Sons of Anarchy, un affresco della vita criminale

 

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Quando verrà il momento, dovrà dire ai miei figli chi sono realmente. Non sono una brava persona. Sono un criminale e un assassino. I miei figli devono crescere odiando la mia memoria.

– Jax Teller

Ricetta per una buona serie Tv: storia interessante, personaggi convincenti e che sia tecnicamente godibile. Di solito, nell’approcciarmi ad una nuova serie, questi sono gli elementi base che mi convincono ad iniziarla o meno. Ma una serie è anche di più. Per convincermi nel proseguire la visione ci sono altri fattori chiave come possono essere le tematiche trattate, l’evoluzione dei personaggi e della trama orizzontale. Questo fa sì che il prodotto che ne esce fuori sia un capolavoro, come un bel quadro. Ecco, partendo da questa semplice premessa, parliamo un po’ di Sons of Anarchy, serie che ho sempre visto (superficialmente) con molta diffidenza.

La storia è ambientata a Charming, una fittizia cittadina della California. Le vicende girano intorno ad un club di motociclisti, appunto il Sons of Anarchy Motorcycle Club, Redwood Original (SAMCRO). I personaggi principali sono il giovane protagonista (Jax) e il patrigno presidente del club (Klay). Le vicende della storia girano per lo più intorno a loro due e intorno a personaggi femminili come Gemma che è sia la moglie di Klay che la madre di Jax e come Tara che è la ragazza di Jax che ha un rapporto di amore e odio con la suocera. Insomma una famiglia piuttosto incasinata. Il club è immischiato nel commercio illegale di armi ed in altre attività criminali. Nel corso delle stagioni vedremo i SAMCRO scontrarsi con altri club rivali, con i vari fornitori d’armi, con la polizia, i federali e con alcune forze politiche che vogliono far progredire la cittadina di Charming.

Una volta iniziata la storia ci rendiamo conto che Sons of Anarchy è molto più complessa di così. I personaggi sono caratterizzati alla perfezione, la loro evoluzione non è mai lasciata al caso. I rapporti che si creano tra di loro sono unici e ben differenziati. La trama orizzontale è credibile e colma di cliffhanger. Il livello recitativo è alto così come l’aspetto tecnico (regia, fotografia, ecc…). Una mezione particolare va fatta alla colonna sonora che accompagna la serie per tutte e sette le stagioni. Guardando Sons of Anarchy si ha una sicurezza: ogni episodio avrà una canzone straordinaria che renderà il tutto più epico.

Sons of Anarchy così nel corso delle stagioni si è rivelata non solo una semplice serie a tinte crime o gangster ma una storia capace di affrontare tematiche quali il rapporto tra padre e figlio, il concetto di famiglia, la moralità delle azioni commesse viste dal punto di vista di un criminale (consapevole di esserlo). Ci saranno personaggi che amerete e personaggi che vorrete morti. Ci saranno momenti emotivamente intensi e che vi faranno riflettere. Ci saranno momenti in cui non vorrete credere ai vostri occhi per come si evolve la vicenda e momenti che rimarranno impressi nella vostra mente, come le frasi diventate ormai un cult.

C’è, a mio avviso, un invisibile filo che collega il primo episodio della prima stagione al finale della serie. Questo filo è rappresentato dal rapporto che c’è tra un padre e un figlio. È il tema più affrontato in tutta la serie. Questo avviene tra Jax e Klay, i loro scontri sono sempre memorabili. Tra Jax e John Teller (padre biologico di Jax morto quando lui era piccolo), attraverso le lettere lasciate da quest’ultimo. Infine tra Jax e i suoi figli, ai quali vuole lasciare un futuro migliore. Ed in fondo è questo quello che mi fa scegliere di vedere una serie Tv e che mi convince a continuarla. Questo invisibile filo, tessuto alla perfezione dagli autori, che alla fine comporrà un bellissimo quadro. Una volta finita la visione vi potrete lentamente allontanare da questo quadro e, ammirandolo nel suo insieme, potrete apprezzare al meglio quel gran capolavoro che è.

Nicola Ripepi

Recensione “Un Bacio” di Ivan Cotroneo

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Siamo in un piccola cittadina del Nord, precisamente ad Udine, lo sfondo è una scuola che sembra una fabbrica. Arriva un uragano di colori sgargianti : Lorenzo.
 
Lorenzo è un ragazzo rimasto orfano che viene adottato da una coppia piena di buone intenzioni e, a differenza del contesto, accetta la diversità. Lorenzo è estroverso, simpatico, sicuro di sé e della sua omosessualità. Il mondo ostile che lo circonda non intacca la sua fantasia e solarità.
 
Fa amicizia con Blu, una ragazza che tutti odiano e definiscono una facile e con Antonio, un ragazzo taciturno e giocatore di basket che quotidianamente fa i conti con la morte del fratello. I tre emarginati grazie all’amicizia vivranno esperienze uniche, se non entrassero poi in gioco i meccanismi dell’attrazione e della paura del giudizio altrui.
 
Ivan Cotroneo oltre a essere il regista è anche lo sceneggiatore (il film è infatti tratto dal suo omonimo racconto uscito nel 2010) e ha dato nuovamente prova della sua bravura (v. "La kryptonite nella borsa") narrando chiaramente, e anche con l'ironia di alcuni passaggi, le vicende di omofobia e bullismo che spesso accadono nelle scuole e nei sentimenti degli adolescenti.
 
I protagonisti sono tutti e tre ragazzi alla prima esperienza cinematografica e hanno dato prova di avere la stoffa per continuare egregiamente in questo settore.
La colonna sonora è composta volutamente da soli brani musicali, di cui uno appositamente prodotto per questa opera : To the wonders degli STAGS. Poi abbiamo Hurts di Mika, con il quale i ragazzi hanno girato proprio il video della canzone.
E’ un film sulle prime volte, sulla adolescenza, sui problemi che tutti abbiamo affrontato o che ci hanno semplicemente sfiorato.
Sulla accettazione di se stessi prima dell’altro perché spesso ciò che più difficile è guardare dentro di sé ed accettarsi, anzi, per dirla con una strofa della canzone che Lorenzo cita spesso “Don’t hide yourself in regret/ Just love yourself and you’re set/ I’m on the right track baby/ I was born this way” (Born this way – Lady Gaga).

Mi piace definire questi tre personaggi come i tre moschettieri dell’amicizia, come ripete Blu nel film: “l’amicizia ti salva” ; infatti non ci sarà mai nessuno che potrà capirti e coinvolgerti come un vero amico. Come l’amicizia, questo film si infiltra nel nostro cuore e ci soddisfa pienamente.
 

Arianna De Arcangelis

Recensione del libro “Noi siamo Infinito” (Ragazzo da Parete)

Vi è mai capitato di incontrare uno sconosciuto, magari sul treno o alla fermata dell’autobus, e di raccontargli cose che magari non raccontereste nemmeno al vostro migliore amico? Non è più facile parlare con qualcuno che sapete non rincontrerete più?
Charlie, protagonista di Noi Siamo Infinito, affida pensieri e racconti di vita quotidiana, attraverso un serie di lettere, a qualcuno di cui aveva sentito “parlare bene”.
 
Ragazzo da Parete (The perks of being a wallflower, titolo originale), divenuto Noi Siamo Infinito dopo il successo del film, è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky e pubblicato nel 1999, che narra, in prima persona, le vicende di Charlie (pseudonimo usato nelle lettere dal protagonista  per non farsi riconoscere) che si affaccia allo spaventoso mondo liceale, ambientato tra il 1991 e 1992.
 
Il titolo “Ragazzo da Parete” (wallflower) si rifà allo stesso Charlie, quel ragazzo che ad una festa non si scatena in pista, ma sta appoggiato ad una parete, scrutando il mondo. Vedremo attraverso i suoi occhi, ascolteremo attraverso le sue orecchie, proveremo i sentimenti  che lui prova nel susseguirsi delle lettere, perchè Charlie non è un tipo che parla, ma che guarda, ascolta e pensa, tanto.
Il linguaggio è semplice, la lettura è scorrevole. Inizieremo a leggere la lettera del 25 Agosto 1991 (la prima), e senza rendercene conto, tra colpi di scena, pianti e risate, ci ritroveremo a quella del 25 Agosto 1992 (l’ultima).
 
Verranno affrontati temi delicati (sesso, droga, omosessualità, suicidio), ma quasi non ce ne accorgeremo, perchè Ragazzo da Parete è scritto con l’ingenuità e l’intelligenza di quel ragazzo sedicenne che sa pensare e capire.
 
Marta Picciotto

Recensione “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enza Negroni

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Sono passati appena vent’anni dall’uscita nelle sale di “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, film tratto dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi. La vicenda riprende la storia realmente accaduta dell’abbandono del noto gruppo musicale Red Hot Chili Peppers da parte del chitarrista John Frusciante, con una revisione tutta italiana.

La pellicola si apre su quattro ragazzi che, durante la notte, si intrufolano in una proprietà privata per poter fare un bagno notturno in una piscina. Fra una chiacchierata e l’altra, i quattro si interrogano sulla particolare esperienza che un loro amico, Alex, ha recentemente subito e sul suo relativo cambiamento caratteriale, guardando la sua storia a ritroso per poter analizzare meglio la vicenda. Così facciamo la conoscenza di Alex (Stefano Accorsi) un ragazzo al penultimo anno di liceo appassionato di musica e bassista di un gruppo musicale fondato con i suoi amici. Tornando a casa, subito dopo aver intrattenuto una brevissima conversazione con i suoi genitori (intenti a guardare Nightmare), riceve una telefonata da una certa Adelaide (Violante Placido) chiamata Aidi, al quale propone di vedersi subito dopo per passare un po’ di tempo insieme. Fra varie prove con la band e i molti incontri con Aidi, Alex sembra essere felice. Forte di ciò, il nostro protagonista decide di dare un “senso” al suo rapporto con la ragazza, mettendo in chiaro ciò che prova per lei. Aidi, benché provi un forte sentimento per Alex, decide di chiedere al ragazzo di poter restare solo dei semplici amici con un forte legame, affermando che finora non ne aveva mai avuto uno così forte e preferiva capire che cosa stesse provando. In realtà, Aidi cercherà solo di prendere tempo poiché vi è la possibilità che si trasferisca in America per un po’ di tempo e il rischio di cancellare ciò che è successo con Alex e di farlo soffrire. Questa decisione non viene presa bene dal giovane che interrompe perfino il rapporto di amicizia con Adelaide fino al punto di non salutarsi più quando si incontrano. Tutto ciò lo porterà a fare la conoscenza di Martino (Alessandro Zamattio) che, a detta degli amici di Alex, non avrebbe mai voluto come amico in circostanze normali.

Il film, datato 4 aprile 1996, è interamente ambientato a Bologna (lo si vede e, soprattutto, lo si sente) cercando di concentrarsi sul periodo tardo-adolescenziale di Alex. Il tentativo è quello di voler rappresentare una generazione giovane con i tipici “problemi” di questa età, ma purtroppo non riesce a farlo senza cadere nei classici stereotipi. Tuttavia è da evidenziare la leggerezza dei temi trattati, nonostante alcuni di essi siano abbastanza importanti, senza cadere sul classico “oscuro e duro” al quale, ultimamente, siamo molto abituati a vedere in film di questo genere. In generale il film risulta piacevole, anche se alcune scene o addirittura intere parti potevano essere evitate o modificate. La recitazione non eccelle, ma vi è da considerare che ai tempi furono scelti attori quasi sconosciuti e provenienti dalla stessa Bologna. Sicuramente è un film che si avvicina maggiormente alla generazione precedente che a quella attuale, ma non è difficile trovarne un riscontro in alcune parti. Il lavoro primario che la pellicola svolge è sicuramente l’introspezione psicologica dei personaggi, molto spesso sovrastando la storia e ponendola in secondo piano, ma ciò non è necessariamente un male.

Il film avrà anche spento la sua ventesima candelina, ma anche se marginalmente, indubbiamente ha ancora il suo ruolo e il suo perché in una cinematografia italiana e in una evoluzione generazionale che è ancora in corso.
                                                                                                                                                           
Giuseppe Maimone
 
 

Regina Rossa: il perfetto ibrido?

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Regina Rossa (Red Queen è il titolo originale), è il primo romanzo di una saga d’esordio di una giovane ragazza americana: Victoria Aveyard. E’ entrato tra i best seller del New York Times e forse diventerà un film. L’autrice stessa ha studiato sceneggiatura e la sua scrittura risente di questa impronta “cinematografica”.

La storia è incentrata su Mare, una diciassettenne che abita in un mondo diviso dal colore del sangue tra Rossi e Argentei. Lei fa parte dei primi, ovvero della povera gente al servizio dei secondi che inoltre sono dotati di poteri sovrannaturali. Mare non ha prospettive sul futuro  finché un giorno si ritrova al palazzo reale dove, involontariamente, mostra e scopre un potere sovrannaturale che gli Argentei non posseggono. Questo sembra impossibile, infatti Mare sembra l’eccezione che potrebbe mettere in discussione l’intero sistema sociale del suo mondo. Così il re, per evitare che la notizia trapeli, la costringe a fingersi una principessa Argentea e la promette in sposa al suo secondo figlio. Mare si ritrova in mezzo alle dinamiche del palazzo ma allo stesso tempo vuole aiutare i ribelli Rossi. Ma in questo mondo chiunque può tradire chiunque e niente è come sembra.

Per metà del romanzo, il ritmo è molto lento, ricco di pensieri (anche ripetitivi) della protagonista e di descrizioni dei luoghi. Nonostante ciò il linguaggio non diventa mai ricercato, anzi è molto chiaro e spinge a proseguire la lettura. Dal punto di svolta in poi il ritmo accelera, condito dalla giusta dose di colpi di scena che invogliano a divorare il resto del libro nel minor tempo possibile.

Il punto negativo del romanzo è prevalentemente lo stile di scrittura un po’ acerbo dell’autrice. Disturbano la ripetizione di certi concetti e pensieri, inoltre i nomi dei luoghi e dei poteri degli argentei non sono affatto originali (non si sa se questo sia colpa del traduttore o meno).

I punti di forza del romanzo, invece, sono: la forza e la credibilità dei personaggi e dei dialoghi, la coerenza della storia in generale, lo sviluppo della trama e i colpi di scena.

Ma, dopo la lettura di Regina Rossa, cosa possiamo dire di aver letto? E’ un distopico o un fantasy? E se è un fantasy, è ambientato in un futuro, un mondo parallelo o un mondo medievaleggiante? O forse è un romanzo di supereroi stile x-men? Per questi dubbi, secondo me “l’ibrido” in questa storia non è solo Mare (sangue Rosso, poteri Argentei), ma è la storia stessa. Ibrido non solo per quanto riguarda il genere, ma anche per quanto riguarda i contenuti. Infatti, sia i personaggi che le ambientazioni sembrano essere stati presi qua e là da altri romanzi, fumetti o film. Se cerchiamo solo una lettura che intrattenga e che tenga incollati alle pagine, Regina Rossa è il romanzo perfetto. Se cerchiamo invece originalità della storia e una scrittura davvero a regola d’arte, Regina Rossa non è il romanzo che fa per noi.

Noemi Villari

Le regole del delitto perfetto

Shonda Rhimes colpisce ancora. L’ideatrice delle pluripremiate serie quali Grey’s anatomy e Scandal, non perde un colpo e ci regala (questa volta nelle vesti di produttore)  ”How to get away with muder” conosciuto in Italia come “Le regole del delitto perfetto”.

La serie è un thriller giudiziario con protagonista Annalise Keating (Viola Davis), stimato avvocato e docente di diritto penale presso la Middleton University. Sceglierà cinque dei suoi migliori studenti che la affiancheranno insieme a Bonnie e Frank, suoi associati, nei vari processi. Le loro vite saranno legate da un oscuro segreto.

La prima stagione si basa sull’omicidio di una studentessa, Lila Stangard, un caso contorto e intrigato, dove nulla è come sembra.

Il punto forte della serie è senza dubbio Viola Davis, che vanta all’attivo due nomination agli Oscar, quattro ai Golden Globe e vincitrice nel 2015 di un Emmy come “migliore attrice in una serie drammatica” proprio per “le regole del delitto perfetto”.

La sua perfomance è impeccabile, decisamente una spanna sopra rispetto a tutti gli altri interpreti. Viola  porta sullo schermo una donna dalla duplice identità: determinata, forte e  travolgente nelle vesti di avvocato e di docente, ma quando torna a casa e nella sua stanza si toglie il trucco e la parrucca, compare il suo lato umano, la sua fragilità tenuta ben nascosta che non mostra (quasi) a nessuno.

Il personaggio di Annalise tiene in secondo piano gli altri protagonisti che nella prima stagione sono  ancora troppo poco caratterizzati, descritti con leggera superficialità.

L’espediente narrativo del flash forward è molto interessante, veniamo catapultati in avanti, ci viene mostrato ciò che accadrà, quasi come uno spoiler, ma come detto prima nulla è come sembra. La suspense e i continui colpi di scena avvolgono lo spettatore in una spirale di bugie, misteri intrighi e tradimenti.

Accendete la televisione e mettetevi comodi, il delitto è servito.

 

Francesco Benedetto Micalizzi

Suffragette

Londra, inizi del ‘900 storia dell’emancipazione femminile

Il film “Suffragette” è ambientato a Londra all’inizio del ‘900 , Carey Mulligan interpreta Maud Watts ventiquattrenne che da quando aveva sette anni lavora in una lavanderia il cui capo, uomo viscido ed arrogante, abusa quotidianamente delle lavoratrici più giovani.

Maud entra , tramite una collega, in contatto col movimento delle “suffragette”.

Inizialmente intimidita da questo mondo di uomini , dopo aver assistito ad un discorso pubblico di Emmeline Pankhurst , diverrà una militante decisa a rivendicare i propri diritti e a riscattarsi dalle violenze subite in primis sul luogo di lavoro.

Sarah Gravon e Abi Morgan raccontano la storia, fino ad ora taciuta, della battaglia delle donne inglesi che oltre a chiedere ad alta voce il suffragio universale, combatterono per la parità salariale e per l’uguaglianza di genere.

E’ un film che racconta le vicende che quotidianamente le donne dovevano sopportare, le violenze della polizia, i continui arresti, il disagio e la disparità di trattamento sul luogo di lavoro, che dopo anni di reazioni non violente virano verso la disobbedienza civile.

Donne che sacrificarono la loro vita per assicurare un futuro migliore alle generazioni, chi come Emily Davison , che potremmo definire una martire nella lotta delle suffragette, perde la propria vita affinché i media parlino della questione.

Carey Mulligan con quel suo viso da ragazza pulita all’inizio recita in sottrazione, nonostante le inquadrature che puntano il focus su i suoi occhi e bocca, incarna le tribolazioni e la crescita del suo personaggio : prendendo coscienza della situazione attorno a sé fino a diventare sicura e sprezzante.

L’accompagnano Helena Boham Carter , che abbandonati i panni di Bellatrix Lestrange e della Fata Madrina in Cenerentola, veste quelli della farmacista Edith Ellyn (la quale si ispira liberamente alla donna realmente esistita di Edith Garrud , maestra di jujutsu , insegnava l’autodifesa alle suffragette) donna determinata e senza paura e Annie Marie Duff , molto convincente, nel personaggio di una compagna lavandaia.

Ciliegina sulla torta l’apparizione di 3 minuti di Meryl Streep nei panni di Emmeline Pankhurst.

Belle le riprese e le inquadrature, anche in movimento che danno più intensità.

Abi Morgan ha scritto dei vigorosi ritratti femminili, come aveva giù fatto con la Thatcher di “The Iron Lady” e con il Michael Fassbender in “Shame”, esplorando con finezza l’animo umano.

Sarah Gavron ha messo in scena la Storia , senza riuscire ad essere incisiva come avrebbe potuto essere un film del genere. Fortunatamente c’è un cast d’eccezione.

Il film si conclude con l’elenco delle date in cui le donne hanno potuto votare nei vari stati, notiamo che l’Arabia Saudita nel 2015 ha semplicemente promesso il voto alle donne.

Spesso godendo dei diritti ed essendo in una posizione privilegiata pensiamo che le cose vadano abbastanza bene per noi donne, invece questa volta usciamo dalla sala con la coscienza che la strada è ancora lunga , ma con la stessa forza e determinatezza delle nostre “madri-sorelle” , la percorreremo.

Con le parole di Pankhurst/Streep : “Non sottovalutate mai il potere che noi donne abbiamo di essere artefici del nostro destino. Noi non vogliamo violare la legge, vogliamo fare la legge.”

Arianna De Arcangelis

The program

Negli ultimi anni, a partire dal fenomeno “Hunger games”, è tornato alla ribalta il genere distopico.

Si tratta di utopie al contrario, dalla connotazione negativa data dal fatto che c’è un sistema che esercita un potere così enorme sul popolo da non renderlo più libero. Le origini di questo genere risalgono a libri del calibro di “1984” di Orwell, “Noi” di Zamyatin e “Fahrenheit 451” di Bradbury.
“The program” è un romanzo di Suzanne Young pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti che rientra tra i bestseller del New York Times. E’ stato tradotto e pubblicato in Italia nel 2015.
In un mondo dove il suicidio è diventato tra gli adolescenti una vera e propria epidemia, il Programma fornisce una soluzione: cancella la memoria ai soggetti a rischio. Così Sloane, per non perdere i suoi ricordi, è costretta a tenere nascoste le sue emozioni negative, a trattenere le lacrime. Lei ha visto il suicidio di suo fratello e la sua ancora di salvezza adesso è James, il suo ragazzo, nonché migliore amico del defunto. Ma quando James viene preso dal Programma, la sanità mentale di Sloane è a rischio, così come lo sono i suoi ricordi. La storia d’amore tra i due ragazzi è profonda perché a unirli non è solo l’attrazione fisica, ma anche la condivisione della sofferenza, il poter essere liberamente se stessi solo in presenza dell’altro. Sloane è terrorizzata all’idea di perdere tutti i suoi ricordi, belli e brutti, per questo lotta anche una volta dentro il Programma: ma vincerà? Riuscirà a salvare qualche ricordo?
Il romanzo si discosta dagli ultimi distopici pubblicati per un pubblico young adults per diversi motivi. Innanzitutto i temi trattati sono molto profondi e delicati, come suicidio, morte e memoria. Inoltre può essere definito un distopico “mentale” perché non vi è vera e propria violenza fisica, ma i ragazzi vengono violati a livello mentale dato che vengono costretti a subire un trattamento che elimina i loro ricordi. Durante e dopo la lettura, nascono diverse domande nel lettore: Chi siamo noi senza ricordi? Rinunceremmo ai nostri ricordi felici per non rivedere più quelli terribili? Meglio tenere sempre uno sguardo rivolto al passato o cancellarlo con un colpo di spugna per rivolgerci solo al futuro?
Per fortuna non dobbiamo porci queste domande perché non rischiamo di essere sottoposti ai trattamenti del Programma. Ma se potessimo cancellare parti del nostro passato, lo faremmo?

Noemi Villari

Il piccolo principe, una storia senza età

È uscito nelle sale italiane lo scorso 1 Gennaio il film di animazione tratto dall’omonimo romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, “Il Piccolo Principe”.
Quando ci troviamo di fronte alla trasposizione cinematografica di un libro, di conseguenza, ci troviamo di fronte ad un ampio dibattito. Ad esaltare l’animo degli spettatori è la presunta fedeltà o meno del film in relazione all’opera prima, il libro. Figuriamoci per un opera così inflazionata e conosciuta a tutti come può essere “il Piccolo Principe”. E questo film ce l’ha fatta?
La pellicola era stata presentata lo scorso festival di Cannes fuori concorso, con un buon responso da parte della critica. Alla regia troviamo Mark Osborne, conosciuto soprattutto per aver diretto per la Dreamworks il primo capitolo di Kung Fu Panda. Il film è realizzato in tecnica mista: stop motion e computer grafica. La parte in stop motion è quella che si rifà alla storia di Saint-Exupéry, quindi al libro; mentre la parte realizzata in CGI è relativa alla storia di contorno, quella moderna. Infatti il film è realizzato in maniera tale da contestualizzare una storia così fantastica e semplice con la frenesia e le difficoltà della vita moderna.
Ci troviamo, pertanto, di fronte alla storia di una bambina, Prodigy. Figlia di una madre scrupolosa che non vuole lasciare niente al caso per il suo futuro ma che allo stesso tempo non trova mai il tempo per lei sommersa dai mille impegni di lavoro, e di un padre che vive lontano e che nella pellicola è appena nominato. Insomma il classico stereotipo moderno della famiglia alla deriva. La storia di Prodigy prende una svolta quando incontra l’aviatore, che le fa conoscere il piccolo principe. Lei inizialmente respinge questa fantastica storia in quanto crede di essere una bambina troppo matura per certe storielle, in seguito però sarà sempre più affascinata dal piccolo principe e instaurerà una bella amicizia con l’aviatore. Così alla storia di Prodigy si unisce quella del piccolo principe che chiunque abbia letto il libro conosce bene.
Nel momento stesso in cui la bambina scopre la storia del piccolo principe, lo spettatore (soprattutto lo spettatore adulto) riesce ad immedesimarsi nell’approccio a metà tra l’incredulo e l’affascinato che appartiene alla bambina. Questa storia, così semplice e pura, non convince Prodigy all’inizio e viene vista allo stesso modo dallo spettatore. Una semplice storiella raccontata ai bambini che non ha niente a che fare con la vita reale. E in quel momento noi siamo veramente come Prodigy. Ci sentiamo maturi e distaccati da questa storia ma in realtà siamo dei bambini che si ricordano cosa voglia dire essere bambini. “Tutti i grandi sono stati bambini una volta (ma pochi di essi se ne ricordano)”.
Quindi per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, la risposta è sì. Sì perché questa pellicola non tenta solamente di rappresentare sul grande schermo una semplice storia, fa molto di più. Ci fa vedere quello che questa semplice storia ha rappresentato per generazioni e generazioni. Il film diventa così non una mera trasposizione della storia ma uno specchio di fronte al quale è seduto il nostro alter ego che per la prima volta ha letto il libro. Non importa se questo alter ego sia un bambino con di fronte un libro di narrativa delle medie o un adulto che soltanto recentemente ha scoperto quest’opera. Il risultato è sempre lo stesso: “Il Piccolo Principe” ci mette nella condizione di approcciarci ad esso con la purezza e la semplicità di un bambino.

Nicola Ripepi

Il vecchio e il mare – Hemingway

“Ma l’uomo non è fatto per la sconfitta” disse. “L’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto.”

Queste poche parole racchiudono egregiamente il significato di fondo de Il vecchio e il mare, edito nel 1952 ,che gli valse prima il Pulitzer e poi il Nobel.
Il testamento letterario e morale di Hemingway, ambientato in quella Cuba tanto amata dall’autore, che gli rese omaggio dandogli quell’aura “incontaminata” che tuttora permane sull’isola.

Santiago è un vecchio pescatore che da 84 giorni non riesce più nel suo intento di pescare, abbandonato dal suo aiutante Manolin, costretto dai genitori a cercare un’ imbarcazione più “remunerativa”, ma, nonostante tutto vicino al vecchio mentore considerato prima che un maestro, un amico.

Spintosi in pieno mare, il vecchio riesce ad abboccare un marlin “lungo cinque metri e mezzo dal muso alla coda”, che lo trascina sempre più a largo, fino in mezzo all’oceano, per tre giorni e tre notti durante i quali Santiago lotta con tutte le forze rimastegli per non farsi sfuggire un’occasione di riscatto morale quale la preda.

Tutta l’epica di Hemingway confluisce splendidamente in questa semplice, ma non banale, storia. Il vecchio è solo, intorno a lui non c’è altro che il mare, ma, a differenza di un’ altro romanzo “marittimo” quale Moby Dick, Santiago non è spinto dalla ferocia e dalla vendetta, lotta contro il marlin per il primario bisogno di vivere, senza prescindere il pieno rispetto nei confronti della bestia, ritenuta nobile e fiera:

« A quanta gente farà da cibo, pensò. Ma sono degni di mangiarlo? No, no di certo. Non c’è nessuno degno di mangiarlo, con questo suo nobile contegno e questa sua grande dignità. Non capisco queste cose, pensò. Ma è una fortuna che non dobbiamo cercar di uccidere il sole o la luna o le stelle. Basta già vivere sul mare e uccidere i nostri veri fratelli.»

Il pescatore considera la bestia un suo simile, la lotta tra i due è ad armi pari, il pesce sfrutta tutta la sua forza mista ad astuzia “quasi umana” nel cercare di debilitare le vecchie e callose mani del pescatore, sanguinanti nel cercar di non far muovere la lenza, e quindi poter perdere la pescata tanto ricercata; numerosi sono i soliloqui di Santiago facenti da sfondo alla vicenda trattanti la pesca (assieme la boxe, attività prediletta dell’autore), l’esistenza , il confronto e l’immedesimazione con la natura (tema caro all’autore), e la speranza, incarnata nell’allievo Manolin, più volte citato dal vecchio durante questi.

A conti fatti il romanzo risulta come il racconto dell’ eterna lotta tra uomo e natura, una lotta qui ad armi pari dove sopratutto emerge il rispetto, il coraggio e la tenacia dell’uomo che sì potrebbe finir ucciso da questa lotta, ma mai sconfitto.

Pietro Scibilia