Dieci racconti, dieci punti di vista sulla città. “Cara Messina ti scrivo…”

Attribuire il valore ad una città servendosi della scrittura. Giovanni Pascoli, citato ad apertura del volumetto, diceva: “dove è quasi distrutta la storia resta la poesia”.

In questi dieci racconti che si susseguono a guisa di snodi di un’unica, fondamentale, rappresentazione, drammatica e dialettica, della vicenda umana, le trame si organizzano per dare tutte risalto ai diversi modi di percepire l’ambiente in cui si muove affannosa l’esistenza.

Pubblicata nel 2013 per La Feluca Edizioni, casa editrice fondata dai fratelli Buttafarro, la raccolta miscellanea è articolata secondo un principio cronologico che parte da un quotidiano familiare e risale alle cronache perdute nelle macerie dei violenti terremoti fino a sconfinare nel mito di un lontano passato. Dieci scrittori di Messina convogliano la fantasia per offrire materia verbale ai pensieri e le memorie che agitano coloro che vivono o ritornano da lei. “Se questa città davvero la sia ama, bisogna avere l’animo di non abbandonarla al suo destino” afferma nella prefazione Giuseppe Ruggeri. Inseguendo tale desiderio si sviluppa Cara Messina ti scrivo... Gli scrittori, molti professionisti, insegnanti e medici, hanno dedicato ciascuno un tassello per restituire l’amore che li lega alla città. Non è un caso che queste sponde appaiano fin dall’atto di nascita di tutte le letterature, dalla vedetta dell’albero maestro della nave di Odisseo, un tutt’uno con la parola e il canto, e che Messina sia stata scelta da numerosi scrittori, in epoche più o meno vicine ai giorni nostri, come un faro che stringe nel suo abbraccio il prodigio di una natura affascinante e catastrofica.

Ad un tavolo all’aperto dell’Irrera, di metallo, con intorno quattro sedie pure di metalo, come si usava nei bar, un ragazzo ed una ragazza gustavano, con studiata lentezza, quasi a prolungarne il soave piacere, una “mezza caffè con panna” con la brioche calda e fragrante.  (Sogno … un mattino d’estate -P. Russo)

M. De Domenico, “Miele a Messina”, omaggio per la mostra di Milo Manara a Etnacomics ’14

Dietro ai racconti che l’antologia mette insieme si raccolgono storie che guardano indietro. Ci sono ferite che non si rimarginano, errori, compagnie di gioventù,  ricordi degli attimi andati, insieme ai gesti del presente, disseminati nei reticoli della planimetria cittadina. Anche la costa e gli schizzi delle onde del mare risalgono come elementi di un sogno e le calamità naturali, la pioggia e il sale della marina in estate sono un’eco nei passi dei suoi abitanti.

Michela De Domenico, “menza ca’ panna”

Così da un quadro intimo di vita familiare, in una sonnacchiosa camera assolata (“è tempo di sale sulla pelle, da leccare via furtivamente da una spalla o dal dorso di una mano, per sentire il sapore del mare che ci scorre nelle vene”) dopo una mattina in spiaggia in Piedi Grandi di Patrizia Vicari, la scena si sposta in un casolare dove è stato compiuto un delitto dai contorni indefiniti, descritto attraverso i tarli del protagonista che ritrova a Messina i legami di una antica amicizia nel racconto Quella sera nel bosco di Giuseppe Ruggeri. Il mare è poi il centro nella storia di Emilia Celi, Micia Stidda, figghia di lu mari, in cui una donna, innamorata della sua terra, si oppone alla costruzione del ponte: “e le spiagge, cosa ne sarà delle spiagge? Ci ha pensato? E i grandi pesci, che cercano le isole per andarci a fare l’amore cosa faranno quando l’ombra del ponte attraverserà l’acqua come un muro, portandole via la luce del sole?”. Di richiami sensuali si veste la scrittura preziosa di Incontro di Lino Soraci a cui fa da sfondo la tangenziale autostradale nel suo punto più panoramico: “per lenire lo sconforto procurategli dalle presenti miserie, prese a fantasticare sulla selvaggia bellezza con la quale la Sicilia doveva essere apparsa ai primi colonizzatori greci che vi avrebbero in seguito fondato città e templi bellissimi”.  Teenager protagonisti e motivi fantasy si trovano in Un desiderio per Messina di Elisabetta Venuti in cui una ragazza del Maurolico sogna di vedere rinascere Messina con una magia che tuttavia non offrirà i risultati attesi.

Per quella notte, l’occulta regia dello straordinario spettacolo di luci ed acqua dello Stretto aveva deciso di andare in scena nella versione da lui prediletta: mare piatto e nero come un rilucente piano d’ardesia sul quale scivolavano lievemente, senza lasciare spumose scie, le imbarcazioni di costante collegamento tra l’Isola e il Continete, le cui idronidamiche strutture erano appena rischiarate dal misterioso light design che una notturna e fantasiosa Fata Morgana s’ingegnava a proiettare su tutta quell’ampia veduta così naturalmente bella da sembrare, paradossalmente, un finto fondale di tela dipinto a mano da un esperto scenografo per le riprese di un film-kolossal. (Incontro – L. Soraci)

Michela De Domenico, “tomba del marinaio”

Ne Il viaggio del rimpianto di Vincenzo Ragno il pegno verso la propria città viene pagato nel modo più tragico. Maldicenze e peccati di gioventù si ritagliano uno spazio tra i fuochi d’artificio e la festa della Vara. Ancora il passato e la nuova conformazione della città a distanza di anni appaiono nel racconto Sogno… un mattino d’estate di Pasquale Russo. Un uomo si addormenta e immagina di essere ancora ragazzo, a bordo della sua utilitaria insieme alla compagna che sarebbe rimasta accanto a lui una vita, mentre percorrono il litorale: “Meta, le montagne di sabbia di Capo Rasocolmo. Si erano premuniti indossando i costumi da bagno sotto i vestiti. La ‘500 correva ed il vento caldo scompigliava i loro capelli, mentre si baciavano liberi e felici nel raggiante splendore della loro giovinezza e nella luce dei loro sogni”. Una vera e propria sezione a parte è costituita dai racconti che parlano del terremoto nei due racconti Potrebbe essere accaduto davvero di Ignazio Pandolfo e Sisma di Mario Oscar Venuti. Il primo, una narrazione divisa in tre episodi che descrive gli ultimi attimi ignari di due personaggi pochi istanti prima che la terra tremasse quel 28 dicembre del 1908 e l’approdo di una nave russa sullo Stretto. Un filo narrativo, una specie di corsa all’oro, unisce fantasiosamente l’evento sismico del 1783 e del 1908, nel secondo dei due racconti: “ un sussurro, portato dal vento, circa un patrimonio seppellito e difficilmente recuperabile rimbalza da orecchio a orecchio, di bocca in bocca, da balcone a balcone fino alla pubblica piazza”. L’ultima novella, Duello, di Alfredo Buttafarro si fa ancora più lontana, riportando, nella Messina del 1600, l’amore infelice, ma a lieto fine, di una ricca dama e un giovane, sullo sfondo dell’antica chiesa della Badiazza.

Eulalia Cambria

Un ringraziamento a Michela De Domenico per averci concesso i suoi disegni. Potete trovarne altri sù:

https://mycomicsjourney.wordpress.com

https://www.facebook.com/messinamycomicsjourney/

Arrivare

Corro senza sosta: fortunatamente ho deciso all’ultimo minuto di mettere le sneakers.  

Mi trascino dietro un trolley rosa e piccolo, forse talmente tanto da avere il terrore che scoppi da un momento all’altro. 

Mi fermo un attimo: qual è il binario? Controllo l’enorme tabellone sopra la mia testa e mi accorgo di quante persone come me (ma probabilmente in anticipo) lo scrutano incerte, con l’ansia di sbagliare partenza. 

Binario 5.  

Mi faccio spazio fra la frenesia della stazione, in cui sembra sempre di vedere gente nuova nonostastante le mura secolari. 

Io e la mia piccola, ma spaziosa, valigia superiamo i controlli e finalmente arriviamo al nostro agognato binario: posso sentire ancora il rumore del treno che va via mentre io, con un’aria basita e la fronte sudata per la corsa, guardo disperata. 

Faccio un respiro profondo e mi siedo su una delle tante panchine vuote. 

Forse sono io ad aver voluto perdere questo treno.

Tra i vetri della stazione filtrano le prime luci del giorno e scendono su di me, un po’ come se illuminassero i miei pensieri, appesi nella mia mente in disordine sparso. 

Perché dovevo salire su quel treno? 

Perché mi avrebbe portato alla ricerca di un posto per le mie paure, al luogo in cui avrei voluto dare un senso ai miei sogni persi, alle mie ambizioni che ho sempre riposto in un cassetto per il terrore di fallire. 

E aspetto seduta. Aspetto che la vita scelga per me se prendere/perdere un altro treno mentre io guardo; guardo passiva la moltitudine di treni che mi passano accanto, attendendo qualcuno che scenda e che mi inviti salire. 

E cosa ho ottenuto fino ad ora? Cosa mi rimane della mia serie di scelte prese e non prese? In realtà non lo so, ho troppe domande alle quali non ho risposte perché, paradossalmente, ne ho di infinite. 

Ma cosa resta se vivo senza vivere? Resta la paura. 

Resta un senso da trovare.  

Fino ad adesso mi sono accontenta di questo: ma a cosa serve? A cosa serve non provare a volare, lasciando a terra quello che ora sono e che odio essere? A cosa serve non rischiare, se ho già perso tutto? 

Arriva una ventata che mi scosta. Un altro treno è arrivato ed ora è in partenza.  

Allaccio le scarpe e mi alzo, trascinando la valigia fino ad un posto accanto al finestrino. 

Sono sempre partita senza mai arrivare ma, adesso, ho deciso che arriverò.

 

Jessica Cardullo

Tutta colpa della mia città, mi ha reso debole e inadeguata

Non so se sia il caso di dire “finalmente me ne vado da qui”. In realtà non sono mai stata malissimo in questo posto, ma forse non l’ho mai sentito mio fino in fondo.

Credo che a chiunque, almeno una volta, anche per disperazione, sia venuto il desiderio di prendere uno zaino, mettere dentro vestiti a caso e scappare via, lontano da tutto, da quelle solite strade, da quelle stesse facce noiose e tristi. Per me è diverso. Non è il capriccio di una breve vacanza per tornare poco dopo. La mia è un’esigenza, un sogno, perché significherebbe arrivare in cima ad una montagna ed ammirare il panorama che IO ho deciso finalmente di vedere e raccontare. Vorrei non dire più che qui ci sono finita per caso, o per volere di altri. Vorrei un ossigeno più puro per i miei polmoni, conoscere nuovi luoghi, nuove persone ed essere libera, distante dai disagi che mi perseguitano come ombre. Per questo ho deciso di trasferirmi.

Dovevo darmi da tempo una possibilità in più e dare una sterzata alla mia vita; ora che l’ho fatto, ne sono convinta e felice perché ho voglia di un’esperienza nuova che mi lasci un segno, che mi faccia scorrere l’adrenalina dalla testa fino alle gambe. Chissà se qualcuno, come me, si sia mai sentito davvero di non appartenere a nessun luogo, solo, disconnesso dalla realtà, come uno spettatore al cinema che guarda un bel film e si immerge in una vita che non è sua. Magari gli piace quella vita ma è solo finzione perché si accendono le luci e tutto finisce. Io mi sento spegnere le luci ogni giorno e finché non riesco a trovare un appiglio, mi sento sempre persa, vuota, scostante, sbagliata. Ci sono state volte in cui la mia inadeguatezza mi ha portato a disprezzare tutto ciò che mi capitava, persino le occasioni più rare e importanti non le consideravo, anzi alimentavano quella sensazione di euforia mista a delusione. Da un lato ci credevo, ma quando stavo per viverle, mi spegnevo.

Questa città mi ha sempre reso debole e inetta di fronte alle scelte, perché nulla durerebbe, nulla di quello che lei mi offre mi renderebbe una di quelle persone che fa la differenza. Io invece voglio servire. Ho sempre pensato ci fosse una ragione dietro la mia esistenza e non potrei di certo morire senza aver migliorato qualcosa o qualcuno. Ma non qui.
Seduta sul muretto del mio lungomare, con le gambe che penzolano nel vuoto, frettolose ma sincroni, guardo avanti in cerca di uno di quei tramonti rossi che amo tanto … forse intravedo anche l’immagine di me trepidante e felice tra qualche mese. Il rumore delle onde che si frantumano in schiuma mi rilassa, poi mi guardo attorno e mi soffermo sulle transenne alla mia destra, che nascondono un tratto di marciapiede distrutto dalla mareggiata della settimana scorsa. Un po’ mi sento anch’io così, un cemento smantellato. Ma tra poco ricongiungerò i pezzi. Fra un paio d’ore saluterò il luogo in cui sono cresciuta lasciandolo per un intero anno. Intanto un soffio di vento gelido mi attraversa il fianco scoperto, facendomi tornare in me e realizzare che è ora di abbandonare quel posto, da sempre il mio rifugio preferito.

Sono felice di andare via mia cara città, ma spero di non tornare più perché ho ancora troppe storie da scrivere, da un’altra parte.

 

Martina Casilli

Twice – Alle spalle del nuovo mondo

   – Capitolo 1

 

Dalle fogne in cui stavamo non ne sarebbe uscito mentalmente vivo neanche un pazzo.

Gargan portava le casse di birra alla vecchia locanda, lamentandosi come al solito del cattivo odore che aleggiava quella mattina fra le alte pareti di roccia che ospitavano alla loro base la città di Larvaria.
Io dietro di lui, portando un’altra cassa di legno, ascoltavo ridendo le sue invettive contro la vita, contro i soldi che mancavano sempre e contro Becero, il proprietario della locanda.
Era un ragazzo muscoloso Gargan, alto e dai capelli nero corvino che scendevano con due ciuffi sulle spalle e corti sulla fronte.
«Maledetto sia questo posto» borbottava «Che io muoia oggi stesso: non resterò per sempre qui a portare birra a quei cinque ubriaconi dei Follester che frequentano questo buco merdoso di Becero».
Già, parole davvero strane per uno di Larvaria, che al massimo può aspirare a non lavorare per strada.
La città di Larvaria era l’ultimo insediamento abitato prima del Grande deserto di Yalon, frequentata dai più svariati uomini di frontiera; se volevi andare oltre il deserto, dove ci stavano le grandi città dell’ovest, allora dovevi necessariamente passare da qui.
Larvaria è posizionata sull’uscio interno di una gigantesca caverna che la protegge anche dalle furiose tempeste del deserto.
Il problema, però, è proprio questo: le continue tempeste portano in questa città uomini provenienti dal deserto e molti di loro sono mercenari senza scrupoli provenienti dall’ovest.
Questi individui nel tempo si sono fatti sempre di più e hanno ridotto Larvaria a quello che è adesso: un buco pieno di criminali, barboni e altra gente poco raccomandabile.
Anche se la situazione non è delle più ottimali, la vita per i poveri qui è tranquilla ma difficile a causa della carenza di lavoro “onesto”.
È proprio così che ritorniamo a parlare di me e di Gargan, due ragazzi con rispettivamente 16 e 18 anni che sono fortunati ad avere un lavoro come garzoni alla locanda più frequentata di Larvaria: “Il bicchiere di legno” del signor Becero, uno degli individui più ripugnanti che questa città abbia mai visto.
«Wilo» era il nomignolo con cui mi chiamava Gargan «È arrivata qualche lettera da tuo zio oggi?» mi chiedeva mentre sistemavamo alcune casse di liquori nel magazzino della locanda.
«No, Gar, non è arrivato niente neanche oggi».
«Inizio a pensare che quel tuo zio non esista e che tu mi abbia preso per il culo» mi disse con aria rassegnata.
«Ehi, non dare la colpa a me! Te l’ho detto che non avrebbe funzionato ma tu hai voluto mandargli comunque la lettera» dissi voltandomi verso di lui con le mani imbronciate sui fianchi.
Gargan posò l’ultima cassa ai piedi di un grande scaffale in quercia e si sedette sopra di essa:
«Lo so, scusami…» si massaggiò gli occhi «È che non mi capacito di come il mondo ci abbia confinato qui con tutto quello che c’è da vedere lì fuori».
«Non disperarti» gli dissi io mentre avvicinavo la mia mano alla sua spalla «Qui abbiamo una casa e un lavoro che ci permette di mangiare e di bere».
«Qualche spicciolo e un pezzo di pollo avanzato dalle cucine ti sembra una vita dignitosa?» disse mentre si alzò di scatto dalla cassa «Io voglio guadagnare una fortuna nei grandi mercati dell’ovest, vivere in una lussuosa casa sulla collina più bella di questo mondo e sposare un’elfa alta e dai capelli scuri» urlò esaltato alzando il manico di scopa al cielo che stava di fianco a lui.
«Gar, abbiamo fatto questo discorso migliaia di volte» lo guardai dispiaciuto «Non succederà mai nulla di simile, siamo relegati a questo posto; e poi cosa farai una volta fuori da Larvaria? Non avremmo cibo, bevande…».
«Di quello non ti devi preoccupare, Wilo! Potremmo rubare qualcosa dalla locanda ogni giorno e-».
Nel momento in cui spiccò un salto dalla cassa su cui si era salito per tenere quel discorso rivoluzionario, Becero fece la sua comparsa dalla porta alla nostra sinistra:
«Brutte teste di cane ingrate!» sbraitò contro di noi «Io vi pago per mettere in ordine il mio magazzino e servire i miei clienti, non per oziare seduti sulla mia merce! Idioti!»
Inutile dire che scattammo sull’attenti, spaventati dall’ipotesi che potessimo perdere il lavoro; era un’opzione molto probabile dato che metà di Larvaria avrebbe ucciso per avere dei posti di lavoro come i nostri e per di più sotto la protezione di uno come Becero.
«Ci scusi, signor Becero» disse Gargan ingoiando un rospo dallo spavento «Stavamo riprendendo un attimo fiato, non accadrà più glielo assicuro».
Becero, leccandosi con la lingua uno dei tanti denti marci e corrotti dal tabacco, si avvicinò a noi con fare minaccioso e mi prese dal colletto della casacca:
«Sarà meglio per voi che righiate dritto, figli di nessuno, o vi ridarò in pasto alla strada» disse mentre mi dava uno spintone e il mio sedere toccava terra.
Andò via chiudendo con forza la porta alle sue spalle.
Gargan mi aiutò immediatamente:
«Stai bene Wilo?»
«Sto bene Gar, tranquillo» risposi massaggiandomi le natiche.
«Quel vecchio bastardo un giorno la pagherà cara per come ci tratta».
«Su dai, non dovevamo oziare; passa oltre questa volta».
Gargan mi guardò negli occhi:
«Non reggo più, Wilo…»
«Invece dobbiamo reggere insieme questa situazione. Becero maltratta chiunque, non solo noi» lo confortai.
Dopo che dissi ciò, riprese il suo lavoro in silenzio fino a notte, quando la luna scomparve alla base delle gigantesche stalattiti pendenti dalle labbra superiori dell’uscio della caverna.

Era passata la mezzanotte e il nostro turno di lavoro giornaliero giungeva finalmente al termine.
«Gar, ricorda di prendere la paga dal signor Becero prima di uscire mentre io vado a cercare un passaggio» dissi guardandolo dalla lontana oscurità del magazzino.
«Sì, non temere».
Decisi allora di andare in strada per cercare qualche commerciante che stesse tornando verso il nostro distretto, con l’intenzione di chiedere un passaggio ed evitare lo squallore dei quartieri notturni.
«Ehi, Wilord» qualcuno gridò alle mie spalle mentre uscivo dalla porta sul retro della locanda.
Mi voltai.
Davanti a me un mezz’uomo dai capelli biondi e una pipa di colore scuro in bocca: era Raldo, il ragazzo che si occupava del turno di notte alla locanda.
«Ancora non hai smesso di fumare quella pipa lercia, Raldo?» chiesi sorridendo.
«E mai finirò» rispose «È sempre meno lercia di molta gente del posto, questo è poco ma sicuro».
Ridemmo insieme.
«Il vecchio è sempre di malumore?» mi chiese Raldo portando alla sua pipa altro tabacco da ardere.
«Come sempre, anzi guarda, oggi meno del solito. Ci ha sgridato soltanto una volta».
«Cosa?! Una sola?! Becero si sta rammollendo» alzò le spalle e tirò una fumata «Beh, prima tira le cuoia meglio è; ci sarà solo sporcizia in meno».
Raldo era probabilmente una delle poche persone sane di mente di Larvaria e di cui io e Gargan ci potessimo fidare ciecamente.
Lo conoscevamo sin da piccoli, fu lui che si prese cura di noi per un breve periodo dopo che i nostri genitori morirono; molte volte abbiamo chiesto di sdebitarci ma non ha mai voluto nulla in cambio, neanche una maledettissima pinta di birra.
Era una brava persona e meritava tutto il nostro rispetto.
«Conosco quello sguardo Wilord».
«Che sguardo?»
«Gargan ti ha ancora chiesto di lasciare Larvaria, vero?» chiese come se stesse leggendo un libro aperto.
«Già…» risposi abbassando la testa verso le mie scarpe logore.
«Sai, non dovresti prendertela con lui» tirò un altro boccata dalla pipa «In un posto come questo sognare è un privilegio raro; Gargan è sempre stato un sognatore, non togliergli questo dono».
Innalzai il viso al cielo color pietra che avevo sopra la testa e pensai:
Ho davvero sbagliato con Gar? Non voglio dargli false speranze però…
«Beh Wilord, io inizierei il mio turno» disse mentre gettava per terra la cenere della pipa «È stato bello poter scambiare due parole su Gargan con te».
«Anche per me Raldo; se hai bisogno di qualsiasi cosa sai dove abitiamo».
Lui sorrise e si diresse verso la porta alla mia destra.
Il vicolo in cui ci trovavamo era buio ma le luci provenienti dalla strada alla fine del cunicolo illuminavano quanto bastava per riconoscere i bordi degli elementi presenti intorno a noi: immondizia, lerciume, pezzi di casse sfondate da chissà chi e la vecchia insegna della locanda accanto all’uscita sul retro.
Quando Raldo aprì la porta però, un fortissimo urlo c’investì:
«AAAAH! ALL’ASSASSINO! HANNO UCCISO IL VECCHIO BECERO».
Inutile dire che sia io che Raldo entrammo di corsa e ci dirigemmo verso la sala principale della locanda per poi svoltare verso la camera del vecchio.
I clienti seduti ai tavoli scostarono la testa all’indietro, cercando di capire cosa fosse successo senza lasciare le loro bevande sul tavolo; probabilmente per paura che qualcuno gliele rubasse.
Arrivammo sul luogo dell’accaduto: Greta, la sguattera umana gridava tenendosi la bocca con una mano e cercando di trattenere il vomito.
Io e Raldo la scostammo dall’uscio e guardammo all’interno della stanza.
Il corpo di Becero giaceva per terra cosparso da fori che sembravano essere quelli dello stesso pugnale che giaceva in mezzo ai suoi occhi senza vita.
«Che diamine è successo?!» disse Raldo rivolgendosi a Greta.
«Non lo so, davvero» rispose singhiozzando «Stavo pulendo il bancone e mentre asciugavo sono incappata in una moneta d’argento. Volevo portarla a Becero ma l’ho ritrovato così».
Raldo parlava con Greta chiedendogli ogni dettaglio mentre io mi guardavo intorno in cerca di Gargan.
Ad un tratto un pensiero terribile mi assalì la mente: “Non può essere, non può proprio essere” dissi continuando a girare su me stesso.
Un uomo con una folta barba, calvo e con una cicatrice sulla guancia, ad un tratto si alzò dal suo tavolo portandosi appresso il suo boccale di birra:
«E così è morto il vecchio Becero» disse sporgendosi dalla porta e richiamando la nostra attenzione continuò «Beh, parlerò senza mezzi termini: se qualcuno di voi è o conosce il responsabile parli adesso e sarà trattato con i guanti d’oro, altrimenti lo scopriremo e se la vedrà coi Rapaci».
All’udire di quel nome il mio sangue, quello di Raldo e di Greta gelò all’istante.

Umberto Spaticchia

Momenti

Come coriandoli,

rossi di passione, neri di dolore, rosa di dolcezza, gialli di felicità, blu di tranquillità, verdi di speranza, grigi di tristezza.

Prendine un pugno, senza farne differenza, lanciali sopra di te!

Li vedrai salire e spinti dal vento, cadere intorno a te:

Solo pochi ti rimarranno addosso, altri col tempo li perderai.

Altri ancora saranno lì; lì per scivolare o li condividerai con chissà chi.

I primi, i più forti, i più fortunati resteranno su di te, nascosti tra i capelli, nelle tasche di qualche vecchio jeans. Non te ne libererai mai.

Ti condizioneranno la vita, li ritroverai nei giorni a venire e si ripresenteranno a te, ingestibili e pieni di emozione.

In fondo sono “solo” momenti!

Andrea Barbarello

Appuntamento eterno

Sono sempre qui dieci minuti prima. È la mia routine, è d’obbligo. 

Il portone in legno d’ingresso è quasi invisibile, coperto da quella trentina di mamme in tiro, con il trucco perfetto, tacco 15 e borsa di marca al braccio. È criptico il loro spettegolare ed ancora più enigmatico il loro trovare sempre un nuovo argomento di cui starnazzare.

Come fanno – mi chiedo – mentre dalla mia postazione, qualche centimetro dietro di loro, cerco di sfuggire agli sguardi di scherno.

Sento il suono della campanella; subito un allegro vociare e poi vedo il portone aprirsi: una mandria di bambini con il grembiulino blu esce salutando la mamma, agitando la manina.

La donna che mi sta davanti mi guarda titubante e prende in braccio una piccola bimba con le treccine, sussurrando all’amica: “Cosa fa quella sempre fuori dalla scuola? Mi preoccupa!”.

Le mie orecchie captano ogni parola ed i miei occhi si colorano di tristezza e di rabbia; così urlo: “ Io aspetto mio figlio, lo aspetto sempre!” – mi si affievolisce la voce – “Prima o poi uscirà da scuola!”

Sento ancora i versi impauriti di quelle donne accerchiarmi, mentre stringo l’unica cosa che mi rimane di Roby: quella foto in spiaggia, in cui siamo io e lui; quel sorriso allegro che pensavo di poter vedere anche il giorno dopo, magari nella stessa spiaggia, magari con quel secchiello con l’acqua traboccante che teneva stretto nelle sue piccole mani.

  • È suonata la campanella – penso –  dove sei?

Jessica Cardullo

Sebbene la primavera

Il sole accarezza le mie palpebre che piano piano si sbarrano per accogliere quell’infuocato, quanto fastidioso, spiraglio di luce che fuoriesce dalla tapparella.

Con la mano a penzoloni cerco di avvicinarmi al cellulare poggiato sul comodino per sapere che ora sia; sbuffo: mancano due minuti prima che suoni la sveglia.

Con fatica, scosto le coperte dentro cui mi avvolgevo fino a qualche secondo prima, e mi precipito in cucina per preparare una tazza di caffè, che spero mi aiuti nel risveglio.

Sarà questo calore che mi sembra di avvertire guardando oltre la mia finestra, o forse il cielo azzurro senza nessuna macchia bianca, o forse ancora gli uccellini che sento cinguettare da lontano, non so perché esattamente, ma avverto una sensazione di rinascita questa mattina.

Mi scappa un sorriso.

Penso che l’aria della primavera stia facendo sbocciare in me nitidi ricordi, che subito si impossessano della mia mente, in balia fra emozioni e profumi.

Il caffè: ne sento l’odore, come quando mi svegliavo con un bacio e la colazione mi era servita su un vassoio della stessa tonalità delle lenzuola.

Una nostalgica trepidazione si impossessa dell’allegria che una nuova bella giornata sembrava avermi portato.

  • “Ehi, buongiorno!” – sento alle mie spalle.
  • “Anche a te! Vuoi del caffè?”
  • “No, io lo prendo in ufficio con gli altri colleghi.”

Abbasso lo sguardo come per acconsentire; verso il caffè nella mia tazza e faccio per andarmene in giardino.

  • “Dove vai?”
  • “C’è una bella giornata, non voglio che diventi brutta”

Mi siedo sotto il gazebo che avevamo montato qualche tempo prima, ripromettendoci che nelle giornate più calde avremmo mangiato lì sotto.

L’inverno aveva portato nel nostro nido solo sfascio e rovina, e ci aveva fatto dimenticare anche quanto fosse bello condividere degli stupidi pasti. Quel vaso, poggiato sul tavolo, sfoggia ancora il fiore marcio di mesi prima: ha resistito ai venti più forti, alle giornate più rigide e alle piogge più violente; ora è immobile, deturpato, quasi morente e niente, ormai, è in grado di rianimarlo.

Sebbene la primavera fuori, dentro è tutto appassito.

 

Jessica Cardullo

 

 

Il peso della libertà

Con i miei occhi vedo il grigio della città, sento sulla pelle il freddo di quello che qui chiamano inverno, sento il profumo e il gusto di un pasto, diverso ogni giorno, e il rumore dell’acqua che scorre lentamente dal rubinetto di un lavandino; quando sciacquo il viso, sento la freschezza e la limpidezza poggiarsi sul mio volto ed apprezzo ogni singola goccia che riga la guancia.

Da bambino credevo che tutto il mondo avesse gli occhi grandi, le case sfasciate monocolore e lo credevo tutto giallo come i lineamenti caldi del deserto e marrone. Allora, sembrava quasi non importarmi del ‘’sapore’’ lurido dell’acqua dei pozzi dispersi o delle giornate passate a non mangiare: a me piaceva giocare con quel pallone di pezza, insieme ai miei amici.

Ma da piccolo non sai che le leggende sui bianchi e sulla loro ricchezza, sulle terre verdi e sui palazzi alti, sono più che semplici storielle.

Un giorno, mi ricordo, i miei mi svegliarono nel cuore della notte – è arrivato il momento – mi dissero; così presi l’unica cosa che possedevo: la mia palla di stracci.

Se chiudo gli occhi vedo ancora la moltitudine di stelle che si riflettevano sul mare e poi quel barcone; vedo ancora tutta quella massa di gente, accalcata e stipata in una ‘’nave’’ che non ci avrebbe potuto sorreggere tutti.

Una volta salitoci su, mi sentivo schiacciato dagli omoni che erano almeno tre volte più alti di me e sentivo il mare dondolare sotto i piedi scalzi: eravamo delle bestie guidate da una chimera.

Non so quanto durò quel viaggio, che tutti chiamano ‘’della speranza’’, ma per noi, poveri animali in fuga, era una traversata della disperazione.

Il sole rinsecchiva le pelli, le labbra asciutte chiedevano acqua e gli occhi lucidi si rassegnavano alle onde del mare distanti dal nostro miraggio; la gente moriva lentamente cullata da una speranza naufragata nelle acque salate; i corpi affondavano giorno dopo giorno e sul quel barcone c’era un’inspiegabile senso di sollievo nel trovare più spazio per appoggiarsi a quella che ormai era la nostra precaria casa galleggiante.

Quando i miei genitori morirono sfiniti da quell’infinito tragitto, sentii che ci sarei morto anche io là sopra e che non avrei mai più visto la terraferma.

Fortunatamente, mi sbagliai.

Poche ore dopo vidi in lontananza una nave che probabilmente ci avrebbe salvato, ma nessuno di noi lì aveva la voce per urlare né la speranza di avere ancora un briciolo di speranza.

 

 

Subito dopo lo sbarco, ricordo ben poco.

Ma la sensazione di aver perso la mia dignità, di non avere più un’identità, mi accompagna ancora.

Adesso sono libero. Libero da quella ‘’puzza di oriente’’ che sembrava distinguermi dall’odore della leggendaria terra dei bianchi; libero di vivere; libero di sentire il peso della mia libertà.

 

Jessica Cardullo

Il leone ed il bambino

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Alle 20 in punto varco la soglia della porta – “ Sono a casa!” – e vedo il mio piccoletto correre verso di me – “ Ciao papino” – dice saltandomi addosso.

Ciao caro” – sento urlare dalla cucina poco distante dall’ingresso.

Credetemi, non c’è niente di meglio, dopo una giornata di lavoro, del rivedere la tua famiglia.

Finita la cena, mi infilo il pigiama e (come ogni giorno) scorgo mio figlio sulla soglia della porta della mia stanza: con aria timida, so già cosa andrà a chiedermi – “ Papà non è che mi racconti quella storia che mi piace tanto, prima di addormentarmi?”

Come poter dire di no?

Allora lo seguo nella sua stanzetta, lui si mette a letto e gli rimbocco le coperte; con occhi sbarrati mi guarda come per incitarmi a cominciare con il racconto.

  • La storia inizia fra le calde terre del Sudafrica, con un branco di leonesse e i loro cuccioli distese nella savana. Fra quei maestosi e giallastri leoncini, ce n’era uno bianco, più vispo degli altri; si allontanava, alla scoperta di quella terra di gazzelle e leoni dalla criniera possente.
  • Non devi allontanarti da me, potrebbe essere pericoloso! Al di là del ruscello, ci sono gli uomini e loro sono cattivi!”- gli raccomandava sempre la mamma – ma lui non sembrava avere paura.

In una delle più calde giornate della stagione, il bianco leoncino in esplorazione, si ferì ad una zampetta: non riusciva più ad appoggiarla.

Disperato, cominciò a ruggire per farsi sentire dalla madre, ma la sua voce era ancora piccola e poco potente; le ore passavano e la notte sembrava essere sempre più vicina.

I suoi lamenti giunsero all’orecchio di Thato, un piccolo bambino che abitava oltre il ruscello.

Anche lui, curioso, decise di seguire quei gemiti, trovando, così, il povero cucciolo immobile e ferito: in un primo momento indietreggiò per la paura, ricordandosi quanto pericolosi fossero i leoni.

Thato, però, non poteva lasciarlo morire, così prese dell’acqua dal ruscello e lavò la ferita del leone e poi gli disse: “ Torno subito”.

Raggiunse la sua casetta e di soppiatto prese un unguento curativo e metà della sua cena; corse il più veloce possibile per raggiungere l’animale.

Lo curò e gli diede da mangiare, promettendogli che non l’avrebbe lasciato solo finché non sarebbe riuscito ad alzarsi.

Si fece notte e l’unguento funzionò: finalmente il leoncino riuscì a mettersi in piedi; guardò Thato e mosse la zampa verso di lui, in segno di riconoscenza, prima di andarsene.

Tornato dal suo branco, il piccolo raccontò alla madre preoccupata che aveva conosciuto un uomo buono, che si era preso cura di lui e che non lo dimenticherà mai.

E così fu.

Passati diversi anni, il leoncino ormai cresciuto era a caccia con altri due leoni, quando udì uno sparo.

D’un tratto videro dei cacciatori, proprio di fronte i loro occhi, con i fucili carichi; così cominciarono a ruggire.

La battaglia era pronta, fin quando il leoncino riconobbe quell’uomo buono: si avvicinò con calma, nonostante avesse paura, proprio come tempo prima il bambino fece con lui; Thato riconobbe il manto bianco del cucciolo smarrito ed ordinò agli amici di abbassare le armi.

In un istante, quell’uomo e quell’animale abbandonarono la paura e la violenza, lasciando il posto alla fiducia e a qualche carezza.

E come dice Rousseau?”

  • Tutti gli animali diffidano dell’uomo e quando sono sicuri che non vuol fargli del male, la loro fiducia diventa così grande che bisogna essere più che barbari per abusarne.
  • Esatto, piccolo mio. Buonanotte”

Jessica Cardullo

Mio caro Sud

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È arrivato il momento.

Il momento di scriverti, di spiegarti perché ti ho lasciato.

Lo so, lo so, non ti ho nemmeno salutato per come si deve ma, sappi, che a Natale torno: ho comprato i biglietti qualche settimana fa e li custodisco gelosamente nel cassetto del comodino.

 

In aeroporto, con quella grossa valigia in mano, non avrei mai pensato che potessi mancarmi, anzi, mi entusiasmava poter scappare altrove.

Ed i primi giorni fui travolta dalla frenesia, dall’emozione di scoprire una nuova realtà.

Poi bastò un attimo: mi fermai al centro della piazza (come per capire dove io fossi davvero) e chiusi gli occhi: la salsedine…riuscii ad assaporarla; fra le dita scivolarono quasi invisibili i granelli di sabbia; poi la leggera brezza marina che nelle sere estive accarezza delicatamente il viso…potrei giurare di averla sentita davvero.

Dopo, qualche gocciolina mi bagnò il naso e fu allora che capii quanto mi mancavi: quando i miei occhi si svegliarono e si posarono su quel grigio cittadino, il mio cuore senza ombrello si bagnò di quella pioggerellina fredda.

 

Il sole, quassù, in questi mesi invernali, è un miraggio; la mattina è proprio questo che mi manca: scostare le tende della mia finestra e vedere un cielo limpido, senza questa nebbia piatta.

Sai cos’altro è brutto? Non vedo il mare, nemmeno in lontananza, e non riesco ad intravedere neanche le montagne. Attorno a me ci sono solo palazzi giganteschi, gente frenetica, turisti in ogni angolo ed il rumore della metro.

Quando sono nella mia stanza (che proprio “mia” ancora non la sento), penso sia paradossale nascere nella tua culla verde ed azzurra, per poi lasciarla abbandonata per chissà quale letto scomodo di una casa condivisa.

Leggendo tutte queste parole, penserai – “ Allora perché non sei rimasta da me?”- È una questione di opportunità, di aspettative, di lavoro; priorità per cui, adesso, mi ritrovo catapultata dalle tue braccia calde a quelle fredde di una terra che mi fa sperare in un futuro migliore.

E scusami se non sono in grado di aiutarti nel farmi restare, ma ho bisogno di guardare avanti, di andare oltre i limiti che tu mi hai imposto.

 

A presto, mio caro Sud.

 

Jessica Cardullo