Sanremo: Esibizioni e Pagelle degli inediti

Eccoci nel vivo dell’edizione 2025 di Sanremo, il Festival vede il ritorno di Carlo Conti alla conduzione con la straordinaria partecipazione di Gerry Scotti. Prime serate molto intense partendo dagli omaggi realizzati al maestro Ezio Bosso, a Fabrizio Frizzi e dalla continua presentazione di brani molto variegati. Ecco le esibizioni degli artisti secondo UniVersoMe:

 

Brunori SasCanzone molto toccante e ben scritta, Brunori ha mostrato quello che i suoi fan già conoscono.

Simone CristicchiCanzone intensa e intima su una situazione familiare complessa.

Massimo Ranieri Massimo dimostra di essere ancora o in grado di essere vocalmente elastico.

Lucio Corsi 8- Un brano che va capito, che affronta il tema della diversità e dell’alienazione.

Fedez Ha affrontato un tema che non tutti portano, l’ansia, in chiave rap, riuscendo a farla uscire orecchiabile e trasparente.

Joan Thiele Ciò che ci si aspetterebbe da una artista poliedrica come lei, molto originale, una boccata d’aria fresca all’Ariston.

Achille LauroAchille sguazza nel glam anche quest’anno, con la sua voglia di gioventù

Willie Peyote 7- Ha fatto pezzi più belli ma è sempre lui a mettere un pizzico di politica a Sanremo

Elodie 7- Molto orecchiabile, Elodie è cresciuta molto negli anni e ancora potrebbe dare di più, una canzone che starebbe bene per l’Eurovision.

Shablo feat Guè, Joshua e Tormento 6 1/2  Hanno portato l’old school a Sanremo nel 2025, molto apprezzabile.

The Kolors 6 1/2 Classico brano per l’estate, niente da dire.

Tony Effe 6 1/2  Difficile da inquadrare, sembra volersi pulire la coscienza, scimmiottando Gianni Bismark o Califano.

Rose Villain 6+ Copia spudorata della canzone dell’anno scorso.

Modà 6+ Qualcosa in più, rispetto agli anni passati, Kekko ha dato una buona esibizione nonostante l’incidente sulle scalinate.

Francesca Michielin 6+ Una semplice ballata pop, che ha cercato di arricchire con tecniche di canto graffiato.

Olly 6+  Canzone monotona.

Serena Brancale Canzone afrobeat arricchita dal suo accento particolare, probabilmente la risentiremo spesso alla radio e ai lidi.

Rocco Hunt Sempre nei suoi toni, sempre simile ad altre canzoni che ha portato.

Rkomi Canzone caruccia, anche questa una mezza ballata da radio.

Gaia 6   Esibizione particolare ma forse troppo sulla scia latina di Angelina Mango

Bresh 6   Canzone molto da radio, al solito di Bresh, caruccia.

Noemi 6-  Brava ma niente di che quest’anno, un’altra delle tante ballate.

Giorgia 6-  Canzone abbastanza deludente da parte sua, ci si aspettava di più.

Marcella Bella 5 1/2   Un Inno al femminismo ma poteva venire meglio.

Clara 5 1/2  Meglio dell’anno scorso, molto più sicura di se, ma la solita solfa.

Sarah Toscano 5 1/2  Giovane, ha tanto ancora da imparare.

Irama 5 1/2  Non si stacca dal suo solito stile.

Gabbani 5+ Non particolarmente originale, canzone orecchiabile ma niente di che.

Coma_Cose 5+ Canzone palesemente da hit parade, cacofonica.

 

Giovanni Calabrò

Frozen – Cuore di ghiaccio conquista il Palacultura

Il 31 gennaio il Palacultura ha ospitato la prima del musical “Frozen – Cuore di ghiaccio“, ispirato al celebre film d’animazione Disney. Si è rivelato un successo quello della Compagnia dei Balocchi, sotto la direzione di Sasà Neri e prodotto da Taomai Managment, con la direzione artistica di Andrea Bernava Morante e la direzione esecutiva di Antonio Ramires.

Frozen racconta la storia di Anna ed Elsa, due sorelle del regno di Arendelle. Elsa ha poteri magici legati al ghiaccio, ma li tiene nascosti per paura di ferire gli altri. Quando perde il controllo e congela il regno, fugge tra le montagne. Anna parte per trovarla, accompagnata da Kristoff, Sven e il buffo pupazzo di neve Olaf. Dopo avventure e pericoli, l’amore tra le due sorelle scioglie l’incantesimo e riporta la pace ad Arendelle.

Un cast ricco di talenti

Musiche, coreografie e sceneggiatura curate nei minimi dettagli. Tutto in armonia tra di loro.

Le voci emozionanti delle protagoniste Giulia Tringali (la messinese performer del tour A tutto cuore di Claudio Baglioni), nel ruolo di Elsa, e Giulia De Domenico, nel ruolo di Anna, hanno trasportato il pubblico direttamente nel magico mondo di Arendelle. Un cast tutto giovanile quello di Frozen, che ha saputo ricreare con passione e dedizione un classico Disney amato da grandi e soprattutto dai più piccoli.

Fondamentale il ruolo della musica, curata grazie alla direzione musicale e corale di Giulio Decembrini, musicista e compositore messinese scelto come tastierista di “Fame, Saranno Famosi“, lo straordinario musical di Luciano Cannito che sta facendo il giro dei teatri nazionali.

Sceneggiatura ed effetti speciali

Interessante l’adattamento teatrale di Frozen – Cuore di ghiaccio, che ha saputo rispettare lo spirito del film originale, aggiungendo un tocco di originalità grazie alla professionalità degli artisti.

Un dialogo ricco di applausi, risate e meraviglia quello con il pubblico.

Suggestive e di grande impatto le scenografie in 3D, che hanno ricreato il castello ghiacciato di Elsa, il regno di Arendelle e l’iconica scena di Elsa sulle note di “All’alba sorgerò“, che ha incantato il teatro, creando un’atmosfera surreale.

Tra luci, colori e un mondo fiabesco è stato come essere all’interno di un mondo ghiacciato.

Una serata ricca di divertimento e suggestione per i più piccoli, travestiti chi da Elsa o Anna, che hanno animato il teatro con le loro voci sulle note delle famose musiche del film. Uno spettacolo fatto di leggerezza, divertimento e di continuo coinvolgimento che, nonostante il gelo magico del musical, ha saputo trasmettere il calore e l’emozione degli artisti.

 

La Cosa: fantascienza paranoica e guerra fredda

Parthenope
Il ritratto di una società violenta e psicotica in uno dei film horror-fantascientifici più iconici di sempre: “La Cosa”. Voto UVM: 5/5

La Cosa è indubbiamente uno tra i cult cinematografici più discussi di sempre: remake di La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks (1951), fu eclissato dal roboante successo della fantascienza sciatta e buonista di E.T. l’extra-terrestre in quel novembre del 1982 ma riuscì, nel tempo, a farsi strada nel cuore degli appassionati grazie ad una sceneggiatura semplice ma ricca di colpi di scena, degli effetti visivi straordinari per l’epoca e tutt’ora mozzafiato, nonché La magistrale colonna sonora di Ennio Morricone. Tutti questi elementi, coadiuvati da una regia politica e visionaria del maestro John Carpenter, delineano una pellicola ricca d’azione ma con tempi dilatatissimi, orrorifica e disgustosa ma al tempo stesso leggera e grottesca, fantascientifica nella sua atmosfera e nel suo iconico villain ma terribilmente concreta ed impressionista nelle sue dinamiche e nella critica contro una società americana violenta, paranoica e menefreghista.

LA TRAMA

Il film si apre con l’inseguimento di un cane da parte di due ricercatori norvegesi a bordo di un elicottero. I due sembrano più che determinati a sopprimere la bestia in fuga, la quale trova rifugio nella base americana U.S. Outpost #31, ma la cattiva sorte fa si che il pilota rimanga coinvolto nell’esplosione dell’elicottero, causata dal lancio maldestro di una granata, e che l’altro ricercatore non riesca a spiegare la gravità della situazione ai suoi colleghi statunitensi, per via della barriera linguistica che li separa: nel picco massimo di tensione, il norvegese colpisce erroneamente uno degli americani e la situazione degenera in una sparatoria. Ucciso il pazzo straniero dal comandante Garry (Donald Moffat), la crew dovrà affrontare una minaccia ultraterrena, che sembra infettare ed assumere le sembianze di ciò che tocca, e che loro stessi hanno lasciato entrare…

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

LA DECOSTRUZIONE DELL’EROE

Nonostante le varie personalità del gruppo siano ben delineate ed ampiamente caratterizzate, tra i 12 membri della squadra di ricercatori spicca immediatamente quella di R.J. MacReady (Kurt Russel), per via del suo carisma prorompente ed anche grazie ad una certa spavalderia.

La messa in scena suggerirebbe il più banale dei protagonisti valorosi e puri di cuore, eppure già nei primi minuti del film MacReady perde a scacchi contro un computer e lo accusa di aver barato, per poi annegare i suoi circuiti nel Whiskey; ciò che all’apparenza potrebbe sembrare il classico eroe da film d’azione americano, sicuro di sé e sempre pronto a salvare la situazione, Carpenter lo trasforma lentamente in una macchietta arrogante, cocciuta e violenta, perennemente confusa ed incapace di accettare la sconfitta.

UNA REGIA FUNZIONALE ED INNOVATIVA

Le sue abilità registiche, Carpenter, le aveva già messe in mostra in svariate pellicole, passando dai classici horror slasher come Halloween – La notte delle streghe a film d’azione ritmati alla 1997: Fuga da New York, eppure non aveva ancora sfoggiato una tale creatività e polivalenza come in questo film: il regista statunitense dà voce a tutte le sue influenze accostando momenti di body horror puro a dialoghi freschi e cadenzati, alternando scene d’azione con un montaggio serrato ad inquadrature fredde e serafiche (e per questo inquietanti), il tutto mantenendo il ritmo sempre costante ed oscillando continuamente tra il destabilizzante ed il grottesco.

Di grande aiuto furono gli interventi di Robert Bottin, un artigiano degli effetti speciali analogici che contribuì ad ideare ed a realizzare la “cosa” nelle sue varie e spaventose forme.

Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

GLI ANNI ’80 E LA VISIONE DI CARPENTER

Negli anni ’80 del secolo scorso la guerra fredda era ormai agli sgoccioli, e gli U.S. spalancavano le porte al cosiddetto “Edonismo Reaganiano“, un decennio segnato dal consumismo dilagante, nonché una vacua ricerca dell’appariscenza e della spensieratezza nettamente in contrasto con le lotte politiche e il clima di terrore che avevano segnato gli ani passati: i cittadini americani rigettarono l’impegno collettivo atto a migliorare la società e si rinchiusero nella loro sfera privata, perseguendo unicamente la propria felicità personale.

Carpenter coglie perfettamente questo clima di disinteresse apatico e disillusione politica, e lo trasforma nel suo film in una crescente diffidenza tra i membri della crew, alle prese con una minaccia che potrebbe tranquillamente assumere le sembianze dell’uomo con cui hai condiviso la stanza fino a ieri; la fiducia reciproca viene meno, la cooperazione diventa impossibile ed è così che l’uomo è costretto a regredire allo stato di bestia.

IL FINALE

La Cosa
Frame di “La Cosa” (1982) di John Carpenter. Produzione: Universal Pictures. Distribuzione: CIC.

Del resto è la natura stessa della “cosa” a rappresentare una minaccia ideologica per gli americani: il timore di essere assimilati ad un essere senza identità, che può diventare la tua identica copia in tutto e per tutto è indubbiamente terrificante, ma nella cultura dell’io tale prospettiva scardina completamente ogni certezza che abbiamo su ciò che siamo effettivamente.

Nel film risulta impossibile distinguere un organismo originale da uno assimilato, ed in alcuni momenti sembra che neanche quest’ultimo si renda conto di essere ospite della “cosa” fino a quando essa non si palesa. Il culmine viene raggiunto nel finale, quando gli ultimi superstiti si incontrano dopo aver fatto esplodere la base: la minaccia sembra svanita, eppure la tensione è al suo picco; non vi è un minimo segno di empatia, solo due esseri umani pronti a morire da soli pur di non dialogare l’uno con l’altro. 

 

di Aurelio Mittoro

Taormina Film Fest 70: Finché notte non ci separi

Un film piacevole e divertente, romantico ma non troppo, esuberante al punto giusto. Voto UVM: 1/5

 

Entro, spacco, esco, ciao

Lei un osteopata, lui un agente immobiliare, Pilar Fogliati e Filippo Scicchettini sono Eleonora e Valerio, novelli sposi e novelli in crisi. La love suit, che poi è la stanza in cui passeranno la notte i due protagonisti e non solo, sarà il luogo in cui inizieranno i problemi e il luogo in cui finiranno, per poco! 

Commedia divertente che spezza il dramma dell’insicurezza e della gelosia grazie al cast, infatti presente nei panni di un tassista un po’ fuori di senno, romano ma juventino, è Francesco Pannofino; Lucia Ocone invece riveste il ruolo della classica madre impicciona rimasta affezionata all’ex fidanzata di suo figlio Valerio, Ester(Neva Leoni), mentre Giorgio Tirabassi è colui che verrà trascinato, proprio dalla moglie Lucia Ocone, in questa vicenda, tutta sotto gli occhi della Capitale.  

Eleonora, come tutti d’altronde, vorrebbe certezze, che forse poco prima di mettere la fede al dito credeva di avere, ma che subito sono state smontate da qualcosa che Valerio sembrava voler nascondere. Impulsiva e con la necessità di sapere istantaneamente la verità nient’altro che la verità, Eleonora dà il via a questa lunga notte, cercando risposte un po’ dappertutto, forse anche dal suo ex fidanzato (Claudio Colica), di cui Valerio è chiaramente geloso. 

Fonte: ScreenWEEK
Un frame del film.

Se tiri troppo la corda si spezza

Molti dei temi che vengono trattati sono difettosi per via di alcune lacune evidenti all’interno della pellicola, come lo stesso dramma dell’insicurezza e della gelosia, a prescindere dal fatto che entrambi i sentimenti siano giustificati da alcune azioni ambigue, il modo in cui ci si rapporta ad essi viene troppo sottovalutato e reso nella maniera più frivola.

Spezzare il dramma per rendere molto più fluente una storia come questa è giusto ma il troppo purtroppo stroppia, per cui trovare un equilibrio è sicuramente difficile ma l’esito del prodotto sarebbe molto più efficace e meditativo. 

Imprevisti: fate tre passi indietro (con tanti auguri)

Gli imprevisti banali e a volte poco chiari non danno giustizia a ciò su cui puntava la commedia, il disagio della gelosia e il parallelismo delle relazioni di oggi e di ieri. Il parere pubblico è importante e da questo non si sfugge, ma lo stile classico e fresco, aiutato anche dalla buona costruzione dei personaggi, ha portato comunque ad un risultato. 

Fonte: My Red Carpet
Un frame del film con Pilar Fogliati.

Ci vuole un fi..lo di concretezza

Una rom-com che nel complesso abbraccia il pubblico e fa sorridere, ottima la perfomance di Filippo Scicchettini e Pilar Fogliati, avvantaggiati dalla loro alchimia.

La pecca rimane il non aver dato la giusta importanza a un argomento in realtà così delicato e discusso che ha una sua dignità, la gelosia. Un velo di dramma avrebbe fatto la differenza, poiché anche se i personaggi non si dicono quasi mai “ti amo”, come dichiarava lo stesso regista Riccardo Antonaroli durante la conferenza stampa, paradossalmente il film ricade sul genere romantico.

Con l’avanzare delle dinamiche che si creano attorno a una Roma notturna di agosto, gli incontri e gli scontri dei personaggi, il filo motore della commedia perde di credibilità, e questo per via di alcuni vuoti del racconto che si sperava venissero colmati al termine della storia.

A prescindere dal genere di film, romantico, drammatico o qualsiasi esso sia, la funzionalità di questo avviene sì per la riuscita di un ottimo incastro di cast, sceneggiatura e produzione, ma soprattutto per la corretta e lineare struttura di un racconto.

Bello il dialogo tra padre e figlio (Filippo Scicchettini e Giorgio Tirabassi) verso la fine della pellicola, in cui emerge la cruda realtà di alcune coppie e del fatto che i rapporti molte volte durano ma per una semplice questione di abitudine o per essere più schietti, per inerzia. Il consiglio dettato dal padre è quello di inventare un sogno e di scoprirsi mano a mano dichiarando che:

“la vita è come la fede, aiuta”

 

Asia Origlia

Taormina Film Fest 70: L’invenzione di noi due

L’invenzione di noi due è l’analisi di un rapporto che può finire ma che, se preso in tempo, può essere salvato. – Voto UVM: 3/5

 

Il 16 luglio, durante la 70esima edizione del Taormina Film Fest, al Teatro Antico di Taormina è stato presentato in anteprima nazionale il secondo film del registra vicentino Corrado Ceron, L’invenzione di noi due, con protagonisti Lino Guanciale (Che Dio ci aiuti, L’allieva, La porta rossa, To Rome with Love) e Silvia D’Amico. Il lungometraggio uscirà nelle sale italiane il 18 luglio ed è tratto dall’omonimo romanzo di Matteo Bussola uscito nel 2020. Il film racconta l’amore tra due ragazzi che, innamoratisi nei banchi di scuola, si ritrovano, andando man mano più avanti col tempo, ad affrontare un tipo di relazione che oscilla tra la leggerezza e la spensieratezza dell’innamoramento e lo svanire di un qualcosa.

L'invenzione di noi due
L’invenzione di noi due. Produzione: Medusa Film.

L’invenzione di noi due: lo schema del film

I protagonisti di questa storia sono Milo (Lino Guanciale), un architetto che lavora come chef in un ristorante a causa delle difficoltà lavorative, e Nadia (Silvia D’Amico) che svolge diversi lavori, ma con il sogno di diventare scrittrice. I due si conoscono da bambini, in una Verona degli anni ’90. Allora ha inizio la loro corrispondenza: le lettere sono una colonna portante della loro relazione e di tutto il film.

L’invenzione di noi due, prodotto da Medusa Film, è stato cofirmato proprio da Matteo Bussola, insieme alla moglie Paola Barbato, e agli sceneggiatori Federico Fava e Valentina Zannella. Nel film troviamo anche Francesco Montanari (il Libanese in Romanzo Criminale – La serie) nel ruolo di Marco, fratello maggiore di Milo, e Paolo Rossi nel ruolo di un negoziante di modellini.

L’idea dell’amore

Quando un rapporto è ridotto sul lastrico, come quello di Milo e Nadia, tentare di ricostruirlo come fosse un edificio, per Milo sembra essere la scelta più giusta. Annullarsi come esseri umani, facendo di tutto per l’altro è il modo peggiore per cercare di costruire qualcosa di sano e duraturo, e questo è un po’ quello che viene narrato dai protagonisti di questa storia. Milo e Nadia si sono amati e odiati contemporaneamente per non essersi conosciuti davvero nel corso degli anni.

Il tempo è amico e nemico, cicatrizza le ferite ma prima le fa comparire. L’idea dell’amore secondo Milo, durante l’arco temporale che si sviluppa all’interno della pellicola, è completa la dedizione e dannazione per qualcosa che poco a poco è andato perduto. Pare spontaneo chiedersi cosa ci fosse di sbagliato o di inappropriato nel rapporto tra Milo e Nadia. Se si fa attenzione al finale e alle parole di quest’ultima la risposta è proprio davanti ai nostri occhi…

L’invenzione di noi due: perdersi per ritrovarsi

 Nel film Milo e Nadia passano dall’amarsi a stare insieme per inerzia, trasformando la loro relazione in un motivo di frustrazione per entrambi. L’invenzione di Milo sarà la goccia finale che porterà i due a fare quello che forse non hanno mai fatto realmente: dialogare.

La mancanza di comunicazione e il continuo fuggire di Nadia da conversazioni scomode fa esplodere qualcosa dentro Milo, persona pacata e quasi impacciata. Questo è anche un altro tassello problematico della relazione, la loro diversità che finisce per separarli. Lo scambio di lettere era stato un modo, divertente ed eccitante, di creare un ponte tra di loro. Ciononostante, l’insoddisfazione di due lavori diversi che portano loro solo malessere e frustrazione, causa l’allontanamento di Nadia e Milo e il conseguente deterioramento della coppia.

Ciò che attira maggiormente di L’invenzione di noi due è l’interpretazione realistica degli attori, accompagnata dall’analisi di un rapporto che può finire ma che, se preso in tempo, può essere salvato. Il finale incompleto lascia lo spettatore con un accenno di sorriso e porta alla riflessione su quale sia il vero linguaggio dell’amore.

“Capitano a volte incontri con persone a noi assolutamente estranee, per le quali proviamo interesse fin dal primo sguardo, all’improvviso, in maniera inaspettata, prima che una sola parola venga pronunciata.” – Fedor Dostoevskij

 

Asia Origlia
Rosanna Bonfiglio

House of the Dragon, le promesse della nuova stagione 

La serie promette bene anche se con qualche difetto gestionale. – Voto UVM: 4/5

 

 

Dopo una lunga attesa, House of the Dragon, il prequel della HBO che ha riattratto i fan del Mondo del Ghiaccio e del Fuoco ritorna e porta calorose promesse nella sua nuova stagione.

George R. R. Martin, prof. di storia all’università di Westeros

Ma facciamo una piccola digressione sull’origine della serie. House of the Dragon è basata su due volumi (dei quali per ora uno già concluso e pubblicato, chiamato Fuoco e Sangue) di George R.R. Martin, sulla storia della casata Targaryen e del loro lungo regno sul continente occidentale, Westeros. È molto particolare lo stile con cui Martin decide di raccontare la storia della dinastia, in quanto non si tratta più di romanzo ma di cronaca vera e propria, come quella che studiamo nei libri di storia. In modo geniale, Martin si immedesima nei panni di un maestro della Cittadella. Questo “maestro”, sfruttando il punto di vista di tre persone di tre classi sociali diverse del regno, cerca di risalire alla versione più verosimile dei fatti. 

La certezza storica non è più sui libri

Essendo un personaggio interno all’universo ma esterno ai racconti, il Martin maestro non è un narratore onnisciente, diversamente come negli altri romanzi come Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco lasciando volutamente molti dubbi ai lettori, i quali ora dovranno basarsi sulla serie tv per avere conferme sulla versione ufficiale della storia.  

House of the Drgon
La corona di re Viserys Targaryen. Fonte: HBO

Come ci siamo lasciati nella scorsa stagione di House of the Dragon

La serie tv inizia non dalle prime pagine del “resoconto storico”, un peccato per alcuni lettori, bensì da circa metà libro, incentrandosi su la Danza dei Draghi: una guerra tra fratelli, anzi fratellastri, per il trono. Alla morte dell’attuale re Viserys, volendo ostacolare l’ascesa del suo erede diretto e ufficiale Rhaenyra, sua figlia, le casate vicine utilizzano le ultime parole deliranti del re, fraintese, per nominare come nuovo erede il figlio maschio ottenuto dal secondo matrimonio con Alicent Hightower (il re era rimasto vedovo e Rhaenyra orfana). Dopo una serie di screzi della famiglia reale, scatta il primo assassinio: uno dei figli di Alicent, il secondogenito maschio del re, Aemond, uccide il secondogenito di Rhaenyra, che in preda al dolore dichiara guerra. 

Nel pieno della guerra con la nuova stagione

E da qui inizia la seconda stagione; inizia la Danza dei Draghi. Sarà una danza davvero sanguinolenta e piena di scene memorabili (soprattutto grandi battaglie con draghi, ovviamente), che possono essere ricreate fedelmente grazie al libro fino ad un certo punto. Poichè si, non c’è spazio per l’immaginazione degli sceneggiatori riguardo la cronaca e le battaglie, ma ne rimane molto per la caratterizzazione dei personaggi. Martin non si sofferma troppo sulla costruzione dei personaggi, non di tutti, come fa di solito nei romanzi.

House of the Dragon
Alicent e Rhaenyra, protagoniste della nuova stagione di House of the Dragon. Fonte: Instagram @houseofthedragonhbo

Fotografia e Regia, il fiore all’occhiello della serie

Già dai trailer della nuova stagione, come in tutti gli episodi di quella passata, salta all’occhio una cura particolare alla creazione estetica dell’ambientazione e delle scene. Sono stati realizzati degli scatti meravigliosi, sia al fine di ricreare al meglio alcuni avvenimenti del racconto sia per riempire gli episodi di scene. La CGI sembra sfondare ad oltranza il suo stesso limite, con ogni stagione che passa, e il futuro, con la terza stagione annunciata e un altro spin-off in progettazione, promette bene.

Poteva essere gestito meglio?

Gli sceneggiatori sono costretti ad allungare di molto le vicende; è qui infatti la critica che gli spettatori hanno mosso al primo episodio della nuova stagione; hanno notato una mediocre gestione delle scene, come nel finale. Personaggi di House of the Dragon, come Helaena e Alicent che nel libro sono posizionati in posti precisi o compiono azioni precise, nell’episodio divergono dal libro, a causa di alcuni tratti caratteriali che hanno acquistato nella serie.

Le promesse della nuova stagione di House of the Dragon

Promette di essere una buona serie fantasy con tanto potenziale anche dal punto di vista introspettivo. Staremo a vedere come sarà gestita la narrazione nei prossimi episodi della nuova stagione sperando che possa essere migliorata, sapendo (almeno per chi ha letto il libro) che ci aspettano davvero dei colpi di scena emozionanti per quanto riguarda questa grande Danza.

Valar Morghulis,

Giovanni Calabrò

Club Dogo, i capi sono tornati a casa!

Un album che letteralmente urla “Siamo Tornati Zio” – Voto UVM: 5/5

Come ci hanno lasciato i Club Dogo?

Sarebbe stato facile dire, fino a qualche anno fa, che non avremmo più sentito parlare del trio musicale più famoso di Milano, dopo Non siamo più quelli di Mi Fist. Titolo che suona come un epitaffio, un album che rivela l’evoluzione finale dei Club Dogo, collettivo che nel tempo gradualmente perdeva il suo scopo. In 13 anni si sono appollaiati sugli allori, sapendo di essere i migliori hanno deciso di dare il loro peggio per guadagnare di più, ed è cosi che dalle importanti Cronache di Resistenza (Mi Fist) siamo passati a Minc*ia Boh!

Tuttavia anche perdendo il peso liricistico, sono diventati con gli anni un simbolo del gangsta/coca rap italiano, dove alla denuncia sociale si sostituiva l’esaltazione dell’alcool, delle discoteche, dei soldi e la musica da club e da piazza.

Cover di “Club Dogo”. Casa discografica: Universal Music Italia Srl

La speranza è l’ultima a morire

Nel 2015 si è chiusa anche quella fase con un’apparente rottura tra i tre membri dei Club Dogo, di cui si sa tutt’ora molto poco. Rimane un dato di fatto che da allora non abbiamo mai assistito a un lavoro che contenesse tutti e tre i membri insieme. Eppure dopo tanto silenzio, tra interviste e citazioni nei pezzi, è venuto fuori che effettivamente l’affetto e la stima erano ancora vivi tra Guè Pequeño (Cosimo Fini), Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e Don Joe (Luigi Florio).

In un’intervista di un paio di anni fa scopriamo che Jake ha sempre voluto tornare a lavorare con entrambi insieme ma a patto che fosse per riportare effettivamente il gruppo in gioco. Inoltre esigeva che fosse fatto per conto del gruppo e non sul disco di qualcun altro. A detta sua, Guè, che ha preso molto seriamente la sua carriera solista negli anni dopo l’ultimo lavoro fatto insieme, lo aveva contattato per farlo comparire nei suoi lavori personali, e ha sempre rifiutato. Fortunatamente questo fatto non è stato ragione di astio fra i due. Anzi è stato il meccanismo di riflessione che ha portato all’attesissimo ritorno del 2024 dei Club Dogo.

Come siamo arrivati a questo punto?

Guè ha avuto alti e bassi dal 2015 fino ad ora, iniziando la sua carriera solista quando i Dogo erano ancora insieme. La sua anima da rapper megalomane, rimasta ancora nei primi lavori (Il Ragazzo d’Oro, Vero) ha conosciuto l’avvento della trap, mutandosi in modo non molto decente in quella di un trapper di mezza età (se mi sentisse mi insulterebbe la madre), evento visibile in Sinatra e Gelida Estate EP. Ma ha anche ritrovato qualità e decenza con gli ultimi lavori (Mr.Fini, Fastlife 4, Gvesus, Madreperla) e con apparizioni in dischi di altri artisti e producers.

Jake, dal canto suo, subito dopo lo ‘scioglimento’ si è buttato sul commerciale in qualsiasi modo possibile, cimentandosi in qualsiasi stile andasse di moda in quel periodo. Addirittura è riuscito a fare lavori reggaeton e da discoteche in spiaggia, causando l’amarezza dei fan di una vita. Soltanto nell’ultimo paio di anni sembra essersi stancato di essere usato per i balletti su TikTok, tornando prima con un joint-album con Emis Killa (17) che fa tirare un sospiro di sollievo agli amanti del rap, e poi con un disco solista molto carino: Ferro del mestiere. Quest’ultimo segna il suo ritorno alle rime e alle barre hip-hop.

Infine Don Joe tra silenzi e sporadiche produzioni personali, si è reso artefice di diverse produzioni per tantissimi artisti della scena rap old e new-school e anche di quella pop italiana, ma più recentemente un producer album molto bello: Milano Soprano.

I Dogo durante una sessione di registrazione del nuovo album.

Come li ritroviamo adesso?

L’annuncio è arrivato completamente dal nulla, avevamo smesso tutti di pensarci e sperarci, ma è arrivato nel momento più ideale delle carriere dei tre membri. Tutti e tre hanno solo in testa l’hip-hop, le basi vecchia scuola col boom-bap, gli scratches, e l’autoreferenzialità. I Dogo si sentono i supereroi del rap, direttamente da Milano per l’intera Italia, tanto che prima ancora dell’album, la campagna pubblicitaria si è rivelata iconica e demenziale al punto giusto. Testimone il simpatico sketch con Claudio Santamaria e Beppe Sala.

“Club Dogo”, come suona?

L’album Club Dogo si presenta come un decentissimo ritorno, praticamente tendente ai primi album come Mi Fist o Penna Capitale. Manca purtroppo il peso sociale di quegli album ma compensa con l’attitudine e il volersi riportare al proprio posto nell’Olimpo del genere in Italia. E’ la conseguenza diretta dei diversi stili evoluti dei membri del gruppo. Sovverte completamente l’album con cui ci hanno lasciato nel 2015 e probabilmente anche quei due-tre prima di lui. I temi sono principalmente di critica al rap odierno, fatta anche con molto divertimento e ironia. I featuring sono ben selezionati, Marracash, Elodie e anche Sfera Ebbasta, hanno scritto strofe e ritornelli azzeccati per l’occasione.

A primo ascolto potrebbe sembrare un album un po’ piatto dove ogni canzone sembra quasi sullo stesso piano, senza una canzone che spicchi. Serve tuttavia almeno un altro ascolto per discernere bene la qualità di ogni singola traccia. Le prime quattro soprattutto, sono quelle che danno una botta di nostalgia difficile da gestire all’ascoltatore dogofiero storico. Un’altra di queste è Tu Non Sei Lei, la traccia più scura, sorprendente sia per il lavoro strumentale di Don Joe, sia per il tema. Una canzone che parla di amore marcio paragonato al male delle droghe pesanti.

“Club Dogo”, il come-back di Milano con la ‘M’ maiuscola

Una caratteristica molto particolare di questo album è che non ha tracce da radio. Incredibile a dirsi, anche i pezzi con i featuring non hanno un sound commerciale. Certo potrebbero essere passati in radio, ma mai come i loro pezzi più famosi e cantati. Questo non vuol dire che sia un brutto album, ma anzi che sia un disco ben mirato. Di sicuro è mancato poter ballare su una canzone come Pes, anche se King Of the Jungle si avvicina molto a quelle vibes estive e reggae.

E’ un disco che ha un target e uno scopo: è stato scritto per rieducare, per riabituare l’orecchio dell’adolescente al rap di qualità, o comunque davvero di strada (di piazza, nel caso dei Dogo). Ma anche per esaudire tutti noi che li aspettavamo cantando Puro Bogotà.

 

Giovanni Calabrò

André 3000 è tornato ma non è più quello di prima

uvm 4 stelle
L’intenzione dell’artista è quella di “sospenderci” fra le note del suo flauto, alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé. – Voto UVM: 4/5

 

Dopo 17 anni di silenzio musicale dal rilascio di Idlewild, ultimo album degli OutKast, leggendario duo hip-hop di Atlanta, André 3000 fa il suo debutto da solista con un album new age dove è il flauto a fare da padrone.

Capita molto spesso nel mondo della musica di fare delle previsioni sulle uscite imminenti ma, quando si parla di un nome come quello di André Benjamin (in arte André 3000), è difficile pensare che avrebbe suonato qualcosa non hip-hop. Il duo da cui proviene infatti, gli Outkast, ha dominato la scena a cavallo fra gli anni ’90 e i 2000 con un successo difficile da eguagliare: Stankonia e Speakerboxxx/The Love Below sono fra gli album più venduti nella storia del genere. Oltre ai grandi numeri gli Outkast hanno anche plasmato un’eredità musicale da trasmettere, influenzando numerose generazioni successive di rappers – uno fra tutti, Tyler, the Creator – e aprendo, con il southern hip-hop, un nuovo fronte musicale in una scena che in quegli anni era culturalmente dominata dalla West ed East coast statunitensi.

Eppure, nonostante André 3000 avesse potuto vivere di rendita sulla scorta della fama e del nome creatosi con il compagno Big Boi, ha deciso di imbracciare il flauto e suonare “indisturbato” per le strade di Los Angeles. Da questa esperienza viene fuori New Blue Sun, un album a metà fra l’ambient jazz e la new age, completamente strumentale e realizzato insieme al musicista e produttore Carlos Niño.

Un lavoro di improvvisazione

Come André stesso ha dichiarato, il suo lavoro non nasce da uno studio e da una preparazione metodici. È un flusso di coscienza musicale dove le parole sono sostituite dal suo flauto, accompagnato da altri strumenti come gong, bastoni della pioggia, sintetizzatori, tastiere, violini, la cui organizzazione armonica è affidata al producer Carlos Niño. Persino la lunghezza e i refusi voluti dei titoli delle tracce rendono l’album “non intenzionale”.

Con il brano d’apertura I Swear, I Really Wanted to Make a ‘Rap’ Album but This Is Literally the Way the Wind Blew Me This Time (“Lo giuro, volevo davvero fare un album rap ma questo è letteralmente il modo in cui stavolta sono stato trasportato dal vento”) l’artista sembra quasi volersi giustificare con il suo pubblico per la sua scelta inaspettata, facendo subito intendere quale sarà il leitmotiv dell’intero lavoro, ovvero il flauto. In Ninety Three ‘Till Infinity and Beyoncé, dove la storpiatura della parola “beyond” lascia all’ascoltatore una certa libertà di interpetazione, le sonorità ambient elettroniche di Matthewdavid ci trasportano in un viaggio dai caratteri atavici e un po’ tribali.

Un’accoglienza incerta per André 3000

Non è certamente un album facile da comprendere, André 3000 lo sa bene e non si aspetta di certo un’acclamazione unanime. I critici si sono infatti divisi subito fra chi ci ha visto il coraggio di un artista in fuga dalla fama e alla ricerca della normalità e fra chi invece la solita solfa new age neanche molto ambiziosa. L’intenzione dell’artista non è comunque quella di lanciare un messaggio ben preciso, è più quella di sospenderci fra le note del suo flauto alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé.

E a chi lamenta il suo mancato ritorno nel mondo dell’hip-hop l’artista ha affermato in un’intervista a GQ (intento a fare il bucato in una lavanderia a gettoni):

Come posso aspettarmi che tu sia
eccitato riguardo a un mio lavoro
se io stesso non lo sono?

 

Francesco D’Anna

CVLT: l’album di Salmo e Noyz Narcos è “a prova di morte”

 

CVLT
Costruire immagini con parole e musica non è per nulla semplice ma con CVLT i due rapper ci riescono benissimo. – Voto UVM: 4/5

 

Tarantino li invidierebbe e i Club Dogo non riuscirebbero a fare niente di meglio. È davvero questa la presentazione che merita il nuovo lavoro di Salmo e Noyz Narcos?

CVLT è un disco nudo e crudo, ricco di citazioni cinematografiche e produzioni ricercate. Un joint album con un immaginario a cavallo tra l’horror dei b-movie e il pulp-splatter alla Tarantino.

Il fil rouge del disco? Una scia di sangue dall’inizio alla fine!

Il flow crepuscolare di Salmo e Noyz Narcos: uno specchio generazionale

Non mancano di certo gli “esercizi di stile” by lebonwski, che per questo disco indossa anche i panni di producer. Con Luciennn dà vita a CRINGE, seconda traccia dell’album, e a MIRACOLO, di sicuro il pezzo più intimista di CVLT.

“Indosso l’universo, ma mi sta stretto”. (Salmo in MIRACOLO)

Il testo incoraggia ad abbracciare la vulnerabilità e a valorizzare ogni giorno come se fosse l’ultimo, riconoscendo anche le sfide che possono ostacolare il proprio cammino.

E mentre Salmo riflette sulla sua esistenza e sui suoi errori, incoraggiando gli altri a non aver paura di cadere, Noyz Narcos ci ricorda quanto faccia male vivere nel passato e nella bellezza dei ricordi, arrivando addirittura a smettere di pensare al presente.

“Per me sbagliare è un lusso, altroché / Se cado, non rialzarmi, sdraiati fianco a me”. (Salmo in MIRACOLO)

L’amore atipico di CVLT

Sono pochi i featuring dell’album ma di certo tutti meritano almeno un ascolto. A cominciare da quello con Coez e Frah Quintale per MY LOVE SONG 2, sequel di uno dei brani più famosi della discografia di Noyz Narcos. Una ballata cruda che racconta dello stesso amore di cui ci parlava Salmo in Black Widow e Noyz Narcos in My Love Song.

Altro featuring che racconta di un amore atipico è quello con Kid Yugi per la title track. CVLT (prodotto da Sine e Salmo) è un viaggio in macchina tra trombe e atmosfere desertiche messicane, grappa invece che caffè, diamanti rubati, e tanto tanto “gangster love”. A metà tra Gangster Story (Bonnie and Clyde) diretto da Arthur Penn e Dal tramonto all’alba, film di Robert Rodriguez.

“Si, prendi tutti i soldi e scappa via da qui, lontano dai guai / Avere tutto non mi basta, io con lei, come Bonnie e Clyde”. (Salmo in CVLT)

Visivo e cinematografico

Costruire immagini con parole e musica non è per nulla semplice, ma Salmo e Noyz Narcos, con la loro ultima fatica, ci riescono benissimo. Sono tanti gli elementi narrativi che rendono l’album così interessante.

A cominciare dal chiaro omaggio al regista Quentin Tarantino e al suo film, Grindhouse – A prova di morte con il brano GRINDHOUSE che si apre proprio con un dialogo presente all’interno dell’omonimo film:

“Cazzo, fa veramente paura”
“Sì, volevo qualcosa di impressionante. La paura tende a impressionare”
“Ed è sicura?”
“No, è più che sicura, è a prova di morte”

Sono, invece, i Blues Brothers ad aprire NIGHTCRAWLERS, penultima traccia di CVLT, prodotta da Luciennn:

“Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutt’e due gli occhiali da sole”

Visivo e cinematografico anche perché CVLT non è un semplice album. Quello di Salmo e Noyz Narcos è un esperimento che mette insieme due universi: musica e cinema. E non solo per tutti i riferimenti che è possibile trovare all’ascolto, ma perché l’album è anche un cortometraggio!

Scritto e diretto da Dario Argento…

Il corto inizia con un dialogo tra Noyz e Salmo, che si confrontano su come si debba preparare una buona carbonara. Tutto ciò rimanda al cinema di Tarantino (aridaje!), con i suoi ritmi incalzanti e lo stile ricco di dialoghi, a volte anche piuttosto surreali.

Giunti alla villa “psyco” del regista, i protagonisti vengono accolti da un maggiordomo che li conduce in una sala cinematografica. Ed è qui che Noyz Narcos e Salmo vengono brutalmente uccisi, a colpi di David di Donatello e coltellate, su ordine del maestro del cinema horror.

L’atmosfera che avvolge la scena è quella tipica dei film di Dario Argento. Tra giochi di luce e musica inquietante, il cortometraggio ci offre un’esperienza visiva coinvolgente, in cui la realtà sembra essere distorta e alterata: proprio come nel cinema perturbante.

CVLT – A prova di morte

Anche se il disco sembra essere stato scritto (nel senso positivo del termine) sotto effetto di sostanze che nemmeno Johnny Depp e Benicio del Toro in Paura e delirio a Las Vegas, dobbiamo prenderlo per quel che è: un continuo omaggio alla cultura cinematografica e ai film di genere con cui sono cresciuti i due rapper.

Volevano fare qualcosa di impressionante, per citare nuovamente Grindhouse di Tarantino, e ci sono riusciti.

 

Domenico Leonello

Killers Of The Flower Moon: Scorsese, DiCaprio e De Niro esplorano gli anni Venti

Killers of the flower moon è un film non perfetto e con una durata scoraggiante, ma che si merita una visione al cinema. – Voto UVM: 4/5

Killers Of The Flower Moon è un film del 2023 co-scritto e diretto da Martin Scorsese. Nel cast sono presenti Leonardo DiCaprio (Don’t look up), Robert DeNiro, Lily Gladstone, Jesse Plemons e Brendan Fraser (The whale). Il film è tratto dal romanzo “Gli Assassini Della Terra Rossa” scritto da David Grann e narra fatti realmente accaduti.

Killers of the flower moon: trama

Oklahoma, Anni 20. Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) ha combattuto in guerra e torna nella nativa Fairfax in cerca di fortuna. Suo zio William Hale (Robert DeNiro) gli ha promesso un lavoro all’interno della Nazione Indiana degli Osage, un popolo divenuto improvvisamente ricco grazie all’apparizione del petrolio in grosse quantità, nel loro territorio. Su consiglio dello zio, Ernest sposa Molly (Lily Gladstone), una donna nativo-americana. Inizialmente, lo fa per appropriarsi delle sue ricchezze ma poi col tempo, se ne innamora perdutamente.

Nella Nazione Indiana, gli Osage si stanno ammalando e successivamente, morendo uno dopo l’altro. Quelle morti sono strategiche e stanno avvenendo anche nella famiglia di Molly, mentre la cittadina di Fairfax è piena di disperati pronti a commettere omicidi, furti e rapine, sapendo che la legge è dalla loro parte e non a favore dei “pellerossa”.

Killers of the flower moon
Lily Galdstone e Leonardo Di Caprio in una scena del film. Fonte: wikipedia.org

Scorsese non si è smentito neanche stavolta?

O lo si ami o lo si odi, c’è poco da dire: Martin Scorsese sa fare il regista e nonostante l’età e il continuo attaccamento alle vecchie tradizioni, riesce ancora a stupire il pubblico.

Scorsese è quel regista appartenente alla vecchia guardia e ci tiene ancora a certe cose, come fare un film in cui si punti soprattutto sulla qualità e non sul guadagno. A differenza di quei registi che hanno come unico obiettivo il prodotto realizzato per scopi commerciale, lui è uno di quelli autoriali che non abbraccia la modernità e che considera cinema solo un genere particolare di film. Considerazioni piuttosto discutibili, perché in realtà qualunque genere di film (da quello autoriale ai blockbuster, dalla commedia all’animazione) fa parte della Settima Arte. Però allo stesso tempo, il suo pensiero contorto esprime anche il suo amore per il cinema e lo trasmette in tutti i film che fa.

Ha una lunga carriera alle spalle e basti pensare a film come Taxi Driver, Toro Scatenato, Shutter Island, The Wolf Of Wall Street, The Irishman e molti altri. Ora è ritornato con “Killers Of The Flower Moon” ed anche stavolta, ha mantenuto i suoi principi e il suo modus operandi.

 

Nolan/Scorsese: film per il pubblico o per i cinefili?

Non si nega che il film sia monumentale e si può considerare un film di Scorsese al 100%, ma lungi dal considerarlo perfetto. Ha delle similitudini con Oppenheimer di Christopher Nolan. Entrambi raccontano una storia che apparentemente può risultare poco interessante, ma ciò che incuriosisce è il modo in cui la raccontano. Hanno molti punti in comune, come l’eccessiva durata che può scoraggiare, la presenza di un cast corale e un comparto tecnico ben strutturato. Ma c’è una differenza: Nolan, nonostante l’attaccamento a certi principi, sa cosa vuole il pubblico e riesce ad adeguarsi ad esso pur mantenendoli; Scorsese, invece, punta esclusivamente sulla qualità e i suoi film attirano solo un certo tipo di pubblico, ovvero i cinefili o i fan degli attori che coinvolge (ad esempio, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro).

Lily Gladstone, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio in una scena del film. Fonte: nytimes.com

Top o flop dell’anno?

E’ un film che merita senza ombra di dubbio, una possibilità. L’eccessiva durata di tre ore e mezza può scoraggiare, ma in realtà non è quello il problema. Il difetto riscontrato sta proprio nella scarsa gestione del minutaggio prolungato ed alcuni momenti specifici della narrazione. Mentre si prosegue nella visione, si può notare che la visione del regista su tale vicenda mostrata sia piuttosto evidente, ma c’è un mancato approfondimento su certi elementi narrativi che non sarebbe dispiaciuto avere e per di più, la storia prosegue con un ritmo piuttosto galoppante che si percepisce in qualche scena.

Nonostante questi piccoli difetti riscontrati, questo non significa che il film non sia bello. Anzi, forse lo si può addirittura considerare tra i migliori di quest’anno. E’ un film che parla di odio e questo lo rende paradossale, perché nonostante questo film parli di odio è capace allo stesso tempo di fare ricordare perché si ama il cinema. Ma durante la visione, non si può non provare disgusto di fronte a questi eventi storici ed alla crudeltà umana in quel periodo. Scorsese ha voluto esporre la sua visione su ciò che viene fatta agli Osage ed è una critica feroce a quella vicenda.

 

Il comparto tecnico

Il comparto tecnico è ben strutturato: la regia di Scorsese è spettacolare. Le inquadrature sono a macchina da presa fissa e sono costruite geometricamente in modo sofisticato, rivelando poco a poco ciò che sta succedendo. Ciononostante, qualche volta si passa da una scena all’altra senza un curato approfondimento di alcuni dettagli narrativi. Tutto questo, accompagnato da una fotografia coloratissima e dall’incredibile presenza del cast corale.

killers of the flower moon
Leonardo Di Caprio e Lily Gladstone in una scena del film. Fonte: Vox.com

Killers of the flower moon: il cast

Quello che spicca più di tutti è Leonardo DiCaprio. Ormai sono lontani gli anni in cui veniva considerato solo un sex symbol ed ora il fanciullo di Titanic ha dato prova in tantissime occasioni di essere un attore completo e camaleontico, capace di adattarsi a qualsiasi ruolo. Killers Of The Flower Moon è la sesta collaborazione di Scorsese e di DiCaprio: il personaggio di Ernest Burkhart rispecchia totalmente la maturità dell’attore nel campo della recitazione.

Un altro attore che non è da meno qui è Robert DeNiro (altro storico collaboratore di Scorsese):  nonostante le liti e le tensioni con DiCaprio sul set, nel film si nota un ottima sinergia tra le due performance. Anche se loro due sono  le  più note stelle del cast, non significa che tutti gli altri siano da meno, come ad esempio, Lily Gladstone e Jesse Plemons. Un altro attore bravo, seppur abbia un ruolo ridotto, è Brendan Fraser.

Giorgio Maria Aloi