Sfera Ebbasta compie 30 anni: 5 canzoni di maggior successo del Trap King italiano

Oggi compie gli anni Sfera Ebbasta, alias di Gionata Boschetti. Nato a Sesto San Giovanni il 07/12/1992 ma cresciuto a Cinisello Balsamo, ha iniziato la sua carriera musicale tra il 2011 e il 2012 caricando video musicali su YouTube. Successivamente, nel 2013 conobbe il produttore nonché amico fidato Charlie Charles e lentamente, ha scalato le vette delle classifiche, riscuotendo successi clamorosi di cui ancora oggi si parla. Lo celebriamo elencando quelle che sono, secondo noi di UniVersoMe, le sue migliori 5 canzoni!

1) XDVR

Estratto dal primo album, XDVR, pubblicato nel 2015 e interamente prodotto da Charlie Charles, il singolo rappresenta un punto di rottura nella scena hip hop mainstream italiana, affermandosi come un prodotto musicale mai sentito prima. Connotato da forti sonorità Trap, il brano apre il disco d’esordio dell’artista milanese, provocando un interesse non indifferente. Di questo pezzo, succeduto al primo singolo estratto dall’album Panette, è stato poi realizzato un remix, inserito nell’album, con due strofe di Marracash e Luché.

 

2) Ciny

La C con la mano è da dove veniamo
La C con la mano è da dove veniamo
Ciny, Ciny
Ciny, Ciny

Tra i singoli più ascoltati dell’album sopracitato, Ciny è fondamentalmente una descrizione del piccolo paese in cui ha vissuto. Il video musicale vede la presenza di molte persone di Cinisello Balsamo, probabilmente tutti amici di Sfera, ed è funzionale per trasmettere il legame e l’appartenenza alle sue radici. Ancora oggi, nell’immaginario collettivo, l’incipit del brano produce un certo effetto nostalgico. Inoltre Sfera, durante una breve intervista per Vevo, ha dichiarato che Ciny è la sua canzone preferita da suonare dal vivo.

 

3) BRNBQ (Bravi ragazzi nei brutti quartieri)

Uno tra i pezzi più iconici della carriera di Sfera, spesso suonato dal vivo (soprattutto in versione acustica), rappresenta la sua vita e quella di tutti quei ragazzi cresciuti in ambienti di periferia, a contatto con situazioni difficili e di piccola criminalità, ai quali nonostante il successo è, per certi aspetti, ancora legato. Il brano è contenuto nel secondo album omonimo Sfera Ebbasta, uscito nel 2016 e affermatosi subito in vetta alle classifiche, nel pieno della primavera della trap italiana. Tra le barre più iconiche citiamo:

E sono padri un po’ prima del tempo i miei fra’
Invecchiano dentro una cella o ad un bar
Certi diventano star
Certi non si son mai mossi di qua
E sognano vite diverse da queste
Mentre uno sbirro gli chiede dove sta la merce
Tutti fan finta di niente
Come non fosse mai successo niente

E ancora:

Bravi ragazzi nei brutti quartieri
Fumano e parlano lingue diverse
Però non ci parlano ai carabinieri
Fanno le cose che è meglio non dire
Fanno le cose che è meglio non fare
Bravi ragazzi nei brutti quartieri
No, mamma non preoccuparti
Esco solo a farmi un giro con i bravi ragazzi
Sfrecciano alle tre di notte sull’Audi
Dio non li vede quaggiù
Dietro quei tendoni blu
Quindi non pregano più

 

4) Cupido (feat. Quavo)

Tra le hit più forti della carriera dell’artista milanese, Cupido, contenuta nel secondo album Rockstar, vanta il featuring con uno dei tre rapper dei Migos, gruppo hip-hop statunitense, ossia Quavo. Il singolo, un paio di settimane dopo l’uscita del disco, ha superato i quaranta milioni di stream su Spotify. Si evince da subito l’evoluzione artistica di Sfera e della produzione di Charlie Charles poiché in questa canzone, così come nelle altre del disco, predomina una ricerca accurata dei suoni da utilizzare, oltre alla presenza di poche e brevi tracce che danno all’album un carattere leggero, rendendolo quindi facile da ascoltare. Rispetto ad un canonico disco rap, in cui su quindici brani, solo tre o quattro sono destinati a diventare di tendenza, Rockstar propone undici canzoni perfettamente bilanciate, in modo che ciascun ascoltatore possa scegliere la sua preferita.

 

5) Bottiglie Privè

Tutto cambia, nulla resta uguale
Tranne l’amore di tua madre
La gente cambia, il cash ti cambia
Più ne fai e più non ti basta

Bottiglie Privè è la traccia d’apertura, nonché il primo singolo estratto del terzo album di Sfera Ebbasta, Famoso.

La prima versione del brano, come mostrato nel docu-film FAMOSO – The Movie, rilasciato un giorno prima del singolo, è nata nell’estate del 2019, durante il soggiorno di Sfera e del suo team ad Arezzo. Nel testo, l’artista racconta le sensazioni provate una volta arrivato al successo, rendendosi conto della caducità dei beni materiali che è riuscito a conquistare dopo tanti sacrifici. Proprio per questo motivo Bottiglie Privè è considerato uno dei pezzi più personali del trapper. Inoltre, è l’unica traccia di Famoso prodotta da Charlie Charles, lo storico produttore di fiducia di Sfera, a cui è stata comunque affidata la produzione esecutiva dell’intero progetto. Il pianoforte è stato invece suonato dal compositore e musicista Max D’Ambra.

Confermatosi come l’artista più ascoltato in Italia nel 2022 secondo una stima prodotta da Spotify, Sfera, musicalmente parlando, ha lasciato la sua traccia ovunque. Buon compleanno, Trap King!

 

Federico Ferrara

Combattere come una femminuccia? Si, grazie

Prima di essere le buone o le cattive della storia, prima di essere “quelle” con il mantello, i tacchi alti, il viso angelico e il destro da paura, sono le femmine affascinanti, coraggiose, intelligenti e determinate che abbiamo – fortunatamente – imparato a conoscere e stimare attraverso fumetti, film e serie tv per le loro storie e le loro gesta da supereroine o, meglio, da super-donne.

Super-donne
Panchina rossa. Fonte: freepik.com

 

In occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, se nei luoghi pubblici è ormai diventata una consuetudine vedere adagiate file di scarpe rosse; nelle programmazioni tv o nelle vetrine delle librerie non è raro imbattersi in film, serie tv e fumetti di denuncia, nella speranza forse che chi è vittima assuma maggiore consapevolezza del suo “ruolo” e, soprattutto, della sua via d’uscita.

A questo proposito non possiamo evitare di nominare 5 supereroine che dall’essere donne vittime si sono trasformate – spesso, letteralmente – per salvare chi ne ha bisogno e, chissà, magari sono state d’aiuto anche a chi le ha conosciute solo attraverso lo schermo di una tv o la pagina di un libro.

  1. Wonder Woman

Figlia della regina Ippolita, Diana cresce nell’Isola Paradiso abitata da sole donne: le amazzoni che, dopo essere state violentate e uccise dall’esercito di Ercole, sono riportate in vita dagli dei dell’Olimpo. Spinta dal desiderio di portare la pace nel mondo degli uomini e dalla curiosità di scoprire cosa si celi oltre quelle “mura”, Diana Prince abbandona la sua terra d’origine e, catapultata in un mondo fortemente maschilista, diventa il simbolo dell’emancipazione delle donne.

  1. Jessica Jones

Dopo aver perso i suoi genitori in un incidente stradale, Jessica viene rapita dall’Uomo Porpora che ne violenta il corpo e la psiche (ma non l’anima da guerriera) fino a ridurla in sua schiava. Riuscita a spezzare il legame malato e tormentato con il suo rapitore, apre l’agenzia Alias Investigations per occuparsi, grazie al suo intuito e ai poteri da lei acquisiti durante l’incidente stradale, sia di casi “ordinari” sia di quelli da supereroi.

  1. Catwoman

Selina Kyle è l’inafferrabile femme fatale a cui nessun uomo può sfuggire, nemmeno Batman. Dopo aver deciso di abbandonare il “mestiere più antico del mondo”, comincia a dedicarsi ai furti. Rubando ai ricchi e ai potenti di Gotham City, riesce a conquistare il rispetto e la libertà che aveva tanto desiderato sin da giovanissima. Senza parlare dell’ammirazione e, forse, del cuore del tenebroso Pipistrello che, in più di un’occasione, la lascia fuggire col bottino.

Super-donne
Catwoman nei fumetti. Fonte: pixabay.com
  1. Harley Queen

Brillante membro dello staff del manicomio di Gotham City, finisce per innamorarsi del folle criminale Joker che la manipola, convincendola a farlo scappare. Pur essendosi resa conto di essere stata letteralmente sedotta e abbandonata, non riesce a rinunciare all’uomo che ama, e con lui instaura un rapporto fatto di continue riappacificazioni e separazioni. Comincia comunque a collaborare con i “buoni” (più o meno) della Suicide Squad, per combattere le minacce sovrannaturali.

  1. Elektra

Rimasta orfana di madre ancora prima di nascere, Elektra cresce nutrendo il terribile dubbio di essere stata stuprata dal padre alla tenera età di 5 anni. Per dominare l’odio e il desiderio di vendetta che cresce giorno dopo giorno dentro di lei, si appassiona alle arti marziali e conosce l’amore vero con “Matt” Murdock, alias Daredevil.

Super-donna non si nasce, lo si diventa!

E se è vero che il 25 novembre sembra sia diventato, anno dopo anno, una mera dichiarazione di principio, non accompagnata da un reale impegno (o, quanto meno, interesse) e che il compito di salvare le vite di donne e bambine non spetta ai registi, agli sceneggiatori e agli scrittori ma, piuttosto, alle istituzioni pubbliche e alle forze dell’ordine, è vero anche che una pellicola o un libro possano far capire a una donna che ha il diritto di non sentirsi a disagio, sbagliata e “sporca” e che ha il potere di dire “no” e “basta”, per sé e forse per tutte noi, alla violenza.

Super-donne
Donne: le nostre Supereroine. Fonte: freepik.com

 

Queste, come tante altre, sono le storie di donne che, dopo essere cadute (per mano del proprio carnefice e, spesso, della società) nell’abisso della paura e della vergogna, sono rinate… scalciando, graffiando, mordendo, piangendo e, soprattutto, urlando per quel dolore cui nessuna dovrebbe mai essere sottoposta e per quella vita cui nessuna dovrebbe mai essere privata.

 

Angelica Terranova

Ernia: senza armatura contro le paure contemporanee

Un viaggio dentro l’anima di un artista che raggiunge, finalmente, la piena libertà d’espressione del proprio sé. – Voto UVM: 5/5

In un clima dettato dal canone consumista, Ernia ritorna con il suo quarto album in studio sfondandone il muro. Io non ho paura è un concentrato di ansie e paure che scava a fondo nell’anima di Matteo Professione (vero nome di Ernia), riflettendosi alle orecchie dell’ascoltatore e raggiungendo così un livello di maturità sorprendente, forse superiore al lavoro precedente, Gemelli (2020). La paura è un elemento che ha sempre accompagnato l’artista, poiché vista come condizione necessaria con cui ha imparato a convivere.

Il disco, pubblicato venerdì 18 novembre, riprende il concept del libro di Niccolò Ammaniti e la locandina del film di Gabriele Salvatores. Curato da produttori di tutto rispetto come 6IXPM e Junior K, si districa sincronicamente tra puro rap – sono un esempio tracce come Cattive Intenzioni e Non Ho Sonno – e pop italiano, che caratterizza da sempre lo stile del rapper milanese. A questo proposito non possiamo fare a meno di ricordare il successo ottenuto da Superclassico che vanta quattro dischi di platino. Scendiamo adesso nel dettaglio parlando di quelle canzoni che più risaltano in quest’ultimo capolavoro!

Le verità disarmanti di cui “tutti hanno paura”

Lo scenario è lo stesso raccontato da Marracash in Noi, loro, gli altri: una società frammentata e caotica. E come si fa a non avere paura se a poco più di vent’anni ci si ritrova con in mano un destino precario? Perché sforzarsi di leggere Goethe, Kant et similia senza però sapere cosa fare della propria vita?

È da questi interrogativi che il rapper di Milano parte per raccontare, nella traccia d’apertura (ft. Marco Mengoni), l’ansia di una generazione ormai alle strette. Giovani che devono trovare la loro strada in una società destinata al collasso, in un pianeta morente che, tra crisi pandemiche e crolli di borsa, farebbe invidia ad un qualsiasi libro di Stephen King. Per i superstiti le prossime rivoluzioni si faranno in smart working. Ma una cosa è certa, e per quanto noi possiamo sforzarci di nasconderlo, Ernia non usa mezzi termini: tutti hanno paura.

Sono solo un middle child che non riposa
Che non sa che scelte fare perché tutti hanno paura di qualcosa

Ad anticipare questa paura ci aveva già pensato Montale quando, in risposta alle indagini sui mezzi di comunicazione di massa tenute dal semiologo italiano Umberto Eco nel suo volume Apocalittici e integrati (1964) si chiedeva quali fossero i fini dell’uomo per tali mezzi: “Qui si naviga nel buio”.

Con un sample di Stupidi della Vanoni, in Così stupidi, Ernia ci racconta di una società governata dai media e in cui l’uomo, schiavo di quel consumismo capitalistico, ha deciso di rincorrere un “sogno frustrato”, rinunciando all’essere per apparire. Questa caratteristica è endemica della scena hip hop italiana, intrisa di artisti che affrontano delle tematiche senza viverle veramente, al fine di accontentare il gusto del pubblico attuale e dell’industria musicale. Non manca, dunque, una critica all’attitudine imbarazzante di questi artisti:

‘Sti rapper come Amazon, che miseri (Bu!)
[…] La mia generazione di bugiardi, son finti dinamitardi
Pensare che c’è il pubblico che abbocca
Vedi tu quando non vendon più che la merda viene su

Paure e ansie di un amore generazionale

Bella fregatura è la terza traccia del disco, puramente pop, che si presenta come una ballata romantica ma senza perdere il focus sulla paura. In questo caso, il tema riflette la consapevolezza dei rischi e i limiti che una relazione può comportare, specialmente se si è giovani. Nel cuore dell’artista, probabilmente, l’insieme è correlato anche alle conseguenze del successo che per certi versi distrae l’uomo dietro il personaggio, portando i due a non decidersi su determinate scelte e posizioni da adottare, da come si evince dal ritornello:

Io penso cose che tu non t’aspetti
Perché ho ancora più sogni che cassetti
Ma se dagli occhi tu apri i rubinetti
Fanno contrasto con la pelle scura

Tuttavia, al cuor non si comanda e il rapper conclude che la fidanzata Valentina Cabassi, affettuosamente parlando, è la sua “bella fregatura” poiché non riesce a rinunciare all’amore che prova per lei. La tematica viene poi ripresa da Ernia in Il mio nome (dodicesima traccia dell’album), costruita sulla falsa riga di Phi, quest’ultima contenuta in 68 (Till The End).

Nella società odierna, a diventare mutevoli ed imprevedibili sono, infatti, anche le relazioni sociali e i rapporti d’amore. Uomini e donne sono ansiosi di costruire dei legami ma al tempo stesso hanno paura di restare bloccati in relazioni “stabili”, definitive, rischiando di perdere quella libertà di instaurare altri rapporti. Perché anche l’amore, come ci fa notare il rapper, non solo non si sottrae da quelle costanti ansie e paure che la generazione Z è costretta ad affrontare quotidianamente ma molto spesso ne diventa la causa principale.

Il sogno interrotto di Sveva

Cosa succede quando dinanzi a un dolore così grande, ci si ritrova spogliati da ogni preconcetto? Dove si trova la forza di andare avanti? Questo è ciò che traspare da Buonanotte, la punta di diamante del disco prodotta dalla mirabile penna di Ernia, riflettente l’uomo dietro il personaggio nel suo carattere più sensibile e puro.
L’artista tratta il delicato tema dell’aborto, rivolgendosi al figlio o figlia che avrebbe avuto con la compagna, spiegando il perché di una tale difficile e sofferta decisione:

La paura di sbagliare, sai, paralizza la scelta
Perdonami davvero, ma se abbiamo preso questa
È stato anche per non doverci ritrovare ostaggi della stessa

Un po’ come se fosse la sua “lettera a un bambino mai nato”, o meglio, la lettera alla sua Sveva, – è così che l’avrebbe chiamata – che ora riposa tranquilla nei sogni del papà. La paura che Ernia racconta in questa traccia è quella dei millennial e della Gen Z di mettere al mondo dei figli a causa di una sempre più instabile condizione economica e sociale di un futuro catastrofico. Come si fa a parlare di vita e di speranza vivendo in un mondo del genere?

La paura smascherata

L’impostore è una chiusura – a nostro avviso – perfetta, un vero e proprio j’accuse che pone l’ascoltatore nelle condizioni di riflettere in modo immersivo, come se lo stesso artista ci invitasse a mettere in dubbio la propria identità. È una traccia interessante e personale poiché va a riprendere la Sindrome dell’impostore. Concetto, già sviluppato in La Paura e Bugie, contenute rispettivamente in 68 (disco d’esordio) e Gemelli (un disco a metà tra la spontaneità e la maturità artistica). La traccia finale del disco rappresenta la presa di coscienza definitiva di un’artista smascherato delle sue stesse contraddizioni, generate dalla paura di fallire:

Forse è grazie al cervello che ho reso grande il mio nome
Ma la musica è di pancia, io non ho duro l’addome
Forse metterlo in piazza riesce a darmi un po’ di pace
O è per distrarvi prima che notiate

Con queste barre, il rapper si chiede se i propri risultati siano frutti di bravura o meno: lui ha cervello ma la musica è arte che va oltre la logica e forse non è in grado di capirla. Dunque, l’artista cerca giustificazioni che vogliano screditare il suo merito, così da uscire da questo paradosso che vive costantemente. Sicuramente sentiremo parlare di questo disco anche perché, diciamoci la verità: un individuo riesce davvero a sfuggire dalle sue paure?

 

Federico Ferrara
Domenico Leonello

Vatican Girl: storia inedita di uno dei più grandi misteri italiani


 Tra thrilling, flashback e testimonianze reali, “Vatican Girl” è un esperimento riuscito sulla storia della sparizione di Emanuela Orlandi – Voto UVM: 4/5

 

La mini docuserie Vatican Girl, diretta dall’autore e regista Mark Lewis, tra toni cupi ed investigativi, analizza e declina il misterioso caso di Emanuela Orlandi. Formata solo da quattro episodi, racconta tra flashback e testimonianze alcuni retroscena su uno dei misteri più oscuri avvenuti tra le mura vaticane.

La produzione Netflix, in collaborazione con la famiglia della giovane scomparsa, permetterà la fruizione in 160 paesi, dando chiaramente un approccio internazionale al documentario. Infatti, la serie è principalmente in lingua inglese mentre le testimonianze in italiano.

Chi era Emanuela Orlandi?

Emanuela Orlandi era una ragazza di quindici anni di Città del Vaticano, con molte passioni, tra cui la musica. Ed è proprio all’uscita dalla scuola di musica, in un afoso pomeriggio di metà giugno che sparirà senza lasciare più traccia.

Parte quindi una corsa contro il tempo,  scandita da ansie e sensi di colpa dei familiari, nel vano tentativo di ritrovarla: una famiglia distrutta che però, dopo quasi quarant’anni, non si da pace e spera di rivederla ancora in vita.

Vatican Girl: la serie su Emanuela Orlandi

La vicenda prende subito una direzione quasi da thriller politico, tanto da essere definita dagli americani “a Dan Brown story”. Si inizia con tentativi che barcollano nel vuoto e inizialmente riconducono alla mafia e alla criminalità organizzata per poi rivelarsi miseri buchi nell’acqua. La miniserie, che è a tutti gli effetti un esperimento riuscito, racconta come una fotografia, uno spaccato della società durante gli anni Ottanta.

La trama ha una particolarità non indifferente: come afferma anche lo stesso regista, viene raccontata tramite una narrazione retroattiva in cui ogni episodio è scandito dalle testimonianze di familiari e amici. Grazie alla digitalizzazione di alcuni video realizzati al tempo, è stato possibile riportare anche il punto di vista dei fratelli, facendo rivivere al telespettatore la serenità familiare prima della scomparsa.

Le testimonianze: chiave di svolta o buchi nell’acqua?

Intervengono, nei quattro episodi, anche potenziali testimoni della vicenda, da sempre vista come “scomoda”. La  testimonianza straordinaria di Sabrina Minardi, l’ex amante di Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana, non lasciano dubbi: dietro questa serie c’è coraggio da vendere!

Dal primo fino al quarto episodio, infatti, si susseguono le interviste a personalità italiane di spicco come Andrea Purgatori o Ferruccio Pinotti, che con il loro contributo offrono testimonianze dirette di chi, in questi anni subito dopo il rapimento di Emanuela Orlandi, era molto vicino alla realtà dei fatti. Le loro interviste ci offrono un puzzle che nell’insieme ha una forma, ma non completa! Mancano, infatti, dei pezzi. Forse questa serie può dare lo slancio per trovarli? Può contribuire a far uscire alla luce del sole la verità?

Sono stati tanti i tentavi di insabbiamento della storia. Infatti il terzo episodio è completamente dedicato a Marco Accetti, un fotografo che nel marzo 2013 si autoaccusa di essere complice nella vicenda. Dopo trent’anni sembra quasi uno spiraglio di luce per la famiglia Orlandi, come una boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea. Si scopre poi però che Accetti è soltanto un mitomane, al quale addirittura verrà diagnosticato il disturbo narcisista della personalità.

 Il tempo stringe in attesa della verità

Sono già diciotto anni che Ercole Orlandi, padre di Emanuela, non c’è più. Mentre la madre, Maria Pezzano, è molto anziana. E’ ancora vivo in lei il desiderio di poter abbracciare la sua bambina, che adesso avrebbe più di cinquant’anni. E’ forte il desiderio anche nel fratello Pietro e nelle sorelle Federica e Maria Cristina. Ed è proprio il tempo il file rouge che lega i quattro episodi, con frames di orologi ricorrenti che scandiscono momenti destinati a finire.

E’ parecchio interessante l’ultimo episodio  con l’intervista concessa da Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi. Infatti, nell’estate del 2019, la donna ha ricevuto un biglietto anonimo con in allegato una fotografia di una tomba. Il biglietto recitava: “Cercate dove guarda l’angelo”. Ma il sepolcro in questione, dopo l’intervento della scientifica, è stato trovato vuoto. E nel momento in cui il legale Sgrò ha chiesto successivi chiarimenti, non ha ricevuto alcuna risposta dagli inquirenti del Vaticano. Perché fare così? Si tratta forse di un caso di insabbiamento? O davvero qualcuno, tra le protette mura del Vaticano, è a conoscenza di qualcosa? Una serie di domande che ancora oggi, a quasi quaranta anni dal quel 22 Giugno 1983, non hanno una risposta. Una risposta che però, la famiglia Orlandi merita di avere.

Quello che il regista Mark Lewis e la produttrice Chiara Messineo si augurano è che la serie possa proporre una visione della storia inedita e questo possa avvicinarci alla tanto agognata verità. E se lo augurano pure gli italiani che da quarant’anni aspettano, come se si trattasse della propria figlia, il ritorno di Emanuela a casa.

Giorgia Fichera 

Black Panther: Wakanda Forever, a beautiful, but plotless movie

Even if the set up of the film was very interesting, it didn’t pay off. – Vote UVM: 3/5

 

“Black Panther: Wakanda forever” is the much-anticipated sequel to Black Panther (2018). 

The movie was initially written with actor Chadwick Boseman included in it, because nobody in Hollywood knew about his illness. Therefore his death in August 2020 came as a surprise for everyone. Because of this Marvel had to decide how to go on with their plans for the movie. The main decision was, of course, whether to recast T’Challa for the sequel. Eventually, they decide against it and that the story would delve into the other characters seen in the first movie and their world.

 

Black panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Grief and Vengeance

The film opens with the death of T’Challa. We see Shuri racing, trying to create a synthetic “heart-shaped herb”: the herb was destroyed by Killmonger in the last film. She manages to make a similar reconstruction, but she is too late to try it on her brother since his heartbeat has stopped already. We then see the celebrations of T’Challa’s death which are also a clear tribute to Chadwick Boseman’s legacy.

Throughout the movie we see how different people deal with grief: we have the juxtaposition of queen Ramonda (Angela Bassett) and Shuri (Letitia Wright). The queen is in touch with her people’s traditions and spirituality and deeply believes in them, while Shuri is  only relying on science and technology. We can see from Shuri’s behaviour that she takes much more time than the queen to come to terms with her brother’s death, preferring to keep on working rather than dealing with her emotions.

Shuri’s grief worsens during the movie and then turns into a blind need for vengeance. Never having adequately dealt with her pain, it turns into an anger that could lead to dire consequences for  Shuri herself and her people.

 

Black panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Wakanda and the West

A year after T’Challa’s death, we see the consequences of his actions from the last movie. He revealed to the world the existence of Wakanda with its many wonders and its scientific advancement, in particular the existence of vibranium.

Queen Ramonda is summoned to the UN convention in Geneva, where the USA and France, as they usually do, ask for the Wakandans to share their vibranium resources. While this scene is playing we also see that the French are trying to steal vibranium for themselves, but they are promptly stopped by the Dora Milaje, who then deliver the mercenaries recruited for the heist by the french government, to the French representative during the UN convention. This is a show of power on Queen Ramonda’s part, to let the world know that she won’t let Wakanda be trampled on.

From here on, you can see a slightly veiled critique of the western countries, of their presumption of omnipotence displayed around the world, especially in today’s neo-colonialist society.

In fact, this movie talks about two different groups who were abused for centuries (and still are) by the western world: Africans and Mesoamericans. Sadly it seems to reflect reality in a way because the two minorities are not able to unite against the greater threat represented by the imperialist countries.

 

Black panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

A New Society

The Mesoamerican society to which we are introduced in this movie resembles closely Wakanda, with it having established itself hidden from the conquistadores and with their technological advancement.

We are first introduced to the Talokan while they kill off an entire ship’s crew to prevent them from extracting vibranium. During the film these characters appear to be quite overpowered: they are never fazed by anything that comes their way.

After this Namor, their leader, interrupts queen Ramona’s and Shuri’s mourning ritual. He tells them that the westerns have found vibranium deposits and that they have to kill the scientist that created the vibranium detector; if they do not comply with his request, Namor threatens them with war.

Shuri and Okoye thus decide to look for the mysterious scientist, who, astoundingly, reveals herself to be a brilliant 19-year-old MIT student, Riri Williams (Dominique Thorne).

Was the plot an afterthought?

There are many things to praise concerning this movie. First of all, we have a wonderful cast, with mostly well-established actors, as Lupita Nyong’o and Michaela Coel, but also new, possible rising stars, as Dominique Thorne. The cinematography and landscapes are absolutely breathtaking, well portraying the sort of heaven on earth that is Wakanda, which was inspired by the country of Lesotho. The attention to detail regarding the costuming has to be noted aswell. The insertion of many elements of various different African cultures can be seen, especially in the case of the members of the council; an example of this is the council membre Zawavari, whose costume and hairstyle is inspired by the Himbe people of Namibia and Angola.

The problem lies mainly in the plot, which ends up going in circles and relieving itself to be mostly pointless. The problem might be that it is the second film of a saga, so we mostly see setups with not many resolutions. This is of course frustrating, especially considering that plot-wise the movie can probably be mostly skipped and the third Black Panther instalment would still be comprehensible.

At the end of the day, it is a Marvel/Disney movie, so not much can be expected plot-wise. The first half of the movie deceives you into thinking that it is going to be more than that, and this is why the film is even more disappointing: the wasted potential is quite big.

 

Elena Succi

Black Panther: Wakanda Forever, più di un nuovo inizio

Tanta carne al fuoco difficile da gestire. Forse meno contenuti avrebbero fatto bene per la riuscita finale – Voto UVM: 3/5

 

La scelta della produzione di continuare la saga di Black Panther senza l’interprete del re T’Challa, Chadwick Boseman, ha destato molta curiosità e qualche perplessità fra il pubblico. Apparso già in Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame, l’attore conquistò i cuori di molti fans. Ricordiamo che la prima pellicola sulla Pantera Nera accolse molte critiche positive, tanto da accaparrarsi ben tre Oscar nel 2019 e molti altri riconoscimenti importanti. Ci siamo trovati, quindi, al primo sequel sul supereroe wakandiano senza l’eroe stesso. Come si sarà giocato le sue carte il regista e sceneggiatore Ryan Coogler per non perdere la fiducia dei suoi fan?

Black Panther
Frame dal trailer “Black Panther: Wakanda Forever”. Fonte: Marvel Entertainment.

Black Panther: e prima venne il lutto…

Le prime scene sono di quanto più feroce: la scomparsa improvvisa di T’Challa scuote le vite della sorella Shuri (Letitia Wright) e della madre Ramonda (Angela Bassett) che incapaci si trovano ad assistere alla sua dipartita. Durante la celebrazione, in tutto il suo sfarzo, gli abiti bianchi sostituiscono quelli neri a cui siamo abituati e i balli si contrappongano ai canti misericordiosi tipici della religione cristiana.

Alla fine della cerimonia la scena ci catapulta a 9 mesi più tardi, dove le superstiti reali del popolo wakandiano si ritrovano a fronteggiare il mondo intero. Nel precedente film il re T’Challa aveva dichiarato che la città di Wakanda avrebbe aperto le sue porte a tutto il popolo terrestre, andando contro gli ideali conservatori dei suoi antenati e in particolar modo di suo padre T’Chaca. Mettendo così le risorse del suo popolo sotto il mirino delle super potenze mondiali.

Black Panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Girl power reale in Black Panther

L’eredità di T’Challa passa ai superstiti della famiglia reale, ovvero le donne, che hanno sempre affiancato in vita l’eroe caduto. Shuri e la regina Ramonda dovranno fare i conti con le potenze mondiali che faranno di tutto per ottenere il preziosissimo vibranio. Una risorsa talmente ricercata da far emergere dai mari un’antica civiltà che per proteggere il suo stato di quiete minaccerà i protettori di Wakanda. Una giovane scienziata, Riri Williams (Dominique Thorne), sarà il deterrente fra queste due civiltà fuori dal mondo conosciuto e si rivelerà essere un personaggio molto simile ad un genio, miliardario, playboy e filantropo che conosciamo bene. La nuova nazione, il popolo di Talokan, e il suo leader verranno descritti fin dalle loro origini con molta minuzia. Forse anche troppa. Come troppe sono state le parole spese per spiegare il motivo per cui i Talokiani vivono nei fondali marini.

Black Panther
Dal trailer di “Black Panther: Wakanda Forever” Fonte: Marvel Entertainment.

Come la vendetta muove tutto

Nel film vedremo come le idee tra Shuri e Ramonda siano diametralmente opposte. Da una parte la ragazza, che crede nell’evoluzione e nell’innovazione tecnologica, mentre dall’altra la regina Ramonda, molto più conservatrice. E proprio in mezzo a queste due linee di pensiero si inserisce Namor (Tenoch Huerta), il leader dei Talokiani, un reazionario personaggio pragmatico mosso dalla sola unica vendetta nei confronti dei paesi della superficie. Talmente astuto tenta di indurre alla vendetta anche Shuri utilizzando come tramite le avversità storiche e politiche, come nel ricordarci del colonialismo occidentale dei secoli scorsi. Non a caso l’incipit della pellicola vede coinvolte la Francia e gli U.S.A. per questioni di potere.

Lunga vita al re, ma non alla durata del film

Premesso che fare un film senza il suo protagonista non sarebbe stato facile, questo nuovo tassello dell’MCU si incastra prepotentemente in un grande puzzle che non trova più i suoi stessi confini. Commemorare la scomparsa dell’interprete di T’Challa, favorendo l’entrata in scena dei nuovi protagonisti ci è sembrata una buona mossa da parte degli autori. Eppure, la seconda metà della visione perde il grosso del suo climax iniziale, recuperato solamente nell’unica scena post credit.

Se molti spiegoni e alcune ridondanze fossero state fatte fuori dal minutaggio, una durata ridotta sarebbe stata più che gradita. Oseremmo dire che alcuni aspetti sulla civiltà di Talokan sarebbero stati un ottimo materiale per un film stand alone con un suo carattere e un suo scopo. In definitiva, potremmo dire che Black Panther: Wakanda Forever restituisce un’ottima commemorazione, una bella storia di rinascita e anche alcuni sprazzi di critica politica, se solo la carne al fuoco non fosse stata così tanta.

 

Salvatore Donato

Quando l’all-you-can-eat di serie tv diventa indigesto

Netflix, dopo gli inizi promettenti della sua produzione con la serie House of Cards con protagonista Kevin Spacey nel 2013, si è fatta decisamente largo nella nostra quotidianità. La maggior parte di noi ha oggi un abbonamento attivo, le sue serie di punta sono entrate nel panorama mainstream e il catalogo si è nel tempo ampliato aggiungendo sia serie e film vintage che nuove produzioni della stessa Major. Questo menu però si è col tempo trasformato in un “all-you-can-eat” dalla qualità decisamente altalenante: l’azienda, cercando di procurare sempre più prodotti agli spettatori, ha col tempo disatteso molte aspettative non riuscendo a coniugare la possente macchina produttrice con una buona fattura.

Serie come La casa di carta sono l’emblema di tutto ciò: si tratta di un prodotto che potremmo giudicare come una vacca munta oltre il necessario. Una rapina raccontata dal punto di vista di personaggi che riescono a stare al di sopra del mero stereotipo ci ha inizialmente catturato come idea, ma col tempo questa stessa idea è risultata ridondante e la serie si è lasciata trascinare verso una banalità che ha colpevolmente punito il lavoro iniziale.

Dal trailer de ”La casa di carta”. Fonte: Netflix

 

Stesso discorso anche per un altro prodotto Netflix acclamato da massa e critica: Stranger Things. La serie ha fin dall’inizio avuto un nucleo semplice ma attraente: gli anni ’80 e tutta la cultura pop relativa al periodo, i mostri che si annidano nei sobborghi americani, le azioni di giovani protagonisti che crescono assieme agli spettatori e Stephen King come maggiore ispirazione narrativa.

Il successo di Stranger Things ha riportato in auge anche il ricordo degli eighties sia nel pubblico giovane, che li sta scoprendo, sia in quello adulto che li ha nel cuore e li sta rivivendo. La serie, però, col tempo si è rivelata una miniera di diamanti per il colosso americano e, se da un lato questo sembrerebbe positivo, è diventato in realtà una lama a doppio taglio. La volontà di ingozzare lo spettatore già a partire dalla seconda stagione, introducendo situazioni che espandevano l’universo narrativo, non è stata recepita bene dal pubblico e, con il prosieguo della trama, quel labirinto ha fatto posto ad una strada più lineare.

Ci saremmo augurati però che la storia seguisse un filo più logico e meno isterico!

Dal trailer di ”Stranger Things”. Fonte: Netflix

 

Per ricollegarci ora ad un universo più ampio, si può accennare ad un’altra importante tendenza dello show business hollywoodiano dell’ultimo decennio: il tema supereroistico. La serie Netflix sul personaggio di DareDevil ha per la prima volta spostato questo tema dalla sala alla TV.

Oggi questo percorso sta venendo continuato da Disney sulla sua piattaforma streaming Disney +.  Nel giro di poco meno di due anni sono state aggiunte al catalogootto produzioni: un numero esorbitante se consideriamo che va ben oltre la media della quantità di serie tv di cui lo spettatore medio fruisce in quel lasso di tempo. Inoltre  solo poche storie all’intero di questo miscuglio meritano una valutazione positiva.

L’atteggiamento bulimico che si aspetta la produzione da parte del pubblico potrebbe, a nostro avviso, non essere la strada migliore da seguire.

Sarebbe invece auspicabile un ritorno ad una produzione meno intensiva ma che al contempo porti con sé maggiore qualità nei prodotti destinati al grande pubblico, anche nell’ottica di salvare queste aziende e queste storie dall’orlo di un baratro che col passare del tempo si fa sempre più vicino e più largo.

 

Matteo Mangano, Giuseppe Catanzaro

 

*Articolo pubblicato su Gazzetta del Sud, all’interno dell’inserto “Noi Magazine” il 10/11/2022

The car, il ritorno (quasi) trionfante degli Arctic Monkeys

“The car” è un album maturo, dall’animo avvolgente ed elegante, ma a primo impatto lento e ripetitivo. Nulla a che vedere con gli AM a cui eravamo abituati – Voto UVM:3/5

 

Rilasciato dalla Domino Recording Company il 21 ottobre 2022, The Car è il settimo e attesissimo album della celebre band britannica Arctic Monkeys. Scritto interamente dal frontman Alex Turner, e prodotto dal noto collaboratore del gruppo James Ford, ad anticiparne l’uscita sono stati i singoli There’d Better Be A Mirrorball, Body Paint e I Ain’t Quite Where I Think I Am, resi pubblici lo scorso settembre.

Nuovo album, nuovo stile

Il nome del disco, così come il titolo di un brano e la copertina dell’album stesso, si devono all’affascinante fotografia scattata dal batterista Matt Helders, raffigurante una Toyota Corolla bianca parcheggiata sul tetto di un comune, ma suggestivo edificio a Los Angeles.

“Ho avuto il presentimento quando ho visto questa foto per la prima volta che doveva essere la prossima copertina del disco”

ha raccontato Alex Turner in un’intervista.

Complici un blocco dello scrittore e la devastante pandemia del 2019, la band, dopo l’ultimo disco, aveva annunciato l’intenzione di prendersi una pausa dalla musica. Questo lungo periodo di silenzio aveva creato altissime aspettative nei cuori dei grandi fan del gruppo musicale: saranno riusciti i nostri quattro artisti di Sheffield a soddisfarle pienamente?

Secondo noi di UniVersoMe, sebbene si debba certamente riconoscere l’evoluzione della voce e scrittura di Turner, chi si aspettava un ritorno movimentato in pieno stile AM, dal genere prettamente indie e garage rock, rimarrà profondamente deluso.

The car
Alex Turner, cantante e frontman degli AM. Author: David Lichterman; fonte: flickr.com

 

Gli Arctic Monkeys, infatti, rompono il loro silenzio con un album dal tono decisamente più retro, riportandoci indietro nel tempo fino agli anni ’60, epoca in cui eleganza e romanticismo si univano spesso al rock, genere nato qualche anno prima.

The Car, quindi è un album più raffinato, dal sound lounge ed orchestrale, reso possibile grazie all’utilizzo consistente di strumenti ad arco e pianoforte. Sicuramente, però, il suo punto di forza non è l’immediatezza: ad un primo ascolto risulta per certi versi piatto e monotono, ed è solo riavviandolo più volte che si riesce ad apprezzarlo appieno nella sua profondità.

I testi sono infatti particolarmente sentimentali e a volte malinconici, come dimostra l’intro There’d Better Be a Mirrorball, che racconta le vicende di una relazione amorosa ormai destinata a morire, oppure il brano I ain’t quite where i think i am, in cui il leader della band esprime i tormenti che lo affliggono costantemente all’interno dei contesti sociali. Brani come Sculptures of anything goes, invece, sono riflessioni sul mondo dello spettacolo e sulla carriera della band, ultimamente discussa e criticata da molti per il recente cambio di rotta in fatto di genere musicale.

L’evoluzione degli Arctic Monkeys si rende ancora più evidente mettendo a confronto The car con AM, album del 2013. Quest’ultimo, uno dei loro veri capolavori,  è caratterizzato da un sound molto più rock e da tematiche totalmente differenti. Alcuni  dei brani più noti come Arabella,  dedicata ad una figura femminile attraente e seducente, o Do I wanna know? descrivono passioni sfrenate e amori impossibili.

“It’s the intermissionLet’s shake a few handsBlank expressions invite me to suspectI ain’t quite where I think I am “ (I ain’t quite where I think I am)

“Arabella’s got a seventies headBut she’s a modern loverIt’s an exploration, she’s made of outer spaceAnd her lips are like the galaxy’s edgeAnd her kiss the color of a constellation falling into place” (Arabella)

Non è la prima volta, però, che il quartetto britannico ci sorprende con un album così innovativo. La recente transizione di stile si evince già con Tranquility base hotel+ casino, album del 2018, in cui il genere indie rock si mescola insieme all’ atmosfera lounge da piano bar. Ma è sin dal lontano 2006, che con Whatever people say i am that’s what i am not, il gruppo manifesta l’intenso desiderio di andare contro le aspettative della massa, per non ripetere mai quanto fatto in precedenza.

Il cinema nella musica

“Il modo in cui il progetto The Car è stato realizzato, non è diverso da come mi immagino sia il processo creativo per fare un film.” (Alex Turner)

Ciò che caratterizza interamente The Car è il “sound cinematografico”, insieme alle numerose references al processo creativo per la realizzazione di un film e al cinema cult stesso. Un esempio è la terza traccia dell’album, Sculptures of anything goes, ispirata al film di Steven Spielberg, Indiana Jones e il tempio maledetto. Oppure nel brano Jet skis on the moat ritroviamo un riferimento al Cinemascope, lente da ripresa introdotta nel 1953.

Insomma The car è certamente un album molto originale che, anche se a primo impatto potrebbe risultare un po’ lento e ripetitivo, è caratterizzato da una particolare eleganza. Tuttavia non possiamo fare a meno di pensare a come sarebbe potuto essere un nuovo album con il loro vecchio stile energico e vivace.

Ma dopo tutto, una band così imprevedibile come gli Arctic Monkeys, magari in futuro ci potrebbe di nuovo  sorprendere  con un  ritorno al passato!

 

Ilaria Denaro, Giulia Giaimo

Del Toro’s Cabinet of curiosities: un’occasione sprecata

“Cabinet of curiosities” raccoglie parecchi talenti mal gestiti dalla produzione. Il prodotto finale risulta essere alquanto scadente. Voto UVM: 1/5

 

La serie antologica di Del Toro uscita su Netflix il 25 Ottobre offre allo spettatore un Horror, che cerca di svecchiare storie classiche, tra le quali si trovano molti adattamenti da famosi racconti di fantascienza. Non riesce però a nostro avviso a soddisfare nemmeno parzialmente le aspettative, create nel pubblico dal nome di Del Toro già regista di ”Il labirinto del fauno”, ”La forma dell’acqua” e del recente ”Nightmare Alley” (da noi già recensito).

Si tratta a nostro avviso di un prodotto molto raffazzonato, vittima, come molte altre produzioni, della sindrome di Netflix: produrre produrre produrre a scapito della rifinitura… ma andiamo nel dettaglio!

Tentacoli e membra

Il contenuto chiave della serie è quello horrorifico: creature tentacolari, demoniache e bestiali, alcune riuscite meglio di altre, altre che invece ci hanno sorpreso solo per la loro povera messa in scena.

L’effettistica è sicuramente il tratto distintivo della produzione e sebbene l’impegno nel portare sullo schermo qualcosa che sorprenda lo spettatore ci sia stato, il risultato finale è alla meglio banale se non a tratti ridicolo: mettere i pantaloni di carne ai mostri o usare dei pupazzoni inermi non ci è sembrata una buona mossa insomma.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Ci sentiamo di dire che nonostante i creatori dell’effettistica avessero buone idee, forse queste non si sono davvero realizzate. Crediamo che parte di ciò sia dovuto alla cattiva gestione del budget da parte della produzione. È evidente (e lo continueremo a dire!) che la produzione di questa serie sia mal gestita e non mostri coesione tra sceneggiatura, regia, prove attoriali e grandi nomi presenti nel cast.

Sceneggiatori intelligenti che non si applicano: dov’è del Toro?

Trattandosi di un’antologia, le storie sono collegate tra loro dalla tematica “horror”, ma anche dall’insensatezza della trama e del comportamento della maggior parte dei personaggi. Plot twist casuali e situazioni al limite (se non oltre) del ridicolo ci hanno fatto – quasi – perdere la voglia di continuare la visione.

A volte si scade nel più becero politically correct, giustificando le azioni di protagonisti squilibrati, instabili e dannosi verso il prossimo. Spesso i protagonisti stessi ci vengono presentati come soggetti dalla mente instabile, ma il fatto che ogni personaggio riesca ad avere le stesse visioni di bestie e demoni, non rende davvero l’aspetto ansiogeno tipico dell’horror.

Insomma non riesce nemmeno a mirare minimamente gli obiettivi per i quali Del Toro ha assunto questo incarico e per il quale era diventato famoso. La sua presenza infatti non è pervenuta!

Performance caotiche e attori sbandati

Le performance attoriali e la regia vengono, anche queste come detto, minate da una produzione sconclusionata: le idee non sono state ben delineate dai vari registi e questo ha comportato delle prove attoriali caricaturali e “fumettistiche”. Smorfie e monoespressività si ripresentano in tutti gli episodi in maniera omogenea.  Sembra che tutto sia ricaduto addosso ad attori e registi dall’alto, tramite direttive che hanno imposto, grossolanamente, storie che, nonostante le idee, ripropongono una visione vuota e ritrita del genere.

Molte inquadrature rimangono ad un livello amatoriale e spesso molte scene presentano incongruenze grafiche molto pesanti che distolgono l’attenzione e suscitano ilarità – dove si dovrebbe invece provare inquietudine.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Raccogliamo i pezzi

Concludiamo allora dicendo che: la qualità complessiva è mediocre e spesso scende anche al di sotto della stessa mediocrità.

Non ci sentiamo di dare che pochi elogi a questa antologia e tra questi elenchiamo il design dei mostri e l’incipit di ogni puntata che mostra un’ispirazione assente nello sviluppo della storia. Di episodi dignitosi ce ne sono davvero pochi e anche quelli rimangono impressi per pochi dettagli scenici. Il salvabile non giustifica la visione e non ci sentiamo di consigliarla al pubblico verso cui è stata indirizzata. Quel pubblico era stato infatti chiamato alla visione per due motivi: da un lato il nome di Del Toro, non pervenuto all’interno degli episodi, e dall’altro quello di Lovecraft.

Usare il suo nome per farsi campagna pubblicitaria ingannevole mettendo solo i titoli dei suoi racconti senza adattare una virgola dei suoi testi non ci è sembrata una tattica onesta. Anzi proprio per le attese che questo nome ci suggeriva, siamo stati molto più annoiati e delusi dalla visione.

Salvatore Donato, Matteo Mangano

Dahmer: mille sfumature di mostro

Dahmer, una serie contorta e controversa che ricostruisce le vicende che hanno portato alla nascita di un mostro. – Voto UVM: 5/5

 

Una storia reale, ambienti cupi al limite del claustrofobico, una continua ricerca delle profondità psicologiche; questo e tanto altro è la controversa serie tv diffusa su Netflix firmata da Ryan Murphy che, in dieci episodi, racconta la storia di uno dei più celebri serial killer che ha sconvolto l’America e il mondo intero.

Stiamo parlando di Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, che nel giro di poco tempo è diventata la serie dei record, scatenando una bufera mediatica che ha riaperto una ferita profonda nel cuore degli americani.

La nascita di un mostro o…

Lo show composto da dieci episodi, si presenta come un racconto solido, che mira alla profondità priva di esagerazioni e fronzoli narrativi. Una tensione in crescendo che ci accompagna puntata dopo puntata, non solo nel racconto degli orribili omicidi e del modus operandi del serial killer, ma soprattutto andando a ricostruire la degenerazione della psiche già frammentata e dolorosa di Dahmer, senza giustificarlo in alcun modo; eppure, mettendo in evidenza le numerose contraddizioni che caratterizzavano una società ottusa e anaffettiva dell’America degli anni ’70-’80.

La serie gioca molto sui flash-back, in un susseguirsi di immagini che delineano il profilo di Jeffrey dall’infanzia solitaria, ad un’adolescenza trascorsa in preda ai fumi dell’alcool ed alla vita adulta segnata dalla sindrome dell’abbandono.

La storia così rimane per la prima parte slegata dagli omicidi per tratteggiare una personalità realistica, costretta alla repressione della sua sessualità da una società intollerante che lo costrinse a rinchiudersi in una rabbiosa solitudine, fino all’esplosione di quell’odio covato sulle prime vittime, rendendolo da quel momento un mostro.

L’incubo di Milwaukee

Jeffrey Dahmer, responsabile di diciassette omicidi effettuati tra gli anni 1978 e 1991, è diventato nel tempo un vero e proprio incubo vivente. Lasciato libero nonostante i sospetti e le segnalazioni dei vicini su di lui, ha protratto indisturbato la sua attività per più di un decennio.

Il racconto di Murphy non cade nei dettagli orrifici ma procede mettendo al centro dello schermo la personalità del suo protagonista più degli orribili omicidi, attraverso un continuo di rimandi psicologici che cerca di definire un personaggio complicato, ma non per questo meno colpevole o barbarico. A cominciare dallo sviluppo del suo modus operandi nella cantina della nonna fino all’appartamento degli orrori in cui verrà dilaniata la sua ultima vittima.

Le sequenze più violente vengono in maniera magistrale intervallate da caratterizzazioni del passato tormentato di Dahmer e successivamente da scorci che si aprono sulle vittime e sui loro famigliari, fino ai risultati mediatici occorsi nel periodo successivo all’arresto. La parte finale, si allontana dal protagonista per gettare una luce oscura sull’America e sul dolore dei parenti in lutto, dimostrando un rispetto verso una ferita aperta che si è cicatrizzata solo nei fatti.

Ora è finita. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose.

 

Dahmer
Jeffrey Dahmer (Evan Peters) in una scena della serie. Distribuzione: Netflix. Regia: Ryan Murphy. Fonte: thetab.com

Dahmer: interpretazione da Emmy

Alla riuscita di questa rappresentazione, che ha portato la storia di un uomo sicuramente malato ma soprattutto in grado di spingersi oltre qualsiasi limite immaginabile, concorrono le interpretazioni impeccabili dei suoi attori protagonisti, in particolare spicca quella del grandioso Evan Peters – che già aveva lavorato con Murphy in AHS – completamente calato nella parte del killer. Il Dahmer da lui rappresentato prende vita nel doloroso binomio vittima-maniaco che l’interprete riesce a riflettere impeccabilmente attraverso un gioco fatto di uso degli occhi e del fisico.

 

Gaetano Aspa