Piccolo cuore stazione

Aria aveva una sola certezza nella vita: niente dura per sempre.

Sembrava essere il suo destino quello di vedere spalle voltate e sempre più lontane. Perfino il suo nome le era sfuggente.

Aria non aveva mai conosciuto il calore di un abbraccio materno, né, tantomeno, la disciplina di un padre severo. Era cresciuta nello zelo, per lo più ignorata.

Aveva anche creduto di essere un fantasma, per un certo periodo della sua vita. Era viva e vegeta, però, e il palpitare che sentiva nel petto ne era la prova tangibile. Troppe volte ne aveva percepito la vuotezza e altrettante lo aveva dovuto trattenere, nella paura che le scappasse il respiro.

Aria aveva l’innamoramento facile. Non pensate di lei che fosse una di quelle a cui bastasse incrociare lo sguardo di un passante per perdere la testa. Era semplicemente innamorata dell’amore stesso, in tutte le sue forme, e come un’assetata cercava di afferrarlo e spremerlo, sperando di ricavarne qualche goccia per bagnarsi le labbra.

Aria, dovete sapere, era anche poco scaltra: non capiva di avere per le mani uno scarto, frammenti di sentimento gettati via come cartacce, da chiunque le passasse abbastanza vicino e per abbastanza tempo da convincerla di volerle rimanere accanto. Una pallida riproduzione di ciò che davvero cercava, edulcorata dalla sua stessa mente.

Aria sognava e sperava e, forse spinta dal timore di rimanere sola, finiva spesso per tessere storie sui volti che incontrava, imbellettandoli e facendoseli andare a genio. Se ne affezionava.

Un continuo andirivieni aveva, così, popolato il suo piccolo cuore stazione, i benvenuti e gli addii all’ordine del giorno.

Tremante di fiducia, rimaneva ferma ogni volta ad attendere un ritorno, ma, anche se per brevi e intensi momenti sembrava che questo potesse essere possibile, non ve ne era mai stato davvero uno.

Solo nel buio della sua cameretta, nascosta dal mondo e priva di maschere, osava concedersi di lasciarsi andare allo sconforto.

Stringeva forte le palpebre, aumentava la presa delle braccia sul cuscino, nell’illusione di abbracciare un corpo caldo e vivo, e pregava.

Con il tempo, però, aveva smesso di fantasticare su ipotetici finali alternativi e attese per il futuro, e un pensiero aveva superato gli altri:

Magari, in un’altra vita, sarò io quella ad andare via.

Valeria Vella

Il bosco

Il bimbo tornava a casa con lo zaino in spalle. L’aria era fredda e secca, il vento soffiava, le foglie cadevano. Gli alberi erano rossi e lui scalciava le foglie mentre camminava. Tornava a casa dopo scuola, in un pomeriggio dove il sole stava piano piano calando e le ombre si allungavano.
Arrivato a casa entrò subitoin camera per gettare a terra lo zaino e buttarsi a letto. Restò a faccia in giù sul materasso per qualche secondo e poi alzò lo sguardo lasciando andare un sospiro: sopra il suo letto stava una mensola con i vecchi libri di suo nonno. Prese il suo preferito, un piccolo racconto d’avventura dove i protagonisti erano trasportati su un’isola nel mezzo all’oceano. Lo aprì su un’illustrazione di un gigantesco mostro, il corpo ricoperto di piume sgargianti, le fauci aperte su denti enormi e giallastri.
Il bambino sentì un rumore alla finestra. Si girò e vide una bambina che lo salutava dall’altra parte. Aveva addosso un maglione ed una sciarpa rossi, lunghi capelli neri, ed un sorriso sgargiante. La guardò con un interesse che sapeva non essere normale e andò ad aprire le ante. “Ciao, ti va di venire con me?” gli chiese. “Dove vuoi andare?” gli rispose il ragazzino. La bimba indicò dietro in alto alla sua destra “Andiamo lì, guarda”, e andò via indicandogli di seguirla.
Il bimbo saltò dalla finestra e si mise ad inseguirla. All’inizio le camminava dietro, ma lei aumentava il passo andando. Si girò indietro e lo guardo sempre sorridendo, “Avanti stammi dietro!” e si mise a correre. “Dove stiamo andando?” “L’albero in cima alla collina” rispose lei col fiatone e guardandolo adesso con gli occhi spalancati.
Avevano superato il prato e adesso si trovarono davanti all’inizio del bosco che saliva sulla collina. “Aspettami!” esclamò lui, e si fermò a riprendere fiato. Il bosco lo avevo sempre guardato da lontano, chiedendosi cosa ci fosse lì dentro: ogni tanto vedeva uno stormo uscire da quegli alberi e si chiedeva sempre se fosse le casa di quelli uccelli e di chissà cos’altro. “Vieni dobbiamo arrivare in alto, manca ancora tanto” gli esclamò da dietro il sottobosco la bambina. Alzò lo sguardo e la vide lì in fondo, ad aspettarlo, con la sciarpa impigliata in un ramo, il viso arrossato e il fiato corto.
Salì verso di lei calpestando le piante per farsi spazio. Appena passò il primo tronco qualunque rumore esterno si fece opaco. Adesso percepiva dei rumori tra gli alberi, appena udibili ma chiari e presenti nella sua mente.
La bambina gli venne incontro correndo, lasciando sul ramo la sciarpa senza accorgersene. “Vieni dai, che aspetti!” gli disse prendendolo per la mano e trascinandolo con sé. Lui la seguì inciampando parecchie volte sulle pietre e spezzando le piante che aveva davanti. Anche l’aria adesso era piena e la luce che proveniva da sopra gli alberi colpiva le foglie in maniera strana dandogli un verde che lui credeva di non aver mai visto.
Si fermarono di colpo, con lei che teneva gli occhi sbarrati e si portava l’indice alle labbra. Si guardò intorno e lo guardò sorridendo a bocca aperta: “Senti?” gli chiese. Si fermò e ascoltò anche lui: era un suono basso in lontananza, tanti esseri che si muovevano. “Sono oltre il picco, possiamo vederli se arriviamo in cima” disse lei e si precipitò via lasciandolo indietro.
Questa volta faticò a starle dietro, lei correva senza preoccuparsi più di nulla, saltando a piè pari i tronchi. Mentre si avvicinavano alla cima la boscaglia si faceva più rada ed un vento freddo aveva cominciato a farsi sentire.
L’albero era solitario lassù, lasciato in pace dagli altri, svettava su tutto. Le foglie di un verde dorato venivano mosse dal vento, le radici sbucavano dal terreno mentre il bimbo saliva. La bambina era già in cima e si sbracciava chiamandolo: “Dai vieni veloce, vieni a vedere prima che vadano via”. Lui le corse in contro, ora eccitato: uno strano odore proveniva dal gigantesco albero che, dolce e pungente, gli riempiva i sensi. Arrivato in cima la bimba andò dal lato opposto del tronco, lui la seguì e insieme guardarono giù: una mandria di animali pascolava nella vallata sotto di loro, i corpi lunghi e pesanti trascinati piano piano dalle loro zampe. Erano quadrupedi, con un lungo collo da cui sporgevano delle sacche che sembravano gonfiarsi col loro respiro. Dal capo fino alla punta della lunga coda erano ricoperti di sottili piume, che colpite dal sole variavano dal verde ad un giallo caldo; alcuni erano avevano tonalità più scure, altri quasi si confondevano con l’erba. Uno di questi animali alzò il collo e barrì profondamente: il bimbo lo sentì forte e chiaro da quella distanza e sentiva che se fosse stato più vicino gli sarebbe risuonato nelle ossa. L’animale cambiò direzione e si allontanò nella direzione opposta a quella da cui lo guardavano i due seduti adesso accanto al tronco sul colle: fu seguito mano a mano anche dagli altri.
Il bimbo guardò lontano e vide alla sua destra che la valle che stava osservando andava a finire verso un mare che non aveva mai saputo essere lì. Vedeva appena la spiaggia da lì lontano, ma scorse un gruppo di animali muoversi laggiù e prendere il volo subito dopo. Venivano verso di lui, probabilmente avrebbero attraversato il bosco che aveva appena passato. “Non c’era tutto questo” si ritrovò a dire senza rivolgersi a nessuno, poi guardò la bambina: i suoi occhi erano verdi e dentro la sua iride sembrava scorrere qualcosa che gli faceva cambiare colore, come un fiume che lento si muove. Il bambino la guardò meravigliato e spaventato allo stesso tempo, lei gli sorrise e portò di nuovo lo sguardo lontano oltre l’altura su cui si trovavano. “Bello vero?” disse lei.

 

Matteo Mangano

Mia Cara Angelina

Tanina ha la demenza senile, ogni settimana vede la dottoressa e un giorno le racconta della sorella Angelina, ricordandola con queste parole:

Io sono sola
Mia sorella stava a Catania
Morse tempo fa
Bellissima mia sorella
Era più grande di me, ma quanto era bella
Sin da giovane
Sotto casa c’erano tanti corteggiatori
Che io non mi facevo mai vedere
Perché a veder me più piccola
Messa a confronto con mia sorella più grande
Mi vergognavo
Quando stava morendo mi ha chiamata
Mi ha detto ‘Tanina io ti sto aspettando’
Ma nessuno, nessuno che mi ha accompagnata
Io la volevo vedere,
È sempre la prima
quando dico le mie preghiere la notte. 
Mia cara Angelina dovevamo essere assieme adesso

 

Sofia Pugliatti

L’incubo

Ogni respiro era come una lama che tagliava le mie narici in quella notte ruggente. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola e, di tanto in tanto, mi pareva di essere sul punto di cadere da un dirupo. L’esasperazione non mi consentiva neanche il pianto: ogni qualvolta gli occhi iniziavano a irrigarsi, una corsa senza fine agitava il mio cuore, prosciugando tutto. Non trovavo pace. Non nel pianto, non nel sonno. Ero riuscita a dormire per un’ora soltanto, poi l’incubo feroce mi aveva strappato via il sonno. Ero sola, al buio e poi, sola, in mezzo alla gente. Poi c’era lui. Affascinante, alto, elegante. Era lontano prima, poi mi venne incontro, ma a quattro zampe e, appena fu abbastanza vicino, mi aggredì. Non riuscivo a comprendere perché fossero tornati i miei brutti incubi. Odiavo e amavo.

Ma amavo davvero? Odiavo davvero?

Pensavo a quegli occhi verdissimi che, circondati da mille rughette, ridevano. D’un tratto, il calore riempiva le mie tempre e sentivo di volergli un tale bene da volerlo proteggere a tutti i costi. Così bene da condividergli con generosità ogni mia gioia, da dedicargli versi e quadri. Poi l’immagine diveniva sfogata, gli occhi si deformavano e mutavano in due fessure inespressive e riuscivo a vederlo in un sorriso marpione, con le sopracciglia inarcate, fieramente cattivo ed egoista. Aveva un’aria sadica e il temperamento di chi scalpita e afferra tutto ciò che vuole, senza provare alcuna empatia o rimorso.

Confermai sommessamente, invece, la mia decisione, perché ero corda tesa sul punto di spezzarmi. Tutto il dolore che avrei provato a seguire, mi avrebbe consentito di fermare gli incubi e di essere nuovamente libera.

Mi misi su con una certa angoscia e, tremante e impaziente, digitai il suo numero. Al terzo squillo rispose, la voce era incupita dal sonno, ma rimaneva quella che donava parole di miele al mattino.

“Pronto?”

Non potevo più trattenermi e scoppiai in un pianto sommesso. “Scusami.” Iniziai. “Volevo sentirti. Avevo solo bisogno di sentirti. Non riesco a dormire stanotte. Faccio gli incubi.” Le lacrime mi inondavano il viso e mi feci piccola contro il muro. Volevo sparire tra le pareti, attendendo le prime luci del mattino.

“Che hai sognato?” Mugugnò a malapena e riuscivo a immaginarlo messo su un fianco con gli occhi chiusi e tanta voglia di dormire ancora. “Ma stai piangendo?”

“Sì, io ho paura.” Gli confidai, sedendomi sul letto sfatto. “Ho paura che non mi vuoi bene.”

“Certo che ti voglio bene!” L’impasto del sonno era quasi del tutto sparito e sentii dei rumori. Immaginavo si fosse alzato in modo da rendersi abbastanza sveglio per la conversazione. Ci fu silenzio per qualche secondo e poi rise confuso. “Sei impazzita?”

“Non so… io ho molta paura,” iniziai, “che tu mi faccia del male.”

Rimase in silenzio. Lo percepivo, anche se solo attraverso un telefono, cupo e irrequieto.

“Sento come se tu fossi un selvaggio. Ho sognato che eri un animale. Come se tu fossi un animale senza padrone, come se non avessi regole e limiti. Mi spaventa molto.” Ammisi, con una forte dose di apparente tranquillità sul finire. “Le persone che mi vogliono bene sembra mi vogliano tutte difendere da te. Anche se non fai nulla, anche se non fai nulla…”

“Io sono ciò che sono.” Sbuffò. “Che importa poi quello che pensano gli altri?”

Era vero. Che importava? Il problema era che, infondo, mi sentivo in pericolo e il fatto che lo pensassero gli altri era solo la conferma esterna a quella parte di me che voleva scappare via. Seguì, quindi, un lungo silenzio dove la tensione era alle stelle. Io non riuscivo a parlare, perché avevo troppo da dire; la mia controparte, forse, perché non aveva o non poteva dire nient’altro.

“Finirà presto. Io lo so. Tu che pensi?”

“So solo che non ti voglio perdere. I miei comportamenti a volte prescindono da ciò che provo.” Era molto triste. Guardai l’ora. Erano le tre e trentasette di mattina. “Sappi che ho paura anch’io. Ho una paura matta, spesso irragionevole, di farti male.”

“E allora perché lo fai?” Ripresi a piangere a dirotto mentre lui sussurrava parole delicate per rasserenarmi, ma non riuscivo proprio a fermarmi.

“Perché sono egoista e devo ancora crescere probabilmente.” Rispose poi e seguì un continuo rumore di passi. Era chiaro camminasse avanti e indietro per la stanza e mi alzai d’istinto. “Io credo però che non sia giusto che finisca. Sento che non deve andare così.” Aggiunse profeticamente. Aveva capito le mie intenzioni.

Non negai. “E come dovrebbe andare?”

Sospirò. Sospirai. Aumentai il passo, come un leone in gabbia, percorrevo la stanza senza una logica precisa. L’ansia mi mangiava, il pianto silenzioso mi corrodeva, pur fingendomi serena in attesa di una risposta degna della domanda.

“Noi due siamo come i tronchi di alberi sulla neve: apparentemente stanno sulla neve e sembrerebbe a tutti possibile spostarli con un piccolo colpo…” ragionò con grande pragmatismo e mi lasciai cullare dalla voce limpida e paterna, “ma no, è impossibile perché le loro radici sono ben ancorate al terreno.”

Questo pensiero mi impedì di continuare a piangere. Aveva la capacità innata di innestare serenità nel mio cuore, quando voleva, grazie alla sua sensibilità dosata. Non potevo però dimenticare il talento senza uguali nel distruggere tutta la mia pace. Pensai: “Se non ci fossero le irrequietezze che lui stesso crea, non avrei bisogno di essere rasserenata”

“Noi ci vogliamo bene.” Risposi. Ero tranquilla, ma stava per finire e, lasciandolo, sapevo che avrei amato di nuovo. “Ti voglio non bene, benissimo.”

“Anch’io, tantissimo. Mi raccomando, dormi con la luce accesa, magari…”

“Scusami ancora… dormi bene…”

“Buonanotte.”

Poi uscii dalla stanza per rimanere sotto il cielo. Il vento autunnale soffiò via il grigiore, così respirai. Vidi la Luna pallida, piena, gioire. Sentii la Luna cullarmi, materna, eterna. Sotto un cielo infinito, felice e innamorata come mai, piansi.

              Isabel Pancaldo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia e Isabel Pancaldo

Il passaggio

Si alzò dal letto svogliato quella giornata. Quei giorni gli sembravano passare senza che neanche se ne accorgesse, tra rotture e amici lontani che non senti mai.
L’aroma del caffè lo aiutò un po’ a riattivarsi, quel poco che gli bastava per andare avanti. Portò la tazzina alle labbra. Lasciò andare un sospiro. Guardò fuori dalla finestra e vide uno stormo di uccelli danzare nel cielo in cerchio.
«Accese la tv mentre incominciava a vestirsi per la giornata. Il telegiornale oggi era monotematico.
Da due anni a questa parte siamo stati abituati a strani eventi che hanno coinvolto ogni persona al mondo. Sono dopo tutto questo tempo ancora un mistero per qualunque scienziato sul pianeta. Abbiamo continuato a vivere le nostre vite in maniera normale e le autorità ci hanno assicurato che le analisi di questi eventi ciclici. Ciononostante molti pensano che questi eventi abbiano un significato maggiore: le autorità religiose riuniscono i fedeli in preghiera, mentre sette stanno nascendo ovunque convinte che tutto questo sia un messaggio da chissà dove che annuncia la fine del mondo o l’inizio di uno nuovo».

Prese le chiavi e uscì di casa. Chiuse il vecchio portone dietro di sé spingendolo con forza. Non ricordava dove aveva lasciato la macchina la sera prima. Si strinse nel cappotto per evitare il freddo umido e si mise a camminare. Arrivato alla macchina aprì di corsa lo sportello e si ficcò dentro sfregandosi le mani.
Mise in moto e andò via. La strada era vuota ma si notava una certa agitazione e le volanti della polizia erano più presenti del solito. Qualcuno urlava per strada e persone vestite in maniera stravagante andavano in giro in gruppo.

La giornata fu abbastanza complicata. C’era forte nervosismo tra i suoi colleghi e si percepiva una forte aura di tensione. Tornò a casa più stanco del solito, passando per vie sempre più piene di paura e urla.
Il cielo era sempre più pieno di stormi che coprivano il cielo. Il sole stava cominciando a calare oltre l’orizzonte.
L’aria sembrava più pesante.

Andò in cucina per vedere con cosa cenare, ma aperto il frigo vuoto gli passò la voglia di cucinare e si buttò a letto. Da lì vedeva la finestra e il cielo rosso, con le nuvole sfumate dal tramonto e mosse via dal vento.
Si alzò per respirare un po’ d’aria fresca, e si mise ad osservare i tetti delle case: da alcuni partivano delle colonne di fumo, su altri si raggruppavano persone con lo sguardo rivolto in su.
Su una delle case vide una persona da sola, con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Lo osservò per un po’, immobile nonostante il vento e il freddo.
Il sole toccò la linea del mare. Lo vide alzare il braccio destro verso l’alto e cambiare in viso: occhi spalancati, bocca aperta.

L’aria sembrò fermarsi immediatamente, tutto sembrava immobile. Poi di colpo venne il boato.
Un suono lancinante, sia armonia che caos. Il sole sembrava diventare sempre più rosso e muoversi verso l’alto, mentre quella melodia continuava a salire d’intensità.
Le nuvole cominciarono a muoversi verso il sole durante la sua risalita, e mentre questo raggiungeva lo zenith, quelle si andavano a mettere in cerchio tutto attorno.
Una grande sfera rossa osservava tutto l’alto, e le nuvole che lo circondavano in cerchio cominciarono ad allontanarsi. Ora le stelle brillavano in cielo con al centro un sole rosso che ricopriva quasi completamente la volta. La melodia di prima era adesso diventata il suono assordante della stella che bruciava.

Alcuni dei puntini in cielo sembrò che cominciassero a calare: delle piccole stelle incandescenti, di una pallida luce bianca, cominciarono a calare verso la superficie. Si arrestarono alte nel cielo ma adesso abbastanza vicine che il loro suono armonico raggiungeva la terra. Il suono si intensificò e la loro superficie cominciò a creparsi.
Da quelle sfere uscirono delle ali dello stesso colore abbagliante. I gusci caddero verso il suolo, senza mai arrivare però al suolo. Dei serpenti alati stavano adesso nei punti dove erano prima quelle stelle cadute. Stavano immobili, con le ali spiegate ma con il corpo in posizione fetale.

Restarono così per qualche secondo, poi cominciarono a riunirsi in cerchio esattamente al centro del gigantesco sole rosso. Il rumore che emettevano cambiò e divenne una vera melodia: un suono rivolto a qualcosa, struggente, che sovrastava qualsiasi altra cosa.

Le creature andarono contro la stella diventando impercettibili mentre si muovevano verso l’alto. Si vide solo una piccola e minuscola increspatura sul rosso quando sparirono del tutto.
Tornò il crepitio del sole, e questo sembrò avvicinarsi e ricoprire il mondo.
Tutto divenne bianco, mentre tutto veniva inghiottito.

Non seppe cosa successe tra il momento della visione e il momento in cui si rese conto di vedere di nuovo il mondo come era prima. Si rese solo conto che ad un certo punto il cielo era azzurro e che le rondini tornavano di nuovo verso sud. Si sentivano sirene in lontananza, scoppi.
Andò sul tetto. Il mare era rosso sangue, le onde si sbattevano contro la spiaggia.

Matteo Mangano

Immagine in evidenza: Illustrazione di Marco Castiglia

Lorraine e l’angelo

Quando si pensa all’aldilà, che sensazione si prova? Cosa potrebbe mai esserci dall’altra parte? Paradiso o Inferno? Angeli o demoni? Almeno questo era ciò che si credeva in genere. Lorraine non conosceva la risposta esatta a quelle domande, né tantomeno sapeva perché mai una persona, soprattutto giovane, avrebbe dovuto chiederselo, con tutti gli interrogativi che già offriva la vita terrena. Come vive un ateo? Se lo chiede spesso, questo. Per lei è inconcepibile l’ateismo. Lei, che sin da piccola vedeva cose strane, assisteva a fenomeni inspiegabili, che nemmeno lei capiva all’inizio. Quando era piccola, aveva paura di ciò che vedeva. Nessuno le credeva, ovviamente. Pensavano fosse una pazza svitata, una da manicomio. Aveva comunque cercato di vivere una vita normale, si era fatta delle amiche. Certo, poi aveva conosciuto Ed, e tutto era cambiato. La sua vita non era mai stata semplice, sin dall’infanzia, e da quella volta in ospedale…

…- Scendi dalla macchina, Lorraine. Dai, che andiamo a trovare la zia-. La zia aveva avuto un problema di salute, Lorraine non sapeva per certo di cosa si trattasse, ma la mamma era andata in ospedale a trovarla, ed ora che la zia stava meglio, lei poteva andare a farle visita. Quel giorno, Lorraine aveva saltato la scuola. Questo non faceva felice sua madre, ma allo stesso tempo andare a trovare la zia era la cosa giusta. Entrarono nella hall, una sala grande, con tanti pazienti che attendevano il loro turno, chi per visitare parenti come loro, chi per farsi fare una visita. C’erano un paio di infermieri, che annotavano costantemente ogni informazione su un quaderno. Le mandarono in un reparto al piano superiore dell’ospedale, che da poco tempo si era ammodernato con l’aggiunta dell’ascensore. Lorraine non capiva come avessero fatto i pazienti precedenti a salire senza ascensore fino al 1935. Pigiò il bottone per il secondo piano, e salirono. Quel giorno sua madre indossava un abito lungo, stretto in vita, e con una lunga gonna che le scendeva fin quasi alle caviglie. Dalla vita in su, invece, indossava una camicia bianca, maniche lunghe, con sopra una giacca blu, chiusa fino al merletto che copriva il collo. –Buongiorno- Salutarono l’infermiera presente in reparto, che le condusse fino alla stanza dove stava la zia, che appena la vide, il volto le si allargò in un sorriso. –Ciao, Lorraine. Niente scuola oggi? Sei venuta a trovarmi con la mamma? Ma quanto sei cresciuta, e da quando avevi 5 anni che non ti vedo!! Quanti anni hai adesso?-. – Otto- rispose lei. – Stai crescendo in fretta!!- le disse la zia. – Non tanto da dormire sola di notte. Questa notte è corsa da me piangendo, perché ha avuto un incubo- disse sua madre. In effetti, ora che ci pensava, Lorraine soffriva spesso di incubi durante le notti, poi correva nel letto dei genitori. Non riusciva a capire il motivo di quegli incubi. E inoltre, a volte le sembrava di estraniarsi dalla realtà. Percepiva cose strane, aveva delle sensazioni. Era in grado di capire quando una persona stava per cadere ancora prima di vederlo con i propri occhi. Non sapeva come era in grado di farlo, né perché. La mamma non lo sapeva questo, Lorraine non voleva dirlo. Le avrebbe creduto? Aveva dubbi a tal proposito. A scuola, una mattina, era successo che durante una lezione di matematica, scorrendo le pagine del libro, aveva sollevato un attimo lo sguardo, con lo sguardo rivolto alla lavagna, per seguire la lezione della maestra. Fu allora che lo notò. Un’ombra nera si stagliava accanto alla maestra. Pensava a un effetto di luce, ma quando la maestra si spostò sotto la finestra per consentire loro di leggere la lavagna, l’ombra la seguì. Lorraine era stupita. Inoltre, l’ombra aveva assunto i contorni di una figura umanoide, cosa che non era possibile. La seguì con lo sguardo mentre si spostava sul muro, e si posizionava vicino al banco di un compagno. Dal muro si sollevarono due piccole nuvole nere, probabilmente braccia, e comparvero due mani nere, scarne, che si allungarono verso il banco, presero una gomma, e la tirarono addosso a un compagno. Lorraine corse fuori dall’aula improvvisamente, di fronte allo stupore dei compagni e della maestra stessa. L’aveva ritrovata una suora. Si era rifugiata in bagno, e piangeva. Sembrava uno dei suoi sogni. – Lorraine, non avere paura. La mamma mi ha raccontato del brutto sogno che hai fatto la notte scorsa. Non avere paura degli incubi, perché non possono farti nulla. Sii forte, torna in classe che la maestra è preoccupata-. Col tempo, Lorraine aveva provato ad essere forte, ma anche quando passava accanto alle compagne, quelle fuggivano da lei. Pensavano fosse pazza, probabilmente. E ora che sua madre e sua zia chiacchieravano, Lorraine si distrasse, uscì un attimo dalla stanza e vagò nel lungo corridoio del reparto. Il suono delle sue scarpe risuonò nel corridoio, fino a che non giunse a una stanza in cui riposava un anziano signore. Titubante, entrò, senza avere un motivo preciso. L’anziano riposava serenamente, ed era biancastro in volto. Un breve raggio di luce filtrava dalla piccola finestra, e illuminava un uomo seduto sulla sedia accanto al letto. L’uomo posò lo sguardo su di lei, e le parlò- Ciao, Lorraine.- la salutò. Lorraine non lo conosceva, e non sapeva come quell’uomo potesse conoscere il suo nome. Ma rispose timidamente al saluto. L’uomo, giacca e cravatta bianchi, ora giovane ora anziano (Lorraine non riusciva a capire che età potesse avere), le disse-Quest’anziano signore sta per lasciare l’ospedale, vuoi recitare una preghiera con me?- Lorraine annuì, pregarono insieme, e di nuovo l’uomo le rivolse la parola –Quando ne avrai bisogno, non esitare a chiamarmi- Lorraine non capiva come mai avrebbe dovuto rivolgersi a un tizio che nemmeno conosceva, però annuì comunque. -In realtà ci conosciamo già, ma questo lo capirai più avanti. Ci sono cose che non appartengono a questo mondo, e tu le dovrai affrontare.-  All’improvviso, quel bagliore di luce divenne accecante, e quasi Lorraine non ci vedeva più. Spostò leggermente la mano, e vide in piedi di fronte a lei, l’uomo che si stagliava ora a un metro da terra. Levitava, volava? Non credeva ai suoi occhi. Alzò lentamente lo sguardo, timorosa, e vide che il tipo indossava una tunica bianca(al posto dell’abbigliamento precedente) e dalle spalle si allargavano da ambo i lati due enormi ali bianche e candide, che toccavano le estremità della stanza, che a malapena le conteneva. Il volto era ora di un giovane ragazzo ora di un uomo di mezz’età(Questo non era cambiato). Capelli biondi, volto luminoso. Era un angelo quello che aveva davanti. L’anziano signore coricato sul letto non respirava più adesso, Lorraine capì. D’improvviso, come era comparso, l’angelo sparì in un bagliore…

… Da lì era cambiò ogni cosa, Lorraine comprese che ciò che vedeva e percepiva era reale, e anche se nessuno le credette andò avanti. A dire il vero, qualcuno che le credette ci fu. Un giovane ragazzo di nome Edward,che lei conobbe otto anni dopo, e assieme al quale avrebbe vissuto l’intera vita. Ma questo Lorraine ancora non lo sapeva.

Roberto Fortugno

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Occasioni

Pensò: “Nella vita si presentano occasioni che è bene cogliere per poter usufruire a pieno dei vantaggi che ne derivano.” Glielo aveva insegnato suo nonno.
Poggiò a terra la valigia che presentava un motivo moresco e fece una rassegna visiva della gente che camminava con la testa un poco bassa e i cappotti scuri. Nessuno si spostava con particolare entusiasmo, eccetto i confusi clan di bambini che inveivano un “dolcetto o scherzetto” contro ogni portone aperto. Una volta raccolte le forze, prese su la valigia e fece ansiosa slalom tra i passanti per poter finalmente trasferirsi nella sua nuova stanza in affitto. Era un’occasione. L’appartamento era un gioiellino deprezzato in centro città e, in cambio dell’offerta, avrebbe soltanto dovuto ascoltare alcune storie del proprietario ogni sera. Avanzò con passo nervoso sino alla sua destinazione, poi più lentamente esitò di fronte la vetrina di una profumeria per specchiarsi. Fece infine un salto deciso sulla scalinata accanto e suonò al citofono il Dott. Severino, quarto piano. Attese. Si voltò a destra perché si sentiva osservata, ma poi pensò bene fosse soltanto un po’ di paranoia causata dalla città nuova. Il suono gracchiante del citofono fu seguito dal suo ingresso nell’androne austero. Era poco illuminato, pieno di specchi e ogni suo passo mutava in eco.

Una volta su, non rimase stupita nel vedere che il padrone di casa fosse un vecchio uomo sulla settantina.

“La prego, entri.”

Iris si guardò intorno. “Grazie.” Venne chiuso il portone alle sue spalle e rimase fulminata dalla bellezza del salotto art déco ed era sorpresa dal fatto che le foto dell’annuncio non gli rendessero certo giustizia. Tanti dettagli attirarono la sua attenzione: un giradischi d’epoca, un’immensa libreria di legno e un pianoforte posto di fronte la finestra del salotto che, come un quadro, rifletteva la luna calante.

“Che casa meravigliosa…” Sospirò avanzando per il corridoio. Il vecchio la superò con una curiosa agilità, mentre gli occhi di lei si soffermavano sulla carta da pareti blu e verde, ricca di rombi e altre geometrie bizzarre. Aveva qualcosa di misterioso quella casa, a tratti lugubre, ma riusciva comunque ad essere accogliente. Il Dott. Severino si fermò di fronte una porta chiusa e la aprì con la grossa mano rugosa.

“Questa è la sua stanza.”

Ammirò lungamente il letto di legno nero e la poltrona classicheggiante rossa posta di fronte e volse poi lo sguardo sulle rotondità del lampadario moderno.

“Questa era la stanza di mio figlio.” La informò l’uomo e si sedette sulla poltrona senza smettere di osservarla con gli occhi stanchi e azzurri. “Iniziamo?”

Trovò la situazione strana, ma poi pensandoci meglio capì si trattasse di imbarazzo, quindi abbandonò la valigia a fianco del letto e si sedette.

“Si metta comoda. Tolga le scarpe. Avrà fatto un lungo viaggio.” La voce graffiata le suscitò grande tenerezza, perché le ricordava il nonno, ed eseguì. L’uomo iniziò a parlare della sua infanzia, famiglia, finanze ed ex moglie per ore. Poi pianse, confidandole fosse solo al mondo.

“Credevo avesse un figlio, caro signore, non pianga.” Si dispiacque la giovane e gli strinse la mano.

“È morto.” Il pianto non si fermava e provò una certa inquietudine. Indagò qua e là e notò la foto di un bambino sul comodino.

“Forse dovrebbe cambiare casa, è piena di ricordi.”

Ci fu silenzio per un attimo. “Buonanotte cara.”

Le baciò la fronte e un sonno pesante la trascinò con sé immediatamente. Si svegliò dopo un po’ frastornata, ma sentendosi piena di forze, e si mise in piedi per accendere la luce per affrontare il nuovo giorno. Non c’era corrente. Tentò di aprire le serrande con l’interruttore, ma invano e a tentoni riuscì a raggiungere l’abat-jour che non dava segni di vita.

“Signore!” Gridò. “Non c’è luce!”

Una luce lenta fece il suo ingresso e intravide il volto spettrale del Dott. Severino illuminato da una candela.

“Non si preoccupi, capita. Siamo al sicuro. Si sieda.”

Obbedì.

“Signorina Citati, vuole da bere?” Il volto in penombra era senza dolore alcuno, come se il male della sera prima fosse caduto nel totale oblio.

Pensò, disse di no inizialmente, poi annuì.

“Tè? Whiskey? Rum?”

“Tè, grazie.”

Il vecchio si allontanò e Iris si sentiva diversa, perché non riusciva a controllare il suo respiro che era sempre meno ritmico. Allo stesso tempo era come se fosse all’interno di una bolla, le orecchie avevano dei lievi acufeni oppure erano completamente chiuse. L’abat-jour si accese sola e così comprese fosse ritornata la corrente, ma sentì all’istante una puzza di bruciato nauseante che la spinse a chiedere a voce alta se andasse tutto bene, infine però razionalizzò la sua suggestione.

L’uomo fece ritorno con le bevande.

“Tè per te, rum per me.” Rise e lei lo ringraziò quando le venne porta la tazza. Il dottore si sedette nuovamente sulla poltrona porpora che appariva ora più alta e splendida. Iris per un momento ebbe l’impressione di vederlo seduto su un enorme palco e che le luci fossero puntate su di lui. Sorseggiò il tiepido tè, percependo il suo respiro più leggero che mai.

“Io ero un chirurgo, di quelli bravi. Ero un cardiochirurgo. Ho visto tanti miei amici morire. Un incubo. A vedere i tuoi pazienti morire ci fai l’abitudine, a vedere chi ami mai.”

Ecco che tornò la puzza di bruciato. “Scusi se la interrompo…”

“Prego.”

“Lei è sicuro di aver chiuso i fornelli? Sento uno strano odore.” Quando lo disse fu come se la puzza decise di nascondersi per non essere scoperta. Andò via. Si sforzò per risentirla, ma nulla.

“Non la sento.” Non avrebbe potuto dargli torto. Ci furono pochi secondi di silenzio mentre l’anziano ingeriva tutto in un sorso il bicchierino di rum. In quella assenza totale di suono, poteva sentire il percorso che il liquido tracciava all’interno della gola e poi dell’esofago. “Mio figlio si è dato fuoco. Aveva tanti debiti e un usuraio lo ha spinto alla rovina.”

Provò terrore e volle aprire la pesanti finestre per prendere aria.

“Ferma!” Il grido addolorato le fece raggelare il sangue, mentre la puzza di bruciato continuava con il suo vai e vieni. Il vecchio pianse e anche lei. “Ha mai perso qualcuno di caro?”

“Mio nonno. Recentemente.”

“Era malato?”

“No.”

“Com’è morto?”

“Di infarto.”

“L’Onorevole Citati… Oh Sergio… Il tuo amore per il denaro è stato tanto grande da farti scoppiare il cuore.”

Iris raggelò. Conosceva alcuni misfatti del nonno, ma non tutte le conseguenze insorte.
Il nome sul citofono era falso. L’uomo, in realtà, era il Dott. Romano, padre di un ex imprenditore di nome Vincenzo, la cui vita terminò tragicamente quindici anni prima, dopo una lunga depressione causata dalla bancarotta indotta dall’On. Sergio Citati, dandosi fuoco proprio nel balcone di quella casa. La sua anima stanca danzava nella notte con la fiamma del figlio e, delusa dalla giustizia, cercava vendetta. Non era un caso che proprio lei fosse lì.
Iris tutta questa storia non la conosceva, nonostante ciò decise fosse arrivato il momento di togliere il disturbo. Sentiva che probabilmente il nonno defunto avesse a che fare con la morte del figlio del proprietario di casa e il fatto che lei si fosse ritrovata ad affittare l’appartamento lo trovava assolutamente uno scherzo del destino e, soprattutto, di cattivo gusto. Si alzò e iniziò a piegare le coperte.

“Vuoi andare via?” Domandò piano.

“Sì!” Gridò senza rendersene conto, terrorizzata. Tirò da sotto il letto la valigia e le lacrime le bagnavano le guance. Pensò a suo nonno e a quanto male avesse fatto in giro per avere le sue occasioni e i suoi vantaggi. Un po’ le dispiaceva, ma aveva fatto tanto bene alla sua famiglia. Percepì un brivido, ma di amarlo comunque più che mai. Era un amore triste, tenero e proibito. “Ogni suo errore lo ha fatto per amore– pensò – Il mondo è degli egoisti. Sopravvive il più forte.”

“Avrei voluto solamente che qualcuno mi ascoltasse fino alla mia morte. Ti prometto che dopo quest’ultima storia, ti lascio andare.”

Si mise nuovamente a sedere, quasi controvoglia, perché fu il suo corpo a ritenere fosse corretto, in onore dell’ospitalità, prestare orecchie un’ultima volta. Nel giro di pochi istanti i nervi erano di nuovo inspiegabilmente saldi.

“In ospedale danno delle fascette identificative di colori diversi. Lo sapevi?Quando nasci, ad esempio: blu se sei maschio e rosa se sei femmina. Ne danno altri anche in occasioni differenti. Grigio se fai un day ospital. Giallo se devi fare un intervento importante.”

Non comprese perché le stesse facendo questa rassegna, ma si sentiva di nuovo tranquilla. Voleva rimanere. In fondo perché se ne sarebbe dovuta andare? Si trattava di un compromesso così vantaggioso. Occasioni.

“Mio figlio quando è morto non ne ha avuto nessuno.”

“Ne danno uno anche a chi muore?”

“Sì. Tuo nonno lo ha avuto. Non rammenti?”

Si sforzò per ricordare. “Rosso, sì.”

Nel momento in cui lo disse, sentì di nuovo puzza di bruciato e il vecchio parve giovane, bello e affascinante. Gli occhi rimanevano azzurri e pietrificati.

“Come questo?” Scoprì il braccio destro stretto in una fascetta rossa. Iris si sentì morire ed emise un urlo di dolore, indietreggiando verso la testata del letto. Dovette respirare più profondamente quando l’uomo impassibile si alzò e puntò l’indice verso il suo braccio.
Disperata abbassò gli occhi, tenendoli chiusi e, pur non essendo credente, iniziò a pregare chissà quale Dio.

”Apri gli occhi, bambina mia, guarda il tuo amato nonno dove ti ha portato. Questa sì che è un’occasione!” La voce, la voce era familiare. Era la sua.

Piangeva ininterrottamente quando si fece forza per riaprire gli occhi e, con l’orrore più agghiacciante, constatò che anche il suo scarno polso era stretto con una fascetta rossa.

Isabel Pancaldo

*Immagine in evidenza: illustrazione di Isabel Pancaldo

Lascia che vada

La regina della notte fiorì. Gaia l’aveva accudita per anni in attesa di quel momento e adesso le donava la sua bellezza. Quando la vide, però, si accorse che non somigliava a ciò che aveva immaginato. Pensava sarebbe rimasta sorpresa dal fiore che, dondolando, si apriva e allargava. Credeva le sarebbe piaciuto il contrasto tra i petali delicati e la sua natura di spinosa pianta grassa. Adesso, invece, si rendeva conto che quel processo non aveva nulla di affascinante.
La guardò ancora per qualche minuto, solo perché un po’ si era affezionata. Presto, però, si addormentò sulla sedia in sala, mentre il fiore raggiungeva il massimo della sua espansione e, di nuovo, si chiudeva.

Quando il giorno dopo Amanda entrò in stanza la trovò ancora lì. Si avvicinò e le accarezzò i capelli. Terminavano sul collo e non poté trattenersi dallo spostare una mano in quel punto, mentre si abbassava e le baciava una guancia.
Gaia aprì gli occhi lenta e la sua ragazza rinacque un po’ mentre questi tornavano vispi.
“Com’era il fiore?” chiese.
“Bellissimo, l’ho guardato finché non è sfiorito”
Amanda non chiese altro perché, in fondo, non le importava granché di quel bocciolo ormai chiuso. Poneva quelle domande solo perché sperava di esserle un po’ più vicina, ma l’altra era sempre stata di poche parole.

Quando uscì di casa per andare a lavorare Gaia rimase sola e sollevata. Ancora in pigiama si affacciò al balcone che dava sulla strada. Si sedette fuori, ma la luce del sole la infastidiva e, quando intercettò lo sguardo di un bambino nella sua direzione, rientrò dentro casa e chiuse la porta.
Si rifugiò nella sua stanza, ma quel luogo portava troppi ricordi. Quelle mura parlavano di Amanda in ogni modo. Le ricordavano di lei che dormiva stanca dopo le sue giornate di lavoro. I capelli biondi si spargevano sulle lenzuola e in fronte le compariva sempre una rughetta concentrata. C’era, poi, Amanda innocente che usciva dalla doccia avvolta dall’asciugamano, la raggiungeva in stanza, si spogliava e rivestiva, come se Gaia non bruciasse dentro a guardarla. Erano loro che facevano torte e si rincorrevano per tutta la casa sporcandosi di cioccolata. Entravano, poi, nella loro stanza da letto. Gaia la seguiva finché non la bloccava tra il suo corpo e l’armadio. Amanda era completamente indifesa. I suoi occhi verdi luccicavano, mentre il petto si alzava e abbassava per la lotta appena avvenuta.

Gaia ripensava a tutto questo mentre l’ombra della sua ragazza entrava e usciva da quella porta. Sentiva le loro risate unirsi e ricordava cosa fosse stata per lei.
Era cambiata?
No, Gaia ne era certa. Amanda era ancora l’amore, ma lei non lo recepiva più come un tempo.

Si era invaghita della sua ragazza alle superiori.
Era in terzo liceo quando la vide per la prima volta passeggiare per i corridoi. Amanda non se ne era mai accorta, ma i suoi tratti erano combinati in un modo così particolare da farla risaltare sempre. A Gaia ricordava l’alba, con quei colori delicati che si riflettevano nella sua pelle, nei capelli e negli occhi che di scuro non avevano nulla, neanche quando la notte li copriva.
Per tutto il giorno non era riuscita a far altro che pensare a lei. Voleva conoscerla. Qualche settimana dopo la vide nel cortile della scuola. Accanto a lei sedeva una sua compagna di classe. Non avevano un rapporto stretto, ma mantenevano contatti pacifici. A volte si prestavano le penne o i fogli e non parlavano mai di qualcosa che permettesse loro di conoscersi davvero.
Quando iniziò la lezione successiva le si sedette accanto e si sforzò di essere loquace. Dopo più di una settimana era finalmente riuscita a organizzare un’uscita insieme a lei. Avevano deciso di portare un paio di amici a vicenda e Gaia si era discretamente assicurata che una ragazza in particolare fosse presente.

L’appuntamento tanto atteso si tenne in sabato primaverile. Gaia si accorse in quel momento di non riuscire quasi a parlare, ma non ebbe bisogno di fare molto. La ragazza le si avvicinò presentandosi e non passò molto tempo prima che iniziassero a conversare. Qualsiasi domanda trovava risposta da parte di Amanda. Non vi era un argomento su cui non avesse un’opinione che esprimeva col tono di chi era certo di non sbagliare. Dopo aver parlato si voltava verso Gaia e le chiedeva cosa ne pensasse, come se l’unico parere importante fosse il suo.
Dopo quella sera diventarono amiche, una gabbia dalla quale Gaia non seppe mai uscire. Il loro rapporto rimase inalterato finché non si diplomò, lasciando quella città e il suo primo amore.
Riuscì a laurearsi tra varie incertezze e tornò nella sua Palermo. Trovò lavoro e si stabilì in un piccolo appartamento, lo stesso che adesso condivideva con la sua ragazza.

Un giorno nella sua vita cambiò tutto. Gaia si svegliò stranamente presto e decise di far colazione fuori prima di andare a lavoro. Entrò in un piccolo locale in centro e si accomodò attendendo che il cornetto e il suo caffè fossero pronti.
Poco dopo la porta del bar si aprì. Si udì una voce chiedere una cioccolata calda. Gaia sorrise. Doveva essere proprio strana quella ragazza per ordinare una bevanda del genere con quel sole bruciante. In un angolo della sua memoria, però, qualcosa si mosse. Eppure, conosceva qualcuno con quella strana abitudine.
Si voltò veloce trovando ad attenderla degli occhi verdi e un sorriso che si allargava sempre più.
Amanda era rientrata a far parte della sua vita e Gaia la voleva lì, accanto a sé, ma non aveva la forza per trattenerla. La sua incapacità, però, era bilanciata dalla decisione dell’altra e, anche in questo caso, non dovette fare nulla.
Ricominciarono a uscire insieme, ma questa volta si vedevano da sole e parlavano a lungo, scoprendo di condividere gli stessi principi. Amanda si poneva ancora come chi possiede la verità assoluta, ma Gaia con calma spiegava le sue ragioni. La discussione proseguiva a lungo ed entrambe sfidavano la loro mente per trovare obiezioni e chiarimenti.

Una sera estiva Amanda la portò in un lido sul mare. Ballarono per molto tempo. Gaia non capiva più nulla. Aveva la possibilità di tenere vicino quella ragazza e ogni volta che i loro corpi si toccavano entrava in fibrillazione.
Quando si stancarono Amanda le prese la mano per condurla fuori dal locale. La portò a mare facendole vedere quanto fosse bella la luna. Gaia la guardò e, quando si voltò di nuovo, trovò la ragazza a osservarla. Anche lei ricambiò quello sguardo, mentre nella sua mente continuava a trovarla bellissima in ogni momento.
Vide, poi, che adesso la sua amica le osservava le labbra e non poté che imitarla. Quando Amanda tornò a immergersi nei suoi occhi li trovò, quindi, puntati in basso. Sorrise e le circondò la vita con le braccia attirandola a sé.
Il corpo di Gaia bruciava, non vi era una parte che non fremeva e il suo cuore sembrava impazzito. Amanda continuava a essere troppo vicina e infinitamente sensuale. Con una mano le accarezzava la guancia lasciando scie elettriche su ogni pezzo di pelle che toccava.
“Fallo” sussurrò sulla bocca di Gaia.
La ragazza, allora, avvicinò piano il volto al suo, quasi a volerle chiedere consenso per ogni centimetro che rubava. Posò, poi, le labbra su quelle di Amanda e si sentì felice come poche volte era stata. Una mano andò ad accarezzarle il collo da cui poteva sentire il cuore battere con forza.
Le labbra di Amanda erano zucchero e cercavano le sue con insistenza. Lei si donava felice e desiderava solo che quella ragazza prendesse tutto, come più preferiva.
Quella sera dormirono in spiaggia e si immersero ancora più a fondo l’una nell’altra. Gaia raccontò di quella cicatrice sul ginocchio che si era fatta da bambina, Amanda disse di come aveva perso e cercato l’amore per se stessa. Finirono, poi, per parlare del loro rapporto e Gaia ammise di non aver smesso di pensare a lei dal primo momento in cui l’aveva vista. Amanda confessò che quella sera nulla era accaduto per caso.

Dopo circa un anno decisero di iniziare la convivenza e scoprirono che il risveglio era più dolce quando la prima cosa che vedevano era l’altra accanto nel letto.
Gaia non sapeva dire con esattezza quando le cose avessero iniziato a cambiare. Notava solo che adesso guardandola non sentiva il solito formicolio. Quando Amanda la accarezzava e baciava il suo corpo sembrava fatto di stoffa morbida, ma inanimata.

Gaia guardava la sua relazione senza farne davvero parte e Amanda la portava avanti per entrambe. Si sentiva vuota e sempre stanca. Non le dava più gioia passare il tempo con nessuno. Si era spenta piano lasciando fuori dalla sua vita tutto. Non credeva, tuttavia, che sarebbe arrivata a escludere Amanda. Eppure, era successo.
Gaia si chiedeva se non fosse il caso di chiudere tutto, di lasciare che almeno la sua ragazza fosse felice con qualcuno che l’avrebbe amata più profondamente. Il suo egoismo le impediva, però, di valutare attentamente quella possibilità. Il pensiero di non averla in giro per casa era troppo doloroso. Preferiva quella specie di nulla che avevano, perché almeno c’era. Si trattava di una presenza leggera, quasi invisibile, ma continuava a volere quel sospiro.
Adesso i litigi non si accendevano più, si trasformavano in fastidi che somigliavano a baratri senza uscita. Gaia abbracciava la polvere che la sua storia continuava a depositarle addosso.

Era sera tardi quando il portone di casa si aprì. Amanda trovò Gaia accasciata sulla regina della notte. Le sue lacrime innaffiavano quel fiore, mentre lei donava il suo dolore, perché non aveva altro da dare. Le prese le mani nelle sue e la accudì. Gaia si fece cullare da quella stretta fredda che era la sua quotidianità.

Alessia Sturniolo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Falene

-Se dovessi essere un animale, che animale saresti ?

– Mio nonno diceva sempre che noi siamo delle falene.

– Falene? Come mai?

– Perché le falene, quando tutto è buio, sono attirate verso l’unica fonte di luce che si fa strada nella notte. Il loro obiettivo è raggiungere quella luce, che sia una lanterna, una torcia, una candela o la luna . E quando questa luce si spegne, loro rimangano nel profondo dell’oscurità, sono disorientate, vanno a sbattere all’impazzata perché non hanno più il loro punto di riferimento, la luce che da un senso alla loro vita. E noi siamo così, siamo falene e facciamo degli altri e delle abitudini la nostra luce. Ma proprio come delle lanterne anche gli altri possono spegnersi e abbandonarci; come anche le abitudini possono cambiare e crollare. Facciamo della nostra fonte di luce una certezza, ma la verità è che non esiste niente di certo e proprio come la falena ci troviamo a brancolare nel buio, nella nostra oscurità, perché fino a quel momento eravamo convinti che quella persona o quella cosa fosse la nostra luce, senza accorgerci che la nostra luce siamo noi. Siamo noi soltanto .

Carla Mascianà

Il Conte di Vendramin

Il Conte di Vendramin era noto per la sua inestimabile bellezza e per il suo insulso desiderio di solitudine. Si diceva che un tempo il Conte avesse amato una donna che lo condusse alla rovina e che si fosse ritirato ormai da anni nella sua tenuta.

Un giorno, un bimbo di nome Malcom si inoltrò nella vasta proprietà di Vendramin, pensando di stare esplorando una selva sconosciuta. Al centro del territorio era situato un castello logoro e consumato, che agli occhi del bambino appariva imponente e spaventoso, con i rami degli arbusti che intrecciavano le due torri e i fiori appassiti che si rampicavano sulla porta, quasi a volerne impedire l’accesso.

Aleggiava, intorno alla fortezza, un clima tenebroso. Malcom, essendo stato ben educato, pensò di bussare prima di addentrarsi nel castello. Batté il pugno tre volte nell’unico spazio risparmiato dai fiori rampicanti.

Dopo qualche minuto di attesa, indugiando sulla soglia, Malcom pensò di non essere il benvenuto e credette di doversene andare senza poter raccontare a sua sorella nessuna straordinaria avventura. Improvvisamente i gigli appassiti si ritirarono dall’uscio, facendo scricchiolare la porta che lentamente s’apriva.

Il bimbo, con le labbra appena dischiuse per lo stupore, avanzò nel buio e le candele di un candelabro posto in alto al centro della sala, presero fuoco.

Il battito cardiaco di Malcom accelerò e la sua brama di avventura crebbe tanto da sovrastare il timore. “Quando ero solo un bambino, proprio come te, non avevo molti amici.” -disse una voce solenne dall’alto. Malcom alzò gli occhi per scoprire da chi provenisse ma sulle scale che portavano al piano superiore non vi era nessun signore, tantomeno un illustre Conte.

“La mia fedele compagna era la musica. Riusciva ad alleviare ogni mio dispiacere.” -proseguì la voce. “Qualche tempo più avanti, quando ero appena un giovane, ereditai la proprietà dei Vendramin, alla morte del mio anziano padre… ma perché non vi sedete giovanotto? Se siete giunto fin qui vorrete pur conoscere la disavventura di questo caro vecchio Conte.”

Il bambino obbedì e si sedette su una seggiola in legno anche se non si aspettava di dover raccontare a sua sorella un’impresa con un protagonista diverso da lui. La voce prese un respiro profondo e disse: “Ero un ragazzo solitario che godeva della vita a modo suo. Mi piaceva suonare il piano ma non avevo la pretesa che agli altri piacessero i miei componimenti , dunque non li riproponevo ai teatri, né chiedevo il consiglio dei grandi maestri; semplicemente conservavo in un cassetto il mio spartito per ogni volta che avrei sentito il bisogno di suonarlo.

In quel periodo venne a trovarmi la duchessa Lola di Ivanov per porgermi le sue condoglianze. Una donna caparbia, elegante e poco più grande di me. Si trattenne per la cena e durante il pasto mi rivelò il secondo motivo della sua visita: un matrimonio.

Pensava che se io l’avessi presa in moglie l’avrei salvata dal suo triste declino economico e che, così facendo, avrei onorato una promessa fatta al duca di Ivanov da mio padre.

Io risposi che non ero al corrente dell’accordo stipulato tra i nostri padri e che non era mio compito onorare alcuna promessa che non fosse mia. Lola cercò di convincermi ma la mia decisione fu irrevocabile: Non desidero avere alcuna compagna al mio fianco né per il momento, né per il futuro. In altre parole, non intendo sposarmi, né ora né mai duchessa.

Lola accolse il rifiuto come si accoglie una pugnalata alle spalle e mi avvertì: Il suo insulso desiderio di solitudine le costerà caro, giovane Conte.

“Ma signor Conte, perché mai le sarebbe costato caro non prendere una donna in moglie?”-lo interruppe Malcom. Vendramin non rispose e continuò il suo racconto.

“Passarono anni e il fascino della mia giovinezza s’andava dissolvendo. E ogni pomeriggio che sentivo cupo e desolato, mi sedevo al pianoforte con lo spartito sul leggio. Giorno dopo giorno le melodie mi risuonavano alle orecchie più come vibrazioni che come musica. Compresi, dopo qualche mese, che le mie orecchie stavano perdendo la percezione, non solo della musica ma di qualsiasi altro genere di suono.

Durante la vecchiaia mi resi conto che ero rimasto da solo e che nemmeno la musica mi avrebbe più tenuto compagnia. Lola di Ivanov, quando ero solo uno stolto giovanotto, voleva intendere che la solitudine non può che essere un desiderio assai sciocco per uno che nella vecchiaia l’avrebbe vissuta più come una punizione che come un’aspirazione.

E così anche la mia fedele compagna mi abbandonò, l’unica donna di cui mi fossi mai innamorato, l’unica che se avesse assunto le sembianze di un’umana, non avrei rifiutato a sposare.”

Malcom, incantato da una parte e dispiaciuto dall’altra per la disavventura di Vendramin, sentì il peso dell’impotenza poiché qualsiasi parola di conforto avesse pronunciato non sarebbe giunta alle sue orecchie e soprattutto non gli avrebbe restituito la sua amata devota. “Nessuno era più venuto a trovarmi in questi anni, se vi fa piacere, tornate pure. Conosco molte storie da potervi raccontare, sebbene io non possa più udirle.” Da quel giorno i gigli, che avevano ripreso un po’ di colore, lasciavano entrare Malcom ogni volta che si presentava alla porta battendo tre colpi su di essa e stando ben attento a bussare nello spazio non ricoperto dai fiori, naturalmente.

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia.

*Il Conte di Vendramin è il primo di una serie di racconti.