Teneramente folle: cosa vuol dire avere un orso bipolare come padre.

Il film che verrà recensito oggi è ambientato a Boston alla fine dei magnifici anni ’70.

Cameron Stuart è un marito e padre amorevole, diplomato ad Harvard, bravissimo cuoco e con una grande inventiva.
Purtroppo Cam è affetto da disturbo bipolare e a causa di uno scompenso psicotico perde il lavoro e viene ricoverato in una clinica psichiatrica per qualche settimana.
La moglie di Cam, Maggie cerca con tutte le sue forze di trovare un impiego per poter iscrivere le figlie in una scuola privata affinché ricevano una buona istruzione. Purtroppo per una donna afroamericana con figli trovare un lavoro a Boston è immensamente difficile.
Così Maggie prende una difficile decisione: rinuncia al suo ruolo di madre e si trasferisce a New York per frequentare un master di 18 mesi alla Columbia.
Con un po’ di riluttanza affida le figlie al marito, appena uscito dalla clinica psichiatrica. Come se la caverà la famiglia Stuart?

Il titolo in inglese (Infinitely polar bear) si basa su un simpatico gioco di parole per cui la figlia più piccola, Faith, usa il termine “orso polare” al posto di “bipolare”

Il disturbo bipolare è un grave disturbo psichico caratterizzato da periodi di profonda depressione che si alternano a periodi di iperattività, euforia ed eccessiva stima di sé che possono portare a veri e propri deliri. Il film quindi abbatte il radicatissimo stereotipo secondo cui il malato di mente debba per forza essere violento e quindi sia inadatto a fare il padre. Ma questo film non parla solo dello stigma nei confronti dei pazienti psichiatrici.
Parla di un padre che affronta la sua malattia per tenere insieme la famiglia, parla di una madre disposta a fare mille sacrifici pur di assicurare alle figlie un futuro migliore, parla di come nonostante tutto un lieto fine sia possibile.

Si tratta del film d’esordio come regista di Maya Forbes (uscito nel 2014), con una trama fortemente autobiografica. Quando la regista aveva sei anni infatti, sua madre ha preso un master alla Columbia e lei e la sorella sono state affidate al padre, Cameron Forbes, affetto da disturbo bipolare.
Non stupisce infatti l’atteggiamento indulgente con cui viene descritto il protagonista. La Forbes non manca di includere scene più crude – si ricorda ad esempio lo spezzone in cui le bambine spaventate chiudono fuori di casa il padre ubriaco – ma queste sono compensate da momenti che mostrano il lato tenero del padre, disposto a passare la notte in bianco pur di cucire la gonna da ballerina di flamenco alla figlia.

Mark Ruffalo (Cameron nel film) riesce meravigliosamente a rendere le varie sfaccettature di un personaggio molto complesso e risulta sempre credibile.

Zoe Saldana (che interpreta la madre, Maggie) è bravissima come sempre, ma il suo personaggio, probabilmente per scelta della regista, rimane sempre sullo sfondo.

Menzione speciale va fatta per Imogene Wolodarsky (figlia della regista) e Ashley Aufderheide, che interpretano rispettivamente Amelia e Faith.
È difficile trovare al giorno d’oggi delle piccole attrici così brave, che reggono perfettamente il confronto con due tra gli attori più famosi di Hollywood.

Il film è poi deliziosamente permeato da una dolce atmosfera nostalgica, resa perfettamente dalla colonna sonora stile anni ‘70, dai colori saturi e da alcune riprese in modalità super 8 che ricordano i vecchi filmini fatti in famiglia.

Una promettente regista che ha deciso di omaggiare il padre come solo una figlia innamorata può fare, un cast eccezionale e con un’intesa incredibile e una fotografia perfetta, fanno di Teneramente folle una pellicola che difficilmente potrà essere dimenticata.

Renata Cuzzola

 

Prima di svanire

A volte capita che leggendo un libro si senta la necessità di legarlo ad una canzone, ad una melodia che ne richiami il tema centrale, il senso o anche solo che ne ricordi un personaggio. Lo si fa senza un fine preciso, come se fosse un semplice gioco di similitudini e “assonanze” che ci permette di sottolineare ancora di più l’essenza della storia. In questo caso, sfogliando le prime pagine di questo racconto, mi è sembrato impossibile non pensare immediatamente ad una e una sola canzone: “Sally” di Vasco Rossi… e beh, credo sia già tutto abbastanza chiaro.

“Prima di Svanire” di Serena Votano è la storia di Margot, una giovane ragazza di diciotto anni che attraverso le pagine di questo libro ci racconta la sua giovane vita, le sue amicizie, i suoi primi amori e i suoi dispiaceri, ma che allo stesso tempo ci rende spettatori del suo scontro interiore, quello tra il desiderio di scappare via per sempre voltando le spalle a ciò che non riesce a spiegarsi, e la paura di perdersi nel mare di bugie che ogni giorno racconta agli altri e a se stessa per mostrarsi diversa da tutti coloro che la circondano.

“…Era questo che non riuscivo a capire: io, Margot, in tutta quella massa, chi ero? Perché stavo lì?”

Mentre in molti libri sono le descrizioni o i dialoghi a caratterizzare la lettura e a renderla unica, in questo caso, fondamentali sono, invece, le lunghe fasi di riflessione interiore in cui Margot si pone al centro di una spirale fatta di domande, dubbi, certezze e falsità, che dà il ritmo a tutta la lettura e la rende speciale. I fatti sono raccontati come fossero pensieri scritti sulle pagine di un diario, con estrema sincerità e spesso anche in maniera cruda e pungente; ci si sente perfettamente immedesimati nella vita della protagonista, come fossimo affacciati all’interno della sua memoria e avessimo la possibilità di vedere tutto ciò che lei ha vissuto.

“Non sopporto chi si nasconde nell’ombra, non sopporto chi si nasconde nella propria ombra.”

Il vero punto di forza della lettura è la voce narrante del libro, la giovane ragazza bugiarda, Margot. Leggendo queste pagine imparerete a conoscerla, a capire la sua vita difficile, scoprirete ogni suo piccolo segreto, ogni sua passione, ogni sua domanda e tutte le sue mancate risposte. Sarete d’accordo con lei, ma allo stesso tempo potrete odiare le sue scelte, i suoi dubbi e le sue certezze. Avrete la possibilità di viverla a pieno sotto ogni sua più piccola sfaccettatura, dalla più radiosa a quella più cupa e nascosta che difficilmente immaginereste.

È una lettura consigliata per tutti coloro che cercano una storia vera, immediata, senza fronzoli, una di quelle storie che pongono subito in chiaro ciò che ci vogliono raccontare e che fanno della sincerità la loro più grande virtù. È una lettura consigliata per tutti coloro che almeno una volta nella vita si sono sentiti come la “Sally” di Vasco, perché forse alla fine di questa triste storia qualcuno troverà il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio…

PS: Complimenti per il tuo libro e spero sia solo il primo di tanti!

 

Giorgio Muzzupappa

La maledizione della vita e il benessere della morte

Manji (Takuya Kimura), un “ronin” ricercato dallo shogun per l’uccisione di alcuni samurai con persino una taglia sulla sua testa, scappa insieme alla sorella minore Machi (Hana Sugisaki) per poterla proteggere ed evitare la sua fine ormai certa.

La ragazzina, dopo essere stata testimone degli atti del fratello, subisce un trauma talmente grande dovuto allo shock a tal punto da impazzire e vivere in un pieno stato confusionale, obbligando Manji a doverla salvaguardare non solo da i pericoli incombenti, ma dalle sue stesse azioni sconsiderate. Sarà proprio una di queste a portarla nelle braccia di un gruppo di cacciatori di taglie che porrà fine alla sua vita sotto lo sguardo attonito e inerme del fratello, che colmo di rabbia e spirito vendicativo affronta l’innumerevole gruppo eliminandone fino all’ultimo membro. Le ferite riportate dallo scontro saranno talmente gravi (con un occhio e una mano perse) da lasciare Manji in fin di vita e prossimo alla morte, ma inaspettatamente una donna, annunciatasi con una età superiore ai 700 anni, porrà all’interno del corpo del ronin e contro la sua volontà, delle sanguisughe (kessenchu) che, a detta sua, rigeneranno le sue ferite e lo renderanno immortale

 

Mugen no jūnin” (letteralmente “abitante dell’infinito”), in Italia “L’immortale” vanta il primato di essere la centesima pellicola targata Takashi Miike, noto regista del Sol Levante autore anche di “13 Assassini” (altra recensione che è possibile trovare nella sezione “Recensioni” di UniVersoMe). Lo stile è classico e caratteristico: samurai, ideali, scontri e tanto sangue. Formula sempre vincente, soprattutto per film del genere. Una regia niente male guida tutto il percorso narrativo, con una sceneggiatura non troppo elaborata che nonostante tutto riesce a coinvolgere, tralasciando piccoli cali che vengono notevolmente recuperati grazie agli scontri spada-spada di una certa qualità. Tuttavia vi è da precisare come “L’immortale” sia una trasposizione cinematografica dell’omonimo manga, dunque è assolutamente apprezzabile e lodevole la scelta del regista di preservare l’opera e rimanerne fedele. Complessivamente il lungometraggio risulta piacevole, con cariche di adrenalina concernenti i duelli e un “drama” costante che accompagna il tutto con il perenne quesito di chi sia nel bene e chi nel male, anche se la prevedibilità e il cliché non mancano mai. E per non farci mancare nulla, il film è disponibile su Netflix.

                                                                                                                                                  Giuseppe Maimone

L’UniVerso che cercavo dentro ME

 

Che fatica, amici miei. Scrivere questo articolo è una cosa difficilissima. Sarò sincera con voi: solo il dovermi mettere davanti a questa pagina di Word è stato un parto. È da almeno 2 mesi che so che lo devo fare, che non volevo ridurmi all’ultimo, che rimando ‘’a domani’’.

Oggi non posso. Oggi è l’ultimo giorno a mia disposizione in quanto ‘’domani’’ è il tempo durante il quale voi mi state leggendo. L’articolo è pubblicato. Fine.

Fine.

Sapete, tra tutti i corsi universitari il mio è davvero particolare. Non sono 3, non sono 5, sono 6 anni. Sei anni sono tantissimi. È così strano pensare che tra 4 giorni il traguardo sarà stato raggiunto. The End.

Non giriamo troppo intorno, quindi. Sono qua per porvi i miei saluti, il mio arrivederci.

Questo progetto è entrato nella mia vita nel 2015. Non dimenticherò facilmente la prima volta in quello che è diventato il nostro ufficio. Non mi dimenticherò facilmente quel colloquio: ero l’unica ragazza, in mezzo ad un branco di ragazzi! Non solo: ero l’unica ragazza che scriveva per gioco, per distrazione, sicuramente non per mestiere.

Eppure, dopo quel primo “che ci faccio qui?”, tutto ha iniziato ad andare in maniera assolutamente naturale. Fin dalla prima riunione c’è stata passione ma anche tanto divertimento. Immaginateci: noi 8, in un’aula X, che non sapevamo assolutamente cosa stavamo facendo. Man mano, però, in quella confusione, sono uscite fuori le prime idee, le prime bozze di scalette e poi le scalette vere e proprie, i primi format, le prime categorie.

E poi, lui: il nome. UniVersoMe. Non potrò mai dimenticare quando Gugliotta lo ha scritto sulla lavagna, spiegandoci il gioco di parole, il significato che c’era dietro.

Io, Alessio, Paolo, Bonjo, Daniele, Valerio e Salvo lo abbiamo approvato fin dal primo momento. Università verso Me. Me, Messina. Me, cioè io. Me stesso. E sicuramente, questo universo, non solo è arrivato fin da me, ma è diventato parte di me, ha preso una parte di me.

Questo nostro progetto è stato il motivo per cui, lo dirò sempre, non ho più fatto la domanda di trasferimento. È stato il motivo per cui ho deciso di dare una seconda possibilità a questa università e a questa città, scoprendo che ci sono tantissimi ragazzi che si spaccano il culo (scusate il francesismo) per questa nostra Messina, completamente abbandonata a sé stessa.

Sono cresciuta, insieme ad UniVersoMe: ho imparato la diplomazia, il sacrificio, i compressi, il gioco di squadra. Ho imparato a contenere meglio la rabbia quando sei frustata, perché le cose vanno male, perché la gente non recepisce… Chissà per quale motivo.

UniVersoMe è un percorso che consiglio ad ognuno di voi: è una palestra per il futuro, per i futuri speakers, per i futuri giornalisti, per chi vuole trovare degli amici che lo saranno per sempre. Certo, un po’ di censura bisogna metterla in conto, ma ne vale la pena. E, anche quando verrete criticati, perché la verità fa male e non tutti la accettano, potrete dire che Voi, la Voce dell’Università, avete portato a galla i problemi che ci sono, per aiutare l’università stessa. Non vi crederanno? Non fa niente. L’importante è credere nei propri ideali.

Ed è quello che ho fatto io. Ho creduto e portato avanti i miei ideali fino alla fine, sono stata, anche io, la voce (sgarbata e acida, direi) dell’università. Ed oggi, con questo punto finale, non posso fare altro che esserne fiera.

Arrivederci, UniVersoMe.

Grazie per ogni singolo articolo scritto, corretto, pubblicato; per ogni editoriale con cui ho potuto esprimere la mia scrittura, per le mie amate rubriche di Tempo Libero, Abbatti lo Stereotipo, Recensioni e Scienze&Ricerca.

Ciao, a tutti i miei colleghi, compagni, amici.

A Micalizzi, la nostra carotina autistica, il nostro primo referente generale, l’amico con cui ho passato un anno intero a piangere sui malloppi che ci trascinavamo in biblioteca quando andavamo a “studiare”.

A Giorgino, Bonjo, Pragma, Valerio, Barba; i miei ragazzi, la squadra migliore che potessi desiderare. Ognuno di loro, in un modo diverso ma assolutamente perfetto, mi hanno fatta sentire a casa, protetta e coccolata (questa unica piccola donnina) e, soprattutto, mai inferiore a loro. Loro sono stati la mia spalla su cui piangere, il mio mandare a fanculo le persone e rimetterle in riga senza contestare, gli amici che tutt’ora sono con me, che tra 4 giorni saranno con me in uno dei giorni più importanti.

A Gugliotta, il nuovo referente, che si ammazza giorno e notte per aumentare il livello (e che c’è Super Mario Bros?) della piattaforma nelle sue varie componenti, accettando il cambiamento a cui essa può e deve andare incontro ma senza mai mancare di rispetto a nessuno dei membri che ne fanno parte o agli ideali su cui è stata fondata. Lo fa per quanto il tempo, ed io ne so qualcosa, sia poco. Perché UniVersoMe è anche questo: tanto tempo da ‘’perdere’’, con il piacere di ‘’perderlo’’.

Noi 8: il consiglio fondatore. Questi sette stronzi qua sopra citati, credetemi, non ho parole per ringraziarli abbastanza per ciò che ho provato e che non dimenticherò mai. Per aver creato, insieme, chissà per quale assurdo motivo, un qualcosa per cui, qualsiasi sarà la sua storia, andrò per sempre fiera.

Ai nuovi ragazzi, il nuovo consiglio: Jessica, Arianna, Gianpaolo, Vincenzo e a chi prenderà il mio posto. È stato un piacere vedere come quella passione, che era stampata sulla faccia di noi “vecchi” (nerd), esiste anche nel cuore (e sulla faccia) di qualcun altro. E con certezza posso dire, non solo di aver trovato anche in loro degli amici ed una squadra, che faranno un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare sempre più alto.

A Claudio, referente radio, con cui, come cane e gatto, mi sono acchiappata svariate volte in scontri creativi (a dir poco) ma sicuramente costruttivi. Che dire, lui ha già lasciato il posto ai giovani, ma senza noi due, possiamo dirlo senza alcuna modestia, Radio UniVersoMe non sarebbe stata il canale di successo quale è.

A Giulia, referente grafica, che, vabbè, è diventata una sorella con cui condivido il sonno, i sogni, lo sport ed i nostri mondi un po’ sbilenchi ma così strapieni di… Oddio, di cose troppo complicate ma assolutamente stupende. Attraverso i suoi occhi, guarda dentro l’obiettivo della macchina fotografica e fa vedere il mondo come mai riuscireste a rappresentarvelo. Con la professionalità che poche persone hanno, io la ringrazio perché ha conquistato la mia stima ed il mio rispetto fino, addirittura, una parte del mio cuore.

A tutti i ragazzi della Radio (che ho già salutato un mesetto fa durante la mia ultima puntata), a tutti i ragazzi della Redazione, a chi si occupa dei Social con una puntualità disarmante, a chi arriva e se ne va, a chi arriva e rimane. Grazie a tutti.

E grazie a voi: che nel vostro piccolo mi avete letta ed ascoltata. Grazie se vi ho fatto ridere, se vi ho fatto commuovere, se vi ho fatto incazzare, se mi sono fatta odiare o apprezzare. Grazie perché siete voi le persone per cui abbiamo lavorato ogni giorno e siete il più grande premio che potessimo mai desiderare.

Grazie, perché ho il cuore pieno di emozione.

Elena Anna Andronico

D’amore si muore ma io no.

La quantità di caso che ci vuole per esistere è abbastanza incredibile; è una roba che uno è meglio che non ci pensi troppo che se no si rischia di impazzire o quantomeno gli vengono le vertigini e casca per terra.”

Ed è proprio con questa frase che inizio a parlarvi di lui, Guido Catalano, forse lo conoscerete, è l’ultimo poeta vivente, come lui stesso ama descriversi. Le storie che racconta funzionano perché sono in grado di unire l’alto e il basso, arricchite da una punta di sarcasmo e da emozioni in grado di lasciarti di stucco. 

Forse questo autunno invernale dentro la mia testa è dovuto al fatto che mi sento solo come un cane: “Ma tu quando ti senti solo, com’è ‘sta cosa? Che tipo di solitudine provi? Perché voi cani vi usano sempre per questi modi di dire stupidi?

D’amore si muore ma io no” racconta il mondo di Giacomo, poeta torinese che, tra amori impagliati e amicizie a base di pizza e serie tv (come tutti noi, forse), disavventure lavorative e il sogno di poter vivere di sola poesia. Durante un viaggio aereo verso Roma, incontra Agata, aracnologa, ed è subito colpo di fulmine.

Giacomo capisce che si tratta dell’amore della sua vita ma conosce il potere che questa cosa ha: di renderti felice e un attimo dopo infelice. È un rischio disposto a correre?

Se c’è una cosa che mi piace son le ragazze che mi fanno le domande. È così pieno di gente che parla e così raro trovare gente che abbia voglia di ascoltare e di domandarti.

Mi chiedo, alle volte, dove vadano a finire tutte le parole dette, dato che sono così poco ascoltate. Tanto parlare, poco ascoltare. Dove vanno a finire? Lo sapete voi?Probabilmente c’è una sorta di Purgatorio di parole, di pensieri, di frasi che sono state dette e che nessuno ha veramente sentito. “

La storia è attraversata e si mescola a discorsi semi-seri con la madre ultracorpo (secondo lui posseduta da un alieno) che non dorme mai, con Tonio Cartonio del Fantabosco, la cassiera troppo magra del supermercato sotto casa, con il collega del lavoro per cui usi solo un decimo del tuo cervello, con il sesso e la posta del Colon tenuta online e con il bulgaro Todor e i suoi proverbi.

C’è tanta poesia anche nei dialoghi, cercando il più possibile di ritrarre aspetti di una vita quotidiana in cui il lettore inevitabilmente si ritrova. Così come in ogni storia d’amore sorgono varie incomprensioni, incertezze, è inevitabile che arrivino, quando ci si mette a nudo davanti a un’altra persona.

Abbiamo tutti le stesse paure, le stesse avversità, finiamo per essere i muri di noi stessi, eppure continuiamo a sognare quell’amore così forte da levarci il sonno la notte.

Uno di quei libri-guida per ritrovare il piacere di lasciarci andare al sentimento senza scadere nel diabete o nella tragedia, una storia ordinaria, ironica a suo modo. Come sempre, il reading non rende quanto un libro, consiglio vivamente di ascoltare le sue poesie per capire in prima persona l’effetto che lasciano. Ricordo che scoprii Guido Catalano per una poesia intitolata “Ma meno male che ti amo” e di seguito un commento (non dirò di chi, anche perché non lo ricordo) “sconsiglio vivamente di leggere questo libro, a meno che non siate provvisti di un amore in corso” e dopo aver letto questo romanzo e varie poesie mi sento di consigliare Guido non solo a chi ha “un amore in corso” ma anche a chi se lo è lasciato scappare, a chi vive di disavventure e non nasconde di essere stato, almeno una volta nella vita, imbranato, buffo e incompreso. Non il solito libro ma qualcosa di diverso nelle giuste dosi.

Son quelle cose che ti capitano quando ti piace una. Quando ti piace un sacco una e ti sembra di piacerle. Quando ti sembra che tutto collimi, ti sembra che ci sia una specie di incastro miracoloso, che si rasenti la perfezione, che parlare con lei sia semplice e che le battute si incastrino quasi come ci fosse dietro uno sceneggiatore, uno scrittore che fa dire e fare e speriamo baciare i due, che tutto è giusto al momento giusto che sembra impossibile ma non lo è.

Son quei momenti che lo spazio e il tempo mutano e le leggi fisiche se ne vanno a zonzo e se adesso si mettesse a piovere io manco me ne accorgerei, sono ancorato ai suoi occhi con i miei di occhi, se la terra fosse scossa dal terremoto, non ne avrei coscienza, quantomeno fino al sesto grado della Scala Mercalli, se ci fosse un’invasione di extraterrestri incazzati, qui, proprio qui nel cielo di Collegno, io non mi accorgerei di nulla”.

Serena Votano

L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón

È sempre bello ritrovare quei libri che da tanto tempo aspettano di essere letti.

Magari su uno scaffale in alto della libreria, a prendere polvere tra il vecchio dizionario di latino -ormai logoro e sapientemente ricucito da migliaia di pezzi di scotch- e la vecchia collezione di film in “cassetta” – tra le quali svetterà sempre l’improponibile filmato della “Tua Prima Comunione”. Sembra essere li da tantissimo tempo in attesa di qualcuno che si imbatta in “lui”, che gli dia la possibilità di raccontarsi ancora una volta prima di essere nuovamente dimenticato, forse per sempre…

“L’ombra del vento” di Carlos Ruiz Zafón inizia proprio in questo modo, con il ritrovamento di un libro misterioso, scritto da un autore sconosciuto, li dove tutti i libri vanno a trovare rifugio dall’oblio, nel Cimitero dei Libri Dimenticati.

È il 1945 e Barcellona mostra ancora le ferite aperte dagli anni della Guerra civile e del regime di Franco durante il Secondo Conflitto Mondiale. Daniel Sempere e suo padre, proprietario di una modesta libreria, stanno raggiungendo la misteriosa e labirintica Biblioteca per riproporre un antico rito tramandato di padre in figlio nelle famiglie dei librai: il ragazzo dovrà scegliere un libro tra i milioni esposti negli scaffali del “Cimitero” e adottarlo per il resto della sua vita. La scelta ricade proprio su “L’ombra del vento” di Julian Carax, scrittore misterioso ed ignoto persino agli esperti colleghi del padre di Daniel. La lettura del libro strega il giovane Sempere che decide di andare alla ricerca degli altri manoscritti di Carax, ma scopre ben presto che tutte le sue opere sono state distrutte e che nessuno ha più notizie dello stesso autore. Da qui inizierà l’avventura di Daniel alla ricerca della verità nascosta dietro le pagine di quel romanzo, un’avventura che lo metterà davanti a numerose scelte difficili, a sentimenti contrastanti e a rivelazioni sconcertanti.

“Ogni libro possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso.”

“L’ombra del vento” è un romanzo da leggere tutto d’un fiato. La storia è narrata in maniera semplice e chiara e fa dei colpi di scena e del mistero la sua più grande virtù. Zafón riesce a farci vivere la Barcellona dei primi anni 50’ attraverso descrizioni e particolari che trasformano le semplici parole in diapositive dai toni seppia, che rendono ancora più viva l’immagine della città. I personaggi sono tutti inseriti perfettamente nel testo come le tessere di un mosaico antico, ognuno con la propria personalità ben definita, con i propri pensieri e ricordi che tornano a galla nel testo per ravvivarla di luci sempre nuove ed inaspettate.

“ …Le sue mani, nella magica penombra di quella loggia, impressero sulla mia pelle il marchio di una maledizione che mi avrebbe perseguitato per anni.”

Ossessione, credo sia questa la parola giusta per descrivere questo libro. La passione è l’ossessione che muove la penna di Julian Carax sulle pagine dei suoi vividi romanzi; la verità è l’ossessione che spinge Daniel ad affrontare anni di silenzi ed inganni; la ricerca incessante dell’amore è l’ossessione di tutti i personaggi di questa storia, un amore puro e sincero che troppe volte viene macchiato dalla crudeltà di chi l’amore l’ha ormai perso da tanto tempo e che trova la sua ossessione nell’accecante bagliore della vendetta.

È una lettura consigliata per tutti coloro che spesso seguono l’istinto. Lo stesso istinto che li spinge a cercare un libro nuovo sull’ultimo ripiano della libreria, li dove accatastiamo oggetti e vecchi ricordi a prender polvere e che forse ogni tanto guardiamo con malinconia pensando di averli ormai abbandonati all’oblio, senza capire invece che i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito.

Ps. “…Bocca rossa di caramella …Questa vita sulla terra è così bella…” grazie a te.

Giorgio Muzzupappa

Wonder woman – la prima eroina.

C’è una bambina che corre, sta scappando per andare a vedere delle donne allenarsi al combattimento. Questa bambina è Diana (la futura Wonder Woman) e queste donne le Amazzoni.

Dopo anni la Warner Bros e la DC sono riusciti a produrre e mandare in sala Wonder Woman. Tratto dall’omonimo fumetto creato da William Moulton Marston nel 1941, nata come simbolo per le donne. Una delle eroine più famose della storia dei fumetti.

Figlia della regina delle Amazzoni Ippolita e cresciuta sull’isola Paradiso la lascerà quando sulle sue coste cade Steve Trevor un pilota americano, durante la seconda guerra mondiale.
In questa trasposizione cinematografica la cui regista è Patty Jenkins (Monster) e gli sceneggiatori e tutto l’ensemble sono uomini (“It is a man’s world” cantava James Brown) la nostra supereroina, invece, è catapultata durante la prima guerra mondiale e segue la spia Trevor in Inghilterra.
È convinta di poter ristabilire la pace universale trovando Ares e neutralizzandolo una volta per tutte.

La sceneggiatura è scarna, con qualche battuta divertente e d’effetto, la Jenkins però lascia il suo segno con la regia lineare, non puntata tutto sulla fisicità di Diane e delle Amazzoni. La differenza di stile fra chi ha diretto e chi ha sceneggiato è notevole.
Gioca molto sul contrasto fra i principi e gli usi dell’antica Grecia di Diana e quelli della modernità incarnati da Steve Trevor ciò stimolerà sicuramente le giovani menti.  
Il primo tempo è molto coinvolgente, belle le scene di battaglia sulla spiaggia (ndr sono state girate tutte in Italia : spiagge in Campania e le scene di palazzo a Matera e Castel del Monte).
Inizialmente il secondo tempo coinvolge, lo sguardo scioccato e innocente di Diana che si aggira per il fronte, siamo lì con lei e proviamo lo stesso sconforto.
Si allunga troppo lasciando spazio ad un finale un po’ eccessivo.

Gal Gadot è la perfetta Diana, sovrasta Chris Pine (Don’t worry darling) solo con lo sguardo, più che nei momenti di battaglia in quelli di quiete e di comprensione di com’è il mondo. È brava assai.
Caricaturali i tre personaggi che li accompagnano, un turco, un disadattato e un indiano. A quest’ultimo la limitata sceneggiatura gli affibbia frasi politically correct. Stereotipata pure la segretaria di Chris Pine, anche se simpatica.
Dulcis in fundo ci sono le amazzoni: splendide donne. Imponenti le scene iniziali dell’isola e dei combattimenti fra queste. E poi Connie Nielsen e Robin Wright nei panni della regina Ippolita e la generalessa Antiope che fanno dire , per citare il mio giornalista del cuore Federico Pontiggia,  “Wonder MILF”.

Wonder woman colpisce positivamente il pubblico e divide la critica (v. i numeri del box office e le valutazioni su Rotten Tomatoes). È già passato alla storia del botteghino in America con un incasso di $100.5 milioni di dollari nel primo weekend.
Chi scrive è cresciuta coi fumetti di Wonder Woman, Valentina e in tv Carmen Sandiego (Netflix la riporterà presto interpretata da Gina Rodriguez) e altre personaggi immaginari femminili però al cinema durante la mia infanzia non ho mai potuto apprezzare un film di questo tipo.
Questo film si sta ponendo come la alternativa per le ragazzine ad un panorama di eroi uomini. È coinvolgente e stilisticamente affascinante.
Le donne però non devono essere solo raffigurate ma anche coinvolte nei lavori, credute nei progetti che propongono. 

Ndr: nel 2016 il 4% erano registe, l’11% sceneggiatrici, 19% produttrici, 14% editrici e uno sconcertante 3% direttrici della fotografia. Ad Hollywood.

Arianna De Arcangelis

Le notti di un sognatore

Era una notte meravigliosa, una notte come forse ce ne possono essere soltanto quando siamo giovani, amabile lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso che, gettandovi uno sguardo, senza volerlo si era costretti a domandare a se stessi: è mai possibile che sotto un cielo simile possa vivere ogni sorta di gente collerica e capricciosa? Anche questa è una domanda da giovani, amabile lettore, molto da giovani, ma voglia il Signore mandarvela il più sovente possibile nell’anima! … Parlando d’ogni sorta di signori capricciosi e collerici, non ho potuto fare a meno di rammentare anche la mia saggia condotta in tutta quella giornata”.

Le notti bianche è tra le opere più apprezzate di Dostoevskij, insieme a Delitto e castigo. Sin dalle prime pagine, si comprende il perché quest’opera è tanto amata, in quanto ogni uomo riesce a identificarsi con la figura del protagonista. Un sognatore, isolato dalla società e della realtà, durante una delle sue solite passeggiate notturne incontra una donna di nome Nasten’ka. Sarà lei a risvegliare in lui il sentimento dell’amore attraverso il suo sguardo complice, le sue parole e le lunghe chiacchierate anche se sfuggenti.

Io sono un sognatore; ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni.”

La storia si svolge in 4 notti e un mattino, i protagonisti sono solo due : lui timido ed impacciato riesce ad aprirsi a Nasten’ka mentre, quest’ultima, si sfoga sulla sua vita privata, il suo rapporto con la nonna cieca, l’amore perduto e la sua delusione. Entrambi i protagonisti sono soli, rassegnati, vivono la loro vita ma sono spenti e i loro tratti psicologici sono delineati alla perfezione come solo Dostoevskij riesce a fare.

Il finale è struggente, inaspettato, demolisce un sogno che si configurava all’orizzonte: è lo specchio perfetto di quell’amore che tutti abbiamo provato nella vita. Nato alla fioca luce della piacevolezza del primo sguardo, esploso all’unione delle due anime e poi frantumato sotto i piedi, in quel secondo che non ammette repliche.

Le Notti Bianche è un romanzo dolce, sognante, delicato, che, così come la vita, lascia l’amaro in bocca ma senza cattiveria. Consigliato a tutti i sognatori, a chi non si sente accettato e a disagio nel vivere nella società, a chi si lascia cullare dalla fantasia. A tutti coloro che amano stare al confine tra sogno e realtà.

Serena Votano

“The Big Kahuna”

Di film indipendenti se ne trovano a bizzeffe, specialmente da dopo la miracolosa discesa in terra della piattaforma mistica di nome “Netflix”, ma sono veramente pochi quelli che riescono a rimanere all’altezza degli standard delle grandi produzioni Hollywoodiane nonostante il loro budget molto limitato.
The Big Kahuna (La Grande Occasione) è uno di questi, una piccola, sbiadita e remota stellina lucente in mezzo ad un panorama troppo scuro…

E’ un film del 1999 diretto da John Swanbeck, tratto dalla commedia teatrale Hospitality Suite di Roger Rueff (che sarà anche sceneggiatore della stessa pellicola) che vede protagonisti “solo” tre attori: Danny DeVito, Kevin Spacey e un giovanissimo Peter Facinelli che interpretano il ruolo di tre venditori di lubrificanti industriali per una azienda sempre più sull’orlo del fallimento.
L’unica location utilizzata è una modesta stanza d’albergo di Wichita, Kansas dove i tre hanno organizzato un incontro con un grosso cliente che con il suo ordine potrebbe risollevare le sorti della loro azienda. Il problema è che nessuno di loro conosce il suo volto.

Ogni personaggio è diverso dall’altro e tutto il film ruota proprio attorno ai dialoghi che queste tre personalità tanto diverse riescono a partorire.
Il primo di cui facciamo la conoscenza è Phill Cooper (Danny DeVito) saggio venditore di mezz’età dalla personalità profonda e confusa che rappresenterà uno dei punti chiave di tutto il film. Insieme a Cooper troviamo Bob Walker (Peter Facinelli) giovanissimo venditore, neoassunto, ligio al dovere e fortemente legato alla religione Battista di cui è un fervido credente. L’ultimo ad intervenire è Larry Mann (Kevin Spacey) cinico ed astuto venditore, dotato di un grande sarcasmo che spesso lo spinge ad esagerare nell’uso di parole taglienti, specialmente nei confronti del giovanissimo Bob Walker.

“Be’, guardate, sono allibito! Io non fumo, tu non bevi e Bob non fa pensieri licenziosi sulle altre donne. Messi insieme noi tre siamo praticamente Gesù”

I dialoghi sono la vera perla di questo film, soprattutto se si considera che il tutto si ambienta in una sola, piccola e semplice stanza dalle pareti color kaki di un altrettanto anonimo albergo del Kansas. L’azione è bandita dalle scene, la parola viaggia libera e tocca i temi più disparati, dal senso della vita alla religione, dall’importanza della famiglia al valore dell’amicizia, fino, ovviamente, ai temi più concreti della finanza e del linguaggio imprenditoriale. Tutto si muove sulla linea del confronto/scontro tra Larry e Bob, troppo distanti caratterialmente per vivere una giornata intera gomito a gomito sotto la costante pressione di un cliente che non si palesa; confronto che scoppia nella costante battaglia tra il cinismo dato dall’esperienza di vita del primo e la forte e quasi eccessiva fede religiosa del secondo.

Non è un film che eccelle sotto tutti i punti di vista, anzi, spesso dimostra molte lacune sul piano della regia e della trama in se stessa, ma, nonostante la forte mediocrità dell’organizzazione di base, riesce a mettere in luce le splendide performance dei tre attori che riescono a cucirsi addosso perfettamente i loro ruoli, senza troppi eccessi, in maniera semplice, ma diretta. L’apice del film lo si raggiunge nel finale che riesce a condensare perfettamente il senso di tutta la storia in pochi minuti dalla straordinaria forza d’impatto, dimostrandosi così una perfetta chiosa per un film dalle poche aspettative, ma dai molti punti di riflessione e di indagine interiore.

“Non sentirti in colpa se non sai cosa vuoi fare della tua vita. Le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita. I quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno.”

È un film consigliato a tutti coloro che non hanno paura di mettersi in dubbio, di porre sotto i riflettori del giudizio altrui la propria personalità, i propri difetti e le proprie paure; che sono disposti a cambiare in meglio, a chiedere scusa e ad affrontare i problemi di ogni giorno con spensieratezza, perché, prima o poi, anche loro riusciranno a cogliere la loro grande occasione.

Giorgio Muzzupappa

Bukowski la cui <> fa rima con libertà.

Factotum, romanzo che rivelò Bukowski al pubblico italiano, ma soprattutto un romanzo on the road dove Henry Chinaski, alter ego dell’autore, è il protagonista.

Un factotum, appunto, un tuttofare che passa indifferentemente da un mestiere all’altro per permettersi da vivere e da bere, attraversa l’America vivendo alla giornata, affidandosi al caso e a quel destino fatto di lavori manuali, sesso e sbornie quotidiane.

Era vero che non avevo grandi ambizioni, ma doveva pur esserci un posto per gente senza ambizione, voglio dire, un posto migliore di quelli che mi capitavano di solito.”

Un’ agenzia di distribuzione riviste, una redazione di un giornale, un magazzino di pezzi di ricambio per auto, una fabbrica di biscotti per cani, un negozio di abbigliamento, un ufficio spedizioni, un magazzino di biciclette, una ditta di impianti di luce al neon, un’ altra specializzata in articoli natalizi, un albergo.

Così disgustato dalla vita, da ciò che un essere umano deve fare per mangiare, dormire e permettersi qualche straccio. Non sopporta chi gli sta intorno, i lavori ripugnanti che ha svolto, le ripetute segnalazioni per ubriachezza molesta. Proprio non riesce a capire come possa essere divertente alzarsi alle sei di mattina, saltare giù dal letto, mangiare qualcosa controvoglia, andare in bagno, buttarsi nel traffico per raggiungere un posto dove si fanno i soldi per conto di qualcun altro.

Nonostante l’ assenza di una trama e la fastidiosa sensazione che niente possa cambiare né in Chinaski né tantomeno nelle persone che lo circondano, non si può non catturare un significato più profondo e non restare colpiti dalle rare ma coinvolgenti perle di saggezza senza filtri, senza regole.

Questione di fegato. Chissà come stava il mio fegato.”

Un testo sbronzo di solitudine, consapevole di non dover essere riempita con chiunque, una solitudine amata e che basta a se stessa.

Consigliato a chi vuole approcciarsi a un testo alla Kerouac, un inno alla non omologazione a tutti i costi in una società che spinge sempre più alla perdita della propria individualità.

Serena Votano