggio che la dura realtà e la tristezza della vita parte dal momento della nascita, rappresentato dal neonato abbandonato, ma di cui ogni passeggero a modo suo cerca di prendersene cura, è letale, forte nel suo significato, come un pugno allo stomaco.

Il tram di Natale di Giosuè Calaciura, edito da Sellerio editore, è come una fiaba moderna, nuda e cruda nelle sue intenzioni. Inscena quasi un presepe vivente formato dalla diversità dei suoi personaggi e dai loro trascorsi umani.

Victoria Calvo

 

 

 

 

Sfera Ebbasta compie 30 anni: 5 canzoni di maggior successo del Trap King italiano

Oggi compie gli anni Sfera Ebbasta, alias di Gionata Boschetti. Nato a Sesto San Giovanni il 07/12/1992 ma cresciuto a Cinisello Balsamo, ha iniziato la sua carriera musicale tra il 2011 e il 2012 caricando video musicali su YouTube. Successivamente, nel 2013 conobbe il produttore nonché amico fidato Charlie Charles e lentamente, ha scalato le vette delle classifiche, riscuotendo successi clamorosi di cui ancora oggi si parla. Lo celebriamo elencando quelle che sono, secondo noi di UniVersoMe, le sue migliori 5 canzoni!

1) XDVR

Estratto dal primo album, XDVR, pubblicato nel 2015 e interamente prodotto da Charlie Charles, il singolo rappresenta un punto di rottura nella scena hip hop mainstream italiana, affermandosi come un prodotto musicale mai sentito prima. Connotato da forti sonorità Trap, il brano apre il disco d’esordio dell’artista milanese, provocando un interesse non indifferente. Di questo pezzo, succeduto al primo singolo estratto dall’album Panette, è stato poi realizzato un remix, inserito nell’album, con due strofe di Marracash e Luché.

 

2) Ciny

La C con la mano è da dove veniamo
La C con la mano è da dove veniamo
Ciny, Ciny
Ciny, Ciny

Tra i singoli più ascoltati dell’album sopracitato, Ciny è fondamentalmente una descrizione del piccolo paese in cui ha vissuto. Il video musicale vede la presenza di molte persone di Cinisello Balsamo, probabilmente tutti amici di Sfera, ed è funzionale per trasmettere il legame e l’appartenenza alle sue radici. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’incipit del brano produce un certo effetto nostalgico. Inoltre Sfera, durante una breve intervista per Vevo, ha dichiarato che Ciny è la sua canzone preferita da suonare dal vivo.

 

3) BRNBQ (Bravi ragazzi nei brutti quartieri)

Uno tra i pezzi più iconici della carriera di Sfera, spesso suonato dal vivo (soprattutto in versione acustica), rappresenta la sua vita e quella di tutti quei ragazzi cresciuti in ambienti di periferia, a contatto con situazioni difficili e di piccola criminalità, ai quali nonostante il successo è, per certi aspetti, ancora legato. Il brano è contenuto nel secondo album omonimo Sfera Ebbasta, uscito nel 2016 e affermatosi subito in vetta alle classifiche, nel pieno della primavera della trap italiana. Tra le barre più iconiche citiamo:

E sono padri un po’ prima del tempo i miei fra’
Invecchiano dentro una cella o ad un bar
Certi diventano star
Certi non si son mai mossi di qua
E sognano vite diverse da queste
Mentre uno sbirro gli chiede dove sta la merce
Tutti fan finta di niente
Come non fosse mai successo niente

E ancora:

Bravi ragazzi nei brutti quartieri
Fumano e parlano lingue diverse
Però non ci parlano ai carabinieri
Fanno le cose che è meglio non dire
Fanno le cose che è meglio non fare
Bravi ragazzi nei brutti quartieri
No, mamma non preoccuparti
Esco solo a farmi un giro con i bravi ragazzi
Sfrecciano alle tre di notte sull’Audi
Dio non li vede quaggiù
Dietro quei tendoni blu
Quindi non pregano più

 

4) Cupido (feat. Quavo)

Tra le hit più forti della carriera dell’artista milanese, Cupido, contenuta nel secondo album Rockstar, vanta il featuring con uno dei tre rapper dei Migos, gruppo hip-hop statunitense, ossia Quavo. Il singolo, un paio di settimane dopo l’uscita del disco, ha superato i quaranta milioni di stream su Spotify. Si evince da subito l’evoluzione artistica di Sfera e della produzione di Charlie Charles poiché in questa canzone, così come nelle altre del disco, predomina una ricerca accurata dei suoni da utilizzare, oltre alla presenza di poche e brevi tracce che danno all’album un carattere leggero, rendendolo quindi facile da ascoltare. Rispetto ad un canonico disco rap, in cui su quindici brani, solo tre o quattro sono destinati a diventare di tendenza, Rockstar propone undici canzoni perfettamente bilanciate, in modo che ciascun ascoltatore possa scegliere la sua preferita.

 

5) Bottiglie Privè

Tutto cambia, nulla resta uguale
Tranne l’amore di tua madre
La gente cambia, il cash ti cambia
Più ne fai e più non ti basta

Bottiglie Privè è la traccia d’apertura, nonché il primo singolo estratto del terzo album di Sfera Ebbasta, Famoso.

La prima versione del brano, come mostrato nel docu-film FAMOSO – The Movie, rilasciato un giorno prima del singolo, è nata nell’estate del 2019, durante il soggiorno di Sfera e del suo team ad Arezzo. Nel testo, l’artista racconta le sensazioni provate una volta arrivato al successo, rendendosi conto della caducità dei beni materiali che è riuscito a conquistare dopo tanti sacrifici. Proprio per questo motivo Bottiglie Privè è considerato uno dei pezzi più personali del trapper. Inoltre, è l’unica traccia di Famoso prodotta da Charlie Charles, lo storico produttore di fiducia di Sfera, a cui è stata comunque affidata la produzione esecutiva dell’intero progetto. Il pianoforte è stato invece suonato dal compositore e musicista Max D’Ambra.

Confermatosi come l’artista più ascoltato in Italia nel 2022 secondo una stima prodotta da Spotify, Sfera, musicalmente parlando, ha lasciato la sua traccia ovunque. Buon compleanno, Trap King!

 

Federico Ferrara

Combattere come una femminuccia? Si, grazie

Prima di essere le buone o le cattive della storia, prima di essere “quelle” con il mantello, i tacchi alti, il viso angelico e il destro da paura, sono le femmine affascinanti, coraggiose, intelligenti e determinate che abbiamo – fortunatamente – imparato a conoscere e stimare attraverso fumetti, film e serie tv per le loro storie e le loro gesta da supereroine o, meglio, da super-donne.

Super-donne
Panchina rossa. Fonte: freepik.com

 

In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, se nei luoghi pubblici è ormai diventata una consuetudine vedere adagiate file di scarpe rosse; nelle programmazioni tv o nelle vetrine delle librerie non è raro imbattersi in film, serie tv e fumetti di denuncia, nella speranza forse che chi è vittima assuma maggiore consapevolezza del suo “ruolo” e, soprattutto, della sua via d’uscita.

A questo proposito non possiamo evitare di nominare 5 supereroine che dall’essere donne vittime si sono trasformate – spesso, letteralmente – per salvare chi ne ha bisogno e, chissà, magari sono state d’aiuto anche a chi le ha conosciute solo attraverso lo schermo di una tv o la pagina di un libro.

  1. Wonder Woman

Figlia della regina Ippolita, Diana cresce nell’Isola Paradiso abitata da sole donne: le amazzoni che, dopo essere state violentate e uccise dall’esercito di Ercole, sono riportate in vita dagli dei dell’Olimpo. Spinta dal desiderio di portare la pace nel mondo degli uomini e dalla curiosità di scoprire cosa si celi oltre quelle “mura”, Diana Prince abbandona la sua terra d’origine e, catapultata in un mondo fortemente maschilista, diventa il simbolo dell’emancipazione delle donne.

  1. Jessica Jones

Dopo aver perso i suoi genitori in un incidente stradale, Jessica viene rapita dall’Uomo Porpora che ne violenta il corpo e la psiche (ma non l’anima da guerriera) fino a ridurla in sua schiava. Riuscita a spezzare il legame malato e tormentato con il suo rapitore, apre l’agenzia Alias Investigations per occuparsi, grazie al suo intuito e ai poteri da lei acquisiti durante l’incidente stradale, sia di casi “ordinari” sia di quelli da supereroi.

  1. Catwoman

Selina Kyle è l’inafferrabile femme fatale a cui nessun uomo può sfuggire, nemmeno Batman. Dopo aver deciso di abbandonare il “mestiere più antico del mondo”, comincia a dedicarsi ai furti. Rubando ai ricchi e ai potenti di Gotham City, riesce a conquistare il rispetto e la libertà che aveva tanto desiderato sin da giovanissima. Senza parlare dell’ammirazione e, forse, del cuore del tenebroso Pipistrello che, in più di un’occasione, la lascia fuggire col bottino.

Super-donne
Catwoman nei fumetti. Fonte: pixabay.com
  1. Harley Queen

Brillante membro dello staff del manicomio di Gotham City, finisce per innamorarsi del folle criminale Joker che la manipola, convincendola a farlo scappare. Pur essendosi resa conto di essere stata letteralmente sedotta e abbandonata, non riesce a rinunciare all’uomo che ama, e con lui instaura un rapporto fatto di continue riappacificazioni e separazioni. Comincia comunque a collaborare con i “buoni” (più o meno) della Suicide Squad, per combattere le minacce sovrannaturali.

  1. Elektra

Rimasta orfana di madre ancora prima di nascere, Elektra cresce nutrendo il terribile dubbio di essere stata stuprata dal padre alla tenera età di 5 anni. Per dominare l’odio e il desiderio di vendetta che cresce giorno dopo giorno dentro di lei, si appassiona alle arti marziali e conosce l’amore vero con “Matt” Murdock, alias Daredevil.

Super-donna non si nasce, lo si diventa!

E se è vero che il 25 novembre sembra sia diventato, anno dopo anno, una mera dichiarazione di principio, non accompagnata da un reale impegno (o, quanto meno, interesse) e che il compito di salvare le vite di donne e bambine non spetta ai registi, agli sceneggiatori e agli scrittori ma, piuttosto, alle istituzioni pubbliche e alle forze dell’ordine, è vero anche che una pellicola o un libro possano far capire a una donna che ha il diritto di non sentirsi a disagio, sbagliata e “sporca” e che ha il potere di dire “no” e “basta”, per sé e forse per tutte noi, alla violenza.

Super-donne
Donne: le nostre Supereroine. Fonte: freepik.com

 

Queste, come tante altre, sono le storie di donne che, dopo essere cadute (per mano del proprio carnefice e, spesso, della società) nell’abisso della paura e della vergogna, sono rinate… scalciando, graffiando, mordendo, piangendo e, soprattutto, urlando per quel dolore cui nessuna dovrebbe mai essere sottoposta e per quella vita cui nessuna dovrebbe mai essere privata.

 

Angelica Terranova

Ernia: senza armatura contro le paure contemporanee

Un viaggio dentro l’anima di un artista che raggiunge, finalmente, la piena libertà d’espressione del proprio sé. – Voto UVM: 5/5

In un clima dettato dal canone consumista, Ernia ritorna con il suo quarto album in studio sfondandone il muro. Io non ho paura è un concentrato di ansie e paure che scava a fondo nell’anima di Matteo Professione (vero nome di Ernia), riflettendosi alle orecchie dell’ascoltatore e raggiungendo così un livello di maturità sorprendente, forse superiore al lavoro precedente, Gemelli (2020). La paura è un elemento che ha sempre accompagnato l’artista, poiché vista come condizione necessaria con cui ha imparato a convivere.

Il disco, pubblicato venerdì 18 novembre, riprende il concept del libro di Niccolò Ammaniti e la locandina del film di Gabriele Salvatores. Curato da produttori di tutto rispetto come 6IXPM e Junior K, si districa sincronicamente tra puro rap – sono un esempio tracce come Cattive Intenzioni e Non Ho Sonno – e pop italiano, che caratterizza da sempre lo stile del rapper milanese. A questo proposito non possiamo fare a meno di ricordare il successo ottenuto da Superclassico che vanta quattro dischi di platino. Scendiamo adesso nel dettaglio parlando di quelle canzoni che più risaltano in quest’ultimo capolavoro!

Le verità disarmanti di cui “tutti hanno paura”

Lo scenario è lo stesso raccontato da Marracash in Noi, loro, gli altri: una società frammentata e caotica. E come si fa a non avere paura se a poco più di vent’anni ci si ritrova con in mano un destino precario? Perché sforzarsi di leggere Goethe, Kant et similia senza però sapere cosa fare della propria vita?

È da questi interrogativi che il rapper di Milano parte per raccontare, nella traccia d’apertura (ft. Marco Mengoni), l’ansia di una generazione ormai alle strette. Giovani che devono trovare la loro strada in una società destinata al collasso, in un pianeta morente che, tra crisi pandemiche e crolli di borsa, farebbe invidia ad un qualsiasi libro di Stephen King. Per i superstiti le prossime rivoluzioni si faranno in smart working. Ma una cosa è certa, e per quanto noi possiamo sforzarci di nasconderlo, Ernia non usa mezzi termini: tutti hanno paura.

Sono solo un middle child che non riposa
Che non sa che scelte fare perché tutti hanno paura di qualcosa

Ad anticipare questa paura ci aveva già pensato Montale quando, in risposta alle indagini sui mezzi di comunicazione di massa tenute dal semiologo italiano Umberto Eco nel suo volume Apocalittici e integrati (1964) si chiedeva quali fossero i fini dell’uomo per tali mezzi: “Qui si naviga nel buio”.

Con un sample di Stupidi della Vanoni, in Così stupidi, Ernia ci racconta di una società governata dai media e in cui l’uomo, schiavo di quel consumismo capitalistico, ha deciso di rincorrere un “sogno frustrato”, rinunciando all’essere per apparire. Questa caratteristica è endemica della scena hip hop italiana, intrisa di artisti che affrontano delle tematiche senza viverle veramente, al fine di accontentare il gusto del pubblico attuale e dell’industria musicale. Non manca, dunque, una critica all’attitudine imbarazzante di questi artisti:

‘Sti rapper come Amazon, che miseri (Bu!)
[…] La mia generazione di bugiardi, son finti dinamitardi
Pensare che c’è il pubblico che abbocca
Vedi tu quando non vendon più che la merda viene su

Paure e ansie di un amore generazionale

Bella fregatura è la terza traccia del disco, puramente pop, che si presenta come una ballata romantica ma senza perdere il focus sulla paura. In questo caso, il tema riflette la consapevolezza dei rischi e i limiti che una relazione può comportare, specialmente se si è giovani. Nel cuore dell’artista, probabilmente, l’insieme è correlato anche alle conseguenze del successo che per certi versi distrae l’uomo dietro il personaggio, portando i due a non decidersi su determinate scelte e posizioni da adottare, da come si evince dal ritornello:

Io penso cose che tu non t’aspetti
Perché ho ancora più sogni che cassetti
Ma se dagli occhi tu apri i rubinetti
Fanno contrasto con la pelle scura

Tuttavia, al cuor non si comanda e il rapper conclude che la fidanzata Valentina Cabassi, affettuosamente parlando, è la sua “bella fregatura” poiché non riesce a rinunciare all’amore che prova per lei. La tematica viene poi ripresa da Ernia in Il mio nome (dodicesima traccia dell’album), costruita sulla falsa riga di Phi, quest’ultima contenuta in 68 (Till The End).

Nella società odierna, a diventare mutevoli ed imprevedibili sono, infatti, anche le relazioni sociali e i rapporti d’amore. Uomini e donne sono ansiosi di costruire dei legami ma al tempo stesso hanno paura di restare bloccati in relazioni “stabili”, definitive, rischiando di perdere quella libertà di instaurare altri rapporti. Perché anche l’amore, come ci fa notare il rapper, non solo non si sottrae da quelle costanti ansie e paure che la generazione Z è costretta ad affrontare quotidianamente ma molto spesso ne diventa la causa principale.

Il sogno interrotto di Sveva

Cosa succede quando dinanzi a un dolore così grande, ci si ritrova spogliati da ogni preconcetto? Dove si trova la forza di andare avanti? Questo è ciò che traspare da Buonanotte, la punta di diamante del disco prodotta dalla mirabile penna di Ernia, riflettente l’uomo dietro il personaggio nel suo carattere più sensibile e puro.
L’artista tratta il delicato tema dell’aborto, rivolgendosi al figlio o figlia che avrebbe avuto con la compagna, spiegando il perché di una tale difficile e sofferta decisione:

La paura di sbagliare, sai, paralizza la scelta
Perdonami davvero, ma se abbiamo preso questa
È stato anche per non doverci ritrovare ostaggi della stessa

Un po’ come se fosse la sua “lettera a un bambino mai nato”, o meglio, la lettera alla sua Sveva, – è così che l’avrebbe chiamata – che ora riposa tranquilla nei sogni del papà. La paura che Ernia racconta in questa traccia è quella dei millennial e della Gen Z di mettere al mondo dei figli a causa di una sempre più instabile condizione economica e sociale di un futuro catastrofico. Come si fa a parlare di vita e di speranza vivendo in un mondo del genere?

La paura smascherata

L’impostore è una chiusura – a nostro avviso – perfetta, un vero e proprio j’accuse che pone l’ascoltatore nelle condizioni di riflettere in modo immersivo, come se lo stesso artista ci invitasse a mettere in dubbio la propria identità. È una traccia interessante e personale poiché va a riprendere la Sindrome dell’impostore. Concetto, già sviluppato in La Paura e Bugie, contenute rispettivamente in 68 (disco d’esordio) e Gemelli (un disco a metà tra la spontaneità e la maturità artistica). La traccia finale del disco rappresenta la presa di coscienza definitiva di un’artista smascherato delle sue stesse contraddizioni, generate dalla paura di fallire:

Forse è grazie al cervello che ho reso grande il mio nome
Ma la musica è di pancia, io non ho duro l’addome
Forse metterlo in piazza riesce a darmi un po’ di pace
O è per distrarvi prima che notiate

Con queste barre, il rapper si chiede se i propri risultati siano frutti di bravura o meno: lui ha cervello ma la musica è arte che va oltre la logica e forse non è in grado di capirla. Dunque, l’artista cerca giustificazioni che vogliano screditare il suo merito, così da uscire da questo paradosso che vive costantemente. Sicuramente sentiremo parlare di questo disco anche perché, diciamoci la verità: un individuo riesce davvero a sfuggire dalle sue paure?

 

Federico Ferrara
Domenico Leonello

Vatican Girl: storia inedita di uno dei più grandi misteri italiani


 Tra thrilling, flashback e testimonianze reali, “Vatican Girl” è un esperimento riuscito sulla storia della sparizione di Emanuela Orlandi – Voto UVM: 4/5

 

La mini docuserie Vatican Girl, diretta dall’autore e regista Mark Lewis, tra toni cupi ed investigativi, analizza e declina il misterioso caso di Emanuela Orlandi. Formata solo da quattro episodi, racconta tra flashback e testimonianze alcuni retroscena su uno dei misteri più oscuri avvenuti tra le mura vaticane.

La produzione Netflix, in collaborazione con la famiglia della giovane scomparsa, permetterà la fruizione in 160 paesi, dando chiaramente un approccio internazionale al documentario. Infatti, la serie è principalmente in lingua inglese mentre le testimonianze in italiano.

Chi era Emanuela Orlandi?

Emanuela Orlandi era una ragazza di quindici anni di Città del Vaticano, con molte passioni, tra cui la musica. Ed è proprio all’uscita dalla scuola di musica, in un afoso pomeriggio di metà giugno che sparirà senza lasciare più traccia.

Parte quindi una corsa contro il tempo,  scandita da ansie e sensi di colpa dei familiari, nel vano tentativo di ritrovarla: una famiglia distrutta che però, dopo quasi quarant’anni, non si da pace e spera di rivederla ancora in vita.

Vatican Girl: la serie su Emanuela Orlandi

La vicenda prende subito una direzione quasi da thriller politico, tanto da essere definita dagli americani “a Dan Brown story”. Si inizia con tentativi che barcollano nel vuoto e inizialmente riconducono alla mafia e alla criminalità organizzata per poi rivelarsi miseri buchi nell’acqua. La miniserie, che è a tutti gli effetti un esperimento riuscito, racconta come una fotografia, uno spaccato della società durante gli anni Ottanta.

La trama ha una particolarità non indifferente: come afferma anche lo stesso regista, viene raccontata tramite una narrazione retroattiva in cui ogni episodio è scandito dalle testimonianze di familiari e amici. Grazie alla digitalizzazione di alcuni video realizzati al tempo, è stato possibile riportare anche il punto di vista dei fratelli, facendo rivivere al telespettatore la serenità familiare prima della scomparsa.

Le testimonianze: chiave di svolta o buchi nell’acqua?

Intervengono, nei quattro episodi, anche potenziali testimoni della vicenda, da sempre vista come “scomoda”. La  testimonianza straordinaria di Sabrina Minardi, l’ex amante di Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana, non lasciano dubbi: dietro questa serie c’è coraggio da vendere!

Dal primo fino al quarto episodio, infatti, si susseguono le interviste a personalità italiane di spicco come Andrea Purgatori o Ferruccio Pinotti, che con il loro contributo offrono testimonianze dirette di chi, in questi anni subito dopo il rapimento di Emanuela Orlandi, era molto vicino alla realtà dei fatti. Le loro interviste ci offrono un puzzle che nell’insieme ha una forma, ma non completa! Mancano, infatti, dei pezzi. Forse questa serie può dare lo slancio per trovarli? Può contribuire a far uscire alla luce del sole la verità?

Sono stati tanti i tentavi di insabbiamento della storia. Infatti il terzo episodio è completamente dedicato a Marco Accetti, un fotografo che nel marzo 2013 si autoaccusa di essere complice nella vicenda. Dopo trent’anni sembra quasi uno spiraglio di luce per la famiglia Orlandi, come una boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea. Si scopre poi però che Accetti è soltanto un mitomane, al quale addirittura verrà diagnosticato il disturbo narcisista della personalità.

 Il tempo stringe in attesa della verità

Sono già diciotto anni che Ercole Orlandi, padre di Emanuela, non c’è più. Mentre la madre, Maria Pezzano, è molto anziana. E’ ancora vivo in lei il desiderio di poter abbracciare la sua bambina, che adesso avrebbe più di cinquant’anni. E’ forte il desiderio anche nel fratello Pietro e nelle sorelle Federica e Maria Cristina. Ed è proprio il tempo il file rouge che lega i quattro episodi, con frames di orologi ricorrenti che scandiscono momenti destinati a finire.

E’ parecchio interessante l’ultimo episodio  con l’intervista concessa da Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi. Infatti, nell’estate del 2019, la donna ha ricevuto un biglietto anonimo con in allegato una fotografia di una tomba. Il biglietto recitava: “Cercate dove guarda l’angelo”. Ma il sepolcro in questione, dopo l’intervento della scientifica, è stato trovato vuoto. E nel momento in cui il legale Sgrò ha chiesto successivi chiarimenti, non ha ricevuto alcuna risposta dagli inquirenti del Vaticano. Perché fare così? Si tratta forse di un caso di insabbiamento? O davvero qualcuno, tra le protette mura del Vaticano, è a conoscenza di qualcosa? Una serie di domande che ancora oggi, a quasi quaranta anni dal quel 22 Giugno 1983, non hanno una risposta. Una risposta che però, la famiglia Orlandi merita di avere.

Quello che il regista Mark Lewis e la produttrice Chiara Messineo si augurano è che la serie possa proporre una visione della storia inedita e questo possa avvicinarci alla tanto agognata verità. E se lo augurano pure gli italiani che da quarant’anni aspettano, come se si trattasse della propria figlia, il ritorno di Emanuela a casa.

Giorgia Fichera