Innamorarsi a Messina

Tommaso non trova mai il coraggio di raccontare una storia, specialmente se è l’amore ad affermarsi come tema dominante. Amore che non necessariamente è rivolto ad una persona, ma anche un oggetto, una passione, una città. Non è mai semplice. Tommaso sa bene che a 22 anni non si ha contezza, né si conoscono le leggi teoricamente razionali che regolano i sentimenti. Non si può, ovviamente. Non esiste raziocinio, né logica. Solo gli impulsi a questa età, fuggevole e ardente di passioni e desideri.

Egli vive a Messina da settembre di quest’anno. Ogni tanto quando torna il fine settimana nel suo paese d’origine, bazzica nel suo amato pub per incontrare vecchi amici con cui bere la solita birra e abbandonarsi a confessioni e riflessioni. Era bella la vita, almeno così pensava. Non è stato facile abituarsi a nuovi ritmi, nuove compagnie e maledettissimi impegni di cui non riesce a farne a meno. D’un tratto, qualcosa cambiò.

Il giorno in cui Claudia gli scrisse si trovava alla Passeggiata a mare, luogo da cui si può ammirare lo Stretto sia se fa freddo che caldo, a meno che in questo caso, non ci sia l’ingannevole aria secca e calda dello Scirocco. Quel giorno però, c’era un vento di Grecale e questo potrebbe cambiare il corso della storia. Questa città spesso inganna. Capita di smarrirsi nelle sue vie infinite dove ogni incrocio, ogni palazzo, conserva un pezzo di storia che nessuno più rievoca, per pigrizia o indulgenza. Probabilmente, il messinese è un individuo impaurito della sua stessa persona, quasi come se volesse nascondere la sua appartenenza a un luogo così pieno di bellezza, di storia. Ma vallo a spiegare agli sconosciuti, ai turisti e varia gente che è solo “di passaggio”. Ma Lei no. Lei si è posta subito in modo curioso.

Si conobbero parlando dei R.E.M. e degli Oasis, poi Phil Collins, i Clash, i Police e altri artisti degli anni 80-90 per capire che in fondo, non erano poi così distanti i loro mondi. Non è poi così strano per due ragazzi nati tra il 1999 e il 2000. “La mia generazione è strana” pensò Tommaso, “specialmente se appartiene a una terra come la Sicilia, esotica e maledetta”. D’un tratto, l’identità svelata. Claudia è palermitana.

“Sono innamorata di Messina, quasi la preferisco a Palermo”.

“Com’è possibile” pensò Tommaso, “come si fa a preferire una città apparentemente vuota a una così ricca e suggestiva? Come si fa a preferire i normanni agli arabi, l’oriente all’occidente, gli arancini alle arancine?” Non credeva a ciò che aveva sentito. In fondo qualche pregiudizio, prima di vivere a pieno la città, egli ce l’aveva. Caratteristica endemica della gente di provincia, abituata forse alla calma del paese e al mare vicino al centro.

Dopo essersi scambiati dei messaggi via telefono, decisero di incontrarsi. Tommaso pensò bene di raccontarle la storia della nobile Messina attraverso i miti e le leggende: da Colapesce alla Fata Morgana, Dina e Clarenza, Mata e Grifone, Scilla e Cariddi, i progetti architettonici di Montorsoli e molto altro. Che lei si potesse annoiare era facile, d’altronde chi è quel folle che pensa di fare colpo così? E invece, la fortuna era dalla sua parte. Anzi, dalla loro. Se è vero che in questa città ci si può perdere di vista, è anche vero che ci si può ritrovare per iniziare una nuova vita, intraprendere nuovi percorsi e perché no, innamorarsi, ma non di una qualunque. Lei era speciale, solo che c’è voluto del tempo prima di capirlo davvero.

“Mi sembra di avere una seconda identità” le disse, “anche se, in fin dei conti, ci sono motivi seri per essere sé stessi e per definirsi messinese d’adozione, senza dover rifugiarsi in trame nascoste e quindi andare oltre le apparenze. Messina è la città da cui ho deciso di ripartire, intravedo una possibilità.”

Dopo un bicchiere di vino, andarono nel luogo dove ha preso vita il mito, Capo Peloro.

Il mare delle “fere” di Stefano D’Arrigo, quella sera sembrava che fosse uno specchio dove potevano vedere i loro riflessi. Claudia gli chiese che cosa avesse di speciale, e lui disse:

“Questo è il posto in cui ho capito che tutto ciò non si può cancellare, non puoi immaginarlo leggendo solo pagine di letteratura, devi vederlo con i tuoi stessi occhi, assaporare il gusto di quest’acqua. Come si fa a restare indifferenti? Come si fa a metterlo da parte?”

Osservarono lo Stretto contornato dalle luci provenienti dall’altra terra, la Calabria. Nel mentre, passavano dei pescatori con le loro barche, probabilmente per cercare un po’ di pace in mezzo a un mare che ha sofferto. Questo spazio, negato alla civiltà, sembra che in quel momento stesse dicendo loro di cogliere l’attimo prima che entrasse in gioco l’inganno. Ma quella sera non c’era possibilità, il vento era troppo calmo e fresco per distogliere l’attenzione di Tommaso, che aveva il cuore tremante e la testa piena di pensieri.

Così ballarono sulle note di Purple Rain di Prince, il pezzo preferito di lui. Claudia lo guardò con occhi di perla pregiata mentre, stringendogli le mani al collo, sussurrò all’orecchio: “tutto questo mi piace, è incredibile”. Piovve, ma restarono imperterriti. Le luci dei lampioni si accesero di colpo dopo qualche intermittenza, illuminando il centro della piazzetta. Esistevano solo loro. Il tempo si fermò a quell’attimo, così come i loro cuori probabilmente.

Un passo, poi due, infine la silloge, il bacio. Fu così travolgente che quasi dimenticarono di essere lì, vicino ai duemari¸ davanti al faro che ne illumina il centro nevralgico creando un vortice di correnti che confonde, illude. Tommaso le accarezzò con delicatezza il volto, baciandola più volte. Quando si fermarono, si guardarono con lo sguardo spaventato, tipico di chi non sa cosa aspettarsi dopo.

Claudia aveva gli occhi molto lucidi, sembrava che non provasse nulla. In realtà era felice, ma ancora non lo sapeva. Tommaso rimase in silenzio lungo il tragitto per riportarla a casa. Solo una volta arrivati trovò le parole, voleva dirle che era stato bene e che gli sarebbe piaciuto incontrarla di nuovo. Gli uscì soltanto “buonanotte”. Lei ricambiò. Ci fu un altro bacio, stavolta più passionale.

“Adesso sto bene, Messina non è un ambientazione casuale”, pensò fra sé Tommaso. Abituato a toccate e fuga, questa volta avrebbe voluto passare il resto della notte con lei e aspettare l’alba, magari andando verso Santo Saba dove le case sono tutte basse, rivolte al mare. In quella parte la Calabria si vede poco, ma comunque quell’immensità dona un senso di pace che quasi supera il canone comune.

Arrivato a casa, il senso di vuoto lo inquietò per tutta la notte: “lo Scirocco è giunto e forse dovrei cambiare aria, Lei non esiste, forse era solo una mia proiezione”. Pensò a lei il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, finché non si incontrarono un’altra volta.

Maledetta città. Eppure, da quel momento, Tommaso non poté più fare a meno di Claudia e viceversa.

Federico Ferrara

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia 

Il sangue è sangue

Marina fumava un pacchetto di Marlboro rosse al giorno. Quando era nervosa ne girava una fra le dita e poi l’accendeva all’orizzonte di un appartamento al quinto piano da cui si vedeva il tramonto. Osservava dai suoi occhi verdi quelle quattro mura come una prigione, e solo dipingere all’alba con un posacenere accanto le rendeva le giornate meno pesanti.

C’era solo un piccolo problema: Marina era in attesa di una bambina. Il desiderio più grande della sua vita insieme alla realizzazione di una carriera artistica era quello di creare una famiglia tutta sua. Si è sposata a ventisette anni ma da allora, nessuna inseminazione artificiale o medico competente riuscì ad aiutarla. Dissero alla coppia di novelli sposi che non c’era nulla da fare.

Cinque anni dopo, una dottoressa scoprì dalle analisi un alto valore che impediva l’inseminazione naturale: la prolattina. Con l’utilizzo di alcuni farmaci ristabilizzanti, Marina si scoprì felicemente in attesa. La bambina nacque esile e con dei boccoli avorio presi dal padre. Niente occhi verdi. Erano grandi, così scuri da perdercisi dentro.

La chiamarono Alice, come la dottoressa che permise la sua nascita. Si rivelò essere una bambina quieta, amante della lettura, del disegno e della musica.

-“Mamma me lo leggi il libro dei racconti.” -“Leggilo tu a me, sei più brava tu!” -“C’era una volta una principessa che viveva in un palazzo…” – cominciava lei. Quando Marina si addormentava, la bimba chiudeva il libro e si accoccolava sulla sua pancia ad ascoltarne il battito.

Guardando Marina che stirava accendendo una sigaretta e che persino mentre cucinava aveva la smania di fumare, la bimba a soli quattro anni le strappò una promessa.

-“Mamma mi prometti che smetti di fumare?” -“Tu allora devi promettermi di non metterti più il dito in bocca.” Imbronciata Alice annuì. Avevano un tacito accordo.

Non c’era gioco che non facessero insieme. Dalla parrucchiera alla cuoca. Non c’era cartone animato che non avessero visto insieme. Le battute degli Aristogatti potevano dire di conoscerle a memoria. Non c’era libro che non avessero letto o canzone che non avessero ballato. Papà rientrava da lavoro e si metteva a giocare insieme a loro fino all’ora dei sogni.

Dieci anni dopo, Alice era quasi un’adolescente e iniziava a truccarsi. Aprì l’armadietto dei profumi della mamma e tra le varie boccette scorse un pacchetto rosso. Cominciava a ragionare con la sua testa, seppur acerba di idee. Si fiondò in cucina alzando la voce. -“Avevi detto che non avresti più fumato! Lo avevi promesso. Sei una bugiarda. Lo avevi promesso. Io non mi ciuccio più le dita, sono grande ormai.” Rimase arrabbiata fino a dopo scuola quando poi la mamma le fece una delle sue torte all’arancia. – “Ali prima o poi smetterò vedrai.”

Alice si sentiva ormai grande e doveva fare le cose da grandi. -“Dovrai essere una donna indipendente un giorno, perciò devi imparare a fare le faccende di casa tanto quanto a studiare da sola.” Curiosa com’era, non aveva bisogno di essere forzata a fare i compiti. Ma di lavare o cucinare non se ne parlava. Era troppo persa nei suoi giochi e nei suoi desideri. Lavando il servizio di porcellana sovrappensiero ruppe uno dei bicchieri. -“Mi dispiace mamma… lo ricompriamo, oppure te lo riattacco io , dammi tutti i cocci!” -“Ali non è necessario. Avremo una cosa in meno da lavare!” Il suo sorriso smagliante non poteva tradire sconforto perché quella bambina, non le aveva ridato solo la gioia. Le aveva ridato la vita.

Qualche anno più tardi il nonno si ammalò e Marina se ne prese cura giorno e notte. -“Perché non ti fai aiutare da tua sorella ? Perché devi occupartene da sola?” -insisté suo marito. -“Mia sorella lavora e io no. Io non ho nessuna carriera da mollare. Io ho solo la mia famiglia.” -“La famiglia non è tutto. C’è la salute, la tua salute Marina.” Non volle sentire ragioni, prese le chiavi di una seicento azzurra e partì di notte verso l’ospedale. -“Perché mamma deve andarci proprio tutte le notti?” -“Perché mamma dice che il sangue è sangue e non si abbandona mai.”

Il nonno si spense una notte di quelle e con sé portò via un frammento della figlia. Alice era ormai un’adolescente in piena, sentiva il peso dei problemi della sua età. I litigi con le amiche, i primi amori e la competizione a scuola su chi fosse la migliore. E poi c’erano i genitori da cui si sentiva sempre incompresa e sempre esclusa dalle questioni degli adulti. Ma lei era ormai una di loro! Aveva diciassette anni e ancora le tenevano nascosto il mondo! -“Questa casa è una gabbia, una prigione. Non mi ascoltate quando parlo, non vi fidate di me quando esco e mi tartassate di limiti di orari.” -“Non parlare così Alice… Magari non ti capisco ma ti sto offrendo tutto l’amore che ho.” -“E’ un amore soffocante lo capisci? Sei troppo attaccata a me e mi chiami di continuo anche quando sono con i miei amici.” -“Perché sei tutta la mia vita non lo sai?” -“La tua vita dovrebbe essere fatta di tante altre cose, non solo di una figlia!” -“E non credi che ci abbia provato? Cosa pensi? Che se avessi avuto i soldi per l’accademia d’arte non avrei tentato l’ammissione? Io volevo che tu avessi le possibilità che io non ho avuto !”-gridò tra le lacrime. -“E allora io voglio scrivere, io dopo il liceo voglio fare l’università di Giornalismo.” -“Farai quello che ti piace Ali, l’importante è che tu abbia un lavoro in mano e possa dire di essere libera.”

Durante l’anno di maturità, solo in una materia non riusciva ad avere voti alti: chimica. Una misera sufficienza guadagnata con tante ore di studio. -“Mamma non riuscirò mai ad avere un nove con la professoressa di chimica. E’ troppo esigente e io sono scarsa. Io non le capisco le formule, le reazioni chimiche. Non è pane per i miei denti.” -“Se continui ad avere questo atteggiamento negativo non riuscirai a mantenere neanche la sufficienza. Devi crederci Alice. Se non ci credi tu chi deve farlo?” -“Tu ci credi in me?” -“Certo che ci credo. Tu puoi fare tutto. Mi hai sentito? Tutto.”

E si misero a studiare le formule chimiche del metanolo, dell’alcol etilico, dell’acido acetico. Espressioni che pian piano divennero familiari. Alice prese il tanto atteso nove. Anzi, il voto massimo della maturità le fece capire che sua madre aveva ragione. Lei poteva fare tutto.

Negli anni dell’università, abitando lontano da casa non si accorse che Marina faceva finta di stare bene al telefono. Mutava la voce rauca in una allegra e le chiamate erano brevi. L’ultimo weekend che Alice tornò a casa volevano guardare un film di Natale insieme ma Marina disse che si sentiva poco bene e andò a letto presto. Non si preoccuparono più di tanto, appariva come un semplice malore al petto. Successe così rapidamente che non le sembrò reale. L’ospedale, i medici, il funerale. L’ultima volta che Alice la vide fu in un reparto che puzzava di alcol. -“Perché sei venuta Ali, devi tornare a lezione. Devi farti la tua strada. Non devi pensare a me. Devi guardare al tuo futuro.” -“Sono venuta per dirti che sei la mamma migliore del mondo e che il sangue è sangue e non si abbandona mai.”

 

Alessandra Cutrupia

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Cat Person: i rapporti di potere ai tempi del #Metoo

Parte superiore della copertina italiana – Fonte:einaudi.it                             

 

You Know You Want This: questo il titolo originale – che meglio ne sottolinea la natura scomoda – della raccolta di dodici racconti di Kristen Roupenian, pubblicata in italiano come Cat Person da Einaudi.

La sua storia inizia su internet, nel 2017, quando Cat Person – il singolo racconto che le dà il titolo – viene pubblicato sul The New Yorker e diventa virale, scatenando sui social un acceso dibattito su sesso e rapporti di genere. Alla scrittrice viene quindi commissionata un’intera raccolta, che diventa uno degli esordi letterari più attesi del 2019.

Il libro fa un’analisi lucida e pungente dei rapporti interpersonali e delle dinamiche di potere nel mondo contemporaneo; questa citazione da Mordere, ad esempio, rimarca l’esistenza di una gerarchia che causa discriminazioni non solo tra i generi, ma anche tra le etnie:

 A conti fatti, in quanto giovane donna bianca senza precedenti  penali, quasi certamente Ellie aveva nel mazzo almeno una carta “esci gratis di prigione”.

Bastava che imbastisse una storia vagamente sensata e le avrebbero creduto.

 

 

Foto per Cat Person dal magazine The New Yorker –  Fonte: newyorker.com    

Paura ed alienazione nel mondo contemporaneo

Con la tematica dei rapporti di potere si intreccia la sensazione di impotenza provata rispetto a circostanze concrete, come ne Il corridore notturno, dove un’insegnante subisce bullismo da parte di una scolaresca; e quella scaturita dall’inquietudine nei confronti del non tangibile, dell’imponderabile, di tutto il male presente nell’universo, che alla protagonista di Look at Your Game, Girl pare una forza gravitazionale che scorre in profondità sotto la superficie di ogni cosa.

Si indagano anche la comunicazione ed il modo in cui i social hanno cambiato le nostre relazioni, con particolare attenzione verso le conseguenze negative più evidenti: l’amplificarsi del senso di solitudine e di isolamento, l’illusione di conoscere qualcuno nel profondo.

In Cat Person seguiamo l’evolversi del rapporto tra Margot e Robert attraverso la messaggistica, tramite la quale non parlano mai veramente di loro stessi; solo ad appuntamento iniziato, Margot si rende conto che:

avrebbe potuto portarla da qualche parte e stuprarla e ammazzarla; in fondo di lui sapeva poco o niente.

Kristen Roupenian – Fonte: news.harvard.edu

Perché leggere Cat Person?

Nonostante alcuni racconti siano un po’meno riusciti, le pagine scorrono veloci e terminato il primo racconto non si potrà fare a meno di passare subito al successivo.

La scrittura è cruda, diretta ma pregna di ironia; riprende il nostro parlare nella quotidianità e non lo epura di nulla, neanche del turpiloquio e delle espressioni più colorite.

L’autrice sa muoversi al meglio tra più generi letterari, tratteggiando con la stessa efficacia sia le ambientazioni realistiche, che quelle fantastiche, fiabesche e fantascientifiche.

Ciò rende la raccolta adatta ad un pubblico eterogeneo, ma è consigliata in modo particolare a chi, pur essendo pieno di impegni, desidera comunque coltivare il piacere della lettura.

 Rita  Gaia Asti

Per quando torneremo: letteratura e solidarietà contro il Coronavirus

Può l’arte – e in particolar modo la letteratura – lanciare un messaggio di speranza in un periodo buio come questo?

Può trasmettere quel senso di coesione necessario in momenti di crisi, nei quali è facile lasciarsi andare alla caccia al capro espiatorio per reagire al senso di impotenza che ci accomuna?

Tra social challenge, catene di solidarietà via whatsapp, conversazioni su Skype e flash mob musicali capaci di far rivivere il deserto delle strade post-quarantena, l’essere umano, anche ai tempi del Covid- 19, ha dimostrato di non riuscire a mettere da parte un bisogno fondamentale: quello di esprimersi e comunicare!

Italia popolo di grandi tradizioni, Italia popolo di santi e navigatori, ma soprattutto Italia popolo di artisti e di poeti.

Quindi quale mezzo migliore della letteratura per comunicare oltre i muri delle nostre case dentro cui siamo trincerati da giorni?

È in questo spirito che si inserisce l’iniziativa lanciata da IL CLEB, book club molto dinamico nato a Prato nel 2019, grazie a Sara Ruperto e Arzachena Leporatti, con “l’intento di promuovere la scrittura femminile contemporanea“, rivolgendosi però a un pubblico che non sia solo di donne, in contrasto con il tipico pregiudizio “se lo scrive una donna lo legge solo una donna”.

In questa particolare situazione d’emergenza, IL CLEB ha postato sui social un’open call rivolta a scrittori famosi e non, uomini e donne, del Sud e del Nord, per realizzare un ambizioso progetto: Per quando torneremo, e-book scaricabile dal portale web.

 

“Per quando torneremo”, copertina dell’e-book.                     Fonte: perquandotorneremo.wixsite.com

L’intento, ovviamente, è quello di rendersi utili in modo creativo, non fermando le menti e le penne, mantenere accesi gli animi di chi scrive e di chi legge in attesa di quando torneremo appunto a riappropriarci della nostra quotidianità.

A tutti noi è infatti la dedica ripetuta nella prima pagina dell’e-book!

La dedica sull’e-book – Fonte: perquandotorneremo.wixsite.com

Ma quella che può sembrare un’astratta iniziativa letteraria si traduce in aiuto concreto: il ricavato della vendita online degli e-book sarà interamente destinato agli ospedali impegnati nella lotta contro il Coronavirus.

In particolar modo, l’80% dei fondi andrà all’ospedale di Prato, mentre un altro 20% sarà devoluto ad altre strutture ospedaliere della Toscana e a vari istituti di ricerca che operano nel campo delle malattie infettive.

Per quanto torneremo è un’originale raccolta di poesie e racconti che affrontano i più svariati temi con diversi stili, in cui compaiono nomi già affermati nel campo dell’editoria nazionale accanto a giovani penne. Il tutto corredato dalle “illustrazioni cariche di colori, pop e ironiche” di Martina Filippella (sua è la copertina e la maggior parte delle raffigurazioni) e di Francesca Bonazzi.

Illustrazione di Martina Filippella
Fonte: perquandotorneremo.wixsite.com

Un progetto solidale realizzato nello spazio di pochi giorni proprio per rispondere all’emergenza Covid-19.

Un libro collettivo che mi rende orgogliosa di averne preso parte con tre poesie che tenevo nel cassetto da diverso tempo e, un po’ per timidezza, un po’ per pigrizia, non avevo ancora pubblicato.

“Estremista”, poesia di Angelica Rocca a p. 98 dell’e-book.
Fonte: perquandotorneremo.wixsite.com

Ma, quando la nostra società là fuori sembra sgretolarsi sotto il peso di un nemico invisibile, allora arriva il momento di esporsi, di chiedersi cosa ognuno di noi può fare con quel poco di talento e capacità che si trova a disposizione per dare concretamente una mano.

Arriva il momento in cui restare a casa ci fa sentire eroi, ma allo stesso tempo impotenti soldati in congedo. Scatta perciò il bisogno di farsi sentire, di non lasciare solo chi combatte in prima linea 24 ore su 24 in una corsia d’ospedale dentro tute asettiche che permettono a malapena di respirare.

Ma è ovvio che pochi di noi sanno infilare un ago nella carne, pochi di noi sanno somministrare farmaci, pochi di noi sanno ridare il respiro a un malato in rianimazione. L’unica arma che personalmente possiedo sono le parole e mi sembrava giusto adoperarle – soprattutto in questo caso – per uno scopo umanitario.

Perché in situazioni come queste non si può rimanere letterati d’élite dietro scrittoio e calamaio, non si ci si può rinchiudere nella rassicurante torre d’avorio della cultura e lasciare il mondo andare a rotoli.

“Estranei”, poesia di Lavinia Barletta a p.79 dell’e-book. Fonte: perquandotorneremo.wixsite.com

In barba perciò a chi dice che arte, poesia e letteratura sono inutili perdite di tempo. Per quando torneremo dimostra che ciò non è vero. Rispondo agli increduli con le parole del professor Keating ne L’attimo fuggente: «Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo!»

Angelica Rocca

Ringraziamenti

Ringrazio Lavinia Barletta, amica e poetessa che mi ha “girato la call” permettendomi di partecipare al progetto, ringrazio ancora una volta IL CLEB e in particolar modo Sara che gentilmente ha risposto su Instagram alle mie curiosità: sue sono le parole tra virgolette disseminate nell’articolo.

Qui il link al sito in cui troverete tutte le informazioni per scaricare l’e-book e donare:

https://perquandotorneremo.wixsite.com/home

Bring me back to life

Sentivo che il mio tempo stava per scadere.
Ma qualcosa in me non era d’accordo.

Non ricordo come sia finito a terra, tra il fango e le cartucce scariche. In questo momento non ha alcuna importanza.

Sento l’uniforme zuppa da capo a fondo. Qualche ora fa il cielo ha rilasciato una pioggia leggera inumidendo il terreno su cui sono steso.
L’aria di battaglia rimane statica e opprimente, bloccata dalle nuvole che sovrastano il campo.

Questo non facilita la mia respirazione, già in difficoltà per altre ragioni.

I miei indumenti non sono bagnati solo a causa dell’umidità.
A testimoniarlo è la mia mano, colorata d’un rosso scarlatto dopo aver stretto la spalla dolorante.

Mi hanno sparato pochi minuti fa, ma non sono a terra solo per questo.
In passato, mi è capitato di combattere nonostante una ferita di arma da fuoco. E quella di adesso non è di entità più grave.

Capita.
Capita che un soldato non regga le vessazioni della battaglia.
In questo momento ciò che mi pervade è una forte stanchezza.
Non fisica, non emotiva, non mentale.

Ho bisogno di rigenerare qualcosa che manca.

Giungere a questa consapevolezza mi ricorda le domande che mi ponevo insieme ai miei compagni.

Ragazzi, secondo voi” aveva esordito il più giovane del gruppo “quando tutto va a rotoli, e abbiamo attuato tutte le procedure d’emergenza, fallendo, cos’è che dobbiamo fare per salvare noi e il buon esito della battaglia?

Non ricordo che risposta ebbe, probabilmente ci perdemmo in spiegazioni tecniche sulle procedure d’emergenza.

Ci distraemmo così dall’unica domanda che meritava una risposta.

Mi sono arruolato perché sentivo di non poter stare con le mani in mano. Fu l’inizio di un percorso in cui, a sprazzi, ci capii davvero qualcosa.
Il forte Amore di lottare per qualcosa e non contro qualcosa, mi risvegliava.
E forse ciò di cui ho bisogno adesso è proprio questo.

Il cuore inizia a battere più velocemente. “Oh, vuoi provare a riportarmi in vita almeno per un’altra notte?” chiedo stupidamente al mio organo.

Non sarà sufficiente.

Sento il fango penetrare nei vestiti, ho un brivido: il corpo inizia a raffreddarsi.

Penso che mi sto lasciando morire, perché in fondo sarei in grado di curare la ferita.
Ma va bene così, ho fatto la mia parte. Non ho risparmiato nulla.
Ho dato tutto.

Voglio solo riposare, mi aiuterà a non sentire più quell’orribile sensazione di aver smarrito qualcosa.
Desidero la pace.

L’umidiccio sulla spalla si espande continuamente, insieme al dolore che si propaga in me.
Mi fa male il petto, respirare diventa complicato.
Guardo di fronte a me: il fumo di un’esplosione colora lo sfondo illuminato dal fuoco. Il cielo è ancora coperto dalle nuvole ma credo stia facendo buio.
Inizia a offuscarmi la vista, chiudo gli occhi.

Dunque è così che si muore.
La vita scivola via da te in modo graduale.
Progressivamente.

Mi abbandona la forza fisica.

Poi le emozioni, con una rassegnazione tranquilla.

E infine crolla la mente.

C’è silenzio adesso, c’è pace.

Silenzio…

Pace…

No, qualcosa c’è. Non c’è il vuoto che mi aspettavo.

Mi sento esistere.
È strano, perché non sto pensando.
Sento solo che esisto.

Improvvisamente mi accorgo che questo momento è perfetto.

Adesso, nel momento in cui mi sento esistere, non ci sono preoccupazioni, non c’è disperazione, non c’è voglia di lasciare tutto.

Godo della beatitudine di questa consapevolezza. Mi rendo conto di aver trovato ciò che avevo smarrito.

Ma aspetta, cos’è che mi sta riportando in vita?
Sì, perché mi sento vivere.

Essere presente a me stesso mi ricorda una frase che mi dissi tanti anni fa.

Diventerò lo scudo di ciò che voglio proteggere”.

Tali parole risuonano in me ben oltre il livello mentale.

Non posso morire, non ho ancora finito la mia battaglia.

Mi risveglio dal torpore della quasi morte.

Il cuore accelera e mi sforzo di respirare nonostante il dolore lancinante.

Apro gli occhi e trovo il campo di battaglia.

Il bruciore alla ferita mi ricorda che devo fermare la fuoriuscita di sangue se voglio sopravvivere.
Lentamente sposto il braccio all’altezza della cintura, nel tentativo di recuperare il kit di pronto soccorso.

Sento dei passi in lontananza e delle urla. Dei soldati sorpassano il mio corpo e si posizionano per difendermi.
Qualcuno chiama il mio nome.
Un compagno si getta a terra accanto a me “Stai bene?” chiede.
” rispondo “aiutami a curare la ferita, così potrò aiutarvi ad avanzare”.

Inspired by: https://www.youtube.com/watch?v=wUiWIBiVH4U

Angela Cucinotta

Siamo soldati

 

A chi, ogni giorno, continua ad alzare la testa per scrutare il cielo.                                                                          Nonostante tutto.

 

Siamo soldati

Siamo soldati,

quando scacciamo la paura che fa tremare le nostre gambe;

quando abbiamo la forza necessaria per andare consapevolmente incontro al terrore;

quando resistiamo al silenzio assordante della realtà.

Siamo soldati,

quando il nostro cuore pulsa di ideali che abbiamo giurato di rendere concreti;

quando, sporchi di sangue, ci rialziamo dal suolo;

quando nulla riuscirebbe a farci cambiare idea.

Siamo soldati,

quando conviviamo con l’orribile dubbio che in fondo sia solo colpa nostra;

quando le lacrime smettono di avere la forza di fuoriuscire;

quando le nostre spalle sono affaticate dal tempo.

Siamo soldati,

quando, davanti al pericolo, l’adrenalina e la paura squarciano in due il nostro corpo;

quando combattiamo una guerra sul suolo e su di noi;

quando diventiamo lo scudo di ciò che vogliamo difendere.

Siamo soldati.

Siamo soldati in tutto questo.
Non cerchiamo la gloria, non è il nostro traguardo.
Decidiamo di combattere per essere scrittori dell’imminente futuro.

Non siamo eroi, siamo soldati che hanno offerto il proprio cuore alle cause che renderanno migliori le vite degli altri, e le nostre.

Angela Cucinotta

L’aracnofobia

Chiunque ne soffra in maniera lieve o grave sa come ci si sente quando si nota quel minuscolo, o un po’ più grande, insetto con 8 gambe che si dimenano.

Un brivido, misto schifo, misto paura ti assale.

Noi aracnofobici siamo dei grandi osservatori: riusciamo ad individuare la bestiola nel giro di un minuto su una superficie quadrata di 12 km. Abbiamo un radar. E quando finalmente lo scorgiamo sono due le possibilità: o ci allontaniamo con fare sospettoso, cambiando casa o automobile oppure passiamo all’attacco, mai direttamente, ma incitando gli altri a fare qualcosa.

Grazie a questa diffusissima paura, si riescono a stringere forti legami con il genere umano che, per una volta nella vita, si presenta affabile e ben educato, quasi.

Due volte mi capitò di vedere un ragno sul parabrezza della moto.

La prima volta ho rischiato di andare a sbattere perché guardavo quell’insetto demoniaco e non la strada. Mi sono fermata e ho chiesto ad una passante, sulla sessantina, dai modi poco fini, se avesse paura dei ragni e se potesse uccidere quello che si trovava lì, sul mio bolide. La signora in tutta eleganza si è tolta la ciabatta e ha dato un colpo così forte al parabrezza che anche il ragno ha detto “ao, guarda che lo rompi”.

Preferivo il ragno.

La seconda volta, per lo stesso motivo, ho chiesto ad un giovane della mia facoltà se potesse far qualcosa per allontanare il ragno, e lui, senza perdere l’occasione prima ha cacciato l’animale e poi si è dato al corteggiamento più sfrenato. È circa due mesi che siamo amici.

La situazione cambia un po’ se il ragno lo vedete a casa o comunque coi parenti, perché non c’è potenza di farlo uccidere, preferiscono muoia tu perché il ragno porta bene, tu sei inutile.

Poi ci sono i simpatici “e in Australia come fai?” “E in Congo come fai?” “E in Nicaragua come fai?” MA CHI CI VUOLE ANDARE?!

Oltre che sono povera ma poi, secondo voi, sapendo che posso incontrare un ragno grande come un gatto ho interesse a visitare il posto? Che per carità meriterà pure, ma anche mai.

Una volta persi il telefono per un ragno. Stavo guardando uno di quei video dove un ragazzo cerca di prendere un ragno grande quanto il Molise, ma la bestiola salta e finisce sulla fotocamera. Mi è partito il telefono ed è caduto fuori dalla finestra. Ma si può?! Voglio i danni.

Per l’aracnofobico puro non esistono peluche carini, giocattolini, video teneri. Quella bestiaccia rimane sempre uno strumento del Signore per punirci.

In questo caso, più che in altri, è proprio vero che le dimensioni non contano.

A tutti i ragni che ci stanno leggendo: sappiate che non vi detestiamo, cioè potete anche condividere il pianeta con noi, chiaramente, ma, possibilmente e ve ne preghiamo, sull’altro emisfero dell’equatore.

 

Paola Puleio 

La sentenza

M.C. Escher – Altro mondo

Stando attento a non essere notato, mi  inoltrai all’interno del palazzo che mi era stato indicato da Joseph.
Secondo le sue istruzioni, avrei dovuto salire una rampa di scale evitando di utilizzare l’ascensore, per quale motivo non saprei. All’epoca dei fatti ero giovane e meno interessato ai dettagli di quanto non lo sia adesso. Un uomo chiamato “Pavese” mi avrebbe atteso in cima alle scale per scortarmi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’interno del buio androne mi feci coraggio e iniziai a salire le scale, sfiorando il muro con mano tremante, quasi temessi che potesse improvvisamente ferirmi. In cima alla rampa trovai chi cercavo. Un uomo piccolo e forse più giovane di me mi accolse con un sorriso. Senza che avessi il tempo di dire chi ero e chi mi mandava, mi invitò a seguirlo con placida fermezza. All’epoca dei fatti ero giovane, come ho già detto, e quando si è giovani si finisce a volte per pagare lo scotto di possedere più entusiasmo che buonsenso. Camminai scortato dal Pavese lungo corridoi ora stretti, ora larghi. Qualche volta dovemmo chinarci, perché il tetto si faceva basso a tal punto che solo un bambino sarebbe potuto passare tenendosi ritto. Una volta il Pavese si girò sorridente a guardarmi, volendo forse saggiare la mia meraviglia. Ma ciò che ebbe a leggere sul mio volto doveva essere più vicino allo sgomento che alla meraviglia, perché non si girò più. Pensai di averlo offeso, e mi dispiacque. Mentre attraversavamo un corridoio dalle pareti pulsanti, gli chiesi se fosse stato Joseph a informarlo del mio arrivo. Continuò a camminare senza degnarmi di risposta. Allora, Joseph era un uomo importante. Faceva parte della commissione scientifica locale quando l’antitanatina venne scoperta dalla professoressa Yvonne Nettesheim nel 3965. Nel 3992, anno in cui nacqui, la molecola venne introdotta nel mercato. Il prezzo era proibitivo per la quasi totalità della popolazione mondiale. Quando avevo circa vent’anni, il prezzo era sceso a meno della metà rispetto a quello iniziale. Per il mio trentaquattresimo compleanno decisi di acquistare la mia fiala di antitanatina, ormai praticamente alla portata di chiunque. Ricordo ancora distintamente il momento in cui tenni la scatola rossa tra le mani sudate. La mia ragazza di allora mi aiutò a iniettare il prodotto in vena. Lei lo aveva già fatto qualche mese addietro, mi avvertì che avrei provato un senso di calore irradiato al torace, seguito poi da un profondo torpore. Questo non fu vero per me, perché sperimentai invece un senso di euforia durante tutto il processo. Mi addormentai, stremato, alle prime luci del mattino seguente. Ma il mio sonno fu simile a uno stato di dormiveglia allucinato. Al risveglio, non mi sentivo assolutamente riposato. Al tempo non sapevo ancora che sarebbe sempre stato così da allora in avanti.
Il Pavese si muoveva con agile familiarità attraverso i corridoi. Quando fummo giunti innanzi a una porta massiccia, di un colore mai visto prima e tutt’oggi indefinibile, mi disse di attenderlo lì. Non bussò, ma la porta si spalancò ugualmente e lui vi passò attraverso. Ricordo di aver intravisto qualcosa dall’altra parte della porta, ma cosa di preciso non saprei dirlo. Forme geometriche forse, o colori. Durante l’attesa rimasi immobile. Mi ritrovai inspiegabilmente a pensare a mio padre, vecchio amico di Joseph. Pensai alla sua semplicità di “uomo” nella vecchia accezione del termine. Da quando la sterilizzazione obbligatoria di massa impose il divieto assoluto di generare nuova prole, mi sono chiesto spesse volte cosa provassero gli uomini del mondo antico nel concepire una nuova  vita. Non sono mai stato padre, ma sono stato a mio tempo figlio, credo. Chissà cosa doveva provare mio padre. “Certo, si inizia a essere padri” – pensai – “ ma si cessa mai di essere figli?”. Il rumore della porta che si apriva mi strappò ai ricordi e alle riflessioni. Ne uscì lentamente il Pavese, che prese a fissarmi con aria divertita. Stavolta fui io a infastidirmi. Azzardai allora a chiedergli se ciò che cercavo si trovasse al di là della porta, e volli appositamente fissare la porta mentre mi rivolgevo a lui, come per negargli timidamente il ruolo necessario che in realtà ricopriva. Il Pavese non mi rispose, allora mi girai, imbarazzato. Con mia grande sorpresa  era sparito.
Attraversando la porta sentii e vidi tante cose, ma sono certo di non averne compresa appieno neanche mezza. Un uomo, o forse una donna, mi attendeva con la schiena poggiata al muro. Non appena mi vide mi chiese se avessi i soldi, gli risposi di sì. Mentre armeggiava con una valigetta chiese il mio nome, gli risposi che non lo ricordavo più. Estrasse dalla valigetta una fiala dal contenuto lattescente che mi ricordò l’antitanatina acquistata tanto tempo fa. Un po’ intimorito chiesi a quella figura, dalla quale ormai dipendeva il mio destino, entro quanto tempo l’antitanatina sarebbe stata finalmente scacciata via dalle mie vene, ormai ridotte a rigidi tubi macilenti. Mi rispose con una frase enigmatica, che mi fece sorridere; disse: “tra un po’ di tempo fa”.
Compiendo il percorso a ritroso, uscii più velocemente che potei da quel palazzo coi suoi assurdi corridoi.
Stringevo in pugno la fiala che avrebbe finalmente posto rimedio a tutto. Era stato Joseph a fare da intermediario per me, come per altri pochi che potevano permetterselo, forse mosso dall’antica amicizia con mio padre o dai sensi di colpa o ancor più probabilmente dalla sua mostruosa cupidigia. Avevo venduto tutto ciò che possedevo e racimolato i soldi necessari con pazienza, per circa 20 anni. Allontanatomi dall’ingresso del palazzo iniziai ad affrettare il passo, prima che me ne rendessi conto stavo già correndo. Giunto alle baracche che da ormai qualche anno erano diventate dimora mia e di altri giovani sbandati, mi gettai sul duro pavimento, piangendo, felice come mai mi era accaduto di essere in tutto quel tempo. Finalmente stavo per ricongiungermi alla semplicità degli uomini antichi, al tutto, al nulla. Il fracasso dei vetri sfondati e le pesanti mani degli agenti che mi bloccavano a terra distrussero in una manciata di secondi  le mie illusioni. Mi strapparono dalle mani la fiala e mi serrarono ai polsi le manette. Nella caotica scena che mi vedeva attonito e sconfitto, sentii uno degli agenti parlare di una certa soffiata al dipartimento anti-siero da parte di uno spacciatore. Sentii inoltre che insieme a me erano state poste in stato di arresto altre 12 persone, tra le quali un noto e illustre personaggio. Intuii subito che si trattava di Joseph. Da quel giorno mi trovo qui, in attesa della sentenza definitiva.  Io non sono altro che un disgraziato, signor giudice, le parlo con la destra sul cuore. Ho fatto uno sbaglio di cui mi pento, adesso ho capito, ma mostrate la clemenza che si addice a un uomo della sua risma. In fondo, avevo solo seicentotredici anni all’epoca dei fatti, non ero in grado di discernere da dove partono e dove portano i sentimenti. Ho confessato, come ha confessato Joseph, e so che a lui è stata concessa la pena di morte. Abbiate pietà, signor giudice! Abbiate pietà! Ho confessato come Joseph, concedetemi la pena che mi spetta di diritto! ». Il giudice si alza solenne, in silenzio. La corte si aggiorna.

Fabrizio Bella

L’importanza della vita e della morte

Il nostro racconto comincia in una casa calda e accogliente dell’Arizona.

È una giornata particolarmente cupa e, sorseggiando una tazza di buona cioccolata calda, Mortimer La Morte decide di sfogliare il suo voluminoso album fotografico.

https://www.flickr.com/photos/concho_cowboy/35022998970?fbclid=IwAR34UJA1MrJbJQ3P0KQOPKmRwG3pAKBn31yPCJmU8thBVJo6pQ_mYIRhfxI

Ebbene sì, tutti conosciamo il suo lavoro, ma lui aveva anche il compito di fotografare chi passava a miglior vita. Dopo essersi seduto sulla sua poltrona verde, che aveva comprato molti anni fa al negozio “Cose che nessuno vuole ma che io mi ostino ad esporre”, Mortimer comincia a sfogliare le prime pagine. Vengono  così fuori tanti ricordi; si passa dalla sua prima foto, scattata migliaia di anni fa, alle più recenti. Dopo qualche ora passata davanti a quelle fotografie, Mortimer si rende conto che a fianco ad ogni defunto c’era sempre un parente, un amico in lacrime per la sua perdita. Mortimer così capì. Tutte quelle persone erano tristi a causa sua. Improvvisamente un senso di colpa invase Mortimer. Non voleva più fare del male alla gente: non avrebbe mai più fatto il suo lavoro.

Così i giorni passano. Una sera, Mortimer, guardando il telegiornale, nota un servizio che lo riguarda:

«Edizione straordinaria! Sembra che al mondo nessuno muoia più! Cosa è successo alla Morte? Sarà mica andata in vacanza? Vi terremo informati!».

A fine servizio Mortimer fa un piccolo sorriso. “Non sono mica andato in vacanza, è solo che non riesco più a fare il mio lavoro. So che continuando così non ci sarà più abbastanza spazio nel mondo per tutti. Devo fare qualcosa”, pensa la Morte. Così, il mattino dopo, Mortimer decide di recarsi da uno psicologo. Dopo un breve viaggio in autobus, Morte arriva davanti a un grande edificio. Si avvicina alla porta e, dopo aver suonato il campanello del Dottor Ci penso io, entra. La stanza in cui si ritrova è piena di librerie; al centro vi si trovano una poltrona e una scrivania. Non c’è alcun’anima viva. Improvvisamente, una porta alla destra della stanza si apre. Ecco che un uomo baffuto, non molto alto e dai capelli brizzolati compare.

«Scusi se l’ho fatta aspettare, ma stavo preparando il pranzo. Piacere, sono il Dottor Ci penso io. Ha qualche problema? Bene… Cioè, male, ma ci penso io!» afferma il nuovo arrivato. Mortimer pensa da subito che sia molto simpatico. «Il piacere è tutto mio. Mi chiamo Mortimer La Morte e, beh, può capire da solo cosa io faccia nella vita» dice Mortimer. «Bene, è da un po’ che non si sente parlare di te. Posso darti del tu, vero? Comunque, non credevo che dopo questa tua pausa io sarei stato il primo. Lasciami almeno sistemare i capelli e mangiare l’ultimo boccone». «No, no! Non sono venuto per questo! Sono venuto perché ho un problema. Da un po’ormai non riesco più a fare il mio lavoro, non posso rendere triste qualcuno. Speravo tu potessi aiutarmi». «Oh, capisco. È la prima volta che mi capita un caso del genere, ma ci proverò. Prego, accomodati sulla poltrona».

Mortimer, così, comincia a raccontare ciò che lo ha portato a prendere questa decisione. «Bene, ho chiara la situazione. So che il tuo è uno sporco lavoro, e non che l’idea di finire in una bara mi piaccia, ma fa parte della vita, e lo sai anche tu! La gente comincia a domandarsi cosa stia succedendo, pensano che qualcosa non vada! Penso che la prima cosa da fare sia dirlo a tutti. Il nostro tempo è finito, per oggi. Torna pure quando vuoi». Così dicendo, il dottore scompare dietro quella stessa porta a destra. Mortimer riflette molto sulle parole di Ci penso io e decide che rivelerà al mondo questo problema. Si reca così agli studi televisivi e, con il consenso del direttore compare durante l’edizione pomeridiana del telegiornale.

«Non sono andato in vacanza, ho solo deciso che mai più prenderò la vita di qualcuno».

Presto la notizia si diffonde su tutti i giornali. La gente è felice. Immagina una vita eterna. La morte così diventa una celebrità, qualcuno arriva a pensare che dovrebbe ricevere persino il premio Nobel per “la migliore decisione mai presa al mondo”. Milioni di persone lo acclamano, non potendo desiderare nulla di meglio. Mortimer però è confuso, da un lato è felice, ma dall’altro immagina cosa succederà in futuro. Decide comunque di non pensare al futuro e di godersi la sua celebrità. Mortimer decide di ringraziare il Dottor Ci penso io. Senza il suo consiglio non avrebbe mai ottenuto questo risultato. Ritorna allo studio del dottore e si accomoda sulla poltrona. «Mortimer caro, vedo che ora sei felice» dice il dottore. «Sì, lo sono, e voglio ringraziare proprio te per questo. Ho fatto ciò che mi hai suggerito e ora sto molto meglio» afferma la Morte. «Sono felice per te, ma sei sicuro della tua decisione? Cosa succederà quando al mondo ci saranno troppe persone? Si creeranno moltissimi problemi! La gente, continuando così, presto si stancherà. Non penserà a te come ad un eroe, ma ti odierà!» replica il dottore. «Alla gente piace quello che ho fatto! Non arriverà mai ad odiarmi! Chiunque vorrebbe vivere per sempre! Nessuno penserà mai una cosa del genere». Così dicendo, Mortimer esce da quell’edificio arrabbiato, deciso a non tornarci più.

Gli anni passano veloci, la popolazione aumenta, ormai senza controllo. Dopo centottanta lunghi anni, il malumore e la rabbia sono le uniche emozioni che pervadono ogni individuo. Il cibo ormai è quasi finito, il verde dei prati è scomparso, lasciando spazio a grigi edifici pieni di gente. A nessuno importa più il valore della vita. Nessuno si gode ogni attimo. Mortimer è stato dimenticato, come succede per ogni moda. La gente non vuole vivere più, è stanca! Avendo perso ogni tipo di felicità, Mortimer si reca per l’ultima volta dal dottore; la poltrona e la scrivania sono consumate dal tempo. «Mi dispiace. Avevi ragione», afferma la Morte guardando gli occhi stanchi dell’uomo che aveva cercato di aiutarlo. «In molti sono venuti da me lamentandosi della loro immortalità. La morte fa parte della vita; tu fai parte della vita. È vero, perdere un caro fa sempre male, ma, come vedi, è molto importante che questo accada. Mortimer, voglio essere il primo questa volta. Te ne saremo tutti grati». Anno 4586, è una giornata soleggiata. Il nostro amico Mortimer ha ritrovato la felicità. Seduto sulla poltrona, sorseggiando una cioccolata calda, sfoglia l’album fotografico. Si ferma a guardare la foto forse per lui più importante e non può far a meno di commuoversi: è la foto del dottor Ci penso io, l’uomo che gli aveva salvato la vita.

 

Beatrice Galati