“E l’eco rispose” un puzzle da ricostruire

“Hai l’aria di una che sta morendo dalla voglia di essere salvata.” 

Pensandoci, una parola-chiave per descrivere “E l’eco rispose” di Khaled Hosseini è proprio puzzle: tanti tasselli sparsi per il mondo da ricercare e da riunire.unnamed

Tutto parte da due fratelli, Abdullah e Pari, stretti da un forte legame interrotto dal padre per la sopravvivenza dell’intera famiglia.

Questa interruzione li separerà, conducendoli in parti opposte del mondo. La storia si espande gradualmente verso l’esterno seguendo i personaggi da Kabul a Parigi a San Francisco e all’isola greca di Tinos.

“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù”.

La storia ha inizio negli anni Cinquanta e sussegue il suo racconto fino ai giorni nostri, dopo ben tre generazioni
L’autore ci mette di fronte alle reazioni degli esseri umani, a come loro si amano, si odiano, si tradiscono, si dimenticano e si ricordano. Conosciamo così il rapporto di amore e odio tra Parwana e sua sorella Masuma, il triangolo platonico tra i coniugi Wahdati e l’autista-cuoco Nabi, il generoso e coraggioso altruismo di Amra e Markos, l’ipocrita solidarietà di Idris e Timur, l’impotente delusione di Adel davanti alla sconcertante scoperta della vera identità del padre tutta grazie alla straordinaria capacità di Hosseini di raccontare i sentimenti umani con sensibilità.

“In queste occasioni ci vuole uno sforzo immane per ricordare, per non perdere di vista una verità innegabile: questo disastro è opera sua. Niente di quanto le è capitato è ingiusto o immeritato. Se l’è meritato.”
Ci fa vedere le violenze subite dal popolo che abita in Afghanistan, da tutte le guerre e battaglie che si sono verificate e che stanno continuando con il passare degli anni senza un attimo di tregua.
La storia riesce a seguire le vite di tutti i protagonisti, a seguire la loro sofferenza ma anche il modo in cui lottano per la salvezza.

“Ora ero libero di fare ciò che volevo, ma scoprii che era una libertà illusoria, perché ciò che più desideravo mi era stato tolto. Dicono: trovati uno scopo nella vita e perseguilo. Ma talvolta è solo dopo aver vissuto che si riconosce che la vita aveva uno scopo, e probabilmente uno scopo architettato dal caso. E ora che avevo assolto il mio, mi sentivo senza una meta, alla deriva.”

È una storia bellissima e straziante al tempo stesso, la penna di questo scrittore non delude mai e ci porta alla scoperta del suo popolo in una maniera unica e speciale. I dialoghi sono pochi ma incisivi, sicuramente non è un romanzo semplice nei contenuti e non la definirei una lettura da svago ma penso sia da consigliare a chiunque voglia leggere un romanzo toccante e profondo, così come tutti gli altri romanzi di Hosseini.

“Dove poteva andare un uomo dopo essere stato in vetta al mondo?”

 

Serena Votano

 

“Il primo uomo cattivo” di Miranda July

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“Questo libro vi farà ridere, sussultare e immedesimarvi in una donna che non avreste mai previsto di essere. E quando Miranda July parla della maternità, il libro diventerà la vostra bibbia.” Lena Dunham

Ci sono persone che scelgono i libri basandosi sulla copertina , non rientro fra questi ma nella scelta de “Il primo uomo cattivo” mi è capitato di sceglierlo proprio per il disegno e i colori esterni e per l’autrice : Miranda July della quale avevo visto solo un film e letto qualche intervista.

 

Cheryl Glickman è la protagonista-narratrice del racconto, lavora alla Open Palm una società no profit che si occupa di autodifesa per le donne.

Conduce una vita piuttosto semplice, forse monotona, minimale soprattutto nell’economia domestica dove vige il principio di efficienza.

E’ affetta da globus hystericus, un nodo alla gola, ed infatuata di un collega, una figura ricorrente nella narrazione. C’è la maternità, ma non descritta come nella maggior parte dei film o libri, Cheryl ha una relazione quasi karmica basata sul “primo sguardo” con Kubelko Bondy lo spirito di un bambino che lei immagina di vedere nei figli altrui.

La vita di Cheryl prende una direzione inaspettata quando deve ospitare Clee, figlia ventenne dei suoi capi all’Open Palm. Una ragazza che è totalmente opposta a lei, dalla fisicità, Cheryl molto magra, quasi androgina, Clee viene definita “molto donna”, allo stile.

Clee è un personaggio un po’ sgradevole, sporca, una passiva-aggressiva, in alcune situazioni attiva-aggressiva.

Ed è in questo momento che il libro prende una piega che non mi sarei mai aspettata e la July si dimostra perfetta narratrice: tracciando il crescere della libido di Cheryl con una nota ironica e , di contrappasso, delicatamente il suo istinto materno. Ci rende partecipi ai sussulti della protagonista.

 

I meno puritani di me non si scioccheranno delle crude scene di violenza , le descrizioni delle condizioni igieniche di Clee mi hanno nauseata ma sono funzionali al personaggio , non le si perdonano ma si accettano.

Cheryl vede solo il suo mondo non c’è contorno, essenziale.

Sono personaggi sgradevoli in parte, così maniacali, strani, imprevedibili da essere in realtà comuni e umani , che alla conclusione del libro li accettiamo.

Miranda July è una artista stimolante e provocatoria, a vent’anni trasferitasi a Portland entra nel movimento delle Riot grrrl (il movimento punk-rock femminista) e inizia a frequentare, colei che è la sua più stretta amica, Carrie Brownstein (altra artista eccezionale) chitarrista e voce delle Sleater Kinney , band simbolo del movimento e ancora oggi una delle migliori rock band femminili.

Definirla è difficile, è una regista, scrittrice, musicista, attrice, creatrice di app , è un soggetto molto stravagante, irriverente a tal punto da pensare che sia folle : è geniale.

“Il primo uomo cattivo” è il suo primo romanzo, caldo, ironico, disgustoso è pura vita comune.

Arianna De Arcangelis 

 

 

Oggi in sala: ”Genius”, storia di uno scrittore nascente

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“Ho scritto cose strappate a forza dalle mie viscere e tu dici che non c’è spazio?”

Nella New York di fine anni venti, Max Perkins (Colin Firth), editor della Scribner’s Son, dopo aver portato alla luce scrittori del calibro di Fitzgerald ed Hemingway, ha il suo primo incontro con Thomas Wolfe (Jude Law); il ragazzo, con la passione per la scrittura ed un carattere eccessivo, è autore di un enorme manoscritto dal titolo “O Lost”, continuamente rifiutato da qualunque casa editrice. Sarà proprio Max, l’unico a leggere ed apprezzare l’opera e l’autore stesso, a cui sarà legato non solo dalla collaborazione lavorativa ma soprattutto da un profondo rapporto d’amicizia.

Il film di Michael Grandag racconta la storia vera della nascita letteraria di Wolfe ed è basato sulla biografia “Max Perkins. Editor of Genius”.

Punto focale della pellicola non è tanto la figura dello scrittore, bensì il rapporto quasi morboso che si crea tra quest’ultimo e l’editor; Thomas vedrà in Max una guida, un padre, un amico e Max sarà a sua volta attratto da quel “ragazzetto” dal carattere acceso e così differente dal suo, il tutto porterà alla creazione di un legame destinato a durare nel tempo.

Dal punto di vista tecnico il film è realizzato perfettamente. Ottime la regia, la sceneggiatura e la fotografia. Magistrale l’interpretazione di Colin Firth nei panni dell’editor, professionale e umano al tempo stesso; così come quella di Jude Law che interpreta perfettamente lo scrittore dal carattere tormentato. Meno presente ma altrettanto brava Nicole Kidman, che interpreta la compagna dello scrittore, innamorata ma messa in secondo piano rispetto al lavoro dell’uomo che ama e al suo rapporto con l’editor.

Il film merita di esser visto, anche se nel complesso non riesce ad emozionare particolarmente il pubblico, in quanto presenta una narrazione quasi sempre piatta e non sono presenti particolari colpi di scena .

 

Benedetta Sisinni

Suicide Squad, dai fumetti al film: l’affascinante mondo dei cattivi

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Il 6 dicembre 2016, esce il Dvd del film ‘’Suicide Squad’’, opera cinematografica che ha riempito le sale quest’estate.

Con un cast stellare e diversi record al botteghino, Suicide Squad, è una pellicola basata sui cattivi dei fumetti firmati DC Comics. Per la prima volta nella storia del mondo sono proprio i cattivi quelli che salveranno la terra: dopo la morte di SuperMan e la sparizione di BatMan, non c’è nessun altro a cui il governo americano può rivolgersi.

Ai cattivi, però, non viene dato niente in cambio: nessun premio, nessuna gloria, nemmeno la libertà. Loro sono stati crudeli, quindi o obbediscono o verranno uccisi. A tutti loro, infatti, viene impiantato un cip sotto pelle: se provano a ribellarsi, boom, saltano in aria.

Ci mancava, penserete voi: dopotutto stiamo parlando delle menti più contorte e folli che ci hanno sempre spaventati, fin da bambini. Infatti, la Suicide Squad (Squadra Suicida) è formata da: l’ex-psichiatra Harley Quinn (Margot Robbie), il cecchino mercenario Deadshot (Will Smith), l’ex-gangster pirocinetico El Diablo (Jay Hernandez), il ladro Capitan Boomerang (Jay Courtney), il mostruoso cannibale Killer Croc ( Adewale Akinnuoye-Agbaje) e il mercenario Slipknot (Adam Beach).

A loro si uniscono anche la dottoressa June Moone, un’archeologa posseduta da un’antica entità malvagia nota come Incantatrice (Cara Delevigne) e Katana ( Karen Fukuhara), mercenaria in possesso di una spada mistica.

C’è anche il Joker (Jared Leto) che, da dietro le quinte, segue la squadra: il suo unico obiettivo? Liberare Harley Quinn e riprendersela con sé (figuratevi a lui quanto può fregare di salvare gli esseri umani).

È interessante vedere come, fin dai primi minuti del film, si resta affascinati e si scatena un innamoramento nei confronti di questi pluriomicidi: chi l’ha mai detto, dopotutto, che non provano alcun sentimento? Con il susseguirsi della storia scopriamo proprio questo: tutti loro hanno amato qualcuno più di loro stessi e tutti loro, inevitabilmente, lo hanno perso.

Ma per chi è appassionato di fumetti, cosa è cambiato? Ovviamente questi personaggi, a prescindere dall’aspetto che mai poteva essere assolutamente uguale a quello dei disegni, sono stati umanizzati, sono (forse) meno folli del fumetto.

Obiettivamente alcuni cambiamenti sono obbligati: una pellicola non potrà mai essere fedele ad anni e anni di fumetti. Il fulcro di ogni personaggio rimane indenne, dalle loro perversioni, alle manie, all’istinto quasi suicida e la sintesi delle loro storie individuali è assolutamente fedele.

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Due personaggi in particolare sono stati, da alcuni, criticati: la coppia (che scoppia?) Joker- Quinn. Nei fumetti, infatti, Harley Quinn è una donna completamente sottomessa, che ama le violenze imposte dal Joker, che quasi si diverte a provocarlo pur di farsi fare del male.

Il Joker, d’altro canto, non sembra innamorato, nei fumetti, anzi: la presenza di Harley, il più delle volte, lo infastidisce; mentre, nel film, anche lui ha un’attrazione per lei.

Il confronto, ovviamente, è molto soggettivo: possono sembrare, per alcuni, una coppia di amanti con una grande indipendenza; per altri, invece, l’ossessione del Joker è esattamente quella dei fumetti: lui va a riprendersela perché è l’unico che può comandarla.

Harley Quinn, d’altro canto, è sottomessa in tutte le parti del film a lui: si rincorrono flash back dove si vede come lei, più e più volte, è pronta anche a morire per lui.

A prescindere dalle puntigliose critiche, dalle disquisizioni su dove e come il film poteva essere migliore, se Suicide Squad ha sbancato un motivo c’è, ed è il motivo per cui noi vi consigliamo di vederlo: in sintesi? È una figata.

Elena Anna Andronico

 

 

Mistaman apre il suo tour a Messina-Intervista esclusiva per UniVersoMe

 

mistamanrealtaaumentatatourQuando si dice buona la prima. Giovedì 2 dicembre il rapper Mistaman, artista di punta dell’etichetta discografica Unlimited Struggle, ha aperto a Messina al Retronouveau il tour di promozione del nuovo album “Realtà aumentata”. Rilasciato il 4 novembre scorso, il disco rappresenta la sesta fatica dell’artista trevigiano classe ’76, che dopo più di vent’anni di carriera riesce ancora a sorprendere i suoi ascoltatori con qualcosa di attuale ma senza perderà le sue peculiarità artistiche. Scrivono su di lui: “I giochi di parole e le doppie chiavi di lettura dei suoi testi sono quanto di più tecnico il rap italiano possa offrire”. Noi di UniVersoMe siamo riusciti ad intervistarlo in esclusiva, e poichè i giochi di parole rivestono un ruolo quantomai centrale nella sua produzione, abbiamo deciso anche noi di metterli al centro della nostra intervista.

Partiamo dal titolo dell’album: “Realtà aumentata”; una visione sovrapposta alla realtà per aumentarne la comprensione. Chi  ascolta il tuo ultimo lavoro, di cosa si deve rendere conto?

Nell’album ci sono  due dimensioni: una introspettiva che tocca tasti molto personali come la musica e il mio interrogarmi nel farla; l’altra di più ampio respiro sul sociale. Il filo conduttore di tutto, ciò di cui vorrei la gente si rendesse conto, è di non dare per scontate le cose ma di andare in profondità. Questo è il concetto, è un disco contro la superficialità!

“E se la terra trema non ci resta che, fare festa come, se non c’è domani” (Non c’è domani, 2016). Quindi la soluzione a tutto è fregarsene?

È una canzone che propone una soluzione sarcastica. Il pezzo inizia come una presa di coscienza della crisi e delle cose che non vanno finché non si capisce che la soluzione a tutto è fare festa, ma è una soluzione sarcastica perché è quello che normalmente fanno le persone, quindi non va inteso letteralmente. Ci tenevo a sottolinearlo. -La soluzione a tutto è ascoltare il tuo disco?-  Macchè magari! La soluzione purtroppo, a differenza di quello che ci fanno credere le varie forze politiche, non è semplice. Credo sia necessario immergersi nella complessità delle cose e venir fuori con piccole soluzioni a piccoli problemi. Trovo che le soluzioni grandi siano quasi sempre populiste.

“So che devo smetterla di prenderla alla lettera o finisce, che il mio dj si esibisce con un frullatore, perché il traduttore non capisce che avevamo chiesto un mixer” (Lost in translation, 2016). Sei uno dei rapper più tecnici della scena italiana, ma sei sicuro che la gente ti capisca? Ti senti un’artista incompreso?

Io ho sempre cercato di non sottovalutare l’ascoltatore. Se fossi uno che si misura  con un pubblico generalista o se preferisci mainstream, mi dovrei porre fortemente il problema di essere comprensibile e addirittura cercare di dire qualcosa che quando la gente mi ascolta dice: “Merda questo la pensa come me!”. Dovrei essere comprensibile e allo stesso tempo dire delle cose condivisibili. Ad esempio nel brano “Se non ti piaccio”, io dico che dopo tutto quello che ho fatto penso di potermi permettere di avere l’arroganza di dire: “se non ti piaccio non c’è problema,ciao”. Se ascolti la mia musica  mi aspetto che tu in primis abbia voglia di approfondire. Quindi in conclusione, non voglio né sottovalutare l’ascoltatore né abbassare il livello di ciò che faccio per arrivare a più persone. In passato c’è stato un tentativo da parte mia di rendermi più comprensibile però alla fine, la mia complessità interiore si è sempre tradotta in una complessità dei testi.

img_9932“Scrivo col cuore neanche tocco penna e carta elettrodi sul petto il testo è  sull’elettrocardiogramma” (Posse Cut, 2014). Dando per certo che tu non scriva i tuoi pezzi in cardiologia, come si struttura il tuo processo creativo?

C’è un nucleo di cuore, sotto uno strato esterno di cervello. Faccio pezzi sia di tecnica pura, in cui magari dico cose che sono tutt’altro che impegnate, sia pezzi “conscious”, cosa che attinge sicuramente un po’ da quello che è lo stile di noi della Unlimited Struggle che facciamo canzoni serie e profonde. L’hip-hop ha una componente gioviale e poi una parte riflessiva, ma in realtà queste parti si compenetrano di continuo. In quest’album il brano “Irreversibile” è un pezzo contro la mentalità del consumismo fine a se stesso, che però è fatto con una tecnica estremamente fine. Purtroppo fare tante cose diverse è un autogol artisticamente parlando. L’ascoltatore si aspetta sempre la stessa cosa, e quando tu gli dai tante cose diverse è più facile deluderlo. È un caro prezzo da pagare, ma lo pago volentieri.

img_9931 “Volevi tutto subito così hai stretto i denti hai subìto, sembra che tutti provino a passare un provìno ,e che mai si destino dal proprio destìno” (A100, 2014). Cosa pensi dei rapper usciti dai talent-show?

Me la fanno spesso questa domanda sui talent. In verità qualche sera mi è capitato di stare a casa con amici e guardare questi programmi. Devo dire che sono uno spettacolo divertente da vedere e da commentare. Però a me quello che non piace è l’idea che un’artista vada a farsi giudicare e che si sottometta a quello che di fatto è un potere come quello televisivo e quello delle case discografiche. Preferirei una realtà che venisse dal basso, che sfidi il potere. Il fatto che uno per avere questi riflettori addosso debba chinare la testa e sottostare a questo circo, io lo trovo opposto al senso dell’arte. Nel ’94 quando ho iniziato eravamo opposti al mainstream, certamente da parte nostra c’era un’attitudine un po’ immatura, un po’ punk, ma l’hip-hop stesso nasce come una controcultura. Io vorrei fossimo tutti contro la commercializzazione dell’arte, non biasimo loro perché dovrebbe esserci un sistema che aiuta i giovani in Italia a fare musica. Invece, vuoi per la tassazione, vuoi per una mancanza di opportunità non viene realmente permesso ad un talento di esprimersi. Il business musicale italiano non è facile per i giovani, capisco perché vanno in questo tipo di programmi.

img_9972“È il giorno del comizio e han sempre la soluzione, se io fossi in Parlamento forse non sarei migliore, ma mangerei di meno è una questione di costituzione” (Si salvi chi può, 2014). Anche il 4 dicembre è una questione di Costituzione. Tu voti Sì o No?

Io voterò No. Ritengo che dentro questo referendum abbiano infilato un po’ di tutto. Ho paura che sia l’ennesimo specchietto per le allodole, ed è un peccato perché l’idea di velocizzare il percorso delle leggi in Parlamento è lodevole. Ma sappiamo bene che ci hanno infilato tante cose meno valide, tra cui il fatto di scegliere i senatori dalle regioni e dalle città metropolitane. La democrazia è stata già hackerata in più modi e questo a me sembra nient’altro che l’ennesimo tentativo.

Foto di: Giulia Greco

Alessio Gugliotta

Intervista con la scrittrice Noemi Villari

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Per chi ama l’avventura e la fantasia, leggere Believeland, è un tuffo in un mondo in cui le parole d’ordine sono proprio queste; ma c’è di più: credere, un’imprescindibile parola che accompagna il lettore per tutto il romanzo.

La giovane scrittrice Noemi Villari, con il suo primo libro, apre una finestra su un nuovo mondo: Believeland; creature e poteri magici si intrecciano alla vita di alcuni adolescenti, protagonisti del romanzo che coinvolgono il lettore con le loro emozioni.

La gentilissima Noemi, subito dopo la presentazione del suo libro, ha risposto ad alcune domande e ha regalato dei preziosi consigli agli appassionati di scrittura.

 

 

 

 

Parliamo degli albori di Believeland: inizi a scriverlo quando eri nella primissima fase dell’adolescenza, avevi dodici anni. L’idea che hai avuto allora è rimasta la stessa?

  • L’idea è stata elaborata diverse volte e aveva tutt’altra impostazione; del modello iniziale è rimasto il concetto del mondo fantastico di Believeland, che prima non si chiamava così: un aneddoto simpatico riguarda, per l’appunto, il nome. All’inizio l’ho chiamato Magics (che in realtà è quello delle Winx), poi Magic Village (che sa molto di villaggio turistico) ed infine quello attuale.

Le protagoniste, in un certo senso, è come se fossero cresciute con me e ho lasciato loro un’età adolescenziale perché mi piace trattare questo periodo della vita, che per me è fondamentale nella nostra esistenza: se si capisce ciò che prova un adolescente, si capisce come diventerà da grande.

A quale personaggio sei più legata?

  • Istintivamente rispondo che sono più legata ad Alessia (la ragazza del mondo reale), perché proviene dal mio stesso contesto scolastico, ovvero da un istituto d’arte, a cui tengo molto, quindi ho voluto che lei, almeno in questo aspetto, fosse identica a me. Poi, come personaggio, è stato elaborato in modo totalmente opposto al mio: lei indossa una maschera di sicurezza che nasconde la sua insicurezza e, invece, per me è al contrario.

 

Un aggettivo con cui descriveresti il tuo libro.

  • Più che un aggettivo, a me viene in mente la parola “credere”, sostanzialmente il motore che fa camminare il romanzo.

 

Hai un luogo in cui preferisci scrivere?

  • Solitamente, preferisco scrivere a letto con il pc sulle gambe e di sera; invece, la mattina preferisco prendere appunti sui quadernoni (perché mi piace scrivere a mano), ma sulla scrivania.

 

Progetti futuri: scriverai ancora?

  • Sicuramente continuerò a scrivere: ho un’idea per continuare Believeland, ma vorrei anche guardare nuovi orizzonti, per affrontare tematiche diverse.

Di certo, non voglio abbandonare questo racconto, a cui sono legata affettivamente.

 

 

Hai dei consigli per i giovani scrittori?

  • Sicuramente direi loro di seguire il primo istinto ed iniziare a scrivere partendo da ciò che sentono, per poi affidarsi alla tecnica.

Consiglierei anche di usare internet, dove ci sono molti siti che guidano alla scrittura e dove, personalmente, ho imparato tanto. Poi, apprendere dai libri che si leggono ma, soprattutto, impegnarsi per realizzare il proprio sogno.

 

 

 

Jessica Cardullo

 

Umberto Spaticchia e il suo ‘’Null01- La storia di Downey’’: quando le menti messinesi si mettono in gioco

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A tutti i lettori chiediamo: cosa è che vi attrae di un libro? La copertina, il titolo, il nome di quell’autore famoso, il posto in classifica.

Tra le caratteristiche, secondo noi, dovrebbe essercene anche un’altra: è stato scritto da un mio concittadino. A maggior ragione se, lui o lei, è uno studente come noi. In questo caso stiamo parlando di un lui: Umberto Spaticchia, giovane di 21 anni, nerd alla mano e spiritoso.

Il suo libro, Null01- La storia di Downey, distribuito dalla Libreria Bonanzinga (anch’essa nostrana), è stato presentato presso i locali dell’istituto tecnico industriale Verona Trento e in alcune province di Messina.

Noi abbiamo avuto il piacere di averlo come ospite di Radio UniversoMe e questa è la sua intervista.

Umberto, tu hai scritto questo libro, ‘’Null01- La storia di Downey’’, che si può trovare sia in forma digitale che cartacea. Di cosa parla?

Sì, è pubblicato anche in cartaceo ed è disponibile presso la Libreria Bonanzinga. Il libro viene esposto come un secondo viaggio dantesco (niente di meno!). È un romanzo a sfondo psicologico- narrativo e parla di come una persona può reagire a seguito di uno shock, sia esso positivo o negativo. Ognuno di noi, infatti, può reagire in maniera diversa: chi inizia a soffrire di depressione, chi sviluppa doppie personalità. In questo caso, attraverso il romanzo, viene raccontata la storia di questo uomo che fa il programmatore informatico e nel tempo libero studia biologia. A un certo punto si trova in uno stadio di fermo appunto perché, essendo un informatico e non un biologo, non riesce ad andare avanti, si trova davanti a un muro: lui, infatti, studia su studi già fatti. E questo lo porta ad uno stato di depressione e stress. La sua mente, quindi, non può far altro che trovare altri piani che prendono vita sotto forma di un’ape azzurra. Questa si riferisce all’ unica guida mentale dello stato in cui si ritrova.

Quindi, sostanzialmente, un viaggio nella sua stessa mente.

In un certo senso. Il punto sta, però, nel fatto che è tutto fine a sé stesso, non coinvolge il mondo, tutto avviene nella sua testa. Intorno a questo sta il secondo viaggio dantesco: è come un Dante dei nostri giorni.

Diciamo però le cose come stanno, Umberto: un romanzo non è un vero romanzo se i personaggi non fanno all’amore almeno una volta.

Eh, diciamo che, nel mio caso, i personaggi lo fanno con il cervello!

Sappiamo che lo hai presentato in alcune province di Messina, a giorni, inoltre, lo presenterai proprio qua a Messina, presso l’istituto Verona Trento.

Sì, lo ho presentato sia a Spadafora, che nel comune di Naso dove ho trovato persone, che mi hanno ospitato, davvero squisite. La presentazione a Messina durerà circa un’ora e spero di vedere il coinvolgimento delle persone de dei ragazzi! Devo dire che, comunque, sono contento, perché ha avuto molti feedback positivi. Oltre i soliti curiosi, anche alcuni professori mi hanno i complimenti, dicendo che ho preso spunto da Kafka (che io, però, non ho mai letto!).

Toglici una curiosità, come è nato il tuo libro? Cosa ti ha ispirato?

Allora, il libro è nato da un disegno che ho fatto io stesso: sarebbe l’ape che c’è sulla copertina del libro. Quindi la storia è stata ispirata da me stesso. Poi ci sono stato un anno a scriverlo, tra alti e bassi, per cui ci sono dei momenti di allegria e dei momenti un po’ più introspettivi, legati al fatto che, ovviamente, durante questo anno, io stesso ho affrontato periodi della mia vita diversi.

Ma quindi è un po’ autobiografico?

No, vi giuro di no!

Da cosa è nata questa idea di scrivere un libro? Ad alcuni rimane per sempre questo ‘’sogno nel cassetto’’, tu, invece, ci sei riuscito!

Io sono dell’idea che tutti possono scrivere un libro e che, allo stesso tempo, non tutti possono. Perché, inutile nasconderlo, ci sono dei momenti in cui vorresti mollare tutto, perché non ci riesci, non sai più cosa devi dire: il classico blocco dello scrittore. Bisogna avere costanza, questo sicuramente, e non mollare nemmeno durante quei momenti. Bisogna essere, in ogni caso, fieri delle proprie opere.

Umberto per noi sei un grande esempio anche perché, se non sbaglio, ancora non sei laureato. Secondo te, cosa serve realmente a un ragazzo, che magari non ha terminato gli studi come te, per mettersi in gioco e realizzare qualcosa di concreto?

No, purtroppo, ancora no!

Secondo me il problema non è tanto dei ragazzi che non fanno qualcosa, il problema sta nel fatto che non c’è partecipazione. Questa è la grande pecca dei nostri cittadini. Ci sono tantissimi eventi di diverso genere in tutta la città, in svariati locali e così via: ma nessuno partecipa. Ci lamentiamo tanto ma poi, a conti fatti, il nuovo non ci interessa.

E allora grazie perché sei un grande esempio per la nostra generazione e, soprattutto, in bocca al lupo!

Grazie a voi ragazzi, siete fortissimi!

Elena Anna Andronico

 

The Big Bang Theory: essere Nerd is the new essere popolari

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Le donne, dicono, sono il problema di tutti gli uomini. Arrivano nella loro vita e gliela distruggono, li destabilizzano.

Voi immaginate se questo accade a quattro 30enni nerds, bruttini e sfigatelli. Quello che ne esce è la serie tv che ormai va in onda da 10 stagioni: The Big Bang Theory.

Per chi non l’ha mai vista perché ‘’facendo zapping ci sono capitato più volte ma, a me, non fa ridere’’, posso dire solo questo: ERRORE. Vai, prendi il tuo pc e clicca play sulla prima puntata della prima stagione. Non te ne pentirai.

The Big Bang Theory è costruita sul classico format americano: 20 minuti in cui vediamo i personaggi spostarsi tra poche locations, con tanto di pubblico che applaude e ride quando viene fatta una battuta. Ma tu, caro mio, non te ne accorgerai perché sarai impegnato a sganasciarti (con tanto di lacrime e pipì che corre).

I personaggi principali sono, come detto, questi quattro 30enni nerds: Leonard, il classico ragazzo geniale, bruttino, timido e con gli occhiali; Sheldon, alto e allampanato ma con un QI superiore a qualsiasi media normale e, tra l’altro, affetto dalla sindrome di Asperger. Questo lo porta a non avere senso dell’umorismo, a essere anaffettivo e a dover pianificare tutto: anche gli orari in cui il suo coinquilino può andare di corpo.

Howard, il perverso del gruppo, che ci prova a trovare una donna e alla fine, incredibilmente, ci riesce; Raj, indiano ricco e di colore, accusa problemi nel parlare con le donne a cui sopperisce con l’uso dell’alcool.

Insieme trascorrono la maggior parte della giornata perché, non solo lavorano insieme, ma hanno gli stessi interessi che includono videogames, Star Wars e fumetti.

Un giorno, nell’appartamento di fronte quello di Leonard, arriva Penny: un’oca giuliva bionda di cui, ovviamente, tutti si innamorano (tranne Sheldon, che si limita a dispregiarla e basta come fa con tutto il resto degli esseri umani). Il resto, se volete, lo andrete a vedere.

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La bellezza di The Big Bang Theory è l’evoluzione di tutti i personaggi che, nelle prime stagioni, rimangono e permangono nei loro ‘’status quo’’ ma, piano piano, riescono a sbloccare alcuni lati del loro carattere. Con lo stesso umorismo di sempre, è una serie che, non solo facilmente può fare compagnia con la sua leggerezza, porta ad affezionarsi ai protagonisti mantenendo alta la curiosità.

Rumors dicono, da un paio di mesi, che la 10 stagione, quella attualmente in onda, dovrebbe essere l’ultima. In attesa di scoprire se la notizia è reale (e, quindi, prepararsi a un eventuale lutto) c’è solo una cosa poter fare: metterla in play!

Elena Anna Andronico

“A tutte le unità: triplo nove. Agente a terra” – Recensione Codice 999 (Triple 9) di John Hillcoat

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Poliziotti, criminali, sparatorie e sangue, misti ad un’ atmosfera quasi “noir”, solo le caratteristiche fondamentali per formare un prodotto quale “Triple 9” (“Codice 999” in Italia) rappresenta. Diretto da John Hillcoat, la pellicola – dopo brevi dialoghi – ci immerge subito nell’azione, senza alcuna premessa o un tentativo di conoscenza dei personaggi presenti sullo schermo. Cinque uomini, che attraverso conversazioni fra gli stessi capiremo essere: Russell Welch (Norman Reedus),  Michael Atwood (Chiwetel Ejiofor), Marcus Belmont (Anthony Mackie), Gabe Welch (Aaron Paul) e Franco Rodriguez (Clifton Collins Jr.), rapinano una banca con un unico obiettivo, ovvero ottenere il contenuto di una determinata cassa di sicurezza in meno di tre minuti, così da poter sfuggire senza troppi problemi dalla polizia.

Procedendo secondo un accurato piano, in maniera assolutamente efficiente, riescono a portare a termine il loro compito ma non senza i classici intoppi di norma. Veniamo così a scoprire che i nostri protagonisti sono, per la maggior parte, poliziotti corrotti divisi fra chi è ancora in servizio e chi invece ha abbandonato la propria vocazione già da tempo , incaricati di compiere il lavoro su comando di una rilevante frazione della mafia russa che opera in terra americana. Benché il loro accordo stabilisse questa sola operazione, i russi sembrano non essere ancora contenti, chiedendo alla squadra nuovamente la loro “collaborazione” che trova il dissenso di tutti. Ma la posta in gioco è troppo alta…

Triple 9, uscito nelle sale a febbraio 2016 (aprile in Italia), vanta un cast importante con stelle del calibro di Aaron Paul (Breaking Bad), Chiwetel Ejiofor (12 Anni Schiavo), Norman Reedus (The Walking Dead), Anthony Mackie (Captain America), Woody Harrelson (True Detective), Kate Winslet (Titanic), Gal Gadot (Wonder Woman) e tanti altri. Tuttavia, nonostante la presenza di notevoli attori che sicuramente non mancano al loro talento recitativo , l’opera di Hillcoat convince poco. Con buone premesse, ricade nei classici stereotipi dei poliziotti corrotti e delle società consumate dalla criminalità interna ed esterna, con mancanza di veri e propri colpi di scena.

Interessante, invece, è l’impegno messo nel creare del realismo coinvolgendo reali agenti della SWAT, poliziotti e paramedici americani per alcune scene di azione di rilievo. Nel complesso il film non è definibile come un fallimento nella maniera più assoluta, ma manca quello scatto in più per renderlo migliore.

                                                                                                                                                             Giuseppe Maimone

L’Arte di essere fragili: il libro della settimana!

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Alessandro D’Avenia ci accompagna in un viaggio alla riscoperta di un autore molto spesso etichettato come “sfigato”, non è stato facile per il prof. rinnovare questa etichetta in “tendente all’infinito”.

Ma partiamo dall’inizio: lo scrittore, un semplice professore nonché autore di Bianca come il latte rossa come il sangue, Cose che nessuno sa e Ciò che inferno non è,vuole ridare giustizia all’immagine di Giacomo Leopardi, poeta cercatore della felicità.

In questo libro Alessandro si rivolge direttamente al suo amico Giacomo chiedendogli essenzialmente due cose: cosa vuol dire essere adolescenti e cosa rimane dentro di noi di questa età della vita.

Così viene rielaborato ogni suo scritto, principalmente lo Zimbaldone, per assistere alla creazione di un’immagine di Leopardi completamente diversa da quella che a scuola i nostri vecchi professori ci hanno reso.
“Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini”

Questo rapimento è spiegato proprio come una vocazione, non si tratta semplicemente di qualcosa di mistico o straordinario, ma ciò per cui “vale la pena vivere”, quello che ci tiene in piedi e ci fa andare sempre avanti spingendoci oltre ogni nostra possibilità.

mentre comunichi il dolore, senza saperlo lo ripari. L’universo non è tenuto a essere bello, eppure lo è. E così i tuoi versi, nonostante la tenebra. In un tramonto della luna tu descrivi una delle tue albe più belle, proprio perché desiderio di luce in una notte di tenebra, e quella luce che torna è meta e ragione per il viandante, perché la bellezza non ha ragione, ma dà ragione”

Ormai viviamo in un’epoca in cui non basta avere un sogno, ma avere tutto pronto ancor prima di iniziare, quando invece a Leopardi è bastato vedere una primavera per capire cosa ci sta a fare al mondo!

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Nel 1817 aveva soli 19 anni, quando mandò una lettera a Pietro Giordani, uno degli intellettuali più famosi dell’epoca, il quali gli consigliò di dedicarsi alla prosa per vent’anni prima di passare alla poesia (e menomale che Leopardi, dal canto suo, non gli diede ascolto).

Ma qui non si vuole parlare unicamente di Leopardi ma anche degli adolescenti, i quali non hanno semplicemente domande, essi sono domande, come scrive D’Avenia, eppure non si può consegnare una risposta facile, così come insegna Leopardi è importante abbracciare la terra dei forse, accettare la vita sia con i successi che con i fallimenti, con tutte le vittorie e con tutte le sconfitte.

Non trovavo soluzioni perché non ce n’erano, ma tu, Giacomo, mi hai fatto capire che la soluzione è dentro la vita stessa e non fuori di essa: aprirsi al dolore e abitarlo, come una delle stanze del nostro cuore”.

Consigliato a chi è affamato di vita e di infinito, a chi lotta per le proprie aspirazioni e a chi è alla ricerca di un compagno in questo viaggio esistenziale.

Dalle inquietudini dell’adolescenza, si passa attraverso le prove della maturità, per poi finalmente credere in sé stessi, imparando che essere fragili non è una debolezza ma un punto fermo in un’epoca che ci vuole perfetti .

Serena Votano