La Casa dei Prosciutti

La notte era gelida e tranquilla, come tutte le notti d’inverno della Val Bodenco. Spighe di grano fluttuavano al vento, rami di pino scrosciavano lenti, fari e lampioni illuminavano i campi e in lontananza un borbottio si approssimava a rompere il silenzio. Le auto sfrecciavano sulla statale, schegge di luce apparivano e sparivano in un istante, poi il buio inghiottiva di nuovo rapido case, siepi e campagne. Il borbottio incombeva ormai su Verrosio, diecimila anime stagliate sulle rive del fiume Multro, attraversando il centro da un capo all’altro, fino a stazionare in cima ad un grande spiazzo nei pressi di una lussuosa villa con un grande cartellone che recitava “La Casa dei Prosciutti”

Qui una luce rossa intermittente iniziò a roteare e il borbottio che s’era fatto boato iniziò ad essere incessante. Un rumore metallico dilaniò la notte e una palla di fuoco si levò al cielo, richiudendosi in una nuvola di polvere grigiastra. Sotto questa non era rimasto altro che un monolite d’acciaio accartocciato tra i carboni ardenti dell’erba bruciacchiata. A quel punto la quiete era tornata su Verrosio. Ma non sarebbe durata a lungo, non sarebbe sopravvissuta all’alba, quando i primi raggi di sole avrebbero mostrato l’entità della devastazione notturna.

Carlo Motta per campare scriveva romanzi, e nel tempo libero si dilettava ad assicurare criminali alla giustizia. Quella mattina era ancora nel letto di casa sua e si era svegliato scarico, privo d’immaginazione e di voglia di vivere. La chiamata del procuratore Angelo Pastore, suo vecchio amico nonché accanito lettore delle sue opere, giunse come una benedizione ad evitargli l’ennesima giornata di autocommiserazione e cibo spazzatura.

Parcheggiò la sua Smart Fortwo bianca nei pressi della sontuosa villa “Casa dei Prosciutti” della famiglia Ferrucci, giungendo sul luogo dell’incidente a piedi dopo aver evitato come la peste ogni possibile contatto con forze dell’ordine e curiosi. Non che fosse una rinomata celebrità, ma il rischio che qualcuno avesse letto le sue opere e riuscisse a identificarlo, c’era. E lui voleva scongiurarlo in ogni modo.

L’elicottero su cui viaggiavano Emilio Ferrucci e il suo pilota era disteso su uno spiazzo erboso, terra e cenere ricoprivano tutto per metri e metri, mentre le lamiere del veicolo si erano conficcate nel terreno rendendo complicate le manovre di recupero dei corpi.

«Questi ricchi hanno ben poco rispetto per la propria vita» disse Motta osservando la scena con le mani in tasca «Perché mai tornare a casa in elicottero? Non sanno che sono delle dannate macchine infernali? Ah, quanti danni che fa l’hybris»

«Alla buon’ora» lo rimbrottò il procuratore Pastore allargando le braccia spazientito.

«Questo sarebbe?» domandò un carabiniere che stava parlottando con Pastore.

«Un ficcanaso» rispose Motta dando una pacca sulla spalla al milite prima di inoltrarsi verso il luogo dell’incidente.

«E’ un mio amico scrittore. Nel tempo libero ci aiuta con le indagini» si giustificò Pastore.

«E’ un do ut des» esclamò Motta mentre il carabiniere e Pastore lo seguivano. «Io do una mano al procuratore e lui in cambio mi fornisce materiale per le mie storie».

«Sta scherzando ovviamente» disse il procuratore sorridendo nervosamente.

«Oh, giusto Angelo, devo ripetere la storiella che faccio tutto questo per dovere civico».

«Siete sicuro che possa esserci utile?» domandò scettico il carabiniere al procuratore mentre i tre si incamminavano nella sterpaglia.

«Avete la mia parola».

Giunti sul luogo dell’incidente Motta si mise le mani ai fianchi, guardò verso la casa dei Ferrucci, poi verso la carcassa dell’elicottero e ancora una volta verso la casa

«Scommetto che il morto è uno dei Ferrucci»

«Acuto osservatore» disse sarcastico il comandante dei carabinieri

«Perché, è così ovvio?» chiese Motta irritato

«Siamo nella loro proprietà»

«Se per questo tutta Verrosio è una loro proprietà. No, dico che il morto è un Ferrucci perché tutto il paese è venuto qui a curiosare»

«Si» confermò già esausto il carabiniere «La vittima è Emilio Ferrucci, il proprietario della famosa azienda “La Casa dei Prosciutti”»

«E il pilota?»

«Come scusi?»

«Il pilota dell’elicottero. È sopravvissuto?»

«No ovviamente. È morto nello schianto»

«Allora ci sono due vittime»

«Certo ma…»

«Certo ma il povero disgraziato non conta. Intendevate questo?» lo incalzò Motta a muso duro

«Fa sul serio?» chiese il carabiniere guardando prima Motta e poi Pastore

«Sto scherzando» esclamò lo scrittore esplodendo in una fragorosa risata «Volevo solo fare un po’ di demagogia spicciola»

«Ah ecco» rispose sollevato il comandante sistemandosi il colletto della divisa

«L’altro dov’è?»

«L’altro?»

«Non sono i due fratelli a gestire l’azienda Ferrucci? Emilio e Romano»

«Romano Ferrucci è morto l’anno scorso» rivelò il carabiniere

«Ah, molto bene» esclamò sorpreso Motta portandosi le mani alla bocca con fare pensieroso «Andiamo»

«Andare? Dove? Non ci dice nulla sulla scena?» domandò allarmato il comandante

«Un elicottero è esploso in volo»

«In volo?»

«In volo» confermò Motta indicando la sterpaglia

«Aspetti, non è esploso dopo essere precipitato?»

«Oh, nient’affatto, basta guardare i resti dell’elica»

«E dove sono?» chiese il procuratore Pastore guardandosi intorno

«Non ci sono, per l’appunto» rilevò Motta «Se il velivolo si fosse schiantato l’elica sarebbe ancora qui intorno o addirittura ancora attaccata alla carcassa. Invece non c’è. L’elicottero è esploso in fase d’atterraggio, ma prima di toccare terra. E nella deflagrazione i detriti si sono sparpagliati in queste campagne»

«Allora non è un incidente. È un omicidio» esclamò sgomento il comandante dei carabinieri

«O un attentato» ipotizzò Pastore

«Un attentato? Oh no, no no, lo escludo» ribatté Motta

«Perché? I Ferrucci sono ricchi, potenti e molto odiati dopo quella storia della contaminazione degli affettati»

«La ritorsione del familiare di una vittima della contaminazione?» domandò il carabiniere

«Una vendetta»

«E perché non piazzarla all’ingresso della casa?» domandò Motta volgendo lo sguardo verso la sfarzosa villa dei Ferrucci «Perché ucciderne uno solo, quando il nostro terrorista avrebbe potuto ucciderli tutti? E come avrebbe piazzato la bomba sull’elicottero?»

«Magari si è infiltrato nella casa. Forse lavora lì dentro. Un cameriere, un autista, forse un conoscente del pilota»

«La domanda resta» si impuntò Motta con Pastore «Perché ucciderne uno solo quando poteva eliminarli tutti?»

«Era il capo dell’azienda, era un simbolo. Uccidere lui significa uccidere i Ferrucci»

«Ma ai tempi della contaminazione non era lui il capo, bensì il padre, Giovanni Ferrucci»

«Che è morto da anni» ricordò il comandante dei carabinieri

«E quindi di che razza di vendetta stiamo parlando? No, il nostro assassino non voleva uccidere un Ferrucci a caso o tutti Ferrucci, ma questo Ferrucci in particolare»

«Se non è la vendetta, allora il movente può essere passionale» disse Pastore

«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamò Motta voltandosi di nuovo verso la scena dell’esplosione «Tuo marito o il tuo amante ti lascia e tu lo fai saltare in aria con dell’esplosivo? Un omicidio passionale richiede…passione! Insomma contatto fisico, se non addirittura visivo. Questo è un omicidio a distanza, compiuto con premeditazione, quindi a sangue freddo, e io conosco un solo movente più forte ma più razionale del sesso…»

«Il denaro» esclamò Pastore

«Esatto. Chi eredita tutta la baracca ora che Emilio è passato a miglior vita?»

«Sarebbe toccato al fratello minore, Romano»

«Che però è morto» disse il carabiniere

«E com’è morto?» domandò Motta

«Durante un lancio col paracadute, che però non si è aperto»

«Ma che famiglia sfortunata. Ancora una morte violenta, ancora un incidente…anzi, ancora un omicidio che si può camuffare da incidente»

«Allora anche Romano è stato ucciso?» chiese Pastore

«Probabile. Aveva figli?»

«Nessuno. C’era solo Lorenzo, ma è morto di overdose anni fa» li informò il carabiniere

«Quindi senza Emilio, Romano e Lorenzo, la società adesso appartiene alla vedova di Romano Ferrucci, cioè Amalia»

«Aveva il movente, aveva i mezzi e conosceva gli spostamenti sia del marito che di Emilio» affermò convinto il procuratore Pastore «Andiamo a prenderla»

Ritrovarono la signora Amalia seduta comodamente nella poltrona di casa sua, a disquisire in tono amabile con alcune giornaliste. Quando i carabinieri che scortavano Pastore e Motta le cinsero i polsi con le manette il suo volto divenne una maschera di cera, i suoi occhi si spensero mentre passavano in rassegna gli uomini che la stavano privando della libertà, ma nemmeno per un secondo ella perse la sua arrogante grandeur aristocratica. Entrò nella macchina della polizia come Maria Antonietta lo fece nella carrozza che l’avrebbe condotta sulla ghigliottina.

Non smise mai di proclamarsi innocente, e giurò che l’avrebbe ripetuto al processo. Un processo a cui però non arrivò mai. Si uccise mesi dopo tagliandosi i polsi con un cucchiaio di plastica accuratamente affilato. Quando Pastore chiamò Motta per informarlo della tragedia, questi era a casa sua, a scrivere la bozza di un giallo basato sulla vicenda di Emilio Ferrucci e della moglie intitolato “La Casa dei Prosciutti”.

«Povera donna» disse freddamente al telefono Motta a Pastore.

«Forse era davvero innocente».

«Forse. Ma tu ne sei certo, e hai i sensi di colpa».

«A differenza tua, ho una coscienza».

«Sei crudele».

«Per te questo è solo un gioco. Queste storie ti forniscono quei brividi che la tua creatività non riesce più a trasmetterti» disse furioso Pastore.

«Stai dicendo che sono uno scrittore fallito?»

«Sto dicendo che sei uno stronzo! Una donna è morta, Carlo, morta! E a te sembra non importare nulla…»

«Non me ne importa nulla perché non era una brava donna» si giustificò Carlo

«Come fai a dirlo?!»

«Una donna che aiuta il marito a fingere la propria morte, affinché questi elimini il fratello maggiore senza destar sospetti, non è poi una gran perdita per la società, ne converrai»

«Aspetta, cosa?»

«Sono abbastanza sicuro che Romano Ferrucci abbia ingannato anche lei, dopotutto»

«Romano Ferrucci? È Romano Ferrucci l’assassino di Emilio? Ma non era morto?»

«Chissà chi è morto davvero in quell’incidente col paracadute. Chissà se qualcuno è morto davvero quel giorno. L’unica testimone era Amalia. Ed ora anche lei è morta»

«Quindi Romano si mette d’accordo con la moglie, finge la sua morte e poi pianifica quella del fratello maggiore…» disse Pastore unendo i pezzi

«…la moglie eredita tutto e poi raggiunge il marito, con l’eredità dei Ferrucci, nel suo buon ritiro in chissà quale sfavillante isola caraibica» proseguì Motta «O almeno questo è il piano che Romano espone alla moglie per farle accettare il carcere. Lei era consapevole di finire tra i sospettati e di farsi pure qualche mese di galera, ma era certa che Romano sarebbe intervenuto per tirarla fuori. Una volta realizzato di essere stata ingannata, si è tolta la vita. Amava davvero Romano, a tal punto da diventarne complice. E non si è ammazzata per la reclusione, ma per aver compreso che il marito non l’aveva mai amata, che era stata solo una pedina nelle sue mani mentre lei gli era davvero devota»

«Una teoria affascinante, te lo concedo» rispose Pastore «Ma come la dimostriamo?»

«Dimostrare una teoria? Mio buon amico, questa è solo la trama del mio prossimo libro “La Casa dei Prosciutti”! Io non devo dimostrare niente, devo solo creare e scrivere. Ah già, e vendere. Dimostrare teorie è il tuo mestiere, non il mio. Io ti ho solo aiutato in cambio di una buona storia, come faccio sempre»

«E come trasformo la tua “buona storia” in un caso giudiziario? Come faccio ad incastrare Romano Ferrucci?»

«E dove sarebbe il divertimento se facessi io tutto il lavoro? Buona fortuna procuratore, sono certo che prenderai il tuo assassino. E chiamami se hai bisogno ancora di me. Sono sempre lieto di ascoltare una buona storia. Alla prossima!»

 

Giuseppe Libro Muscarà

Periferia

Ticchettava con le dita sul sedile dello Shuttle 100 ascoltando nelle cuffiette uno dei soliti brani lamentosi e depressivi di Galeffi. La luna si riversava nel mare in una forma distorta, muovendosi ora di qua, ora di là, al ritmo della corrente, mentre tutto lo stretto era avvolto dalla lupatina. Le mille luci del centro, i viali addobbati a festa, il vociare irregolare, avevano lasciato spazio alla desolazione della periferia, dove le colline buie incombevano sulla strada che conduceva verso l’estremo lembo meridionale di Messina.

Due fidanzatini, forse nemmeno maggiorenni, chiamarono la fermata scendendo in corrispondenza di una palazzina gialla, lasciando sul bus solo lui, una ragazza dai capelli castani e un uomo di mezz’età, dai tratti orientali, che indossava un berretto rosso della stessa tonalità del giubbino e del pantalone.
Non seppe comprendere il motivo, ma quel tale gli mise paura, con i suoi occhi neri e vispi, il viso butterato, le dita macchiate di nero. Il suo torreggiare alle spalle di quella ragazzina amplificava il suo disagio.
Mancavano ancora diverse fermate alla sua destinazione, tuttavia una misteriosa forza interiore lo spinse a scendere non appena vide la ragazzina farlo, o meglio, non appena si accorse che il tizio col berretto rosso l’aveva seguita.
I tre percorsero un’ampia strada che costeggiava un campo di calcio in terra battuta, tenendosi ognuno ad una decina di metri dall’altro, finché la ragazzina non imboccò una viuzza laterale, scomparendo nel buio.

Fu a quel punto che il tale dai tratti orientali allungò il passo progressivamente, fino a mettersi a correre, lanciato all’inseguimento della ragazzina.
Non appena lo vide, non poté che fare lo stesso, anche se sapeva che si stava mettendo nei guai.
Ma cos’altro poteva fare? Ignorare quel timore che gli pesava sulla coscienza, magari scoprendo il giorno successivo che quella giovane era sparita o peggio? Non avrebbe potuto convivere con quel senso di colpa.
Imboccata la viuzza, una stretta lingua di pietre e sabbia che si incuneava nei vicoli di uno dei quartieri più poveri e malfamati della città, si rese conto che l’uomo con il berretto rosso era ormai ad un passo dalla ragazzina dai capelli castani.
A quel punto non poté più stare in disparte. Urlò alla ragazzina, la quale si voltò di scatto come anche il tizio orientale, che con fare rapido estrasse un coltellino dalla tasca sguainando la lama, che colpito dal bagliore lunare generò un caleidoscopio di riflessi.
Aveva mostrato coraggio, un coraggio fuori dal comune, ma adesso era lui ad essere inseguito. Ora l’uomo orientale puntava la sua lama verso di lui, mentre la ragazzina era come svanita nel nulla.
Corse a perdifiato verso la statale rischiando più e più volte di scivolare, ma riuscendo alla fine a seminare il malvivente.

Era ormai in salvo, quel suo stupido atto di eroismo aveva avuto successo. La ragazzina era salva, quel losco figuro non avrebbe avuto soddisfazione quella notte, tutto grazie a lui.
Ma c’era qualcosa di diverso rispetto al tragitto fatto all’andata. C’era un pulmino bianco parcheggiato in corrispondenza dello sbocco verso la strada principale.
Quando vi giunse qualcuno mise in moto, il pulmino emise due fasci di luce illuminando la notte, e d’un tratto il passaggio era stato bloccato. Due tizi scesero dal veicolo, mentre l’uomo col berretto rosso l’aveva ormai raggiunto, ma con sua somma sorpresa non era solo: c’era la ragazzina con lui, a cui l’uomo orientale allungò una banconota da cinque euro stropicciata e sporca di grasso.
I due che erano scesi dal pulmino lo aggredirono, gli legarono le mani dietro la schiena mentre quello col berretto rosso gli tappò la bocca impedendogli di chiedere aiuto.
Si dimenò, scalciò con forza, graffiò i suoi aguzzini, ma alla fine venne sopraffatto. Mentre le porte del pulmino gli si chiudevano di fronte, vide la ragazzina che sorrideva sadicamente valutando la fattura della banconota.

“Da quanto tempo vivi qui?” gli chiese il tizio col berretto rosso dopo aver chiuso le porte.
“Da sempre” rispose lui.
“E non hai imparato che qui sopravvive solo chi si fa gli affari suoi?”

Il suono di una campana lo fece ridestare, qualcuno aveva chiamato la fermata. Una ragazzina dai capelli castani era scesa dal bus allontanandosi a passo svelto, mentre un tizio col berretto rosso si stava preparando per farlo alla successiva.
Tolse le cuffie, spense il telefono e riprese fiato una, due, tre volte, finché il batticuore non si placò, finché non realizzò che era al sicuro, e che anche quella sera sarebbe tornato a casa, in quella periferia così placida eppure così piena di insidie.

Giuseppe Libro Muscarà

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Samir e il mare

Samir non era più Erik da qualche mese ormai. La primavera precedente, infatti, aveva avviato le procedure per il cambio di nome. Avrebbe descritto quel momento come l’istante in cui si era concesso una vita nuova.
La verità, però, era che di quel fatto non parlava. Era un uomo senza passato, come coloro che lo accompagnavano in quella che era ormai diventata la sua quotidianità.

Le giornate si susseguivano celeri e il sudore si mischiava alla salsedine del mare.
Samir voleva fare questo da tutta la vita. Da bambino aveva visto un documentario sui pescatori del mare del Nord e da allora quell’immagine era rimasta nella sua mente. Quegli uomini gli apparivano come qualcuno da imitare. Ne vedeva la forza di coloro che vanno contro la natura.
Crescendo, però, aveva preferito scegliere la sicurezza di una vita normale. Aveva studiato col solo obiettivo di trovare un buon lavoro e avviare una famiglia. Si era innamorato e sposato.
Ben presto, però, si era accorto che qualcosa non andava. Lui e sua moglie litigavano in continuazione e, passato appena un semestre, si guardavano già l’un l’altro con noia.
Dopo il secondo anno fu il silenzio. Non avevano più voglia di addentrarsi nella mente dell’altro, quindi si parlava solo della normale amministrazione della vita familiare.
Nei mesi successivi perse il lavoro e sua moglie.
Lei abbandonò la sua vita in seguito a un divorzio consensuale. Erano ancora giovani e non aveva senso combattere per qualcosa che non funzionava.
La ditta per cui lavorava fallì qualche tempo dopo lasciando che lui e gli altri dipendenti perdessero l’unica sicurezza che avevano.
Iniziò il periodo incerto del lancio del curriculum, ma dopo qualche mese questo non era stato afferrato da nessuno.
Fu in quei giorni che passando dalla via del mare si diresse verso il molo a guardare le onde della tempesta. Si accorse di aver perso qualcosa: in lui non c’era più l’oceano. Non vi era più un tumulto che riuscisse a scuoterlo. Sarebbe andata bene anche una piccola scintilla negli occhi a causa di un gabbiano che gli volava accanto. Il vuoto, invece, sembrava ricoprirlo.
Un moto di rabbia si diramò nel suo corpo. Dove aveva sbagliato? Quando esattamente si era autosomministrato la pillola che lo aveva reso un’ombra vivente?
Rimase sul molo fin al tramonto e decise di ricominciare dal mare.
Abbandonò quel poco che gli era rimasto della sua squallida esistenza e divenne il nuovo membro di un peschereccio.
Credeva di aver dato la svolta definitiva alla sua vita. A distanza di qualche mese dal giorno dell’assunzione, invece, si pentiva di nuovo di una sua scelta.

Sulla nave non vi era una netta distinzione tra giorno e notte. Si lavorava quando si doveva e nelle poche ore rimaste ci si abbandonava a un sonno galleggiante e tumultuoso.
Vi erano giorni in cui Samir sentiva gli occhi ardere e guardandosi allo specchio vedeva come questi lo osservavano rossi e pieni di vene. In compenso, però, non soffriva più la nausea.
La prima volta che aveva messo piede su quella nave non si aspettava che quel continuo oscillare gli avrebbe dato chissà quanto fastidio. Era bastata qualche ora e il primo maleodorante pescato perché si ricredesse. Lo avevano mandato nella stiva a pulire le interiora di quanto raccolto. I suoi colleghi erano svelti: un taglio netto, una mano nelle budella e il pesce risultava già pulito. Lui aveva provato a imitarli e per un po’ di tempo era anche andata bene. Il problema più grande era l’olezzo che si levava da quella massa di cadaveri squartati. Dopo appena un quarto d’ora aveva chiesto che gli fossero concessi cinque minuti fuori, all’aria aperta, e mai aveva respirato con così tanta gratitudine.
Adesso si sentiva solo stanco, i ricordi infantili dei pescatori del Nord erano persi.
Con le mani insanguinate e puzzolenti si chiedeva se fosse questa la vita che desiderava; tirando le reti con tutta la forza che aveva in corpo si diceva di non poter accettare di aver sbagliato ancora.
“Mettete in sicurezza la stiva e la cabina di comando” urlò il capitano dell’imbarcazione. Samir guardò di fronte a sé, pronto ad osservare il cielo scuro e il mare agitato. Gli ordini del comandante, infatti, erano quelli da mettere in atto in caso di bufera. In ciò che osservava, però, non ve ne era traccia. A parte qualche nuvola sembrava una bella giornata.
“Deve aver sentito qualcosa nel vento” pensò e si adoperò a fare quanto gli era stato detto. La nave tornò indietro, verso il porto.
Nella loro calma frettolosa stavano cercando di fare tutto e al meglio. Samir mal sopportava l’ansia di quel cielo che di minuto in minuto si chiudeva ai raggi del sole. Il mare iniziava a gonfiarsi. Di contro assaporava rapido la sua adrenalina. Questa sensazione nuova lo inebriava, era una prova concreta della sua esistenza.
Giunsero alla terra ferma quando quell’ammasso d’onde cominciava a diventare insaziabile e, borbottando, divorava il cielo a morsi d’acqua e sale.
Ormeggiarono la barca in un posto diverso da quello della loro partenza e balzarono via a toccare di nuovo terra.
Al sicuro, con solo la pioggia a bagnarli, osservarono la loro nave combattere contro quel gigantesco mostro. Ogni onda che la colpiva era uno schiaffo che la spostava da un lato. Galleggiava, lasciandosi avvolgere a tratti dall’acqua, eppure rimaneva intatta. Proprio quando sembrava che l’onda l’avrebbe inghiottita la nave la divideva: una parte gli passava sotto, mentre l’altra la copriva. Lei rimaneva quasi integra, al centro della tormenta.
“Siamo stati fortunati a trovare un posto dove attraccare, ma in futuro capiterà di dover affrontare il maltempo in mare aperto” disse il capitano a Samir, unico novizio dell’equipaggio.
Samir si chiedeva se fosse questa la fortuna. In quei giorni non avevano pescato praticamente nulla ed era un miracolo che la nave non fosse ancora affondata mentre loro inermi la guardavano. I soldi del carburante sprecato, gli stipendi di tutta la truppa e le riparazioni che adesso andavano fatte sembravano impossibili da sostenere.
Passò circa un’ora e il cielo si riaprì in un processo inverso al precedente, il mare si acquietò, come se avesse finito l’ira che prima lo scuoteva. Tornarono a casa.

Quando la nave tornò a squarciare le onde Samir osservò come l’acqua rifletteva il sole, il vento gli scuoteva i capelli. Avrebbero raccolto un buon pescato, ne era certo. Nei suoi occhi c’era la speranza che avrebbero raccolto pesce a sufficienza anche per ripagare i danni della volta precedente.
Adesso le domande sul suo futuro erano sparite. Rimanevano lui e il mare a osservarsi da vicino, a specchiarsi l’uno nell’altro. Doveva guadagnarsi questa nuova giornata e prepararsi alla prossima tempesta.

Alessia Sturniolo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia*

L’uomo nel carro

Villa Von Stein apparve all’improvviso all’orizzonte dopo che ebbero superato un ultimo tornante

Era una struttura immensa, incastonata tra le montagne, nascosta da una fitta boscaglia che copriva l’intero primo piano, circondandolo in ogni lato

“Un luogo tetro e dimenticato da Dio” disse Pietro, non più giovane scrittore sulla quarantina, mentre conduceva la sua 500 Nera Dolcevita attraverso quei colli aspri e selvaggi

“Ti è sempre piaciuto drammatizzare” rispose Antonella, sua moglie, più giovane di lui di cinque anni, dottoressa in archeologia.

“Drammatizzare è il mio mestiere.”

Si erano spinti fin lassù dopo aver ricevuto l’invito di Franz Von Stein, un anziano nobiluomo tedesco, che aveva deciso di trascorrere gli ultimi anni della sua vita nell’Italia che aveva conosciuto da giovanissimo

“Come se la situazione non fosse già abbastanza drammatica” riprese sua moglie con fare indispettito

“Suvvia, volevo creare un po’ d’atmosfera”

“Atmosfera? Essere convocati…”

“Invitati” provò a correggerla Pietro;

“Invitati…da un ex nazista nella sua lugubre tenuta di montagna per valutare i suoi preziosi trofei di guerra non crea già abbastanza atmosfera?”

“Innanzitutto non era un nazista…”

“Ah no? Nella sua biografia io leggo Colonnello tedesco dal ’43 al’45 sul fronte italiano”

“Non tutti i tedeschi erano nazisti” rispose Pietro scrollando le spalle “O almeno, lui non lo era”

“Pensa ciò che vuoi” tagliò corto lei come sempre faceva quando in realtà aveva voglia di mettersi ad urlare.

Giunti alla villa parcheggiarono l’auto in uno dei grandi giardini antistanti, poi vennero accolti da un maggiordomo alto e smilzo

“Herr Vitelli und Frau Germanà?” domandò questi tirandosi su gli occhiali con l’indice

“Siamo noi”

“Seguitemi”

Camerata Franz s’è circondato di teutonici” disse scherzando Pietro

“Che strano! Un inquietante ex nazista quasi novantenne…”

“Ha ottantasette anni…” la corresse Pietro.

“Ottantasettenne…che si circonda di suoi connazionali altrettanto inquietanti”

“E da me cosa vuoi? Sei tu quella ingaggiata dal vecchietto. Io sono qui solo come accompagnatore…”

“E allora perché ha nominato prima te?”

“Che cosa?”

“Perché ha detto Herr Vitelli und Frau Germanà e non il contrario?”

“Sono tradizionalisti qui. Non farti queste domande. Valuta i maledettissimi gingilli del vecchiaccio, prendi i cinquantamila che ci ha promesso e filiamo via.”

“Avrebbe dovuto dire “Frau Germanà und Herr Vitelli”…” mormorò ancora Antonella mentre entravano nella villa

“Già, ma dubito che da queste parti conoscano l’espressione parità di genere. E non a causa della scarsa padronanza dell’italiano.”

L’interno di Villa Grandi sembrava un enorme mausoleo della Seconda Guerra Mondiale comodamente racchiuso nel personale “buen ritiro” del Colonnello Von Stein

Elmetti arrugginiti, fucili d’ogni foggia, financo qualche granata in bella mostra, e questo solo nell’anticamera del primo piano.

“Inquietante…” mormorò ancora Antonella

“Sono solo armi.”

“Armi americane. E’ tutta roba che ha preso dai cadaveri dei suoi nemici. Riesci a pensare a quanta gente abbia sulla propria coscienza questo vecchio?”

La domanda rimase senza risposta, poiché si accorsero, con loro grande sorpresa, di essere gli ultimi arrivati all’asta indetta da Von Stein.

Non meno di una ventina di persone avevano già preso posto sulle tribunette allestite lungo la sala grande della villa, tutte o quasi coetanee del vecchio colonnello

Ma ciò che lasciò Pietro e Antonella senza fiato fu vedere cosa si trovava al centro della sala: un M4 Sherman o ciò che ne restava. La carcassa annerita di un vecchio carro armato americano degli anni’40, sulla cui carena era ancora ben visibile la stella bianca

“Herr Vitelli?”

Una voce debole e stridula, proveniente dal fondo della sala, richiamò la loro attenzione

Sordi rumori si fecero sempre più vicini, come il ticchettio di un vecchio orologio morente.

Franz Von Stein apparve di fronte a loro reggendosi a fatica al suo bastone, mentre una signora corpulenta sulla quarantina lo sosteneva dal braccio.

“È un piacere conoscerla…” sussurrò in perfetto italiano “…questa è sua moglie? Frau Germanà, ja?”

“È lei” confermò Pietro mentre Antonella annuiva timidamente

“Mi hanno detto grandi cose di lei” riprese Von Stein stringendo la mano prima a Vitelli e poi a sua moglie “Spero siano tutte vere”

“Lo speriamo tutti” disse un uomo con spalle larghe e postura militare.

“Ingaggiarla è stato assai oneroso.”

“I soldi non sono un problema, Ludwig, non per me” lo redarguì il vecchio.

“Papà, devi capire che…”

“No! No! No! Sei tu che devi capire!” esclamò Von Stein volteggiando il bastone e puntandolo verso l’uomo dalle spalle larghe “Questa casa, questo carro, tutto ciò che vedi e anche quello che non riesci a vedere appartiene a me! E mi apparterà finché non tirerò le cuoia. Poi potrai sperperarlo come meglio potrai. Ma fino ad allora, taci e sta al tuo posto, chiaro?”

“Certo padre…” mormorò con freddezza Ludwig Von Stein abbassando lo sguardo

“Ed ora, Frau Germanà, il carro…”

“Il carro?”

“Lo valuti, su!” la invitò il vecchio Colonello

“Non ho competenze in questioni militari” si schermì Antonella

“Quando analizza una biga d’epoca imperiale lo fa perché si intende di ippica? No di certo. Lo fa valutandone il valore storico. Ed io questo le sto chiedendo…”proseguì il colonnello in pensione dando alcuni pugnetti alla carena ferrata dello Sherman “…quanto vale un carro americano della Seconda Guerra Mondiale, dal punto di vista storico?”

“Ebbene…” rispose Antonella dopo aver deglutito intimorita “…dovrei guardare gli interni.”

“Facciamolo subito!” esclamò Franz Von Stein schioccando le dita verso il suo maggiordomo “Aprilo”

Il maggiordomo raggiunse il carro portando con sé una scaletta di legno, vi salì, e cominciò maldestramente a maneggiare il cupolino dello Sherman

“Levati!” urlò a quel punto Von Stein spingendolo via e prendendo il suo posto sulla scaletta “Qui dentro devo fare sempre tutto io…”

Nonostante l’età e il fisico precario, il vecchio colonnello riuscì rapidamente ad aprire il cupolino del carro

“Eccoci qua…Così…Ma che cosa!?”

Un tonfo sordo squassò la placida calma della sala grande. Il vecchio trasalì, scivolò all’indietro e cadde rovinosamente a terra

Suo figlio Ludwig fu il primo a raggiungerlo, seguito poco dopo dagli altri ospiti, inclusi Pietro e Antonella.

“Papà, papà…” ripeté l’erede dei Von Stein agitando il padre privo di conoscenza, mentre il maggiordomo tastava il polso del vecchio

“Mio signore, Herr Von Stein è morto.”

“E non è l’unico” disse Pietro guardando con disgusto all’interno del carro “C’è anche lui”

All’interno dello Sherman giaceva senza vita Daniel Von Stein, secondogenito del colonnello e fratello minore di Ludwig

“Il signor Von Stein è morto di crepacuore” dissero qualche ora dopo i medici accorsi nella villa.

“Alla vista del cadavere del figlio il suo cuore non ha retto” commentò Antonella.

“Ok, il vecchio è morto di crepacuore. Ma Daniel? Com’è morto?” domandò Pietro al medico legale.

“Asfissia.”

“Asfissia?”

“L’hanno chiuso dentro il carro” rivelò il medico

“La morte risale a circa 24 ore fa” aggiunse il collega

“Quindi possiamo escludervi dai sospettati” intervenne il commissario di Polizia Paride Ferri

“Sia voi due che i partecipanti all’asta siete liberi di andare. Il signor Ludwig invece…” proseguì Ferri voltandosi verso il rampollo dei Von Stein, il quale era tenuto sotto torchio da diversi agenti.

“Crede sia stato lui?” chiese Vitelli al Commissario

“E chi altri potrebbe essere stato? I romani dicevano cui prodest, e qui l’unico che trarrà vantaggio dalla morte del padre e del fratello è proprio Ludwig Von Stein.”

“Sembra proprio uno dei tuoi romanzi” sussurrò Antonella a Pietro

“Nei miei romanzi però i morti sono finti. E alla fine si scopre sempre chi è stato.”

“Lo sappiamo anche adesso.”

“Ma chi, Ludwig? E’ troppo scontato…”

“A volte la vita lo è. Non dev’essere tutto colpi di scena e cliffhanger. A volte banalmente è il figlio rancoroso con la famiglia che stermina la famiglia per prendersi l’eredità”

“E il movente?” domandò ancora Pietro alla moglie.

“La villa, il carro, i pezzi d’antiquariato e il mezzo miliardo di franchi svizzeri del vecchio sono un ottimo movente.”

“E tutte queste cose le avrebbe comunque ricevute. Se non oggi, tra qualche mese o anno. Era già l’erede universale dei beni del padre. Perché ucciderlo e rovinarsi con le proprie mani?”

“Stupidità?”

“Forse. Oppure…”

“Molto bene signori Vitelli, questa è una scena del crimine”li interruppe Paride Ferri.

“Dovreste andarvene, lasciate fare alla Polizia.”

E così fecero, lasciarono fare alla Polizia. La quale incriminò Ludwig Von Stein per l’omicidio del fratello Daniel, e sequestrarono tutti i beni del vecchio Franz

Il processo andò avanti per mesi, divenendo appuntamento fisso sulle prime pagine dei principali giornali, sia tedeschi, sia italiani, e si concluse con la condanna di Ludwig Von Stein a 26 anni di carcere, da scontare in Germania, sua patria d’origine.

Pietro e Antonella dimenticarono quel caso, proseguirono con le loro vite, affrontarono altri casi altrettanto se non più articolati.

Finché un giorno, a bordo della loro 500 Nera Dolcevita non udirono alla radio che il testamento di Franz Von Stein era stato miracolosamente ritrovato proprio il giorno successivo alla chiusura del processo di Ludwig.

“Con un colpo di scena degno del miglior thriller hollywoodiano, il testamento del magnate Franz Von Stein, morto di infarto due anni fa, è riemerso tra le carte dell’ufficio ormai abbandonato dell’ex colonnello della Wermacht, gettando un’ombra sinistra sul metodo investigativo del Commissario Ferri”

“Lasciate fare alla Polizia” lo schernì Pietro.

“Zitto! Lasciami ascoltare” lo redarguì Antonella alzando il volume della radio.

“Dal testamento, emerge la figura di Thomas Kramer quale unico beneficiario delle ricchezze di Von Stein.”

“Thomas Kramer? Chi è Thomas Kramer?” si domandò sua moglie.

“Il maggiordomo di Villa Von Stein sarà felice di sapere che l’uomo che per tanti anni ha accudito, si è rivelato essere così generoso nei suoi confronti.”

Pietro ed Antonella si guardarono per qualche secondo, poi scoppiarono a ridere sguaiatamente.

“Allora è vero che il colpevole è sempre il maggiordomo…”

Giuseppe Libro Muscarà

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Parigi degli intelletti

Due amanti. Lui e lei. Vuoti, corpi miseri intrecciati, incastro perfetto.

Era Parigi, in una delle stanze sui tetti. Un piccolo appartamento polveroso, disordinato, rifletteva la casualità di quell’incontro. Due singoli a cui piaceva vincere o sapere di avere ragione. E fu una lotta senza il desiderio di distruggere l’altro.

Non era la città degli amanti, del romanticismo, dell’amore puro. Era la Parigi degli intelletti, la festa mobile cantata da Hemingway. E loro amavano di un amore narciso, a tratti egoista. Amavano sapere di essere ammirati, ascoltati.

O forse non amavano affatto, ma trovavano un senso strano di appagamento nel riempire le loro menti di strani giochi, parole combinate che loro stessi afferravano a fatica.

Lei era smarrita, distratta, tratta lontano dal mondo e da se stessa, non più messa a fuoco. Si cercava nel posto sbagliato, usando gli altri come specchio per ritrovare il riflesso che più le faceva comodo. Giocava a fare finta di sapere la direzione, ma guardava la bussola sbagliata. In lui aveva trovato il riflesso di quello che sperava di essere, ma sapeva di non essere mai stata davvero.

Tra loro non c’era mai silenzio quando erano anime. Poi diventavano corpi, muti, che si rincorrevano nel ricordo dei discorsi infiniti.

Erano in una Parigi che è stata, che non è più, sulle tracce di amori proibiti e di relazioni profondamente effimere, radicate nell’alchimia tra le menti. Non vi era amore neanche tra i più grandi… era forse una profonda ammirazione o la brama di possedere l’altro e rubare ciò che di buono c’era.

Due individui, separati, girovaghi tra la polvere dei ricordi, tendando di rincorrere o provare ad afferrare qualcosa che fugge senza sosta. Il passato, le memorie, i ricordi: denti di leone che si sgretolano appena ci si avvicina con troppa foga.

Erano solo corpi che percepivano loro stessi e che si erano trovati per caso o per fortuna in una delle stanze sui tetti. Nessuna domanda, nessun significato. Solo la Parigi degli artisti e due corpi che si cercano nei vuoti dell’opposto.

Giulia Cavallaro

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

The Legend of Zelda: un racconto

Il fuoco bruciava davanti ai suoi occhi e il calore che emanava cominciava a conciliargli il sonno.
La foresta in cui si trovava era a nord del castello del regno, al confine con le terre innevate ad ovest. Era arrivato lì dopo aver attraversato tutta piana delle terre centrali: chilometri di prateria e piccoli boschetti di mele. Si era procurato un po’ di carne dai cervi che abitavano lì, ma ora era quasi finita e rimanevano ancora tante terre dove ricercare indizi.

Forse è meglio partire all’alba, i mostri spawnano di notte
(A)BIVACCA?    (A)SI      ALBA?   (A)SI

Si disse che forse sarebbe stato meglio aspettare la notte davanti al fuoco e non affrontare i pericoli notturni. La mattina dopo si alzò e camminò fino alla cima della collina su cui si trovava: gli alberi non crescevano lì ed aveva una visione chiara di quello che aveva davanti. Ad ovest le montagne da cui arrivava il freddo vento d’inverno, ad est il vulcano, da cui avevano smesso di uscire i fumi: una nebbia scura copriva tutta la cima, la stessa che era eruttata da sotto il castello mesi prima.
Doveva rimettersi in cammino, ma gli serviva una pista da seguire. I suoi occhi cominciarono a scandagliare il paesaggio più a fondo.

La mappa mi dice che da qualche parte qui vicino dovrebbe trovarsi una grotta. Ma come cavolo ci arrivo?
Mi servono altri due indizi prima di sapere dove sta la principessa.

Alla sua sinistra verso il basso la foresta si apriva verso una piccola rientranza in una parete rocciosa. Decise di andare a vedere.

Devo calarmi con la paravela, in linea d’aria il percorso è più veloce.
AVANTI                               (X)SALTA             (X)PARAVELA   

Prese la rincorsa e cominciò a correre verso il vuoto. Si lanciò. I suoi piedi persero contatto col terreno e l’aria cominciò a fargli lacrimare gli occhi. Con un rapido gesto aprì il piccolo paracadute che conservava sulla schiena e cominciò a librarsi nell’aria. Il vento gli sbatteva in viso e doveva fare parecchia forza con le braccia per tenere fermo il telo che la faceva planare.
Arrivato nei pressi della parete che aveva notato cominciò a calare verso il suolo, e ad addentarsi tra gli alberi. Notò una piccola apertura coperta da rampicanti.

Lo sapevo! C’era per forza qualcosa qui, ce l’avevano messo sicuro. Guarda che ora solo per intuito riesco a risolvere un enigma. Vediamo un po’ che cosa trovo dentro a questa grotta

Si addentrò verso l’apertura.

NUOVO SITO SCOPERTO: GROTTINO DEL BOSCO REALE

Da dentro giungeva uno strano suono, come un sussurro: avrebbe fatto leggermente accapponare la pelle a chiunque, ma lui estrasse la spada e tagliò via le piante che stavano ad ostacolo.
Entrando il buio lo accerchiò.

Fammi prendere un seme che non si vede nulla qua dentro
(+)MENÙ            SEME     (A)SELEZIONA

Tirò fuori dallo zaino che aveva sulle spalle un seme luminoso, gli diede una forte botta e questo sbocciò in un fiore illuminandosi. Lo alzò in aria per fare luce. La grotta continuava senza fine.

Scusa, ma come fa a continuare così tanto? Dove cavolo arrivo adesso?

Continuando ad esplorare trovò covi di pipistrelli di cui dovette disfarsi e rocce enormi che bloccavano il cammino. Continuò ad andare avanti, il sussurro adesso era diventato una flebile voce.
Più andava avanti e più sentiva vicino l’obiettivo: forse qui non si trovava solo un altro indizio, forse qui era nascosto qualcosa d’importante. Doveva continuare ad andare avanti.

Mamma mia, non finisce più questa grotta. Dove cavolo sono finito. Guarda che c’hanno messo qualcosa di grosso qui, me lo sento.

Spostò un altro masso, con ancora più fatica dopo essere arrivato così in fondo e si trovò davanti una lastra di pietra perfettamente rettangolare con un buco al centro. Sembrava quasi…

Ci sta una serratura qua, è una porta! Fammi pensare, fammi pensare. Finora qui non mi hanno dato niente per aprirla. Non riesco a capire come fare.

La voce si fece ancora più intensa e proveniva da oltre la parete. Appoggiò una mano sulla roccia e la voce si innalzò scuotendo leggermente le mura. Questa volta non fu qualcosa di intellegibile, ma solo il rimbombo di una voce profonda che parlava in una strana lingua.
La spada dell’avventuriero cominciò a vibrare leggermente nell’elsa. La estrasse e la vide illuminarsi di una flebile luce blu.

Ho capito!

La spada rientrava perfettamente nel buco dentro la roccia. La inserì e la lastra sembrò svanire come nebbia facendolo passare attraverso.
Dopo un piccolo corridoio, arrivò in una stanza dal soffitto basso con uno scrigno al suo interno. Appoggiò il fiore luminoso per terra e aprì lo scrigno: una singola collana e un biglietto.
Sulla piccola pergamena un messaggio.

NUOVO OBIETTIVO: RITROVA IL DIARIO DELLA PRINCIPESSA

Lo sapevo che dentro c’era qualcosa d’importante, lo sapevo! Ora toccherà vedere dove staranno le altre pagine, magari ce ne sta uno nei sobborghi del castello…

Prese l’amuleto e se lo mise al collo, sentendo un impulso guida che gli mostrava immagini di altri luoghi del regno. Prese la mappa dallo zaino e la mise per terra sotto la luce del fiore: segnò alcuni luoghi che potessero corrispondere alle immagini e richiuse la pergamena. Riprese tutto addosso e si incamminò di nuovo fuori dalla grotta.

All’aria aperta il vento gli soffiava sul viso ed una brezza frizzante gli diede l’impulso a rimettersi in cammino.

Vediamo dove andare adesso.

Matteo Mangano

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Gli amanti

Secondo me la scrittura ha un bellissimo potenziale. Puoi rendere speciale la vita di chiunque e rendere indimenticabile la più piccola delle cose. Ora devi solo immaginare.

Sotto l’acqua di una cascata, immersa nella natura nel silenzio più assoluto una donna si lava.
L’acqua scorre sulla sua pelle, attraversa tutte le sue curve.
Sebbene sia giugno, l’acqua è fredda e le fa venire la pelle d’oca dappertutto.
La donna sembra pensierosa e l’acqua sembra lavare via ogni pensiero, anche quello più sporco, anche quello più triste.
Un uomo la vede, si nasconde e inizia ad osservarla… lei è rivolta di schiena, sposta i lunghi capelli neri da un lato, gira un po’ il viso dal lato opposto e inizia a sorridere gioiosamente perché l’acqua che scorre le provoca un piccolo solletichio, si sposta e lascia che l’acqua scorra sui seni.
I seni sono piccoli e sodi, l’acqua quasi gelida le fa diventare i capezzoli duri, lei continua a sorridere come se avesse spezzato la tristezza.
L’uomo è ancora là, la osserva… come si fa a non guardare tanta bellezza? La pelle candida della donna lo ha letteralmente abbagliato. Ma non solo: il sorriso, la schiena, la vite sottile, i larghi fianchi dove le gocce d’acqua che scorrevano sembravano tante piccole carezze, fecero venire sete all’uomo. Per qualche strana ragione lei si girò e lo vide, aveva uno sguardo un po’ perplesso mentre lui si era preso di imbarazzo, stava per andare via quando lei lo chiamò.
L’uomo senza neanche riflettere tolse i vestiti ed entrò in acqua. Si avvicinó delicatamente, come se sapesse che un gesto brusco l’avrebbe fatta andare via. Non appena l’uomo le fu vicino, iniziò ad osservarla meglio: gli occhi neri della donna lo avevano incantato. Le giró attorno quasi scrutandola, lei rimase immobile.
Lui si fermò dietro la donna, si prese di coraggio, e molto dolcemente posó le labbra sulla spalla di lei. Lei divenne immobile, il respiro le si era bloccato, e lui che se ne rese conto, l’avvolse tra le braccia. E dalla spalla spostò le labbra al collo ed iniziò a baciarlo, di colpo voltò la donna e la strinse forte a lui. Osservava gli occhi grandi e cercava di scoprire qualcosa, ma quello che vide fu solo un ardente fuoco. Lei si abbandonò a quell’abbraccio e i due si fecero sempre più vicini fino a quando avevano la distanza di un respiro. Iniziarono a baciarsi. Lei mise le sue braccia attorno al collo di lui e lasciò scivolare una mano sulla schiena di lui, mentre l’uomo curioso scopriva il corpo di lei con mani e bocca.
Dalle labbra scende al collo, e dal collo ai seni, e mentre la bacia lascia le mani ad esplorare e scoprire quel corpo.
Lei trema: non aveva mai provato niente del genere mentre lui, lui non aveva mai trovato il sapore dell’acqua così dolce.
Questo è il gioco degli amanti.

Rachele Salvà

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Pietà

Edvard Munch – L’assassino

 

L’estate irrompeva in paese imponendo i propri umori e scacciando la gente verso i vicini borghi montani. Vittorio osservava le strade inondate dal sole attraverso l’ampia vetrata della sua stanza. Ciò che riceveva da quella vista era un impressione che, come ogni anno, lui stesso faticava a decifrare – un misto d’orrore, letizia, tristezza. Vittorio era senza dubbio un uomo pratico, e come tutte le persone pratiche era dotato di scarso senso dell’umorismo; la natura, in cambio, lo aveva in qualche modo risarcito di quella grave mancanza donandogli una robusta intelligenza intuitiva: riusciva a indovinare esattamente e con facilità quale fosse il rimedio adatto a ogni turbamento dell’anima, che si trattasse dell’anima propria o di quella d’altri.  Sapeva dunque che quello specifico sentimento così ricco e ambiguo che andava sperimentando col primo caldo estivo aveva come unico rimedio una visita al bar di Franco.

Insomma, a Vittorio piaceva bere un bicchiere o due, soprattutto nel periodo della “mestizia”, come piaceva erroneamente definirla alla madre di lui.

Franco possedeva un piccolo bar alla periferia del paese. Tra i lecci e profumi di ragazze era piacevole starsene seduti sugli sgabelli malconci la sera – e Franco, se non proprio un amico, era quantomeno un conoscente con cui ci si poteva permettere qualche confidenza. A notte inoltrata, quando anche l’ultima clientela era fuori a godere della propria ebbrezza alla luce dei lampioni, Franco avvicinava Vittorio con un cenno del capo e serviva da bere a entrambi. Vuotato il bicchiere, restava dietro al bancone con un espressione quasi artificiale, e quando finalmente parlava era impossibile capire se fosse serio o scherzasse. Vittorio era affascinato e al contempo inquietato dalla persona di Franco. Era come se le proprie paturnie avessero in quei giorni una forza tale da autoproclamarsi indipendenti dal corpo e dalla volontà di lui, e che avessero corpo proprio, voce propria, volontà propria. Elementi questi che condensavano nella figura di Franco. Parlare a quattr’occhi con lui, con l’impulsività e la stolida fluidità che solo l’alcol è in grado di concedere, era evidentemente per Vittorio una sorta di catarsi in quei periodi.

Una sera accadde qualcosa che non è giusto definire spiacevole. Non importa riportare esattamente il giorno e l’orario. I fatti e la loro realtà sono tutto ciò che conta. Vittorio si trovava su uno degli sgabelli malconci a riflettere pigramente su qualcosa di indefinito, come se nei meandri della sua mente fosse presente un’idea capricciosamente restia a svilupparsi e manifestarsi con completezza. A un tratto la sua attenzione venne richiamata da un movimento sul muretto di fronte: in un forsennato dibattersi di minute zampette una piccola vespa si trovava col ventre pietosamente rivolto al cielo. Un gruppo di formiche si era raccolto attorno alla malcapitata, ed evidentemente si apprestava a consumarne le carni ancora vive e recalcitranti. Vittorio ebbe l’impressione che quell’essere sofferente, la cui impotenza era al contempo pietosa e nauseabonda, implorasse il suo aiuto. Provando una cocente quanto inspiegabile vergogna decise di affrettarsi al bancone. Non ordinò nulla. Pagò il conto, salutando con un cenno Franco. Tornando a casa ebbe l’amara impressione che non sarebbe più tornato in quel bar dagli sgabelli malconci, e che non avrebbe più rivisto né Franco, né le ragazze fresche e disinibite, né lo spettacolo crudele del desinare delle formiche. La notte passò lentamente, in un turbinare di pensieri e immagini di cui Vittorio non ebbe più ricordo al risveglio. Nei giorni seguenti quello che era sempre stato un senso ambiguo di inquietudine ed eccitazione si tramutò in un’angoscia insonne e scivolosa. La logica praticità di cui aveva sempre beneficiato sembrava ormai non trovare più espressione. L’immagine della vespa impotente affollava intrusivamente i suoi pensieri già dal primo mattino senza che vi si potesse trovare valido rimedio. Anche la madre iniziava a notare con profonda apprensione mutamenti nel suo comportamento: non usciva praticamente più di casa, rifiutava il cibo e iniziava ad assumere una strana espressione nel viso pallido, come di chi tace a fatica un gravoso senso di colpa. In realtà albergava nella tormentata mente di Vittorio una viva produttività intellettuale: non potendo più ignorare i pensieri, aveva iniziato a processarli con metodicità e a metabolizzarli poco per volta, come farebbe l’organismo con un veleno potente ma ben diluito. Si faceva in lui sempre più forte la sensazione che quella sera gli fosse stata rivelata una verità superiore, che coinvolgeva profondamente l’intero universo. Iniziò a riflettere a lungo sui modi e i motivi dell’alimentazione, trovando assurdo che un essere dotato di ragione e compassione potesse condividere la medesima brutalità con le dissennate formiche, coinvolgendo nella propria sopravvivenza la sofferenza e la morte d’altre forme di vita. La soluzione si affacciò alla sua mente in modo semplice e spontaneo: se si voleva davvero evitare la sofferenza di altri esseri viventi, bastava non coinvolgerli. Lieto di essersi riconciliato con la sua proverbiale praticità, decise che non avrebbe più consumato carni animali. Iniziò così un periodo di esaltante novità, e non solo dal punto di vista alimentare. Prese ad informarsi sul vegetarianismo e le sue ragioni. Si dedicò avidamente alla lettura di saggi di sociologia e testi mitologici che avevano come oggetto déi antichi e i luoghi da loro concepiti, privi di violenze o affanni. Quando Dio non era ancora appannaggio di un cieco antropocentrismo, la sua esistenza era interpretata alla luce della manifestazione di tutte le forme – viventi e non. Dio padre era cielo, vento, grano, lupo. Questi pensieri rafforzavano le nuove convinzioni di Vittorio. L’appetito (prima di allora in realtà molto scarso a causa di una mancata propensione al buon gusto culinario) era vigoroso e puntuale: riusciva a consumare abbondantissime porzioni di legumi, ortaggi e frutti tre volte al giorno, ingurgitando tutto velocemente e con piacere. La madre era contenta, Vittorio era sempre stato un ragazzo un po’ astenico: da bambino era di salute assai cagionevole e dal temperamento melanconico. Era abituata alla “mestizia” estiva, ma mai come quell’anno lo aveva visto turbato, e il ritorno (o meglio, l’esplosione) dell’appetito bastava a rassicurarla. E poi aveva appreso che Vittorio aveva voglia di uscire e magari passare dal bar di Franco, altro segnale che valutò positivo. Donna semplice e ormai sulla soglia della senilità, aveva vissuto tutta la vita in paese e non avrebbe potuto fare altrimenti. Pur non potendosi rimproverare nulla, covava ormai da tempo nel suo cuore di madre il sordo senso di colpa di chi attende in silenzio il manifestarsi di un dramma latente e inevitabile, senza avere i mezzi per comprendere appieno le delicate dinamiche degli eventi.

Vittorio uscì in tarda serata e decise di godersi ogni metro del viale alberato che conduceva da casa sua alla vicina piazza barocca; poi da lì avrebbe disceso una lunga scalinata in pietra lavica giungendo infine alle case antiche del paese, molte delle quali disabitate. Il bar di Franco si trovava a circa 500 metri in direzione della litoranea, alla periferia sud del paese. Giunto sul posto trovò il locale praticamente vuoto. Solo Franco dietro il bancone e una coppia seduta fuori erano rimasti a rappresentare i superstiti del caldo umido e appiccicoso di quelle sere. Franco lo accolse con la solita espressione cordialmente impersonale, e Vittorio fu lieto di rivederlo; ordinò una media alla spina e si mise a sedere al bancone. Il brusio della coppia all’esterno del locale si mescolava dolcemente al suono aspro del ventilatore posto vicino alla cassa. A un tratto la ragazza rise di gusto, di un riso dolce e vivace che inondò il locale vuoto. Franco aveva smesso di fissare con lo scarso interesse che contraddistingueva ogni sua attività la piccola televisione fissata al muro. Ora guardava Vittorio con una curiosità che non gli si addiceva. O almeno, a Vittorio non piacque quello sguardo. Così prese a raccontare a Franco del suo radicale cambiamento in materia di alimentazione, quasi senza volerlo, come mosso dalla necessità di sviare dal proprio volto l’attenzione muta e indagatrice di Franco. Questi ascoltava con molta attenzione. Quando Vittorio ebbe concluso, Franco si limitò a sorridere e tornò a guardare con blando interesse le immagini che scorrevano sullo schermo. Vittorio provò un fremito di rabbia.

Cosa significava quel sorrisetto? Possibile che Franco non condividesse le sue nuove visioni sul mondo e sull’etica? Del resto era ovvio, come potrebbe comprendere l’importanza di preservare la vita delle altre creature chi si guadagna da vivere avvelenando le membra e le menti di altri uomini. Vittorio lasciò una banconota da 5 euro al bancone e uscì senza salutare. Alle risate della ragazza si aggiunse la voce di un altro, che adesso trascinava rumorosamente una sedia e si univa al tavolo della coppia. Vittorio camminò verso casa affrontando il caldo. L’onta gli arrossava il volto e gli gonfiava le vene alle braccia. L’idea per lui inaccettabile consisteva in una nuova e quanto mai dolorosa presa di coscienza: le sue nuove visioni erano profondamente ipocrite, se non del tutto assurde. Le piante che egli avidamente consumava erano anch’esse forme di vita. Che il riso di Franco stesse a sottolineare proprio questo? Tornato a casa fu colto da un malore. Gettò nella pattumiera ciò che era residuato dalla cena e si mise a letto. Il giorno dopo avrebbe iniziato a cibarsi di sola frutta. Anzi, non avrebbe consumato neanche quella, visto che in essa era il seme di una nuova vita. Un anno dopo il sole batteva cocente sui muri delle case. La madre di Vittorio si era svegliata da una notte agitata benché priva di sogni. L’estate era tornata e aveva nuovamente trascinato con sé profumi e calore. La donna diede un’occhiata al piccolo orologio che era appartenuto a Vittorio e che adesso lei custodiva gelosamente sul comodino accanto al letto. Si chiese se fosse possibile che alla morte del corpo potesse sopravvivere l’anima, e con lei la mestizia del suo adorato Vittorio. Ricordò l’incarnato chiaro e la dolcezza torva del suo sguardo e la pietà che aveva provato nei confronti dell’universo, ma che adesso non gli veniva ricambiata dai vermi che banchettavano con le sue carni. Si alzò dal letto, erano le 7 del mattino.

Fabrizio Bella

L’interrogatorio di un viandante sull’amore

Cammino per strada e non riesco a smettere di pensarci. Continui flashback attraversano la mia mente, senza darmi tregua. Ci sei tu, ci sono io. Ci siamo io e te a ridere di una giornata che proprio non vuole saperne nulla di andare bene, ci siamo noi a fissare il soffitto con un sorriso ebete stampato in faccia. Quante volte ti ho detto che quel sorriso ti faceva più ragazzina, e tu nemmeno ci credevi.

E poi ci sei tu che gridi e piangi e io che grido più forte, chissà su quale legge animalesca si fonda l’idea che, alzando la voce, l’altra persona smetta di parlare. Mi si è gonfiata una vena sul collo, era tanta la rabbia.

Continuo a pensarci, guardando i fari delle macchine sulla strada, nella speranza di trovare il sassolino nella scarpa che fa camminare male, quell’arancia amara che ti ha guastato tutto il pranzo, il quadro storto che per quante volte potrai drizzarlo tornerà sempre a inclinarsi, oppure la canzone sbagliata in radio che un po’ l’umore te lo cambia. E questi fari mi fanno sentire un po’ sotto interrogatorio, sono innocente, commissario, però le cose si fanno in due quindi un po’ è anche colpa mia. Mi capisca commissario, io proprio non lo so … qual è il momento esatto in cui l’orologio fa Dong, e cosa fa, l’orologio, nella restante mezz’ora prima del Dong? È felice, forse.

Davanti a me vedo una coppia e lei ha una rosa in mano. Chissà se se lo immaginano che prima o poi litigheranno fino a odiarsi, chissà se in cuor loro sanno che alla fine ritorneranno insieme, chissà se anche lontanamente immaginano tutto il male che in futuro si faranno.

Mi sento quasi in dovere di avvertirli, lasciate perdere tutto, anche le rose. A che servono? Tanto marciscono.

La verità è che a marcire siamo stati noi.

Sentimenti … sentimenti … non ne provo nessuno, li ho gelati tutti. Sono diventato egoista, ecco tutto. Mi sento felice solo per me stesso, è questa la verità. E per una volta, nella vita, ho tutto il diritto di essere egoista per quanto mi pare e piace. Si, sono un insieme di rabbia e cinismo, forse. E ora basta, non voglio saperne niente, d’ora in poi ci sarò io il calcio, qualche porno, birra come se piovesse … è d’accordo con me, commissario?

Sono rimasto solo, ancora. Fisso le vetrine dei negozi che stanno per chiudere, sono le 21 e francamente me ne infischio (diceva qualcuno).

Che voglia di andare al cinema, almeno starò un po’ al calduccio a rilassarmi, però che pizza ci sarà sicuramente una coppia. Ma ovunque io possa andare, ci sarà sempre una coppia. Forse devo cambiare casa. Ma che sto dicendo? Vedi un po’ se devo cambiare casa per colpa di quella stronza che nemmeno vive lì, solo per non rivedere più i fantasmi di me e lei felici.

Conosco gente che si lascia e riesce a rimanere amica, o ancora gente che si lascia e, dopo tanto soffrire, riesce a ricominciare da capo e tornare insieme.

E allora perché, io e te, non riusciamo nemmeno a guardarci in faccia? Perché dobbiamo evitarci? Dividerci i luoghi o gli amici?

Perché non meritiamo di essere felici?

Perciò adesso, su questa strada e con tutti questi fari puntati contro di me, non riesco a spiegarmi come siamo arrivati a questo …

Tornerò ancora ad amare?

Lo giuro, commissario, mai più. Anzi, ritiro tutto. La prossima volta starò più attento. 

Sì, sto mentendo, lo so. A presto.

Serena Votano

Messina 1908 – 2018. La storia di un grande evento, il nostro

Orologio fermo alle 5.20, ora esatta dello scatenarsi del sisma della mattina del 28 dicembre 1908 (foto scattata nel già 1909)

Cosa fu, chiese il figlio al padre, aspetta disse il padre al piccolo.

Queste, silenti, brevi e semplici parole alle 5.15 di quella fredda mattina.

Soltanto cinque minuti dopo, nel momento in cui il bimbo stava per riprendere sonno, ad un tratto un boato, eccola, l’ira funesta della madre terra, che sprigionò tutta la sua forza laddove niente fu come prima. 

Tutto diventò altro, un tutt’uno tra inferno e paradiso, tra cielo e terra, tra acqua e fuoco, tra vento e quiete.

Messina subiva quello che noi oggi conosciamo come l’evento sismico più potente della nostra storia recente, uno di quelli che raggiunse il 7° grado della scala Mercalli, uno di quelli che vorresti essere nato in altro luogo del pianeta al solo pensiero.

Carmelo, questo il nome del bambino, si trovò dalla sua cameretta, dove discuteva col padre, a venire estratto dalle macerie della loro casa, del loro plesso, del loro rione. Quelle voci, quelle grida e quei lamenti, Carmelo li sentiva come fossero un sogno vissuto realmente al quale non diede molto peso, tanto in fin dei conti da lì a poco si sarebbe svegliato, pensò in cuor suo, per cui perchè preoccuparsi più di tanto…

Si rese conto nemmeno pochi istanti dopo che non era un sogno ma una realtà viva, attuale, vera più che mai. Lì iniziò a vedere con gli occhi di un bambino, quale lui era, tutto il dramma della vita: corpi riversi sotto i solai, sotto le travi e mobilia, mobilia ovunque, specchi rotti, legna, pietre, tantissime pietre, tutte le pietre del mondo dirà negli anni seguenti nei suoi racconti monotoni per i quali sarà financo schernito dalle future generazioni. 

Particolare degli interni di un appartamento in via Fossata nel 1909

 

Correva l’anno del Signore 1908 in quel di Messina, gia sede di provincia e prima tra le quattro città di distretto configurate nell’ottica borbonica dal punto di vista amministrativo. In ordine di importanza queste le quattro città già demaniali e di distretto in un tempo precedente: Messina, Castroreale, Patti e Mistretta.

Carmelo era figlio di quel tempo, figlio di quella terra ovvero di questa nostra stessa terra, Messina, la Sicilia, la nostra isola.

Diranno alcuni, figlio delle terre al di là del faro.

Così venivano intese infatti tutte le zone della Sicilia che non si trovavano “al di qua del faro” in cui ricadevano, geograficamente parlando, i centri della Calabria. Una dicitura già presente all’epoca borbonica e riportata per abitudine descrittiva nei vari passaggi di regno e/o annessioni territoriali.

Come lui, altre piccole anime, le quali nulla chiedevano, se non vivere a casa loro, in quella che era la loro città, tra quella che era la loro gente. Le Regie Poste, gli uffici amministrativi, abitazioni, statue, rioni, caseggiati, strutture ecclesiastiche e chi più ne ha più ne metta, andarono sgretolati nel giro di soli 37 secondi, interminabili e da nessuno mai pensati.

E’ vero, dirà qualcuno anni dopo, nel corso dei secoli altri furono i terremoti gravi ancor prima del 1908, basti ricordare uno su tutti il cosiddetto “terremoto di Castroreale dell’inizio del secolo 700”, 5.4 della scala Richter che colpì per forza di cose anche la città di Messina o i vari terremoti di Calabria dove ancora e sempre Messina per la vicinanza geografica ne subiva gli effetti non di poco conto.

Tornando al ricordo limpido del piccolo Carmelo, durante i mesi a ridosso del tragico evento cominciò a carpire cosa si stesse facendo e come si stesse operando. Fu preso in carico da alcuni parenti rimasi miracolosamente illesi durante il sisma e con loro alla fine crebbe negli anni successivi, almeno fintanto che non raggiunse la maggiore età e decise di proseguire la sua giovane vita, da messinese, impegnandosi nel sociale e mettendosi al servizio della sua comunità. Altri ancora, che il piccolo Carmelo lo conoscevano bene, dissero che alla fine diventò un infermiere prestando la sua opera in quel che fu poi per tutti la culla della sanità messinese. Carmelo, cresciuto da questi parenti, passava i pomeriggi a guadare come pezzo per pezzo nasceva il già Regio Ospedale Piemonte, per molti inteso Ospedale Civico, che fu interamente finanziato dal comitato piemontese che con la ingente cifra per quel tempo di lire 600.000, contribuì alla costruzione di uno dei primi plessi presenti in città interamente pianificati in cemento armato.

Ospedale Piemonte visto da sud ( il suo retro) anno 1911

 

E’ chiaro che tra le macerie e il legname che regnava in quel periodo, il cemento armato fu subito visto come soluzione risolutiva ai possibili futuri problemi sismici e quale azione lungimirante per un prosieguo di vita “normale” e ancor più vissuta in piena sicurezza. L’ospedale Piemonte, racconterà negli anni ancora il piccolo Carmelo, raccolse l’eredità del Grande Ospedale di Santa Maria della Pietà, edificato a partire dal 1542, sull’area dove oggi sorge il Palazzo di Giustizia.

Messina con difficoltà oggettive cercò fin da subito di risollevarsi come sempre nei secoli seppe fare, ma qui le cose andarono a rilento. Il Governo del tempo, visto e considerato che molti uffici amministrativi, sia comunali che provinciali andarono distrutti e venne persa molta documentazione pubblica, ordinò il trasferiemento a tempo indeterminato (e fino a revoca governativa) degli stessi in quel della Città Regia del Castro Regale (attuale Castroreale), al tempo rientrante già nella provincia messinese.

Fu così, Carmelo raccontava ai prorpi assistiti durante lo svolgimentio del proprio lavoro, che Castroreale venne designata quale sede di provincia, sostituendosi subito dopo il 1908, di fatto, alla vicina ed amica Messina, accogliendo moltissimi esuli messinesi con le loro famiglie al seguito.

Carmelo crebbe, e con lui, anche la sua passione per la storia, la storia della sua terra.

Pensa un po’ , in un giorno di ordinario suo lavoro disse ad collega, anch’egli appassionato di storia locale; sapevi che il pulpito del nostro duomo fu distrutto dal sisma del 1908? e ricostruito sulla copia esatta di quello presente nel duomo monumentale di Castroreale?” No! rispose il collega, sapevo che l’originale ancor prima era il nostro messinese e che sulla base del nostro fu copiato a Castroreale.. E sai bene”! aggiunse Carmelo, e fu fortuna che Castroreale precedentamente lo copiò esattamante dal nostro, perchè nel terremoto del 1908 qui da noi, il nostro andò distrutto e l’unica copia fedele esattamente uguale restò in originale proprio quello di Castroreale! Da questo fu ricopiato l’attuale presente nel nostro duomo ovvero nella Cattedrale di Messina.  Per bacco! rispose il collega; e aggiunse: ma tu tutte questa cose come fai a saperle? Sembri più uno storico che un infermiere! Curiosità, disse Carmelo, semplice curiosità e abbassando lo sguardo aggiunse: io ero piccolo, e la più piccola pietra che allora sentì sul mio corpo mi impose e mi portò alla conoscenza, a scoprire, ad essere interessato ad essa, perchè se non lo fossi stato, tu stesso saresti rimasto all’oscuro su ciò che fu ed è la tua storia e la tua storia caro collega è la tua vita, il tuo nettare, la linfa per dare un futuro alle nuove generazioni. Magari un dì in questa misera vita, visitando te, i tuoi tardi nipoti, verranno devoti dove spento e sepolto sarai, ma verranno consapevoli di aver appreso da te un pezzeto di storia in più sulla loro terra, sulla loro zona e sulle loro vicende. Non credi?

Facciata del duomo di Messina distrutta

Il collega rimase perplesso, non sapeva che Carmelo vide il padre e la famiglia morire sotte le macerie e non sapeva, non poteva carpire la forza che aveva avuto a risollevare i ricordi da quelle stesse macerie, anche soltanto la storia, una di quelle che umilmente rimase ad ascoltare, accettando però l’idea che “bisogna passarci per capire” e mai sottovalutare e schernire gli effetti di una tragedia altrui.

Questo il tributo per i 110 anni dal tragico terremoto che colpì la nostra città, la nostra gente e i nostri luoghi più cari.

La Redazione Cultura Locale coglie l’occasione dell’anniversario del terremoto per ricordare l’importanza della prevenzione e della cultura della sicurezza in ambito sismico ricordando a se stessa per prima che puntare sulla conosenza del rischio, sulla formazione della cittadinanza e quindi della società civile, rappresenta la differenza tra rischiare e rimanere illesi in caso di possibili futuri drammi, che noi tutti ci auguriamo mai più accadano, ma che certamante devono far riflettere sulle decisioni e progettazioni urbanistiche dei prossimi anni.

Auguri per un sereno e felice nuovo anno e arrivederci con nuove storie, vicende da quel ed in quel di Messina.

Fonte immagini: pagina Facebook Messina Antica

Filippo Celi