Oltre me

Piansi. Piansi tanto. Piansi per la mia morte.

Il senso di pace che nella mia vita – a questo punto breve – mi ero convinta avrei provato, una volta trovatami a guardare il mio corpo giacere, staccato da me, tardava ad arrivare. Al suo posto, soltanto un ottundimento generale e un fischio smorzato alle mie orecchie che, accompagnato da un’incontenibile angoscia, faceva da eco ai miei singhiozzi. Piangere. Questa era cosa da vivi. La paura. Anche questa era una cosa da vivi. Eppure eccoli lì, quei sentimenti, più corposi del mio stesso essere, intenti a devastarmi l’anima, a quel punto più esposta che mai. Se così poteva chiamarsi. Non potevo più esserne sicura. Che cosa ero? Una creatura evanescente, a metà tra un sogno e un ologramma, che nessuno poteva vedere o sentire. Una creatura incapace di essere ma condannata ad esistere.Percepivo i miei movimenti, il mio frenetico singhiozzare, ma l’unica me che vedevo era quella distesa in terra. Un corpo orridamente carbonizzato era tutto ciò che restava di me. Guardai la voragine presente al centro del mio petto, e ricordai limpidamente lo scossone e l’incredibile bruciore che devastarono il mio sterno un attimo prima di ritrovarmi faccia a faccia con me stessa. Provai a dare un freno al mio pianto disperato, muto ai presenti, e mi chinai a guardarmi più da vicino. Sfiorai tremante il mio corpo – che sentivo ancora mio nonostante non mi appartenesse più – e non sentii nulla. Nessun contatto. Il nulla era ciò che ero. Affondai in quel corpo la mano inconsistente, e l’inconsistenza vinse. Se pur straziante questo non mi stupì. Fu l’unica aspettativa a non essere tradita. Il mio corpo giaceva disteso, sul cemento freddo di un marciapiede, ormai gremito di persone. La pelle carbonizzata, a tratti lasciava intravedere ossa e tendini. Il volto, anch’esso sfigurato dalle ustioni, stentavo a riconoscerlo. Un piccolo, insignificante pezzo di metallo, che portava la forma dell’iniziale del mio nome, appeso al mio collo, aveva deciso della mia vita, stroncandola nel pieno dei suoi anni. Un fulmine, attratto fatalmente al mio petto, fece del mio corpo la sua meta, completando in me la ragione del suo esistere. Una scarica elettrica che sembrava portare in seno l’ira dell’inferno, al quale ormai credevo di essere destinata, aveva attraversato il mio corpo, folgorando il mio cuore e bruciando le mie membra. Sapevo di essere morta, era l’unico aggettivo con il quale riuscivo a esprimere ciò che ero. Lo gridava la gente, con le loro voci straziate e i pianti increduli, ovattati dall’ incessante pioggia, che rimbombava al mio udito frastornato. Non avevo mai pensato seriamente alla mia morte. Mi ero inconsciamente arrogata il pretenzioso diritto di una vita longeva, che mi desse il tempo di inseguire i miei sogni, di percorrere mille strade e anche di trovare quella giusta. Dovevo ancora finire gli studi, trovare un lavoro, trovare l’amore, viaggiare, farmi una famiglia…Dovevo ancora vivere per poter morire. Non ero pronta a rinunciare a tutto questo. Se esisteva un destino, sentivo che morire non era il mio, non adesso. Percepivo ancora il mio forte attaccamento alla vita, sentivo di non essere pronta ad abbandonare il mio corpo, la mia famiglia, la mia vita. Non ero una cristiana modello, e non ero solita frequentare la chiesa, ma avevo sempre creduto in Dio, e credevo che avrei avuto anche il tempo di essere una fedele migliore, prima o poi, ma certe cose non si possono rimandare, e forse, questa era la mia punizione: la negazione della pace. Pensavo che la paura della morte fosse soltanto un tarlo di chi è ancora in vita, ma non avrei mai immaginato che la paura, sarebbe sopravvissuta anche alla morte.

Un’immediata rassegnazione e un grande senso di pace, erano le sensazioni che, in fondo, avevo sempre creduto avrei provato dopo il trapasso. Invece, l’incredulità, la negazione e l’angoscia, insieme alla paura, erano tutto ciò che riuscivo a percepire, sopra ogni cosa. Arrivarono i soccorsi, e notai con stupore che controllarono i miei parametri vitali. Forse era solo una prassi. Uno scrupolo. Presero dalla mia borsetta i miei documenti. L’identificazione del cadavere, pensai. Poi, un poliziotto, prese il mio cellulare. “No! Il cellulare no!”, avrebbero chiamato i miei, probabilmente mia madre: era stata l’ultima persona con la quale mi ero sentita. “No vi prego non chiamatela!”, non potevo dare questo dolore alla mia famiglia, perché dovevo assistere a tutto questo? L’angoscia di dover commissionare un dolore così grande ai miei cari, mi colpì come un secondo fulmine, percuotendo violentemente tutti i miei caotici sentimenti. L’agente con il mio cellulare, dopo un rapido scambio di parole con uno dei paramedici che stavano intorno al mio corpo, occultandolo alla mia vista, si allontanò leggermente, evadendo dalla folla. Forse il desiderio di non assistere a quel momento, in cui oltre alla mia, sentivo di percepire la forte angoscia che, di lì a poco, avrebbe investito la mia famiglia, o forse, per una qualche misericordia divina, capii che stavo allontanandomi da quel luogo, al quale sentivo, tuttavia, di appartenere ancora. Tra le ultime cose che notai, un respiratore manuale, con il quale uno dei paramedici, pompava ossigeno nei miei polmoni. Una leggera speranza, incredula, s’instillò tra i miei turbamenti, illuminando, come una fioca fiammella, il buio che, percepivo ormai intorno a me. Ad un tratto sentii, man mano che ascendevo, verso una meta ancora a me sconosciuta, che i sentimenti, che avevano fatto da sfondo a quell’angosciante quadro, del quale ormai percepivo solo delle immagini lontane e confuse, rimanevano collegate al luogo nel quale si erano generate, mentre il mio essere acquisiva una leggerezza crescente, man mano che sentivo marcarsi quell’indefinito confine, tra vita terrena e vita ultraterrena. La pace che percepii, improvvisamente, non generò né sollievo né stupore. Pace era l’unico sentimento che mi fu concesso di provare, l’unica domanda e risposta alla quale riuscivo a pensare, in quel luogo del quale i confini non erano tracciabili. Tutte le mie paure si erano dissolte completamente, portando con sé anche il desiderio di riavere indietro la mia vita. La mia vita terrena. Non potevo dire di trovarmi né in un luogo né in un tempo precisi, e forse, luogo e tempo non erano contemplati in quel posto etereo. Ero come in un tunnel, dallo spazio indefinito, illuminato da una leggera luce che aumentava man mano che una forza misteriosa mi attirava a sé, verso una luce molto più intensa, quasi accecante, ma che la mia vista non turbava, anzi, ne ero inesorabilmente attratta. Provai un’immensa gioia solo al pensiero di raggiungerla. Era come se i miei occhi non ne ebbero mai visto uno spiraglio, neppure in vita, come se avessi vissuto in un’eterna penombra, senza conoscere la bellezza della vera luce.

Ad un certo punto presero le mie mani, ed il contatto improvviso non mi fece trasalire, tutt’altro, mi fece sentire più sicura. Percepii due presenze, una alla mia destra e una alla mia sinistra. Si trattava di due angeli, e non ebbi bisogno di guardarli per saperlo. Mi parlarono ma le parole non erano il linguaggio proprio di quel luogo. Comunicammo in un modo che venne naturale pure a me, nonostante non avesse niente in comune con il linguaggio al quale ero abituata. Fu come comunicare con la mente, se dovessi spiegarlo nel modo più semplice. Mi chiesero cosa ci facessi lì, che ero giunta troppo presto, e che non ero ancora pronta per incontrare il Padre. “Il Padre”, solo questa parola mi riempì il cuore di gioia, e incontrarlo divenne il mio desiderio più grande. Risposi che un fulmine mi aveva colpita, che credevo di essere morta, e che prima, nell’attesa, mi ero sentita smarrita, abbandonata. “Ti abbiamo sentita” mi risposero, “ma non eravamo pronti a te” e capii. Capii il perché di tutta quell’angoscia che ricordavo pesante come un macigno: non erano pronti a me ed io non ero pronta a loro. Non era questo il giorno previsto per la mia morte. Gli chiesi se potevo restare, ma mi risposero che non era compito loro deciderlo, e solo al pensiero di ritornare indietro, mi si riempì il cuore di tristezza, sentivo che, adesso, tutto ciò di cui avevo bisogno, era lì, in quella luce, che sembravo non raggiungere mai. I due angeli che mi fiancheggiavano lungo il cammino, mi dissero di guardare, ma capii che gli occhi non erano il mezzo per farlo. Guardai come dentro di me, e vidi quello che loro mi mostrarono. Tutta la mia vita mi passo davanti, senza tralasciare nessun particolare. Rividi uno ad uno tutti i volti delle persone che avevano interferito nella mia vita: dagli affetti più cari alle persone con le quali avevo scambiato solo poche parole. Rivissi tutto da una prospettiva diversa, sentendo sulla mia pelle, le emozioni che le mie azioni avevano provocato a ognuno di loro. Provai vergogna e frustrazione per tutto il male che avevo inflitto, anche solo con le parole. Solo in quel momento riuscii a capire quanto avessi battuto la strada del peccato sviandomi dal cammino che Dio aveva scelto per me. La strada che nella mia vita avevo percorso, era lastricata di tentazioni, nelle quali inciampavo puntualmente. Mi resi conto che andare in chiesa ogni tanto e dire di credere in Dio, non faceva di me una brava cristiana. La cura del mio aspetto, un tenore di vita agiato, il raggiungimento del successo, erano stati il mio credo. Avevo sempre subordinato l’essere all’apparire. Mi accorsi che stavo allontanandomi dalla grande luce, e capii che il mio viaggio oltre la vita, stava per terminare. Quando mi risvegliai ebbi la consapevolezza che non si era trattato di un sogno, ma il ricordo di quell’esperienza, era più tangibile del mio corpo stesso. Capii di aver avuto una seconda occasione, e con essa, la grandiosa possibilità di redimermi. Ritrovai la strada, solo dopo essermi trovata faccia a faccia con la morte, in un viaggio di andata e ritorno oltre la vita. Oltre me.

Giusi Villa

Sophie, la luna e chissà

Sophie pensava ai mille volti dell’amore…

Quella sera in tv non c’erano programmi interessanti o almeno a lei non importavano più di tanto.

Da tempo si chiedeva cosa l’aspettasse là fuori: quella persona che tanto desiderava accanto in che parte del mondo poteva essere?

“L’amore”… si proprio questa parola dai mille significati… era ogni giorno circondata d’amore, amici, famiglia, il suo gattino bianco che ogni sera l’aspettava davanti casa. Ma cos’era veramente per lei l’amore?

La notte si fermò un momento a pensare, poi ad un tratto il silenzio, il vuoto.

Si riprese dopo un po’, ritornó in sè e diede una risposta … per lei l’amore era elevare a potenza, qualcosa che capiva lei e solo lei. Le delusioni del passato l’avevano spinta a chiudersi e costruirsi l’armatura, un muro che anche chi le stava accanto faceva fatica ad oltrepassare.

Giorno dopo giorno decise di dedicarsi un minuto della giornata, capire cosa le piacesse veramente e cosa la facesse stare bene. Ritagliarsi un mondo tutto suo, in cui le parole invece che volare al vento restavano scritte su un foglio non bianco, ma colorato dalle sue mille idee e dal suo amore che teneva solo per sè. Prese una penna e iniziò a scrivere.

Quella notte non riuscì a dormire, non importava se l’indomani la sveglia suonasse, quella era la notte dei miracoli, qualcosa stava accadendo, qualcuno stava bussando alle porte del destino di Sophie. In quel foglio scrisse solamente una frase che racchiudeva tutto l’amore che aveva e diceva proprio così: 

È la notte dei miracoli, forse qualcuno mi sta aspettando là fuori, voglio continuare ad amare come un tempo facevo, voglio ritornare a vedere il rosso sangue dell’amore, voglio sentire le nostre anime unirsi per poi amarsi più di prima “.

Qualunque cosa stesse pensando Sophie stava intuendo qualcosa e chissà cosa starà facendo adesso, magari sotto la luna di dicembre con un bicchiere di vino in mano, accanto a qualcuno o soltanto a danzare con le stelle e farsi compagnia.

Gabriella Puccio

Arrivare

Corro senza sosta: fortunatamente ho deciso all’ultimo minuto di mettere le sneakers.  

Mi trascino dietro un trolley rosa e piccolo, forse talmente tanto da avere il terrore che scoppi da un momento all’altro. 

Mi fermo un attimo: qual è il binario? Controllo l’enorme tabellone sopra la mia testa e mi accorgo di quante persone come me (ma probabilmente in anticipo) lo scrutano incerte, con l’ansia di sbagliare partenza. 

Binario 5.  

Mi faccio spazio fra la frenesia della stazione, in cui sembra sempre di vedere gente nuova nonostastante le mura secolari. 

Io e la mia piccola, ma spaziosa, valigia superiamo i controlli e finalmente arriviamo al nostro agognato binario: posso sentire ancora il rumore del treno che va via mentre io, con un’aria basita e la fronte sudata per la corsa, guardo disperata. 

Faccio un respiro profondo e mi siedo su una delle tante panchine vuote. 

Forse sono io ad aver voluto perdere questo treno.

Tra i vetri della stazione filtrano le prime luci del giorno e scendono su di me, un po’ come se illuminassero i miei pensieri, appesi nella mia mente in disordine sparso. 

Perché dovevo salire su quel treno? 

Perché mi avrebbe portato alla ricerca di un posto per le mie paure, al luogo in cui avrei voluto dare un senso ai miei sogni persi, alle mie ambizioni che ho sempre riposto in un cassetto per il terrore di fallire. 

E aspetto seduta. Aspetto che la vita scelga per me se prendere/perdere un altro treno mentre io guardo; guardo passiva la moltitudine di treni che mi passano accanto, attendendo qualcuno che scenda e che mi inviti salire. 

E cosa ho ottenuto fino ad ora? Cosa mi rimane della mia serie di scelte prese e non prese? In realtà non lo so, ho troppe domande alle quali non ho risposte perché, paradossalmente, ne ho di infinite. 

Ma cosa resta se vivo senza vivere? Resta la paura. 

Resta un senso da trovare.  

Fino ad adesso mi sono accontenta di questo: ma a cosa serve? A cosa serve non provare a volare, lasciando a terra quello che ora sono e che odio essere? A cosa serve non rischiare, se ho già perso tutto? 

Arriva una ventata che mi scosta. Un altro treno è arrivato ed ora è in partenza.  

Allaccio le scarpe e mi alzo, trascinando la valigia fino ad un posto accanto al finestrino. 

Sono sempre partita senza mai arrivare ma, adesso, ho deciso che arriverò.

 

Jessica Cardullo

Tutta colpa della mia città, mi ha reso debole e inadeguata

Non so se sia il caso di dire “finalmente me ne vado da qui”. In realtà non sono mai stata malissimo in questo posto, ma forse non l’ho mai sentito mio fino in fondo.

Credo che a chiunque, almeno una volta, anche per disperazione, sia venuto il desiderio di prendere uno zaino, mettere dentro vestiti a caso e scappare via, lontano da tutto, da quelle solite strade, da quelle stesse facce noiose e tristi. Per me è diverso. Non è il capriccio di una breve vacanza per tornare poco dopo. La mia è un’esigenza, un sogno, perché significherebbe arrivare in cima ad una montagna ed ammirare il panorama che IO ho deciso finalmente di vedere e raccontare. Vorrei non dire più che qui ci sono finita per caso, o per volere di altri. Vorrei un ossigeno più puro per i miei polmoni, conoscere nuovi luoghi, nuove persone ed essere libera, distante dai disagi che mi perseguitano come ombre. Per questo ho deciso di trasferirmi.

Dovevo darmi da tempo una possibilità in più e dare una sterzata alla mia vita; ora che l’ho fatto, ne sono convinta e felice perché ho voglia di un’esperienza nuova che mi lasci un segno, che mi faccia scorrere l’adrenalina dalla testa fino alle gambe. Chissà se qualcuno, come me, si sia mai sentito davvero di non appartenere a nessun luogo, solo, disconnesso dalla realtà, come uno spettatore al cinema che guarda un bel film e si immerge in una vita che non è sua. Magari gli piace quella vita ma è solo finzione perché si accendono le luci e tutto finisce. Io mi sento spegnere le luci ogni giorno e finché non riesco a trovare un appiglio, mi sento sempre persa, vuota, scostante, sbagliata. Ci sono state volte in cui la mia inadeguatezza mi ha portato a disprezzare tutto ciò che mi capitava, persino le occasioni più rare e importanti non le consideravo, anzi alimentavano quella sensazione di euforia mista a delusione. Da un lato ci credevo, ma quando stavo per viverle, mi spegnevo.

Questa città mi ha sempre reso debole e inetta di fronte alle scelte, perché nulla durerebbe, nulla di quello che lei mi offre mi renderebbe una di quelle persone che fa la differenza. Io invece voglio servire. Ho sempre pensato ci fosse una ragione dietro la mia esistenza e non potrei di certo morire senza aver migliorato qualcosa o qualcuno. Ma non qui.
Seduta sul muretto del mio lungomare, con le gambe che penzolano nel vuoto, frettolose ma sincroni, guardo avanti in cerca di uno di quei tramonti rossi che amo tanto … forse intravedo anche l’immagine di me trepidante e felice tra qualche mese. Il rumore delle onde che si frantumano in schiuma mi rilassa, poi mi guardo attorno e mi soffermo sulle transenne alla mia destra, che nascondono un tratto di marciapiede distrutto dalla mareggiata della settimana scorsa. Un po’ mi sento anch’io così, un cemento smantellato. Ma tra poco ricongiungerò i pezzi. Fra un paio d’ore saluterò il luogo in cui sono cresciuta lasciandolo per un intero anno. Intanto un soffio di vento gelido mi attraversa il fianco scoperto, facendomi tornare in me e realizzare che è ora di abbandonare quel posto, da sempre il mio rifugio preferito.

Sono felice di andare via mia cara città, ma spero di non tornare più perché ho ancora troppe storie da scrivere, da un’altra parte.

 

Martina Casilli

Migliorarsi per raggiungere la felicità

La ricerca della felicità è un tema da secoli discusso sul quale sono stati espresse varie opinioni.

I Greci la chiamavano eudaimonìa (demone buono), ma cos’è in effetti? E’ uno stato di grande soddisfazione e di pace con se stessi, un equilibrio dell’anima e del corpo.

Negli ultimi tempi sembra essere diventata sempre di più una chimera, qualcosa di raro e quindi di prezioso. Le cause sono tante, una in particolare cruciale: l’eccessivo benessere. Potrebbe sembrare un paradosso, ma è così. Chi non è all’altezza degli standard di vita della società di cui fa parte non regge il peso dell’inferiorità ed è preso da disperazione incontrollabile. Ovviamente il discorso può essere sia di natura economica che culturale.

Un povero tra i benestanti si nota parecchio, così come un analfabeta tra i laureati. Non è bello essere diversi, a meno che il diverso non sia apprezzato, e ciò capita quasi mai, perché chi non è nella norma difficilmente viene capito. Basti pensare che tante menti eccelse della storia sono morte in solitudine ed in povertà dimenticate da tutti, sebbene per poco.

Ma quindi la felicità è negata a chi non è perfetto fisicamente, a chi ha un carattere stravagante o è povero? In alcuni casi c’è poco da fare, ci sono tragedie alle quali non possiamo porre rimedio, ma dalle quali si possono trarre fonti d’ispirazione che possono rendere la nostra esistenza meno dolorosa. Migliorarsi è la chiave della felicità, superare quegli scogli che ci rendono la vita pesante per non stare più male. Il sacrificio può anche essere visto come una condanna, ma in realtà fortifica, c’insegna a non dare nulla per scontato di modo che tutto ci sembrerà scontato in futuro. Sicuramente c’è chi di sacrifici ne fa di meno e chi di più, ma qui si entrerebbe in merito ad una questione ancora più delicata, sulla quale c’è poco da dire, ovvero la fortuna. “Homo faber fortunae suae”, dicevano i Latini e di certo avevano ragione. Siamo artefici del nostro destino, ma talvolta la dea bendata esagera nell’aiutare alcuni piuttosto che altri. Fatto sta che tutti abbiamo il diritto di essere felici, se adempiamo al dovere di batterci per esserlo.

Non tutti siamo uguali, c’è chi è più portato a reagire, chi lo è di meno , c’è chi sa cogliere la palla al balzo meglio di altri che invece si vedono sfuggire il treno della rimonta, del cambiamento. Fatto sta, tutti prima o poi dobbiamo migliorarci, è un dato di fatto. Ad un certo punto qualcosa deve cambiare in noi, è il bisogno che ci spinge a fare meglio. Sicuramente vivere senza felicità è impossibile, il benessere interiore è tanto importante quanto quello fisico. Non si può credere di fare solo rinunce nella vita, di sopportare tutto, di non avere mai una gioia, come spesso si dice. E’ odioso vedere gente scrivere “mai una gioia” sui social solo perché fa tendenza, ragazzini pubblicare papelli in cui rivelano crisi esistenziali con uno tono pessimistico superiore a quello di Leopardi.

Lamentarsi è normale, farlo cronicamente no. Arriva il momento in cui si deve solo reagire.

Talvolta parlare dei propri problemi ne aumenta la gravità, mentre tenerli per sé aiuta a silenziarli, a far sì che abbiano un impatto meno emotivo sulla nostra persona. Il nostro sforzo col tempo ripaga, la vita non è né dura né facile, ma indifferente. Non esistono il bene e il male in quanto tali, perché sono due condizioni create dall’uomo per indicare ciò che lo protegge e ciò che lo danneggia, ma l’equilibrio ed il disequilibrio che dominano in natura.
La felicità non è uno stato assoluto della psiche, si presenta in varie forme e vi sono innumerevoli motivi per cui essere contenti. Ognuno deve conoscere il percorso a sé adatto per ottenerla, non possiamo sperare di percorrere la “strada” di qualcun altro per raggiungere questa stessa “meta”. Come diceva Baltasar Graciàn y Moralesla felicità conquistata si gusta doppiamente”.

 

Francesco Catanzariti

L’alba di un nuovo giorno o il tramonto di una gran bella serata!

E così è arrivato il tanto atteso 2018.
Mi immagino sempre le persone il 1 Gennaio del nuovo anno, pesarsi sulla bilancia, correre a iscriversi in palestra, buttare via il pacco di sigarette, rimettersi a studiare, scrivere canzoni o libri, imparare una nuova lingua, imparare a suonare un qualsiasi strumento, dire “Ti amo” e tutte quelle cose che “con l’anno nuovo lo faccio!”, e invece siamo tutti quanti a dormire per smaltire la pesante sbornia del capodanno, così ci ritroviamo il 2 gennaio che già abbiamo mandato a monte tutti quei buoni propositi e un totale disorientamento.

Personalmente sono anni che mi sveglio alle 11:30 del mattino, anche se magari sono rientrata da poco e non riesco a capire se è l’alba di un nuovo giorno o il tramonto di una gran bella serata, e penso.

Prima cerco di ricordare la serata, mentalmente ripasso prima la cena e poi tutti i drink che ho bevuto, cerco di ricordare i nomi delle persone che ho conosciuto (non so come è possibile ma a Capodanno si conoscono sempre persone nuove) e le vecchie conoscenze che ho incontrato. Dopodiché passo in rassegna tutti i ricordi che ho dell’anno passato, del 2017 in questo caso, penso ai vecchi buoni propositi e a quanti di questi ho portato davvero a termine, poi penso alle persone che mi sono lasciata alle spalle, alle “lezioni della vita”, perché no anche agli ex, e a proposito fammi controllare gli ultimi messaggi del telefono … Si rischia sempre di fare il madornale errore di scrivere a qualcuno! O che qualcuno ti scriva.

Poi ci sono quelle che persone che sin dal mattino (anzi, alcuni già dal 31 dicembre) controllano ogni tipo di oroscopo (ok, lo ammetto, lo faccio anch’io). Credo non ci sia nulla di male ad affidarsi alle stelle.

Io sono Sagittario, spirito ribelle a cui il cambiamento non fa paura, a volte un po’ capriccioso (giusto un po’). Dovrei essere già sposata, con figli, essere in carriera e potrei pensare di cambiare città. PENSARE, appunto. Ma la domanda più grande è: quando arrivo alla parte in cui sono su uno yacht a lanciare via i miei soldi come fa Di Caprio in un film (The wolf of Wall Street, per i cinefili)?

Probabilmente non capiterà mai, così mi rigiro sul fianco sinistro e torno a pensare ai miei vecchi buoni propositi del 2017, così da fare un po’ il punto della situazione.

Dunque … innanzitutto ricordo di essermi detta di mettermi sotto con lo studio e seguire tutte le lezioni universitarie. Decisamente fatto, ma è un proposito da rinnovare per il 2018.

Svegliarsi presto al mattino. Insomma … non sempre.

Non starnutire quando metto il mascara. Fatto. A costo di avere una paresi facciali con gli occhi più fuori che dentro.

Trovare la mia taglia durante i saldi. FATTO!!

Ascoltare la musica su Youtube bloccando il cellulare. No! Dannazione no! Perché????

e poi … e poi … e poi tutti quei buoni propositi che non riusciamo completamente a portare a termine, come essere più gentili con il prossimo, più disponibili, seguire la dieta, passare più tempo con gli amici, con la famiglia. Viaggiare, fare nuove esperienze, non inquinare, imparare a cucinare, fare volontariato, mettere un po’ di soldi da parte.

La verità è che vorremmo sempre migliorarci, darci da fare per cambiare, raggiungere nuovi risultati, lasciare tutti a bocca aperta, ma non riusciamo a mai a seguire completamente questi stupidi buoni propositi. Procrastiniamo ogni cosa e poi, un bel giorno, prendiamo in mano la nostra vita e qualcosa di buono la facciamo. La strada sotto i nostri piedi ci porta verso obiettivi che non sapevamo di avere, verso giorni di spudorato coraggio.

Ciò che non cambierei di questo 2017, e probabilmente di tutta la mia vita, sono quegli interminabili secondi in cui prendo decisioni senza rifletterci, senza pensare a eventuali conseguenze o “vabbè magari lo faccio un’altra volta”, le solite “minchiate” (perdonate il francesismo) che alla fine tanto minchiate (perdonate pt. 2) non sono. E probabilmente è questo il mio unico buon proposito 2018: non ci pensare, agisci.

Così si sono fatte le 13:00, nessuno è venuto a buttarmi giù dal letto ma si sente un profumino arrivare dalla cucina, che come una mano invisibile mi tenta. Fa anche un po’ salire al naso il retrogusto di Sambuca. Mi alzo e do una sbirciata al mondo fuori dalla finestra. Nulla è diverso da ieri, in fondo nemmeno io. Mi rendo conto di essermi coricata con il vestito della serata, onestamente non ho il coraggio di specchiarmi.

Apro l’armadio per cercare qualcosa da mettere e la mia attenzione viene bloccata dalle foto attaccate da sempre nell’anta: i miei genitori che si tengono per mano, io da piccola vestita in modo strano, i disegni … mi rendo conto che gli anni passano e non sono i buoni propositi che facciamo il 1 gennaio a cambiarci. Sarà il movimento perpetuo dell’universo, sarà Saturno, o la Luna piena di ieri sera …

Mia madre appare dal corridoio e mi ritrova a fissare l’anta dell’armadio come Andreotti, ancora con il vestito della sera prima e dalla porta sono sicura starà sentendo la puzza di fumo che impregna i capelli tutte le volte che vado a ballare.

Fa una smorfia alla Marge Simpson col suo rauco “Mmmh” e aggiunge “la riscaldo la pizza?”

-Non ci pensare, agisci!-

Serena Votano

Un regalo inaspettato

Mancano dieci giorni al Natale.

Sono sommerso dal lavoro e non rispondo al cellulare da giorni. Mi alzo dal letto a rilento. Mi infilo nella doccia e sento scorrere addosso l’acqua calda, piano il mio corpo si risveglia dal torpore. Butto gli occhi allo specchio e vedo un uomo diverso.

Eccolo lì Giorgio Marinetti, trentenne single che nella vita ha sempre pensato di fare bene, la cosa giusta. Vedo riflessa l’immagine di un uomo stanco, la barba incolta e un sorriso spento. E’ il suono del cellulare che mi riporta alla realtà. Sono solo le sette del mattino e già il capo vuole gettarmi addosso ansie e preoccupazioni.

Automaticamente faccio una cosa che forse avrei dovuto fare da troppo tempo: rifiuto la chiamata. Preparo con cura la colazione friggendo delle uova. Il profumo invade la casa e mi fa sorridere.

La mia casa non profuma mai di cibo, immerso come sono nel lavoro, non ho mai il tempo di cucinare. Prendo la giacca e la sciarpa e corro in ufficio. Vado dritto dal capo: – “Buongiorno oggi la mia scrivania rimarrà vuota” – gli dico a bruciapelo. –  “Ma cosa diamine dici Giorgio siamo indietro col programma e lo sai” – prova a controbattere.

Ma il mio bisogno di evadere batte tutto. Lavoro per una agenzia pubblicitaria prestigiosa da sei anni e in tutto questo tempo non ho mai preso un giorno libero. Quando esco dall’azienda il vento gelido mi scuote e mi sento bene come non mai.

Mi siedo su una panchina e chiamo mia madre rassicurandola che tutto va bene e che presto la raggiungerò per trascorrere insieme le feste. Il Natale non mi piace da quando mio padre è andato: via quel posto vuoto fa male; è come una lama che arriva dritta al cuore.

Passeggio per i portici, la neve ha imbiancato tutta la città. Mi accorgo di una piccola libreria a cui non avevo fatto mai caso, tanto vado di fretta. Decido di entrare. L’odore mi riporta alla mia infanzia. Da bambino me ne stavo sempre in soffitta a leggere. Ho sempre amato la lettura. Non mi rendo conto di come non abbia mai prestato attenzione a questa libreria. Si respira magia. Le pareti sono di un blu scuro, intenso; gli scaffali sono di legno chiaro realizzati con dei vecchi bancali.

Balza ai miei occhi un libro di Calvino, il preferito di papà. Lo afferro e inizio a sfogliarlo. Una lacrima riga il mio volto. Questa è davvero una giornata speciale: non piangevo da anni. Quella lacrima riuscì a dare sfogo a tutto quello che da troppo tempo mi portavo dentro. Riposi il libro con cura mi asciugai il viso e mentre mi apprestavo a uscire sentii una voce.

Mi sono voltato e l’ho vista. Altro colpo di scena della giornata. Le luci natalizie illuminano i suoi capelli nero corvino che incorniciano un volto dalle linee perfette. Occhi verdi e un neo accanto alla bocca come se fosse disegnato. Si muove confusa tra gli scaffali. Un lungo cappotto color caramello e una vecchia borsa di pelle. Aveva l’aria sofisticata. Urtò dei libri e caddero sul pavimento. Mi precipitai a raccoglierli in cerca di un contatto.

-“Lei è davvero gentile, cosa posso fare per sdebitarmi?” – mentre parlava notai quelle labbra carnose che veniva voglia di mordere. –“Un caffè con lei mi sembra un’ottima ricompensa” – dissi cercando di usare un tono gentile e simpatico.  – “Mi chiamo Rachele piacere”– mi disse stringendomi la mano – “ sono qui in vacanza e di questa città conosco davvero pochissimo le andrebbe di farmi da cicerone?”.

Siamo usciti dalla libreria. Camminiamo per le vie della città mentre la neve continua a cadere. Rachele con naturalezza mi racconta di lei, del suo lavoro, della sua vita. E’ bellissima e non riesco a staccare gli occhi dalle sua labbra. Quella naturalezza nel parlare di sé mi strega. Non avevo mai conosciuto una donna così. Ha addosso una energia che travolge.

Ho scelto una trattoria, quelle classiche con la tovaglia rossa a quadretti. Rachele si esalta per la bontà del cibo e mi racconta i suoi disastri in cucina.

Improvvisamente le squilla il cellulare.  –“Arrivo” – dice con tono quasi preoccupato. Le chiedo cosa succede ma lei non risponde. Mi guarda intensamente. Mi bacia e va via.

Chi è davvero Rachele. Dove vive. Non so nulla di lei e forse non la vedrò mai più. Mi invade un senso di tristezza. Di Rachele resta poco. Resta il suo profumo addosso.

Per quanto riguarda questa giornata resta molto. Forse questo è il mio regalo inaspettato di Natale: un cambiamento. Giorgio Marinetti è vivo e ha capito che oltre il lavoro c’è una vita che aspetta solo di essere vissuta.

Veronica Micali

Il nero è solo un colore? Un milione di buoni motivi sul perché dovresti smettere di indossare il nero e cambiare colore!

“Si ok, perché questo incipit di merda? Che hai contro il nero? È sexy, è cool, è elegante, si abbina su tutto ed è serio e mi piace non smetterò mai di indossarlo. Non ci rompere le conchigliette (per dirla raffinata).”

Siamo d’accordo il nero è una scelta di vita, è il colore dei ribelli, degli anticonformisti, ha un’austera eleganza con cui ti copre e ti protegge ma non è tutto qui…
E’ un colore forte, bello ma assorbe tutto senza riflettere e tutto ciò che assorbe senza riflettere porta a sofferenza, a malattia, il nero è il colore di chi soffre tanto.
Ci hai mai fatto caso? Quando il cielo è grigio, o l’umore scende giù metti un bel nero addosso.

 

Nero è una fase della vita, tutti abbiamo un periodo nero, tutti abbiamo amato il nero per un po, ci siamo adagiati al nero per un certo periodo quanto basta per cambiare. Alle volte quando ti abitui al nero non ne esci più, quel nero ti sporca la faccia, ti sporca la mente.
Nero non è solo un colore, nero è un pensiero, nero è un emozione, nero è uno stato d’animo.
Nero è usato nella storia come colore della guerra ai caduti, persino Picasso nell’espressione più forte del dolore, per esprimere la violenza, il degrado, il dolore e lo strazio della guerra lo usa in Guernica, lo indossa sempre chi ha una lotta dentro sé, chi ha una morte dentro.

Di certo non possiamo negarlo tra i colori, fa parte della vita, di un ciclo come il giorno e la notte, c’è il bianco e il nero, la luce e il buio.
Nelle tradizioni la Chiesa lo adotta come colore liturgico in segno di lutto, ed il viola lo associa al periodo quaresimale, anche le celluline richiamano questa filosofia, quando un tessuto sta morendo diventa prima viola e poi nero la gangrena (W l’anatomia patologica) dalla morte cellulare a quella mentale, psichica tutte le depressioni iniziano con un colore: il nero.
Nero è il colore della depressione.
Che il colore dia un’energia ed una forza, vibrazioni pari alla lunghezza d’onda ed è in grado di influenzare il temperamento è una “scienza” facilmente intuibile e documentabile.

E tu di che colore sei vestito oggi? Ci hai pensato consciamente stamattina o è stato il tuo inconscio a decidere il tuo colore?
Come vestirti per avere emozioni positive e vivaci? Semplice!
Rosso? Ti piacerebbe essere un leone feroce? Vivo e passionale farà aumentare la pressione cardiaca a chi ti guarda, con la sua vivacità ti renderà energico.
Verde? Ti sentirai la quiete di un cipresso addosso.
Celeste? Se aspiri all’ insostenibile immensità e la leggerezza del cielo.
Giallo? Brillante come un giorno d’estate, cosi solare da splendere e portare allegria, non è un colore da poco, per le persone stravaganti.
Bianco? Con la sua soffice e delicata purezza ti sentirai candido, un piccolo angelo sceso in terra o un bel gelataio che fa felici i bambini.
Rosa? Il mix tra rosso e bianco, con la sua tenerezza alle volte riesce ad essere anche sensuale, contiene la passione del rosso e la purezza del bianco mescolati in un tenero abbraccio.
I colori sono modi di essere…

E poi ci sono le 50 sfumature! No, non di grigio (sempre la testa alle cose zozze) ma di tutti i colori, usiamole le 50 sfumature di tutti i colori!
Ah! Dimenticavo look per esame universitario? Nero sconsigliatissimo!
Non vestirti mai di nero per sostenere un esame, già hai l’ansia alle stelle e sarai pallido, quel nero ti oscurerà viso, ti darà un fascino uno zombie, al professore sembrerai un morto in vacanza…

Facci caso che gli studenti più ansiosi che si ritirano o sono bocciati sono vestiti di nero e se dovessi partecipare per un colloquio di lavoro se sei tutto abbigliato di nero ti scartano sicuro a meno che non vuoi lavorare per le pompe funebri! Anche lo psicologo te ne direbbe quattro!

Nero diciamocelo sa anche di sfigato, il gatto nero…No, non mi prendere per scaramantica, è una statistica! Una cosa è certa, non rallegri il professore che ti vorrebbe vedere happy di aver studiato la sua bellissima, affascinante, eccitante materia e tu pare che stai andando al funerale.
Capito? No al nero e anche al viola! Si alla vita!

…E il tuo colore preferito qual è?

Promettimi che domattina quando ti alzerai mi penserai ti ricorderai di queste fatidiche parole e sceglierai con cura il tuo colore e se è una giornata di m…a, semplice basta solo cambiare colore!
Sii artista anche tu con i tuoi vestiti, i quadri tutti neri non sono mai piaciuti a nessuno…

Dani Cannistrà

Oltre

Quei suoi occhi così neri, neri come la morte, la mia morte.

Come potevo non perdermici dentro? Cercavo me stessa in quell’abisso sperando di trovare una soluzione per non affogare, perché il mio, di abisso, mi aveva già trascinata giù.

Penso a quelle sue mani tanto grandi e calde. Quante volte le ho ritrovate strette alle mie. Quante altre volte l’ho soltanto immaginato. Da piccola mi divertivo a giocare con la fantasia, ora è la fantasia che si prende gioco di me e nulla ha più senso perché la “mia” realtà non è la realtà “degli altri” ed io inizio ad avere paura: mi sento diversa e la storia insegna che il diverso non si ama, si uccide. Forse è per questo che ho deciso di farlo da sola.

Ripenso al suo abbraccio, il mio unico rifugio; e a quelle labbra, così spesso a un alito dalle mie, ma sempre così lontane e irraggiungibili.

Sì, ormai ho deciso: queste sono le ultime ed uniche memorie che porterò con me. Del resto non ho altro. Ho annullato tutto. Ho annullato centinaia di occhi più intensi e sinceri, migliaia di mani più forti e più calde e decine di labbra dal sapore più dolce, per quegli occhi, quelle mani e quelle labbra che erano l’Inferno. Eppure, ho assaporato il Paradiso nel centro esatto dell’Inferno. Era la malattia e l’antidoto ed io ero… no… io non ero più.

BIIBIP: “Rivoglio la vecchia te”. È notte fonda ma il cellulare non va mai a dormire e forse neanche qualche amico. Io ne ho solo uno, anzi una. E lo so per il semplice fatto che mi dà solo certezze e mai dubbi. E anche lei, così come tutti, da un po’ di tempo, ho annullato. Esisto solo io e quegli occhi, quelle mani, quelle labbra.
Com’era la vecchia me? Una sola parola. Bastò una sola parola per mandarmi in quella che il mio simpatico strizzacervelli definisce depressione e DAP, in gergo “Disturbi da Attacchi di Panico”, o come la chiamo semplicemente io “confusione totale”.

BIIBIP: “VIVA”.

Fu allora che realizzai che ero già morta. Tutti lo siamo. Siamo nati per morire. La nostra intera esistenza si sgretola nell’istante di un sospiro e questo mondo non è altro che la nostra tomba che, muta, ci accompagna nell’illusione di una vita che scorre. È un gioco più grande di noi che siamo inesorabilmente destinati a perdere. E non si bara: non esiste fortuna né alcun asso nella manica; la vita non si fa fregare mai!

È stato un attimo. Avete presente quando siete alle prese con uno di quei compiti di matematica impossibili che non sapete da dove partire per calcolare un’integrale in base alla funzione logaritmica data e guardate quelle formule come antichi geroglifici incisi sulle pareti? Vi scervellate e sudate freddo per due intere ore e poi TAC, un attimo prima di consegnare arriva l’illuminazione e vorreste sbattere la testa al muro per non averci pensato prima.
Ecco, la risposta è sempre stata dietro l’angolo, solo che io continuavo a camminare dritto.

Ed eccomi ora, finalmente decisa, finalmente viva, stesa sui binari, che sembrano abbracciarmi –non vogliono lasciarmi andare.

Accade tutto in un istante. Con l’orecchio destro poggiato sul freddo del rame sento un rumore in lontananza, all’inizio è quasi un solletico, poi comincio a vibrare insieme alle rotaie; lo sento avvicinarsi; vedo delle lucine farsi sempre più forti fino quasi ad accecarmi. Mi sembra di osservare la scena dall’esterno, con gli occhi del vento o del cielo.

Il treno passa ed io rimango lì, ferma, a fissarlo seduta sulla sponda opposta dell’altro binario.
Ho fregato la vita, il resto sono solo scuse. Ho fregato la vita, la morte è oltre…

 

Elisa Iacovo

Una collana nera

-Che ne dici se usciamo fuori?-

Sono a una festa, anche se è quasi giunta al termine, indosso un vestitino grigio e una collana nera. Ricordo benissimo quando ho comprato questa collana, ero a Venezia per la seconda occasione. L’ultima volta che la indossai risale a…tre anni fa esattamente. Oggi non so bene perché l’ho voluta mettere, in fondo non sono quel genere di persona da gioielli.

Lui, invece, ha una giacca amaranto e, si, litri di vino bianco in corpo, anche se non lo dà tanto a vedere, o forse sono io a non capirlo.
Siamo fuori dal locale, abbracciati, a guardare la città, a tratti mi sembra di vedere il mare anche se il mare è più a sinistra.
Vorrei raccontargli che stanotte l’ho sognato ma non ho le parole, o forse sono io che non voglio raccontarmelo di nuovo…l’ho sognato a una partita allo stadio con…quella che aveva tutta l’aria di essere la sua fidanzata. Ricordo che aveva la frangetta e i capelli morbidi e non troppo ricci, che lo guardava in un modo che quasi le invidiavo. Come se fosse l’arcobaleno dopo la tempesta o una farfalla in primavera.
Eppure lui non la guardava mai, o quando lo faceva, non la guardava in quel modo.
Io ero lì, vicina a loro, ma cercavo di essere il meno presente possibile, nonostante avessi tanto voluto parlare con lui, ridere e abbracciarlo come ho sempre fatto.
Ricordo che, finita la partita, vagavo sola per la città, avevo bisogno di pensare o semplicemente di camminare un po’ da sola, finché il telefono squilla ed è lui che mi dice di aspettarlo che sta tornando, che mi ha visto un po’ strana e voleva sapere come stavo, che aveva lasciato la ragazza a casa e stava arrivando.
Vorrei raccontargli che, stamattina al mio risveglio, non ho fatto altro che pensarci e ripensarci, a chiedermi come saremo tra dieci anni o semplicemente l’anno prossimo, ci guarderemo intraprendere relazioni senza fare alcun tipo di rumore e poi, una volta soli, potremo di nuovo tenerci per mano e abbracciarci?
Che poi due amici non si tengono per mano come facciamo noi, e soprattutto, non desiderano così tanto baciarsi. Perché qui, adesso, mentre sono tra le sue braccia con la testa sulla sua spalla, respirando il suo sottile profumo, non desidero altro che le sue labbra.
E succede.
Come può una persona piacermi così tanto? Un amico, poi.
Forse non dovremmo baciarci- gli dico
Ci stiamo già baciando– e continua – se a tutte e due piace perché non dovremmo?

Serena Votano