L’amore proibito che diede origine al mito di Wonder Woman

(La locandina del film – themarysue.com)

Ultimo appuntamento per il cineforum #socialequity in collaborazione con AEGEE-Messina: film della serata sarà Professor Marston and the Wonder Women; pellicola del 2017 diretta da Angela Robinson e basata su una storia vera.

In tema di diritti civili, questo film drammatico-biografico si colloca come “punto di arrivo” di un percorso iniziato settimane fa, ed abbraccia alcuni degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni. Inoltre, tratta con estrema delicatezza questioni che – ad oggi – rappresentano motivo di scandalo per la società occidentale.

Voto UVM: 4/5 – film interessante e scorrevole, ma pecca in alcuni punti

La sinossi e i temi trattati

Dominanza, seduzione, sottomissione e condiscendenza. Queste sono le quattro parole che riassumono l’intera carriera – se non la vita – del dottore in psicologia William Moulton Marston (Luke Evans), studioso della teoria DISC, seguace della neo-corrente del femminismo liberale ed intento a creare la prima macchina della verità. È il 1928 quando quest’ultimo, assieme alla moglie e ricercatrice Elizabeth Marston (Rebecca Hall), inizia una relazione poliamorosa con una studentessa che frequenta il suo corso d’insegnamento ad Harvard, Olive Byrne (Bella Heathcote).

Tale rapporto, connotato da un amore vero e sincero, lo avvicinerà presto al mondo del bondage, al punto che ne approfondirà gli aspetti psicologici trasponendoli al contempo all’interno del proprio fumetto: nascerà così la celebre eroina Wonder Woman e la sua immensa eredità.

Le complessità di questo dramma sono molte: innanzitutto vi è il sentimento poliamoroso, perno dell’intero lungometraggio; poi abbiamo l’interesse alla pratica bondage. Accanto ai temi appena citati si pone infine quello della discriminazione subita dai protagonisti e dai figli, i quali tuttavia vivevano quella realtà con normalità e felicità. Dalla paura, dalla vergogna, dal tormento subìto per via di tali persecuzioni, nascerà l’intento del protagonista di creare qualcosa che dia un nuovo vigore alla figura della donna e che inviti ciascuna a lottare per i propri diritti: l’opera di Marston si pone così all’interno di un’ottica femminista che ben si conforma agli ideali del creatore.

Due argomenti che meritano di essere trattati con delicatezza, senza toni scandalistici o paternalistici: in tal senso, la Robinson è riuscita a non sfociare nella banalità, mostrando un affetto puro e degno da parte di tutti e tre i personaggi. Un affetto che, dopotutto, si condenserà nel personaggio di Wonder Woman, che rappresenta una fusione delle due donne amate da Marston.

(C’è da notare come il professore nutrisse un profondo rispetto per il mondo femminile, essendo vicino agli ideali di femminismo, nota assolutamente progressista per i tempi in cui la vicenda è ambientata).

(In una scena del film, il professore illustra lo studio della DISC ai propri studenti – newswise.com)

La nascita di Wonder Woman e il rapporto tra i personaggi

Wonder Woman è effettivamente ispirata alla forza d’animo di Elizabeth ed Olive, due caratteri agli antipodi ma che si temperano ed attraggono a vicenda. Da un lato la signora Marston, incarnazione della donna in carriera anni ’20; dall’altro Olive, dolce, ingenua ma determinata. A fare “da ponte” tra le due vi è sicuramente il mite ed ambizioso Bill. Il personaggio risulta abilmente lavorato: dall’interpretazione di Luke Evans si nota la smania di grandezza, la voglia di “strafare” sempre e costantemente tenuta a freno dalla disillusione della moglie.

È proprio quest’ultima a mostrarsi inizialmente indecisa verso il rapporto che si andava creando, nutrendo una gelosia nei confronti del marito che tuttavia non passerà mai. E sarà sempre lei a non volersi “cedere” psicologicamente fino all’ultimo, fin quando non si sarà fatta palese la necessità di stabilità nella loro vita: una stabilità che solo Olive è capace di offrirgli.

Inutile però voler negare l’azzardo della regista nel trattare così tanti temi in soli 90 minuti di film: un approfondimento della loro intesa (soprattutto del momento della nascita di essa) avrebbe garantito una maggiore comprensione dei meccanismi del loro amore, anche ai più restii. Rimane invece in dubbio, osservando il complesso, se fosse vero amore o semplice necessità; necessità di alimentare il fuoco di un matrimonio che andava a spegnersi, forse.

Tuttavia, il pathos delle ultime battute del film lascia intendere che durante gli anni il rapporto sia andato fortemente consolidandosi; questo prospetta effettivamente la possibilità che la relazione fosse quanto più che sincera.

La passione e l’affetto che animano i Marston-Byrne si basano sulle quattro parole sopracitate, così come anche lo stesso personaggio di Wonder Woman. Infatti, sin dai primi capitoli del fumetto, l’eroina è ritratta a dominare, sedurre, sottomettere i propri nemici con sfumature erotiche che suscitarono un enorme scandalo.

(I protagonisti in una scena del film – theguardian.com)

Conclusioni

In ultima analisi, il film rimane intrigante sotto molti punti di vista e senza dubbio è piacevole; tuttavia fallisce in alcuni punti, come se la forte drammaticità non riuscisse a trasmettere l’intensità del sentimento provato dai tre. Da guardare se si cerca qualcosa di scorrevole e se ci si vuole avvicinare a tematiche diverse dal solito.

Valeria Bonaccorso

Il diritto di contare: quando il “limite” è solo nella formula

Nuovo incontro in collaborazione con l’associazione AEGEE-Messina per il cineforum #socialequity: il film della settimana è la pellicola del 2016 di Theodore Melfi, Il diritto di contare (Hidden Figures).

Voto UVM: 5/5; una pellicola che pur trattando tematiche importanti è scorrevole e mai banale

Ispirandosi a tematiche di equità sociale, il film racconta la vera storia di Katherine Johnson (conosciuta anche come Katherine Gobble) che con l’aiuto delle proprie amiche, negli anni ’60, lotta contro le mille discriminazioni subite in ambiente lavorativo (e non) per poter esercitare i propri diritti. Tra tutti, quello di contare: ossia quello di vedersi riconosciute le proprie capacità, il proprio potenziale, ma anche e soprattutto quello di essere considerata al pari dei propri colleghi.

Magistrali le interpretazioni di Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe, affiancate da Kevin Costner, Kirsten Dunst e Jim Parsons.

(paoline.it)

La trama

Il film si apre con un salto negli USA del passato, mostrando una Katherine (Taraji P. Henson) in tenera età che studia presso un istituto per sole persone di colore (termine che con accezione dispregiativa veniva utilizzato per indicare la gente afroamericana). Sono gli anni della segregazione razziale e avranno fine solo decenni dopo. La bambina si distingue per le eccezionali doti matematiche, che le garantiscono di poter studiare nei migliori istituti.

Tornati al presente (nel 1961) Katherine ha trovato occupazione come addetta calcolatrice presso gli uffici della NASA assieme alle amiche Dorothy Vaughan (Octavia Spencer) e Mary Jackson (Janelle Monáe). Queste ultime – come la protagonista – aspirano entrambe a degli incarichi più alti ed adatti alle loro capacità ma che tuttavia non riescono a raggiungere, per via delle diffuse discriminazioni razziali dell’epoca.

Una svolta si ottiene in seguito alla promozione della protagonista, ammessa a lavorare per la Space Task Group. Quest’ultima, nata in occasione della “corsa allo spazio” contro i sovietici, mirava a mandare un uomo in orbita prima dei russi, ma come sappiamo, il primato è di questi ultimi che lanciarono in orbita di Yuri Gagarin nel 1961.

Da qui, molte sfide incroceranno i destini delle tre donne, che dovranno fare i conti con un computer IBM 7090 – che minaccerà il lavoro di molte addette del settore calcoli – e con una licenza d’ingegneria ottenibile soltanto frequentando dei corsi (presente in un istituto per soli bianchi).

(blog.screenweek.it)

«Un passo avanti per tutte noi»

La pellicola richiama un periodo di forte sofferenza per tutte le donne nere, riuscendo a mettere in luce una discriminazione subita a trecentosessanta gradi: intanto perché nere e successivamente perché donne. Le oppressioni che si riverberano nella vita di queste tre donne geniali ci mettono di fronte ad un grande quesito: dove saremmo oggi se il talento di molte di queste persone non fosse andato sprecato per stupide e immotivate discriminazioni razziali?

La particolarità di questo film è che, pur essendo ispirato alla lotta per i diritti civili, non ritrae enormi gesti clamorosi ed eroici: si tratta di persone che riescono a farsi strada grazie alle proprie armi e nello specifico quelle della mente.

E non è perché indossiamo le gonne… è perché indossiamo gli occhiali!

Questo è ciò che afferma la protagonista Katherine mentre passeggia col Tenente Jim, il quale mostra alcuni segni d’incertezza all’idea che una donna possa occuparsi di “cose così complicate”.

(comingsoon.it)

I vari volti dell’oppressione

Da qui, si evincono le oppressioni ricevute non solo dagli oppressori bianchi, ma per giunta dagli uomini neri che stanno al loro fianco. Tale caratteristica viene pienamente impersonata dal marito dell’amica Mary, il quale vorrebbe che lei fosse più presente a casa e la intima a non accettare le «concessioni dei bianchi, perché i diritti si dovrebbero pretendere». Una voce molto più radicale, che tuttavia investe il libero arbitrio dell’aspirante ingegnere. Ciò, tuttavia, non la fermerà dallo scegliere la strada più adatta a sé.

E ancora, naturalmente, non manca l’oppressione da parte di altre donne: la responsabile del reparto in cui lavorano le tre addette, interpretata da Kirsten Dunst, abbraccia il proprio ruolo di antagonista bloccando continuamente la strada a Dorothy che aspira a ricevere il ruolo di responsabile permanente.

Molti saranno gli ostacoli, molte le umiliazioni che si porranno sul cammino delle tre matematiche: a partire dalle difficoltà di trovare un bagno per gente di colore, passando per i famosi autobus coi posti a sedere per soli bianchi.

(rsi.ch)

Una valutazione finale

Insomma, un tripudio di tematiche che se non fossero state gestite con la massima serietà ed accuratezza avrebbero potuto mettere a rischio il film: fortunatamente quella che ci è stata servita è una pellicola seria ma leggera, dalla vena ironica (il classico “si ride per non piangere”) che coinvolge, che ci fa entrare nel mondo di una donna afroamericana negli anni ’60.

Riuscendo nell’intento, questo lungometraggio è riuscito a guadagnarsi varie candidature agli Oscar, tra cui quella a Miglior film, a Migliore attrice non protagonista (per Octavia Spencer) e quella a Migliore sceneggiatura non originale.

Una storia non certo facile da raccontare, ma da cui le giovani donne nere di oggi possono trarre ispirazione ed un sospiro di sollievo nel vedersi rappresentate. E questa componente non va affatto sottovalutata.

 

Valeria Bonaccorso

Borat 2 e la parodia all’ennesima potenza

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere. – Voto UVM: 4/5

Chi potrebbe essere così pazzo da girare un film in segreto durante una delle più grandi pandemie di tutti i tempi? Sacha Baron Cohen, ovviamente! Borat – Seguito di film cinema (per gli amici Borat 2) è approdato il 23 ottobre su Amazon Prime Video, giusto in tempo per le elezioni americane, e non ha fatto rimpiangere nulla della prima avventura del giornalista kazako.

Borat viene riconosciuto appena arrivato in America – Fonte: justnerd.it

La trama

Il film inizia con un rapido riepilogo delle pene che Borat Sagdiyev ha dovuto patire negli ultimi 14 anni dopo il disonore portato al suo paese a causa della sua prima pellicola. Per dargli un’altra possibilità, il presidente del Kazakistan affida al giornalista una missione: portare in dono al vicepresidente americano Michael Pence la più grande star del Kazakistan, Johnny la scimmia, al fine di ingraziarsi il presidente (Mc)Donald Trump.

Una volta in America, a Borat viene recapitata la gabbia che avrebbe dovuto contenere la scimmia. Con sua sorpresa però troverà la figlia Tutar insieme a un defunto Johnny. Ciononostante, il giornalista non si perde d’animo e decide che sarà proprio la figlia il regalo per il vicepresidente; ma prima dovrà renderla appetibile per un uomo americano.

Borat e la figlia Tutar – Fonte: leganerd.com

Un film unico…

Cosa rende la pellicola così unica nel suo genere? Sicuramente il fatto che, ad eccezione per i pochissimi attori protagonisti, tutto viene girato all’insaputa delle persone che – inevitabilmente – finiscono a far parte della storia. Il risultato di questo espediente è riuscire a mostrare la quotidianità degli americani nella sua sfaccettatura più intima, quella che magari non vediamo ai TG o che viene derisa sui social. Basti pensare al commerciante che − con naturalezza – consiglia a Borat il quantitativo di propano necessario per uccidere degli zingari o la pasticciera che non fa una piega alla sua richiesta di scrivere una frase antisemita sulla torta.

Cohen è bravissimo nel mostrare questa realtà a tratti anche brutale, rappresentandola in sequenze a loro volta brutali. Questa tattica non è mai fine a sé stessa, ma è mirata a far riflettere lo spettatore riguardo la direzione che la nostra società sta prendendo e quello che possiamo fare per migliorarla.

La parodia diventa dunque un’arma da usare non solo per suscitare ilarità, ma anche per sensibilizzare gli spettatori verso una giusta causa comune.

 

Borat travestito da Trump – Fonte: esquire.com

…e pericoloso

Il coraggio di Sacha Baron Cohen non si ferma certo all’aver girato un film durante una pandemia. Durante le riprese, infatti, l’attore si è trovato a dover affrontare diverse situazioni spiacevoli o da cui qualsiasi persona sana di mente si sarebbe tenuta alla larga. Per citarne qualcuna: è stato allontanato con la forza da un comizio del vicepresidente Pence ed è stato assalito dai partecipanti a una manifestazione di estrema destra (da cui è riuscito a scappare quasi per miracolo). Per non parlare poi della valanga di querele che già si porta dietro dal primo film e che non si sono risparmiate neanche in questo secondo capitolo.

Insomma, ogni volta che Borat va in missione farà sicuramente parlare di sé e arrabbiare qualcuno.

Borat alla manifestazione di estrema destra – Fonte: wumagazine.com

Perché guardare Borat 2?

Borat 2 non è un film per tutti. Dietro l’apparenza da film demenziale e volgare, si nasconde una storia che ci impone di scegliere quando ridere e quando invece fermarsi a riflettere su cosa è giusto e cosa è sbagliato.

In un mondo in preda ai drammi, ringraziamo Cohen per la boccata d’aria fresca che ha portato nel cinema e nella satira.

Davide Attardo 

Malèna: cronaca di una morte

Malèna (2000), regia di Giuseppe Tornatore, è una pellicola carica di crudezza ed apatia. Un film che grida alla denuncia di una mentalità chiusa e corrotta che, se esisteva nei lontani anni Quaranta del Novecento, non è sicuramente cambiata – almeno in determinati contesti –  ai giorni nostri. Una denuncia, dunque, che risulta più che attuale, specie se proveniente da una donna.

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Monica Bellucci nei panni di Malèna – Fonte: spietati.it

Sinossi

La protagonista è Malèna (Maddalena) Scordia (Monica Bellucci): un nomen loquens, potremmo dire. Co-protagonista e voce narrante è invece il giovane Renato Amoroso (il nostro concittadino Giuseppe Sulfaro), un ragazzino nel pieno della pubertà che inizia a provare una passione struggente per la statuaria Malèna, innamorandosene al primo sguardo.

Tramite le sue parole, ma ancor più i suoi gesti, ci viene raccontata la parabola di una donnada santa a puttan*“:l’ascesa e poi il declino. Guardandola tramite gli occhi languidi del ragazzino, ci accorgiamo che il realismo magico delle scene erotiche non lascia spazio al romanticismo, a tratti inquietando lo spettatore, con l’incredibile effetto di sottoporci continuamente allo stress di quella situazione verosimile.

I personaggi

Seguendo i protagonisti nel loro percorso sentiremo chiaramente ogni sensazione da loro provata (e voluta dal maestro Tornatore): disagio, angoscia, rabbia, rassegnazione. Ed in effetti, la bellissima Maddalena è una donna rassegnata: a non vedere più il volto del marito, ad essere sola nella gabbia dei leoni. Disprezzata e rumoreggiata da tutti, passeggia per le strade della piccola cittadina siciliana quasi senza una meta.

Dopotutto, quale meta dovrebbe avere un personaggio spogliato di ogni dinamismo, cristallizzato nell’essere la valvola di sfogo dell’intero mondo costruitogli attorno?

Se notiamo bene, i personaggi secondari che ci vengono presentati sono della peggiore fattispecie e vili: una popolazione che sconcerta, raccapriccia, ma che descrive con incredibile finezza la mentalità bislacca della Sicilia d’altri tempi; mentalità, peraltro, talvolta ancora radicata nella nostra isola. In mezzo al questa accozzaglia di gente, si elevano le Erinni della donna. Il paragone non è casuale: la giovane viene perseguitata dalle altre signore del suo paese per un motivo semplice quanto banale: l’invidia.

Ma il male è sempre banale.

Fonte: webpage.pace.edu

L’urlo

E allora, dalle prime scene d’innocenti bisbigli, si passa alla scena più dura, intrisa di cattiveria del film: il linciaggio pubblico. Malèna – ormai divenuta la “prostituta del paese” – viene picchiata in pubblica piazza al cospetto di tutti gli uomini. Quegli stessi uomini che le facevano la corte, che facevano a gara per accenderle la sigaretta, che abusavano della sua dignità.

Chiave del film è il momento in cui la donna, malmenata, si rivolge agli omuncoli che erano rimasti a guardarla con ripugnanza. Nessuno di loro si fa avanti per offrire una mano a lei che striscia e cerca aiuto. Anche Renato, profondamente innamorato di lei, rimane a guardare come paralizzato. Ed allora un urlo: tutto il dolore accumulato negli anni, la rabbia, la depressione. Un urlo che mira a risvegliare le coscienze, non solo quelle della folla indisturbata, ma anche degli spettatori.

“Voi che mi avete derisa ed usata per il vostro intrattenimento, vedete come mi avete ridotta? Siete soddisfatti?”: suona così, tradotta in parole, la mia mia interpretazione della scena.

Ed ho capito anche che Tornatore ha svolto un lavoro incredibile nel momento in cui, anche solo per un secondo, mi sono sentita parte di quelle Erinni.

La cruda realtà

Malèna è un film che, nel suo asettico silenzio, parla di una morte spirituale con lucidità e cinismo e ci fa realizzare come siamo tutti aguzzini: lo siamo ogni volta che ignoriamo il grido d’aiuto di una persona bisognosa e lo siamo ancor di più quando giustifichiamo le violenze con la “disinvoltura dei costumi”.

Se da un lato è vero che la donna aveva effettivamente abbracciato la vita che non meritava, dall’altro dobbiamo renderci conto che tale scelta è stata spinta da un climax di sciagure di cui è la vittima inerme, inserita nella scena col solo fine di dimostrare quali livelli paradossali di malvagità si possano raggiungere.  E la strepitosa Bellucci impersona Malèna con preoccupante naturalezza.

Fonte: cineturismo.it

D’altro canto le rimane solo un ragazzino. Un ragazzino un po’ codardo, sì, ma che dal proprio errore (non aver prestato soccorso alla donna che, per due ore di film, ci ha ribadito di amare) ha attraversato un percorso di maturazione, mentre il resto delle grottesche figure tornerà a ricoprire, a fine film, il ruolo che aveva all’inizio, come se la vicenda si svolgesse dentro un carillon destinato a ripartire ogni volta che se ne gira la manovella.

Tutti tornano al loro posto, compresa Malèna (che a quel principio non è poi così estranea), ma non Renato. Lui, sin dal primo momento una voce fuori dal coro, si distinguerà per essere stato l’unico di quel paesello disgraziato ad aver conosciuto gli effetti devastanti della passione amorosa. Una passione che rimarrà impressa a vita, racchiusa in un nome maledetto ed abusato, ma che nei pensieri del ragazzo sarà sempre sinonimo di “amore”: Malèna.

Valeria Bonaccorso

Film da “pazzi”: la psichiatria al cinema

La malattia mentale, affascinante e sconosciuta, ci ha sempre attratto. Il grande e il piccolo schermo ci hanno soddisfatto, con una moltitudine di capolavori disponibili.

Ma cosa è che affascina tanto il pubblico? E cosa è che spinge i produttori?

Sicuramente tra cinematografia e psichiatria c’è un filo conduttore, un qualcosa in comune che permette all’una di ispirarsi all’altra. Eh si, avete capito bene, anche il cinema ha il suo scopo terapeutico e didattico.

Ma a prescindere da ciò, le storie raccontate in prima persona e i sentimenti espressi così bene – quasi come se li stessimo provando noi – sembrano essere magnetici, e la malattia viene mostrata nella sua realtà e crudezza dandoci una nuova visione del mondo.

Così abbiamo scelto cinque tra i film che, secondo noi, rendono meglio le patologia psichiatrica, ma che allo stesso tempo riescono a tenerci incollati al divano.

Toc Toc – Disturbo ossessivo compulsivo

Un apparente errore burocratico riunisce un gruppo di pazienti nell’ambulatorio del dottor Palomero, un presunto terapeuta luminare che però ritarderà all’appuntamento. La sua sala d’aspetto sarà lo scenario del film, una commedia che in un’ora e trenta minuti ci presenterà i vari casi clinici.

Fonte: cuorementelab.it – i protagonisti del film

L’incontro – e lo scontro – tra le varie forme del disturbo si fa esilarante, ma allo stesso tempo non scadendo nei cliché, riesce a mostrare i disagi più profondi dei vari protagonisti.

Dalla scelta del titolo, Toc Toc che sta per Trastorno Obsesivo Compulsivo (in spagnolo, lingua originale) con la ripetizione delle parole tipica del disturbo di una delle pazienti, alla bravura degli attori: ci si immerge in un’esperienza leggera, reale e dal finale inaspettato.

Il lato positivo – Disturbo bipolare

Pat, il protagonista del film, appena uscito dalla clinica psichiatrica dovrà fare i conti con la vita di tutti i giorni. Il reinserimento sociale dopo la diagnosi di disturbo bipolare, dopo “l’incidente” a seguito del tradimento della moglie e dopo lo sgretolarsi di tutte le proprie certezze, rendono giustizia alla malattia. Questa viene trattata con delicatezza e con estrema precisione clinica, facendoci immergere completamente nella vita del paziente.

Fonte: ilmedioweek.com – Pat e Tiffany

L’essere consapevole della propria malattia, rende il protagonista sicuro di sé e lo spinge a cercare il lato positivo, ma non lo farà da solo. Tiffany sarà forse la via giusta per trovarlo?

In un concerto di emozioni e di bravura, Jennifer Lawrence e Bradley Cooper rendono questo film un capolavoro.

Brain on fire Encefalite autoimmune

Diversa dalle altre, questa patologia è quasi a cavallo tra la neurologia e la psichiatria. Una malattia sconosciuta, scambiata per un comune disturbo psichiatrico, rende quello della protagonista del film – nonché della storia reale – un particolare caso clinico.

Basato sull’autobiografia di Susannah Cahalan, questo film mostra la gravità del vivere una situazione sconosciuta e  l’insicurezza di una paziente che non sa se essere “neurologica” o “psichiatrica”. Con una profonda descrizione dell’evoluzione della malattia, questo film include lo spettatore nell’estremo disagio che prova la paziente, i suoi familiari e i medici.

Fonte: ultimenotizieflash.com – Susannah al suo ricovero

Nonostante sia stato molto criticato e poco pubblicizzato, questo film è l’occasione di vedere qualcosa di incredibile e – dal punto di vista scientifico – molto interessante.

Ma d’altronde il cervello che attacca se stesso, può essere noioso?

Into the Wild – Fuga psicotica

Film che racconta la storia vera (e divenuta un mito) di Christopher McCandless,  giovane neolaureato che decide di abbandonare la famiglia per intraprende un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti fino ad arrivare in Alaska.

Perché l’ha fatto? Sicuramente per sfuggire da una società consumista e capitalista nella quale non riesce più a vivere, ma forse c’è qualcosa in più.

Fonte: farnorthscience.com – Chris nel suo “appartamento”

Infatti, la sua storia e il suo comportamento potrebbero farci pensare ci sia qualcosa che va oltre la semplice ribellione: il ragazzo cambia nome, diventando Alexander Supertramp, dà fuoco alla sua macchina e al poco denaro che aveva, evita ogni rapporto umano e vive in un autobus abbandonato. Dietro le immagini romantiche del film, si nasconde la ben più triste storia di una fuga psicotica: Chris non scappava solo da un mondo che non sentiva proprio, ma scappava anche da se stesso.

The Truman Show – Delirio paranoide

The Truman Show, racconta la storia di Truman: un trentenne che scopre di vivere, fin dalla nascita, al centro di un reality show (che porta proprio il suo nome). Il film si presta a numerose interpretazioni e riflessioni filosofiche tra le quali, anche se  probabilmente non era nelle intenzioni del regista Peter Weir, c’è anche quella psichiatrica.

Fonte: dasscinemag.com – scena cult

Se si accettasse l’idea che il mondo falsificato in cui vive Truman sia in realtà il mondo reale, allora il film diventerà una rappresentazione esemplare di delirio paranoide.  Il protagonista crede di essere spiato, filmato, crede che tutte le persone nella sua vita siano attori ed arriverà addirittura ad incontrare Dio stesso. Sempre accettando questa interpretazione, vediamo come la vita felice e spensierata di Tuman venga sgretolata dalla malattia e sostituita da sospetto, paranoia e paura.

Così, abbiamo visto come ogni disturbo e ogni paziente riescano ad essere soggetti di grandi film (e di successo). Il vedere qualcuno che ha qualcosa di diverso,ma allo stesso tempo non così tanto, il notare i sacrifici per rimettere i tasselli della propria vita in ordine e il provare le loro emozioni, crea un effetto magnetico che ci fa sentire un po’ medici e un po’ pazienti.

Barbara Granata e Lorenzo La Scala 

Studio Ghibli: 5(+1) film per entrare nella magia di Hayao Miyazaki

Quando si parla di animazione è veramente difficile superare i Giapponesi: ne sa qualcosa lo Studio Ghibli, fondato nel 1985 a Tokyo. Il suo nome si è fatto largo in Occidente e nel grande cinema grazie ad Hayao Miyazaki, cofondatore dello studio e suo regista di punta. Nelle sue creazioni il maestro affronta tematiche di grande spessore attraverso gli occhi dei protagonisti, spesso bambini. Questo fa sì che i film dello Studio Ghibli siano godibili sia da un pubblico giovanissimo sia da quello più avanti con l’età.

In occasione della loro recente aggiunta al catalogo di Netflix, vi proponiamo 5(+1) opere che meglio rappresentano il regista giapponese.

1) Il mio vicino Totoro (1988)

Giappone anni ‘50, Setsuki e la sorellina Mei si stanno trasferendo insieme al padre in un piccolo villaggio di campagna per meglio assistere la madre ricoverata in un ospedale lì vicino. La nuova casa è di fianco a un bosco dove le due sorelline faranno la conoscenza di Totoro, spirito buono della natura e custode della foresta. Quest’ultimo accompagnerà le fortunate bambine alla scoperta di una natura affascinante e viva. Si dimostrerà anche essere un amico fedele e pronto ad aiutarle nel momento del bisogno, quando ogni speranza sembrava persa. Il personaggio di Totoro ha riscosso così tanto successo da essere stato scelto come logo dello studio.

Setsuki, Mei e Totoro alla fermata del bus. Fonte: mamamo.it

2) Porco Rosso (1992)

Marco è un ex pilota dell’aeronautica italiana che, dopo aver rischiato la morte durante la prima guerra mondiale, si ritrova trasformato in un maiale. Dopo l’avvenimento decide di ritirarsi a vita privata e diventare un cacciatore di pirati, lasciandosi alle spalle il suo passato. Il film è rappresentativo dello smisurato amore del regista per gli aerei (viene anche citato il bimotore Ghibli, velivolo che ha ispirato Miyazaki per il nome dello studio). Spiccano anche altri temi cari al regista come il rifiuto della guerra e la forza delle donne, che saranno di fondamentale aiuto al protagonista, trattati con la leggerezza e l’ironia che contraddistinguono le opere dello studio.

Marco sul suo aereo. Fonte: anime.everyeye.it

3) Principessa Mononoke (1997)

Il giovane principe Ashitaka è costretto a uccidere uno spirito-cinghiale maledetto che aveva attaccato il suo villaggio. Durante lo scontro, però, si ferisce a un braccio e viene contagiato dalla maledizione dello spirito. Partito alla ricerca di una cura per il male che altrimenti lo porterebbe alla morte, il principe si imbatte in San, una ragazza cresciuta dai lupi ed educata al rispetto della natura e all’odio verso gli umani. Superate le iniziali tensioni, i due collaboreranno per contrastare la Città del Ferro che minaccia la foresta dove vivono San e il Dio-Cervo, l’unico a poter sciogliere la maledizione. Spettatori dell’eterno scontro tra l’uomo e la natura, la pellicola ci lascia con un interrogativo: è davvero impossibile una convivenza tra queste due parti?

Ashitaka e San. Fonte: mardeisargassi.com

4) La città incantata (2001)

Opera in assoluto più famosa di Miyazaki, è stato anche il primo e unico anime ad aggiudicarsi un Oscar. Chihiro e i suoi genitori si imbattono in una città apparentemente deserta composta solo da locali e ristoranti, in cui i genitori della bambina iniziano a servirsi da mangiare. Chihiro, allontanatasi un momento, scopre al suo ritorno che i genitori si sono trasformati in maiali e, come se non bastasse, che di notte la città si popola di spiriti di ogni genere. Sarà un ragazzo di nome Haku a soccorrerla e a svelarle l’unico modo per sopravvivere in quel luogo: trovare un impiego presso la strega Yubaba che controlla la città. Chihiro intraprenderà dunque un percorso interiore che la trasformerà da timida e impaurita a forte e risoluta: basterà per salvare se stessa e i suoi genitori?

Chihiro e Haku. Fonte: nospoiler.it

5) Il castello errante di Howl (2004)

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Diana Wynne Jones, narra le vicende di Sophie Hatter, una giovane cappellaia che, dopo essere stata tramutata in vecchia dalla Strega delle Lande, incontra il misterioso mago Howl e inizia a vivere nel suo castello. Per sdebitarsi dell’ospitalità ricevuta offrirà i suoi servizi come donna delle pulizie e la convivenza le permetterà di venire a conoscenza dell’oscuro passato del mago e del perché conduca una vita da eremita. Il suo aiuto però andrà ben oltre le pulizie e Howl inizierà ad assumersi le proprie responsabilità. Smetterà infatti di scappare dai doveri che lo vedrebbero impegnato nella guerra che incombe sul regno in cui vive e inizierà a combattere per le persone che vuole proteggere.

Sophie e Howl. Fonte: anipponnight.wordpress.com

5+1) Nausicaä della Valle del vento (1984)

Sebbene prodotto un anno prima della fondazione dello studio, il film è perfettamente in linea per stile e tematiche con le altre opere di Miyazaki targate Ghibli. Tratto dall’omonimo manga del regista, il film ci mostra la Terra devastata da una guerra termonucleare avvenuta millenni prima della storia che vediamo. Nausicaä è la principessa di uno degli ultimi insediamenti di umani che vivono liberi dai miasmi emanati dal Mar Marcio, una foresta in continua espansione abitata da insetti mutanti. Andando contro il pensiero di tutti, la ragazza dimostrerà che anche una natura apparentemente così inospitale, se capita e rispettata, può nascondere un cuore sano e capace di accogliere gli umani.

Nausicaä in una scena del film. Fonte: cinema.fanpage.it

A tutti coloro che sono in trepida attesa della prossima uscita firmata Hayao Miyazaki, dobbiamo dire di pazientare ancora un po’. In una recente intervista Toshio Suzuki, produttore dello Studio Ghibli, ha infatti affermato che per l’uscita del suo prossimo film dovremo aspettare almeno tre anni. Pensate un po’, è necessario un mese di lavoro per disegnare i fotogrammi che compongono un solo minuto di film! È bello come, in un mondo che si avvia sempre più verso la digitalizzazione, c’è chi ancora valorizza le abilità manuali e le tradizioni.

Davide Attardo

Cecità: la necessità di una guida nel pieno di una pandemia

Voto UVM: 5/5 libro; 4/5 film

“Ciechi che, pur vedendo, non vedono”

Nel 1995 José Saramago, Nobel per la Letteratura, scrisse un romanzo che poi fu reso anche film: il titolo originale “Ensaio sobre a Cegueira” non sembrava poi così accattivante, così si è scelto di ridurlo a Cecità (in inglese Blindess).

Josè Saramago

 

Ambientato in una città senza nome e in un periodo senza data, l’autore ci rende spettatori e partecipanti, di uno scenario complesso.

Il tutto comincia all’improvviso, in pieno traffico cittadino, coinvolgendo un uomo qualunque: questo viene colpito da una cecità particolare che non lascia segno; “Non le riscontro alcuna lesione, i suoi occhi sono perfetti” sentiremo dire al medico, ma questo mal bianco si dimostrerà essere una malattia molto contagiosa, dalla causa sconosciuta che colpirà a ciel sereno una società impreparata (non era il COVID-19, ma si, è perfetto per l’attuale pandemia).

Non abbiamo nomi, solo dei “titoli” per descrivere i personaggi: scelta curiosa, ma sicuramente abile; la consideriamo come un espediente per dare spazio al lettore, per riproporsi in chi vuole.  Attraverso i personaggi, viene espressa la criticità della risposta umana all’incertezza e alla paura: c’è chi vorrebbe trarre vantaggio dalla sventura altrui come il ladro di automobili, che deruberà il primo cieco non appena ne avrà la possibilità, e chi come la moglie del medico deve tenere le redini della situazione.

Ma poco importa, finiranno tutti nello stesso posto e saranno queste “etichette” a stabilirne atteggiamenti e movimenti.

In tutto ciò, le forze dell’ordine, che al caro José non dovevano andare molto a genio, vengono condannate, descritte come prive di intelligenza ma piene di paura. Talmente tanta da decidere di portare i malati in un ex manicomio.

Ex Manicomio

Lo scenario si sposta in una struttura dismessa, priva dei beni essenziali e soprattutto priva di umanità.

Prime persone messe in quarantena, fonte: cinematographe.it

Lo descrive perfettamente, in maniera cruda e attraverso gli occhi dell’unica donna che ci vede, la moglie del medico: “Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali”.

Il film le ha dato un volto: bionda e candida, sicuramente non una scelta casuale; man mano che la situazione peggiora e che l’umanità si mostra sempre più fragile , lei deve resistere, ma inevitabilmente la sua immagine ne risente.

Nessuno la vede, ma noi si. Come se ci aspettassimo che l’unica donna non cieca, non possa avere i piedi sporchi. Invece lei li ha, si deteriorerà fuori pur di non perdere quella luce che ha dentro. Come a voler dimostrare quanto siano inutili bellezza ed eleganza se si è vuoti dentro. Banale penserete, invece no.

Julianne Moore, fonte: cinematographe.it

All’interno del manicomio si ricreerà una società rudimentale, in cui il più forte prende l’unica cosa che può: il cibo. E si fa pagare con le uniche cose che gli altri hanno: beni materiali (per quanto sia possibile in quella situazione). E quando questi non bastano, vorrà di più: “dateci le donne”, così da prendere anche quello che “di materiale” non è.

Ecco che l’equilibrio si rompe, Saramago non si risparmia e sottolinea l’indifferenza che soffoca la speranza: dalle continue richieste di aiuto e di umanità non si ottiene nessuna risposta.

Né dalle autorità, né da quelli che possiamo considerare “pari” dei nostri protagonisti. Grida che nascondono il silenzio e un candore, che coprendo gli occhi nasconde la brutalità della scena. Brutalità che si vedrà anche fuori, la città diventa il nuovo scenario.

Città

“E’ una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli”: nonostante sembri un post scritto adesso su un social, evidenzia le crepe della società orfana di nome e di epoca descritta nel romanzo.

E si… crepe sempre esistite e adesso più evidenti che mai.

Tutti ciechi ed affamati, tutti impauriti e arrabbiati. Tranne la moglie del medico, lei non può permetterselo. Deve fare tutto ciò che può per la sua nuova famiglia, i cui membri (marito escluso) non l’avevano letteralmente mai vista, ma che si fidavano ciecamente (scusate il gioco di parole) di lei.

fonte: movieplayer.it

Madre, sorella, la loro e la nostra guida. Azzarderei che era l’unica a non avere quel bagliore negli occhi, perché era l’unica ad averlo nel cuore e nella mente. E anche quello – in tal caso fortunatamente era contagioso.

Ma come a voler sottolineare ancora l’indifferenza degli uomini, dei pari soprattutto, l’autore inserisce una figura: quella del cane delle lacrime. Non si infetta, non è contagioso ma ha solo bisogno di amore. Lui supporta la donna, la segue, le fa compagnia, la difende e creerà un legame che non sarà possibile dissolvere.

In cecità non c’è niente che non abbiamo già visto, anzi, è tutto descritto alla perfezione. Ovviamente amplificato, con una sintassi molto particolare, scenari cupi e dettagli raccapriccianti.

Ma con molta verità.

Non si parla di profezie e complotti: anche lì le autorità erano impreparate. Né di eroi, ma di semplici combattenti; non si parla di ricchi e poveri, ma di pari.

Cosa ci insegna questo ? Non lo sappiamo con certezza ma ci dà speranza laddove serve.

La ragazza con gli occhiali scuri (senza occhiali in questa scena)- fonte: lafabricadeisogni.it

La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.”

Barbara Granata 

La morale de La casa di carta

Fonte:luigitototo.it

Breve sinossi

Il 3 Aprile sulla piattaforma Netflix è uscita la quarta stagione de La casa di carta. La serie – come sappiamo – è spagnola, ideata da Alex Pina, trasmessa prima sul canale Antena 3 (emittente spagnola) ma dopo il grande successo è stata acquistata da Netflix.

Ha debuttato nel 2017 ed è composta da quattro stagioni al momento: ha vinto diversi premi tra cui un Emmy per la miglior serie drammatica nel 2018, e riscosso un enorme successo di pubblico, non senza qualche detrattore. La storia racconta di una rapina estremamente geniale guidata dal Professore, interpretato da Alvaro Morte, che guida nella prima stagione una banda per rapinare le zecca di Spagna: ma la loro non sarà una semplice rapina, sarà la rapina più grande della storia, un’impresa sublime.

La banda è stata selezionata non in modo casuale, ma in maniera dettagliata dal Professore: ogni singolo individuo con determinati talenti in grado di compiere questa impresa, personaggi completamente diversi fra di loro ma in che comune hanno il non avere niente da perdere. Ciascun componente della banda è vestito con una tuta rossa e una maschera del pittore Salvador Dalì ed ognuno di loro ha come nome un nome di città, per non svelare la vera identità.

Fonte: Il Post

Dalla terza alla quarta stagione

ALLARME SPOILER: terza stagione e prima puntata della quarta

Come già citato, la serie è composta da quattro stagioni, genere drammatico e azione. La quarta stagione si collega alla terza, nella quale la banda e il Professore ritornano in azione per aiutare Rio (interpretato da Anibal Cortes) organizzando una rapina presso La Banca Di Spagna per rubare l’oro. Questa estorsione era stata concepita da Berlino (interpretato da Pedro Alonso) cinque anni prima insieme a Martin/ Palermo (interpretato da Rodrigo De La Serna). Come sappiamo, Berlino muore nel finale della seconda stagione: lui stesso decise di lasciarsi alla morte, giacché era stato colpito da una grave malattia che gli avrebbe lasciato poco tempo.

Egli è il personaggio più enigmatico della serie: il Professore lo inserisce al comando della rapina alla zecca, dato che è dotato di una grandissima personalità e sangue freddo. Berlino rappresenta anche la sfortuna in amore, lui stesso dichiara “ ho avuto 5 matrimoni, vuol dire che ho creduto 5 volte all’amore” e nella 4×01 vediamo, con una serie di flash-back, Berlino al suo matrimonio svoltosi in Toscana presso un monastero. In questo episodio il personaggio canta – accompagnato dai monaci – la canzone “Ti  Amo” di Umberto Tozzi per la sua amata sposa, ennesimo brano italiano presente nella serie.

Fonte: youtube.com

Insomma, una scena che ha commosso gli spettatori e ci ha fatto amare ancor di più Berlino: però, sembra che questa sia stata l’unica cornice veramente apprezzata dal pubblico in questa stagione.

Infatti, la serie è stata definita sopravvalutata e noiosa, tanto che nel web molti utenti hanno dichiarato “una serie in cui le idee sono ormai finite”, e hanno sottolineato come i nostri rapinatori da criminali si siano trasformati in dei Robin Hood che rubano ai ricchi per dare ai poveri.

Cosa non ha funzionato?

La quarta stagione rispetto alle altre sembra essere stata ideata solo ed esclusivamente per allungare il brodo della trama. Se già la terza era scarna di colpi di scena e di idee geniali del Professore, che servivano per contrastare in maniera brillante le avversità venute fuori di punto in bianco (e questo era proprio il punto di forza delle prime due stagioni che ha reso celebre questa serie), nella quarta tutto ciò è completamente assente.

Si assiste ad un susseguirsi di eventi messi l’uno di fila all’altro senza giungere ad un fine preciso solo ed esclusivamente per tappare dei buchi temporali ed arrivare ai punti cardine della storia. In sintesi: troppe sottotrame, sconclusionate e non approfondite minimamente, ma messe lì senza un criterio logistico.

Fonte: finalciak.com

Nonostante tutto la serie conta ancora su moltissimi fan

Forse è vero: la quarta stagione non è stata entusiasmante come la prima e la seconda. Ma ricordiamoci che la serie è un inno alla resistenza. La canzone più rappresentativa dello show è “Bella Ciao” un richiamo alla libertà, morire per essa e per un futuro libero senza costrizioni. I componenti della banda sono persone comuni, individui ai quali la vita ha sempre voltato la faccia, persone abbandonate a loro stesse. La casa di carta rappresenta la realtà sociale che non c’è solo in Spagna, ma in tutto il mondo, ed è per questo che i nostri rapinatori sono tanto amati: rappresentano idealmente la ribellione, resistono – cantando Bella Ciao – al potere delle grandi Imprese e dello Stato.

 

Alessia Orsa, Vincenzo Barbera

 

Alla scoperta degli Oscar: Jojo rabbit, il film rivelazione dell’anno

Voto UVM: 4/5

Locandina del film – Fonte: mymovies.it

Jojo Rabbit è il nuovo film diretto dal regista neozelandese Taika Waititi, tratto dal romanzo del 2004 “Come semi d’autunno” della scrittrice Christine Leunens.

Il film ha come protagonista Jojo Betzler, un ragazzino tedesco di 10 anni cresciuto in pieno Terzo Reich e appartenente alla Gioventù Hitleriana, il cui più grande desiderio è quello di diventare un giorno la guardia del corpo del Führer.  Jojo è un bambino acuto e intelligente, che mette a servizio le sue doti a favore della grande Germania. Nonostante il suo fanatico e infantile amore verso il nazismo, non possiede quella freddezza d’animo nel compiere quei gesti che sono propri dei nazisti; viene quindi considerato un codardo e da qui si conquisterà l’appellativo di “rabbit”, ovvero coniglio. Il ragazzino vive insieme alla madre Rosie e ad Elsa, una ragazza ebrea che Rosie tiene nascosta in casa e di cui neanche Jojo era a conoscenza; tra i due nascerà una grande amicizia.

Scarlett Johansson (Rosie) e Roman Griffin Davis (Jojo)  – Fonte: nonsolocinema.com

La pellicola racconta, diversamente da come è stato finora fatto, la dittatura nazista, la guerra e le persecuzioni contro gli ebrei e gli oppositori del regime. Waititi sceglie dunque di partire dalla satira per “smontare” il regime hitleriano e l’ideale nazista davanti agli occhi dello stesso protagonista, che come in un crescendo prende pian piano consapevolezza della grande illusione in cui crede.

Il regista quindi ridicolizza tutto ciò che appartiene ideologicamente e materialmente al Terzo Reich: oggetti, simboli, slogan propagandistici, mimica e gestualità, tutto ciò che noi storicamente colleghiamo alla Germania nazista. Pare dunque difficile non notare con quale enfasi in molte scene viene utilizzato fino alla noia il classico saluto “Heil Hitler” ovvero “Salute Hitler” con tanto di braccio destro in alto.

Senza troppo impressionare Waititi non lascia nulla all’immaginazione dello spettatore, facendo ben vedere cosa significasse vivere nel Terzo Reich per gli oppositori di regime, per un’ebrea come Elsa e per un fanatico nazista quale Jojo. Alla stregua de “La vita è bella” con cui Benigni raccontò l’orrore dei lager, Waititi con una commedia drammatica mostra l’illusione del sogno hitleriano nell’ultimo anno di guerra, che si manifesta in personaggi buffi quali il capitano Klenzendorf.

Sam Rockwell (sinistra) nei panni del capitano Klenzendorf – Fonte: masedomani.com

Oltre la satira verso il regime nazista, il regista mostra un background di altre tematiche quali la solitudine; il protagonista infatti ricorre ad un amico immaginario molto singolare. Non passa di certo inosservato il ruolo di Rosie che apparentemente in un primo momento sembra assecondare la devozione di Jojo per il regime, tanto da rivolgersi al figlio chiamandolo “feld maresciallo Jojo”. Un personaggio carico di tenacia e dolcezza quello di Rosie che lascia intravedere la sensibilità del regista verso il mondo femminile, che ha fatto guadagnare a Scarlett Johansson la nomination come miglior attrice non protagonista.

Originale infine la scelta di brani classic rock che aprono e chiudono la pellicola. Presente all’inizio “Komm, gib mir deine hand” versione tedesca di “I want to hold your hand” dei Beatles e in chiusura “Helden” versione tedesca di “Heroes” di David Bowie. Meritano considerazione i colori vividi della fotografia, diversamente da quanto accade nella filmografia dedicata al nazismo in cui prevalgono colori più cupi.

Il film è ambientato nella Germania del 1945, sebbene sia stato girato interamente a Praga. Taika Waititi firma regia e sceneggiatura, ottenendo la candidatura all’Oscar nella categoria miglior film e migliore sceneggiatura non originale. In lizza per l’ambito premio anche costumi, scenografia e montaggio, caratterizzato dall’assenza di piano sequenza e dunque da numerosi stacchi nelle inquadrature.

Riuscirà il film a portare a casa qualche statuetta?

Di certo la concorrenza è tanta, ma Jojo Rabbit ha saputo sorprendere grazie a un nuovo e originale modo di fare satira sul regime nazista.

                                                                                                                                                                         Ilenia Rocca

Adaline – L’eterna giovinezza

Una storia romantica e paranormale. Voto UvM: 5/5

 

 

 

 

Adaline, una giovane fanciulla nata a cavallo del 20esimo secolo viene resa senza età dopo un tragico incidente stradale.

Dopo anni di vita solitaria, incotra un uomo per cui forse varrà la pena perdere la sua immortalità.

Adaline Bowman, all’età di 29 anni è vittima di un incidente che le cambierà, anzi le fermerà la vita, rendendola immortale.

Dal quel momento la protagonista smetterà di invecchiare, vedrà passare la vita della figlia, e quando ha raggiunto  l’età di una signora anziana, Adaline ha imparato a non innamorarsi di nessuno.

Ma i suoi piani falliranno con l’arrivo di un giovane amore che cambierà tutto.

 

 

Un film ispirato a “Il curioso caso di Benjamin Button”; un film romantico dai risvolti “paranormali”.

In italia al Box Office “Adaline – L’eterna giovinezza” ha incassato nelle prime settimane di programmazione €3,3 milioni.

Dalila De Benedetto