Una Commedia veneziana.

Accompagnato dalla dolce melodia di un flauto, il sipario del teatro, come se danzasse sulle note dello strumento, si aprì e lasciò la scena del palco ad una maschera dal bianco volto e dal vestito nero.
Questa, in una nuvola di fumo denso, avanzò tre passi verso il pubblico in platea e rivolto un inchino riverente ai convenuti, iniziò presto ad introdurre:

“In questa sera particolare io voglio narrarvi una storia lagunare! E poiché il fatto può solleticare la morale del pudore, non me ne abbiano per questo le signore!

Siam nella Venezia Serenissima, Repubblica di mare e di mercanti! Al tempo dei gran doge e dei viandanti vi era per le calle un gran problema: tutte le tose lamentavano il patema per cui alla dama mancava il cavaliere! Era sovente, infatti, allor poter vedere i cortigiani andarsene a braccetto al buio a vicenda e, talvolta, poi scambiarsi anche un bacetto! Certo, ad oggi è guisa dell’attual costume non distinguer la natura dell’amore, ma poiché agli antichi esso fu un problema in seno, io voglio parlarvi come loro senza censurar di meno!

E dunque nel tornar nella Laguna, dico che non v’era più donzella alcuna ch’era lieta delle corti dei baldanti, giacché questi, avvezzi al lusso ed al piacere, stavano distanti tanto dai tradimenti che dai sacrifici di nascondersi nei vicoli delle meretrici! A questo aggiungo che, nell’anno del Signor milletrecento, i capi di contrada, a tal intento di volerne limitar gli affari delle donne di piacere, cinse queste in una sola strada spenta al sole, ai lumi e ai fari, ove però, segretamente, si poteva fare l’amore! Esse furono recluse, infatti, nelle case dei defunti signori Rampani e presto dal siddetto Vico Carampani, si poterono notare, in bella vista, i seni delle giovani fanciulle in cerca di attenzioni di uno sguardo senza svista! Poiché ancora non bastava il gaudente stratagemma, il governo costruì per i passanti un ponte da cui ognun potea guardar la mesta somma delle donne del terrazzo alla ricerca del piacere di un ragazzo!”.

La maschera, con un elegante gesto di riverenza della mano fece un altro inchino verso il pubblico femminile in prima fila e, fatti tre passi indietro verso la nuvola di fumo che avvolgeva il palco, proseguì nel suo racconto in versi:

“Si dà in questo contesto la vicenda di un avvenimento tosto! Dal Carampani, infatti, presso l’anno di grazia millecinquecento, passava per Venezia un marinaio siciliano ma dal lineamento berbero. Il capello burbero e la barba mora incolta non pesavan mai una volta sul viso gentile da giovinotto che con le vele da Messina giunse in seno alla Laguna. Nel via vai dell’elegante Piazza oggi di San Marco, il forestiero giunto da uno sbarco non passava inosservato ed era oggetto di piacenti sguardi di balordi, di donnette e cortigiani. Ma egli mai una volta volse gli occhi suoi castani e alle attenzioni lussuriose della gente e continuava indifferente il suo cammino alla ricerca di un preciso gran mercante di sete preziose.

Ma quand’egli giunse sotto un balcone delle case dei Rampani, una vecchia meretrice lo vide simile a un guascone e a sé lo volle per le mani! Per attirare lo straniero essa prima masticò una dolce essenza con la bocca e poi, di questa, ne sputò una parte sulla ciocca di quel forestiero. Questi, intesa la flagranza che dal ciel gli era piovuta, cercò la stanza della sua padrona per poter intender se la sua natura fosse buona tanto come quel profumo celestiale bello ed inusuale! La vecchiaccia allora si celò dietro una tosa senza udito e dai seni scoperti e gli gridò: “Vieni qui che ti diverti!” – e quando il moro vide la rosa fresca che lo avvicinava, credendo di esser dalla giovane lui attenzionato, sentì dentro un fuoco pronto che lo tormentava.

“Voi troppo bella siete perché abbiate il prezzo di una mercanzia!” – disse dolcemente il forestiero – “E giacché vengo da una terra di cortesi e di poesia, vi cingerei quei seni se voleste far di voi la sposa mia e abbandonar così quegli usi poco ameni!”.

La vecchia si sorprese del valor della proposta ed avanzò la sua risposta: “Oh giovane di grande garbo io non vorrei porvi riserbo, ma è costume ch’io non possa rivelarmi oltre la casa prima che la volontà vostra  abbia compiuto una spiacevole e dovuta cosa: poiché mi avete visto e avete speso la promessa, dovete andare dalla mia padrona affinché possa, su lauto riscatto, avere il suo consenso per tal fatto e andarvi presto in sposa! Ma poiché questa adesso non è in casa, prego e vi scongiuro di tornar domani, è più sicuro completare in questo modo il vostro intento senza frodo!”.

Il giovane rispose allora più baldante: “Tornerò qui domattina, lo prometto in questo istante e contrattato ogni mio affare verrò qui a pagare il pegno dell’amore! Tornerete insieme a me nella mia isola lontana, dove la donna per la casa e per lo sposo è la devota sua sovrana!”.

La vecchia, andato via il berbero straniero, per far si che tutto rispondesse al vero, chiamò a sé un’altra perfida comare e, fatta complice del malaffare, la istruì di farle da padrona quando lei, celando con i veli il vero aspetto di battona raggrinzita, avrebbe poi seguito in matrimonio il giovane spedita, al quale aveva estorto sia il suo amor che il patrimonio.

E quando giunse il giorno stabilito, il giovane tornò sotto il balcone e vide la padrona che, su di un bastone, lo invitò a trattar comodamente sopra una poltrona.

“Mi sia fatta la grazia di concedermi quella fanciulla dai bei seni giovanili, che ogni cifra al mio potere sia nulla pur di toglierla alle servili sue mansioni! E’ così bella da soffiare al cuore i venti dei Monsoni, tanto è dolce da inchiodarmi nelle fulgide passioni che mi spingono oltre il razionale! La prego di pensare, dunque al bene e di non scegliere di lei il suo male!”.

La comare si commosse alle parole dell’innamorato, ma avendo ancor più a cuore il maleficio del tranello, con mestiere del prestigio, gli mostrò velata e di filato, la fanciulla reclamata, senza fare trasparire come sotto quelle vesti, vi erano gli intenti disonesti della vecchia dal bianco capello.

Quando la vide, il giovane si emozionò talmente che cambiò pensiero di repente: “Poiché il ritorno avrà un lungo tragitto, io voglio qui sposarla e adempiere al contratto! Sia chiamato dunque il prelato! Voglio porle adesso il mio anello al suo bel dito!”.

La proposta colse le vecchie impreparate e la comare, per far le cose più affrettate, chiamò il padre sacrestano della chiesa più vicina, poiché un uomo da lontano aveva fretta di sposarsi alla mattina. Ma non era il cuor di pietra ai petti nudi delle altre tose della casa e intenerite dall’amor sincero di quel forestiero, andaron dalla sorda fanciulletta e gli parlarono alla buona di quella disdetta consumatasi al suo oscuro. “Destino duro! Non posso udir quelle parole e col mio male mi hanno gabbato! In questo modo perdo il cuore del mio innamorato!”. In grande pianto ella scoppiò senza alcun freno, ma una delle donne ebbe un pensiero non da meno: “Ti conceremo in ugual modo alla balorda sì agghindata e accompagnandoti alla chiesa, ti rimpiazzeremo nel trambusto che noi causeremo all’accadere di una cosa!”.

“Ma io non odo un suono alcuno! Come posso acconsentire alla promessa chiestami dal sacrestano?”.

Volle il caso che, in quell’occasione, passasse sotto quel balcone il diavolo nei panni di un mercante, il quale, udita la trama del malaffare e inteso il dunque dell’inganno, volle trarre dal malanno un suo guadagno. Così raggiunte le fanciulle disse il maligno: “Io toglierò l’udito a quella vecchia strega e darò a te il suo dono affinché tu possa andar da chi ti prega! In cambio voglio solo il nero cuore della vostra buia padrona e della sua comare! Giacchè per niente il diavolo dona  qualche cosa su cui poi poter lucrare!”. La fanciulla accettò il patto ed immediatamente udì la voce di una consorella, poi dell’altra, poi di quella! Era commossa e adesso l’ultima sua mossa sarebbe stata quella di conciarsi come sposa somigliante alla megera da cogliere in fragrante! Giunto il corteo di meretrici alla chiesetta dove si accingeva la vecchietta che si penava, nel contempo, di esser sorda al fianco del bel forestiero, si inscenò la truffa alla balorda: una delle ragazze si gettò in terra urlando e dimenando di esser posseduta dal demonio! Di lì a breve si creò un bel pandemonio! Il sacrestano accorse prontamente nel favore della peccatrice, mentre un’altra meretrice, di repente, sostituì al fianco dell’innamorato la vecchia dall’udito muto con la giovane dalla sanata orecchia. Al cenno della complice, la meretrice impossessata finse la grazia ricevuta e disse di voler, perciò, omaggiare gli innamorati con una benedizione. Così celebrata la funzione e rivelato il primo “si” alla formula matrimoniale, svelata la consorte, a tutti apparve la gioviale donzelletta che rispose acconsentendo in tutta fretta al desiderio dell’amore eterno. In quel momento dalla porta della cattedrale un tuono aprì una botola terrena! Olà la vecchia come si dimena insieme alla comare mentre il diavolo le prende nell’andare e le conduce al rogo dell’inferno! Quando si chiuse la voragine del triste inverno, tutti tornarono ai due sposi, i quali, ricevuto il benestare, si scambiarono, affettuosi, i primi baci dell’amore.

Con questa storia vi ho narrato delle meretrici di Venezia e di un mercante siciliano che, nell’anno della perdizione del vico Carampani, fecero vincere l’astuzia e anche l’amore che li unì per giorni eterni sino all’ultimo domani”.

Fatto un ulteriore inchino, la maschera uscì di scena nascosta nel fumo del palco, davanti al quale, dietro l’applauso della platea, si chiuse il sipario.

Francesco Tamburello

Quel tiranno chiamato tempo

Passavo la mia vita sentendomi perennemente in ritardo. 

Sentivo le lancette del tempo muoversi addosso, sulla pelle, come aghi pronti a far sentire tutta la loro pesantezza, la loro presenza.
Mi trovavo intrappolato in una realtà altra, fatta di un tempo altro, un tempo che sapeva, a volte scorrere troppo velocemente, altre troppo lento.
Un tempo che sembrava beffarsi del mio continuo correre, come a dire “contro di me non potrai vincere”.
Io e il tempo, una maratona infinita che sembrava persa in partenza.
Chiusa nei miei rigidi programmi, schemi mentali, mi soffocavano come quel tempo tiranno che era sempre li pronto a ridere di me.
Troppo presto per arrendermi, troppo tardi per cambiare strada. 
TIC TAC.
Continuavo, schiavo, ad andare avanti, quasi per inerzia, arrancando in quel cammino da cui non riuscivo a intravedere un punto d’arrivo, con un masso attaccato alle gambe pronto a rallentarmi.
TIC TAC.
Le lancette scorrevano inesorabilmente, come un fiume in piena ed io non riuscivo a nuotarci, mi trovavo travolta.
TIC TAC.
Secondi, minuti, ore che sembravano anni e che segnavano il mio viso, la mia anima come se un giorno valesse un secolo.
TIC TAC.
Alla cieca, andavo avanti cercando di programmare minuziosamente ogni attimo per non farmi più trovare impreparato, per non dover incassare un altro colpo dal mio nemico, il tempo.
Agile, lui, sembrava conoscere ogni mia mossa, pronto, spedito, al contraccolpo, con il suo ghigno peggiore, indifferente alle mie suppliche, ai miei lividi, ai miei tentativi di rivalsa.
TIC TAC.
Un’altra giornata stava finendo, anche oggi lui aveva vinto, vani erano stati i miei tentativi di padroneggiare quelle lancette.
Il sole stava calando, un caldo e timidi tramonto colorava il cielo davanti a me.
Colori cosi vivi che presero spazio tra i miei pensieri, tra le mie lotte perse.
Colori che si contrapponevano a quel grigio che ero io, un grigio che a loro confronto era imbarazzante.
Non so cosa cambiò da quella vista, ma lì, davanti a quel cielo presi coscienza che io ero lì, io senza il tempo, senza le lancette, senza il fardello del passato, senza le ansie del futuro…io e il cielo.
Io e il silenzio.
Nessuna voce pronta a rimproverare i miei ritardi, il mancato “fatto” sull’agenda.
In quel momento capì che stavo perdendo qualcosa che non avevo scritto tra le mille cose da fare, qualcosa che non avevo annotato sui mille post-it attaccati ovunque, qualcosa che, in quel momento, prepotentemente dimenava per farsi vedere, sentire: LA VITA.
Scalciava lì, come un bambino in cerca di attenzioni, per troppo tempo l’avevo trascurata, eppure era rimasta sempre lì, cosi colorata, così energica, così calda.
Occupata nella mia eterna lotta contro il tempo, l’avevo lasciata lì sul ciglio di quella strada che, affannosamente, cercavo di percorrere e adesso rivendicava la sua presenza.
Quel giorno capì che lei, la Vita, non mi avrebbe più aspettata. 

 Marika Spanò 

Ti è mai capitato ?

Ti è mai capitato di sentirti vuota, una mattina meno fredda delle altre, con le coperte fin sopra la testa, i capelli sugli occhi e le ginocchia ben strette al petto, ti è mai capitato?

Guardarti intorno e non capire nessuno, non riuscire a trovare una spiegazione a nulla, nemmeno alla vita. Sentire qualcosa di insensato nel presente, nonostante sia la vita che hai sempre desiderato, e al contempo rifiutarsi di tuffarsi nel passato, non riuscire a immaginare il futuro.

Questa situazione di limbo tra una salita e una discesa allo stesso modo ripida.

Ti è mai capitato di sentirti alla ricerca di qualcosa una sera da sola, tra le strade di una città che non è la tua, con in bocca una sigaretta finita troppo velocemente, e una porta che non si riesce a varcare, ti è mai capitato?

Ecco, io questa sera non riesco a tornare a casa, son già tre volte che faccio il giro dell’isolato e ogni volta, senza nemmeno fermarmi, supero il portone e torno a fare il giro lungo. Come se fossi alla ricerca di qualcosa, una soluzione forse. E allora, stanca di camminare, mi siedo nella panchina in piazza, sotto un albero. Sono completamente vestita di nero, in modo da mimetizzarmi nell’ombra. Sono giorni che mi vesto unicamente di nero, è l’unico colore che riesco a sopportare senza farmi venire la tachicardia o l’emicrania.

Ho sempre considerato tristi le persone solitarie il venerdì sera, e oggi che la solitaria sono io mi sento ancora più triste, e stranamente pesante. C’è come una grossa pietra tra la gola e la bocca dello stomaco. Difficile da spiegare.

Mi sento come fuori posto, tutti sentono la necessità di pensare e ripensare sulle cose, parlarne e riparlarne e ripetere sempre le stesse parole, ma io no, io penso forse troppo velocemente. Vivo una situazione e mi rendo conto di averla già pensata e aver già preso decisioni su di essa. Sono forse sbagliata?

E non sopporto farmi vedere debole e triste. Io …

In cuor mio so già cosa fare, devo lasciare tutto , magari cambiare casa, trovare qualcosa di più grande.

Ho sempre sognato di viaggiare ma scappare è ben diverso: quando scappi, qualsiasi posto diventa la meta. Un viaggio alla Kerouac, che ormai nessuno fa perché nell’era digitale basta aprire internet e prenotare il primo volo meno costoso a giorno stabilito nell’hotel meno costoso ma più vicino al centro storico circondato da ottimi ristoranti o dai più bei paesaggi da fotografare all’alba per il nostro profilo Instagram come se ci fossero davvero dei “followers” in attesa della nostra foto della colazione o di un selfie con annessa frase filosofica che non ha nulla a che vedere con la foto o del nostro piatto caldo che nel frattempo diventa freddo.
Vivo male questi momenti d’insicurezza, il “vivere comune” insegna che i problemi corrono più veloce delle proprie gambe, che quella di scappare non è mai la “scelta giusta”.
E poi basta con questa questione della scelta giusta! Giusta per chi? Sulla base di cosa?

Così, sotto questo albero, guardando tutte le persone che passeggiano, i ragazzini che ridono e scherzano, un musicista poco più avanti che cerca malamente di suonare “Sweet child o’mine” , mi riprometto di non pensare più alle “scelte giuste” o alle “scelte sbagliate”. Di respirare più a fondo, guardarmi di più intorno.

Alcune soglie invarcabili sono invisibili, sono tutte quelle paure che non sappiamo affrontare. Così mi dico che è arrivato il momento di prendere in mano la mia vita, smetterla di cercare di essere capita come se fosse l’unica soluzione per dimostrare che esisto, smetterla di essere alla ricerca di qualcosa sapendo che la soluzione è scappare. Smetterla di pensare al passato o al futuro e continuare a costruire il presente.

Mi levo il cappello nero, sposto i capelli dietro le orecchie, devo riuscire a varcare quella porta.

L’incapacità di andarmene mi rende fragile e arrendevole. L’incapacità di restare mi rende polemica e instabile.

Faccio un altro giro dell’isolato, dopo magari riuscirò a tornare a casa.

Serena Votano

Apri gli occhi

Curioso.

Curioso è essere cullato da un’alta marea di voci che sembrano chiamare il mio nome.

“ Nico, Nico….” – era un loop di suoni familiari che continuavano ad invocarmi e, in quel frastuono, c’era sicuramente qualche sconosciuto.

Mi sentivo sballottare da una parte e poi dall’altra: erano secondi, o forse minuti, o addirittura ore – non saprei dirlo con esattezza – ma so con convinzione che nella mia testa c’era una distinta confusione che avrei voluto si placasse.

Così, dissi fra me e me “ urla, Nico” e lo feci o almeno, così mi parse di fare.

In effetti, il rumore attorno a me era perpetuo, non smetteva, ed io piano piano realizzavo di essere disteso sulle bianche sfumature di un letto a rotelle.

Più sovrastante di tutte le voci, era lo strofinio continuo che percepivo sulla mia mano destra – credo – di un’energia inaudita.

Mi concentravo su quella sensazione e le voci erano ormai diventate una colonna sonora che imperturbabile cullava il disordine fra sogno e realtà.

Era questo il punto: cos’era? Un illusione? O stava accadendo davvero?

La domanda trovò subito una risposta nel mio spirito che osservava il mio corpo disteso su quello che, ora, mi appariva nitido come un lettino d’ospedale.

Un groviglio di pensieri martellava la mia testa.  

Finalmente riuscivo chiaramente a vedere cosa avevo intorno: le lacrime di mia madre, la mano della mia ragazza sopra la mia, le urla di mio padre ed i dottori che correvano con quella barella d’appresso, su cui io giacevo indisturbato.

Il caos, lo sgomento e la paura sembravano essersi impossessati di tutta quella gente, tranne che di me: avvertivo un’inspiegabile sensazione di pace.

Ricordo che d’un tratto arrivò Daniele e fu allora che ritornò il ricordo della sera precedente.

Il venerdì, io e Dani andavamo sempre in quel pub, vicino la piazza centrale, e quella sera passammo anche a prendere Peppe. Peppe…fu allora che pensai “Dov’è? Perché non è lì? Dov’è il mio amico?”

Quella quiete apparente in cui galleggiavo, aveva lasciato il posto al fracasso dei ricordi: un bicchiere di tequila, poi un altro e un altro ancora.. mi metto alla guida…le luci, l’autostrada…sbando. Il buio.

E Peppe dov’è?

Quasi come se la mia anima si staccasse leggiadra dal mio corpo, cominciai a gironzolare per l’ospedale guidato da un sesto senso non indifferente che mi portò in un’altra stanza: il mio amico era inerme, attorniato dai suoi familiari che piangevano cascate.

“Non poteva essere vero. Non succede mai che una volta esageri e muore qualcuno. Era un incubo.” – era la solfa che mi ripetevo per convincermi che non avevo distrutto la vita del mio amico, quella della sua famiglia e anche la mia.

Proprio in quel momento, in preda alla disperazione più totale, vidi in lontananza una luce soffusa e subito dopo un bagliore cosi forte da farmi chiudere gli occhi.

È li che pensai “ è finita.”

 

Curioso.

Curioso è svegliarsi da un incubo che altro non è che la conseguenza di una stupida azione sbagliata.

Curioso è dover continuare a vivere, quando il senso di irresponsabilità ha ucciso il tuo amico.

Curioso è aprire gli occhi ogni mattina e chiedersi “Perché l’ho fatto?”

Curioso è sentirsi vittima dei propri sbagli.

Curioso è credere di essere onnipotenti alla guida di una macchina.

 

Jessica Cardullo

Angolo di strada

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La ragazza con i capelli lunghi correva nella strada come se fosse rincorsa da un segugio; attorno al collo indossava una sciarpa colorata ad occhio un po’ troppo lunga per la sua minuta statura, e la si vedeva svolazzare per qualche centimetro dietro di lei; stringeva dei libri al petto, che sembravano pesarle più del dovuto.

È bastato un incrocio su quella via trafficata ad interrompere il suo passo svelto: la fretta di due impacciati giovani si era trasformata in un fortuito incontro a ridosso di un angolo di strada.

Il cielo d’argento sopra di loro prometteva pioggia, ma quell’urto di sguardi era sole fra le nuvole cupe.

La ragazza bassina, chinata a terra per raccogliere i libri, aveva trovato il suo silenzio in una città rumorosa solo guardando gli occhi dello sconosciuto davanti a lei.

L’assurdo del caso aveva fatto incontrare due persone perfettamente conformi ed i loro cuori stavano facendo il resto.

I sorrisi si accoglievano l’uno nell’altro e nelle parole riecheggianti c’era la bellezza di una nuova primavera.

Poi, l’ardore delle chiacchiere li accompagnò per mesi; anche quando l’odore dei ciliegi profumava la brezza delicata sui loro volti.

Se i due erano stati perfetti sconosciuti, adesso i loro occhi vedevano gli stessi colori.

Le mani si intrecciavano mentre il Tevere vicino scorreva incurante dell’amore che si stava scatenando.

Fra i vicoli di Campo de’ Fiori, un chitarrista per strada accompagnava quella apparente normale passeggiata, che per loro era la più bella di sempre.

 

 

  • “ Io sono Elio”
  • “ Io Giulia” – rispose la ragazza con i capelli lunghi.

Era incappata negli occhi smeraldo di quello straniero fino a sprofondarci dentro.

In quel pozzo verde speranza, aveva trovato la sua felicità anche se per un breve idilliaco momento, ma sapeva che avrebbe voluto inciamparci per altre mille volte ancora.

 

 

Jessica Cardullo

Buon natale, campione

-Vedo la paura nei tuoi occhi, campione.
-Io credo di amarla.
-Sciocchezze! Le tue solite dannate sciocchezze.
-Sarà ma …-Sbagli, campione, non esiste alcun “ma”, quello che esiste è il tuo obbiettivo, limpido e fulgido, che ti chiama a sé e ti sussurra parole dolci e ti assicura una felicità che lei non può darti.
-Cosa ne sai di cosa può darmi?
-So cosa vuoi.
-Mi stai chiedendo di rinunziare all’amore.
-Sì, per ottenere tutto il resto. E non te lo sto chiedendo ma ti sto solo esortando.
Non rispose nulla, abbassò lo sguardo, mani in tasca, e poi disse
-Fammi sedere un attimo,
-Bravo, è proprio ciò che ti serve. Siediti un attimo e rifletti. Nel mentre vado a prenderti da bere.Lasciai Claudio lì, seduto sul divano, con il gomito destro sullo schienale, a scrutare fuori dalla finestra tra tutti quegli invitati e mi diressi verso il bar. Attesi che l’uomo dietro il bancone servisse due ragazze, gli sorrisi e gli ordinai due bicchieri di vino. Dopo che me li diede, passai in mezzo a due donne, incrociai lo sguardo intenso di una, mi fermai e le dissi piano all’orecchio
-Sei bellissima.
Senza aspettare risposta andai oltre, diretto verso Claudio. Lo vidi nell’identica posizione di quando lo lasciai pochi minuti fa, così assorto che mi indusse a fermarmi e a ricordare una notte spesa a contemplare lo stretto, nella quale mi disse
-Marco, non vidi mai nevicare a Natale. So bene che aspettarsi questo a Messina è quasi una speranza vana ma, fin da bambino, spero ogni volta che questo mio così innocente desiderio possa realizzarsi. Vorrei sorseggiare un buon bicchiere di vino, accanto al mio albero di Natale, la notte della Vigilia, e contemplare, attraverso il vetro della portafinestra, la neve cadere languida sul mio giardino, osservare quei candidi fiocchi volteggiare pacatamente in cielo, perdermi tra le loro innumerevoli schiere e bere la loro pace.
-E chiedere loro un tocco di dolcezza -intervenni io -e poi che coprano ogni cosa, ogni rumore, così da poter ascoltare indisturbati il respiro di Dio.Sorrisi a quei ricordi, poi finalmente gli diedi il suo bicchiere, che prese alzandosi, guardandomi negli occhi.
-Allora, campione, -gli dissi –ora non vedo più paura nei tuoi occhi.
-E cosa vedi? –mi chiese dopo un sorso di vino.
-Vedo risoluzione.
-Per tutta la vita mi limitai a desideri innocui e irrealizzabili, ora non mi trovo di fronte a uno di questi ma a un preciso obbiettivo e che sia senza conseguenze per gli altri o no non mi preme più.Gli sorrisi e lo guardai allontanarsi da me per dirigersi verso Giulia. La interruppe nel mezzo di una conversazione, carezzandole da dietro una spalla e sussurrandole qualcosa all’orecchio. Lei gli sorrise e infine li vidi uscire dal salone, verso il corridoio. Sapevo dove stavano andando e non potevo perdere quell’occasione. Così uscii in giardino, discosto in un cono d’ombra vidi il nonno di Giulia fumare un sigaro e parlare con due suoi amici, lo sorpresi alle spalle e gli dissi a bassa voce
-Finalmente Claudio si è deciso a parlare con Giulia.
-Davvero? –me lo chiese con viva gioia, quasi fosse un bambino.
-Sì, signor Collodi, che ne dice se, in tutta innocenza, andiamo a spiarli un po’?
-Sei impazzito, ragazzo. Ci vedranno sicuramente.
-Si fidi di me. Venga.
Lo presi a braccetto e, facendo il giro della casa, ci fermammo dietro un cespuglio vicino la camera di Giulia dal quale potevamo osservare tutta la scena. Claudio eGiulia erano in piedi, abbracciati, lui le carezzava il viso e la baciava dolcemente mentre le diceva qualcosa, poi la fece sedere sul letto, facendole cenno di attendere. Dopo di che Claudio uscì in giardino.
-Dove sta andando, giovanotto?
-A prendere qualcosa in macchina, ne sono certo.
-Ah, guarda come la mia nipotina aspetta lì seduta,
-È tenerissima, davvero. Shh, Claudio sta tornando.
Vidi Claudio rientrare nella stanza di Giulia con un grosso pacco regalo sotto il braccio, poi si chiuse la finestra alle spalle e sedette accanto alla sua donna.
-Dici che le sta per chiedere la mano?
-Oh, le chiederà molto di più,
-Giovanotto, -sbottò scherzosamente il nonno di Giulia –non dimenticare che stai parlando di mia nipote.
Non risposi nulla e osservai Claudio aprire da sé quel pacco, estrarre un fucile a canne mozze e puntarlo sulla fronte di Giulia.
-Cosa diavolo, -fece il signor Collodi senza riuscire a terminare la frase.
Sorrisi alla fredda risoluzione di Claudio e premei la pistola, che avevo estratto quando Claudio fece altrettanto col fucile, sul petto del vecchio e gli dissi piano
-Ora, signor Collodi, la prego di telefonare a sua moglie e di comunicarle che Claudio e Giulia, avendo un annunzio da fare, gradirebbero che lei raccogliesse tutti gli invitati, compresi camerieri e cuoco, in salone, in attesa.
-Non scherzate con me
,-Non scherzi lei, signor Collodi. Le faccio notare come Claudio ha un grosso fucile puntato sulla esile sua nipote e come guarda nella nostra direzione aspettando un mio cenno.
-Maledetti, cosa volete? Ditemelo e facciamola finita,
-Non c’è fretta, signor Collodi. Intanto chiami la sua signora.
Si strofinò il viso con la mano destra, mi guardò afflitto e poi disse mesto
-Va bene.Il nonno di Giulia estrasse il cellulare dal taschino interno della giacca, chiamò un numero in rubrica e disse, guardando il mio sorriso,
-Cara, riunisci tutti in salotto, ospiti e servitori, ché Claudio e Giulia hanno qualcosa di importante da dirci.
Chiuse la chiamata senza attendere risposta e gli feci
-Grazie, signor Collodi. Ora uniamoci ai due teneri amanti.
Spinsi il signor Collodi verso la camera della nipote, vi entrai con calma e dissi, rivolto a Claudio,
-Il signor Collodi è stato così gentile da chiamare la sua signora per far riunire gli ospiti, così possiamo direttamente accomodarci in salotto come pattuito.
Claudio annuì, poi disse a Giulia, mentre si straziava le mani in gesti nervosi,
-Ora alzati lentamente e precedimi, senza fare alcuna follia.
Uscimmo dalla camera dalla porta interna, attraversammo il corridoio, con Giulia davanti a noi di qualche metro, la quale fu accolta, appena entrata in salone, da delicati applausi d’incoraggiamento, che si spensero subito alla visione di Claudio con quel suo fucile. I due si fermarono in mezzo alla grande sala, li superai, sempre tenendo a braccetto il signor Collodi, e, inginocchiandomi, sorrisi a un bambino, gli presi un cappello da Babbo Natale dalla testa e lo indossai. Poi mi rivolsi alla sala
-Miei cari signori, in quel grosso pacco regalo che vedete ai piedi dell’albero di Natale vi sono delle corde e dei bavagli. Immaginerete sicuramente la noia che mi comporterebbe il legarvi personalmente uno a uno. Dunque ora incaricherò la signora Collodi di prendere quel graziosissimo pacco, di aprirlo e di consegnare a ogni donna le corde e i bavagli. Codeste signore dovranno poi, cortesemente, legare i loro mariti o compagni, di modo che alcun uomo rimanga libero. Fatto ciò la signora Collodi farà altrettanto con le donne e finalmente, dopo aver legato da me la padrona di casa, ah mi permetta di ringraziarla per l’ottima serata, passerò a sincerarmi dei legacci. Ora, signora Collodi, la prego di procedere.
La signora nonna di Giulia rimase immobile e sconvolta, così dovetti ripetermi
-Per favore, signora Collodi, non faccia attendere i suoi ospiti.
Attesi ancora qualche istante poi, mentre picchiai d’improvviso in faccia suo marito, urlai alla signora
-Forza!
La signora si portò le mani al viso, piagnucolò un istante, poi si mise all’opera. Mi bastò solo qualche altro piccolo sollecito per far sì che tutto si svolgesse secondo le mie volontà. Quando finii di controllare l’ultimo ospite mi rivolsi a Claudio,
-Su, campione, ora fatti accompagnare dalla tua cara alla cassaforte.
-Lei non conosce la combinazione.
–disse apprensivo il nonno.
-Certo che la conosce, lo confessò una volta lei stessa al suo Claudio. Non è così, Giulia?La ragazza si limitò ad abbassare la testa, senza dir nulla, sempre straziandosi le mani. Claudio la esortò con un gesto ma prima che uscissero dal salone fermai Claudio,
-Ah, campione. Non dimenticare i sacchi. Sono nella scatola.
Mentre i due si diressero verso il piano di sopra ne profittai per immobilizzare il signor Collodi e per intrattenere gl’invitati.
Stavo fumando una sigaretta nell’ammirazione dell’albero di Natale, complimentandomi con la signora Collodi per la dolcezza che riuscì ad infondergli, quando sentii alle mie spalle un forte sparo. Mi voltai e vidi Giulia con in mano sacchi colmi e poco più avanti Claudio, col fucile puntato ancora verso di me. Mi accasciai al suolo inconsapevole, insensibile al dolore. Claudio mi si accostòe disse piano
-Mio dolce amico, ciò che mai capisti è quanto, senza l’amore, sia impossibile larealizzazione della nostra prima volontà.
Poi lo vidi sfocato uscire di casa insieme alla sua donna e il mio sangue scorreva caldo sul pavimento, rispecchiando le mille luci dell’albero, le quali mi parvero vivida neve. Chiudendo gli occhi tornai a pensare a quella sera quando contemplammo lo stretto di Messina. Ricordai cosa Claudio, continuando a fissare il mare, mi disse quando mi voltai verso la macchina per tornare a casa,
-Sai cosa si dice dei fiocchi di neve?
-Cosa?
-Che non ve ne sia uno uguale all’altro.
-Sì, credo sia vero.
-Ma, per quanto possa esserlo, quando questi cadono tutti al suolo, diventano solo una grande, immensa, bianca distesa di neve.

Fabio Martinez