Il dono dello spettro autistico: Andy Warhol, il padre della Pop Art

Essere autistici non è un limite, bensì un dono.

Questa serie di articoli, oggi al primissimo numero, vi narrerà di grandi personaggi che hanno fatto la cultura del mondo e di come il loro appartenere allo spettro autistico li abbia condotti a scrivere le pagine della nostra storia.
Per l’autrice del filone il dono dello spettro autistico, “diverso” non è mai “sbagliato”.

Cari lettori, accomodatevi! Ve lo dimostrerò solo scrivendone.

Rappresentazione di un cervello neurodivergenteFonte: https://www.dirime.com/wp-content/uploads/2022/12/Il-dibattito-sulla-neurodivergenza-tra-priorita-e-nuove-narrazioni.jpg
Rappresentazione di un cervello neurodivergente
Fonte: https://www.dirime.com/wp-content/uploads/2022/12/Il-dibattito-sulla-neurodivergenza-tra-priorita-e-nuove-narrazioni.jpg

 

Neurodivergenza e spettro autistico

A fine 2024, l’informazione scientifica corre repentina e, fortunatamente, leggiamo e sentiamo parlare sempre più spesso di terminologie come “neurodivergenza” o “neuroatipico”.

Ma cosa significano queste parole?

Nella sconfinata eterogeneità umana, ci accorgiamo che molteplici persone condividono un determinato numero di caratteristiche rispetto ad altre, quelle che la società ci impone come concetto di “normalità”, ovvero un’utopia.

Se è vero che la maggioranza degli individui percorre uno sviluppo neurologico che può essere considerato tipico, una parte minore della popolazione (che alcuni situano tra il 15 e il 20%), invece, condivide uno sviluppo neurologico sotto certi aspetti differente dalla maggioranza, descritto da un punto di vista statistico come atipico.

Queste persone sono definite neuroatipiche o neurodivergenti. Tra loro possiamo trovare individui autistici, ADHD, con disturbi specifici dell’apprendimento, eccetera.

Nell’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) ormai non si parla più di autismo” ma di disturbi dello spettro autistico”. Una definizione, che indica una serie di condizioni caratterizzate da difficoltà di comunicazione e interazione sociale, e da comportamenti limitati e ripetitivi che possono affliggere un soggetto, che elimina la classificazione in tipologie, riportata nella versione precedente del manuale.

Tenendo presente che questa classificazione dell’autismo in tipologie è ormai obsoleta, la penultima edizione del DSM dedicava una trattazione ai disturbi pervasivi dello sviluppo, i quali comprendevano nello specifico: autismo, sindrome di Asperger, sindrome di Rett, disturbo disintegrativo dell’infanzia e disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato.

Il DSM-5 distingue, in base a dei parametri, tre livelli di gravità dell’autismo: livello 1, un tempo detto anche ad alto funzionamento; livello 2, ovvero medio funzionamento; e livello 3, che chiamavano basso funzionamento.

Andy WarholFonte: https://hamiltonselway.com/wp-content/uploads/2017/08/Warhol.jpg
Andy Warhol
Fonte: https://hamiltonselway.com/wp-content/uploads/2017/08/Warhol.jpg

Andy Warhol, il padre della Pop Art

Andy Warhol è stato uno dei più importanti artisti americani del XX secolo, ed è riconosciuto come il padre della Pop Art.

Cambiò l’idea stessa di artista, che per la prima volta divenne imprenditore di sé stesso.

Warhol era dotato di un’abilità comunicativa non comune e di una grande capacità di osservazione, costruendosi, grazie a queste, un’immagine da “divo”, prima che di semplice artista.

Nasce a Pittsburgh il 6 agosto 1928. Sin dai primi anni della sua vita, sviluppa una vocazione per l’arte, che lo porterà a dedicarvisi a 360º. Spazia dalla pittura alla grafica, dall’illustrazione alla sceneggiatura, fino alla regia e molto atro.

La sua carriera ha inizio a New York, quando comincia a lavorare come grafico pubblicitario presso alcune riviste, come Vogue e Glamour.

Dal mondo della comunicazione esordì il suo tratto distintivo: il linguaggio impersonale, volto a fare un tipo di arte che fosse registrazione “oggettiva” della realtà.

Innumerevoli le sue opere, di cui ne passeremo in rassegna solo poche delle più iconiche giusto per farvi assaggiare il genio del personaggio e della persona dietro al personaggio.

Andy, durante la sua vita, circondato da altri con cui scambiare suggerimenti ed idee, lavorò alla Factory con ritmi serrati, da “catena di montaggio”.

La Factory era una open house,  uno “spazio ideologico” libero, dove le nozioni della Pop Art diventavano vita giornaliera.

Il gruppo era un nucleo con un linguaggio comune, uno stile fondato sull’accettazione di qualsiasi comportamento, senza pretese o giudizi. Chiunque era invitato a partecipare e, per questo, da qui nacquero e passarono diversi personaggi di spicco dell’epoca, tra cui Bob Dylan, David Bowie e Keith Haring.

Nel giugno 1968, Warhol e il suo compagno vennero feriti con una serie di colpi d’arma da fuoco dalla femminista Valerie Solanas. L’incidente danneggiò tutti i principali organi interni dell’artista e segnò profondamente la sua vita, facendolo sentire a tutti gli effetti un “sopravvissuto”.

Andy Warhol morì a New York, avvolto nel suo velo di “mistero” e timidezza, il 22 febbraio 1987, in seguito a un intervento chirurgico alla cistifellea.

Dopo la morte, la sua fama crebbe a tal punto da renderlo il secondo artista più comprato e venduto, dopo Pablo Picasso.

Quattro lattine di Coca Cola, Andy Warhol
Quattro lattine di Coca Cola, Andy Warhol

 

Opere del genio

Tramite tecniche di produzione industriale come la serigrafia su tela, Andy raffigurava oggetti di uso comune e alla portata di tutti i ceti sociali in serie, alterandone il colore, come detersivi, zuppe Campbell o Coca-Cola. Secondo le sue ideologie, infatti, l’arte doveva essere di immagini oggettive e “pronte alla consumazione”. Come un prodotto da supermercato, insomma.

Ben presto gli oggetti e le persone da lui raffigurati diventarono icone del modo di vivere americano.

Dittico di Marilyn, Andy Warhol, 1962
Dittico di Marilyn, Andy Warhol, 1962


Tra le persone raffigurate nelle opere del maestro di questa Pop Art, ricordiamo, per esempio, Marilyn Monroe.

Andy era così interessato a mostrare nelle sue opere prodotti di largo consumo che non poteva perdere l’occasione di mostrare l’attrice come un altro prodotto della cultura popolare, come si può vedere nel suo primo lavoro sull’attrice “Dittico di Marilyn”.

Non si trattò di un vero e proprio ritratto, quanto piuttosto della riproduzione della sua immagine pubblica, diffusa dai media, sempre in serie, per compiacere gli ammiratori.

Sleep, Andy Warhol, 1963
Sleep, Andy Warhol, 1963

La pratica del distacco emotivo fu principale nel modus operandi di Warhol: anche i suoi prodotti cinematografici ne sono testimonianza.

Uno dei suoi lavori d’avanguardia, “Sleep”, del 1963, mostra un uomo che dorme per cinque ore e venti. Girato senza sonoro, con caratteristiche che rallentano e amplificano l’immagine del film, che viene percepito in un tempo lunghissimo e oggettivamente.

Diagnosi e controversie

Esperti come Judith Gould, direttore del principale centro diagnostico per l’autismo nel Regno Unito, insistono sul fatto che sia palese che Andy Warhol fosse autistico, seppur la sua è solo una diagnosi post mortem.

In fin dei conti, il mantra dell’artista è ben chiaro: fissazione e ripetizione dei concetti, distacco emotivo, impersonalità.

Gran parte del lavoro dell’artista verte sulla ripetizione, sulla quale solitamente si concentrano i comportamenti delle persone autistiche.

Nelle interviste, inoltre, è facile notare che il padre della Pop Art replicava quasi sempre alle domande con risposte monosillabiche. Forse prova della sua dislessia verbale, comune tra le persone nello spettro?

Tuttavia, non è unanime il pensiero che Andy fosse autistico. Coloro che sostengono questa diagnosi postuma suggeriscono che il diverso modus operandi di Warhol sia stato calcolato nel tentativo di “aumentare il senso del suo mistero”.

Fonte: https://www.metododanielenovara.it/wp-content/uploads/2024/03/Ripensare-le-diagniso-sullautismo-scaled.jpg
Fonte: https://www.metododanielenovara.it/wp-content/uploads/2024/03/Ripensare-le-diagniso-sullautismo-scaled.jpg

Non bisogna guardare alla diagnosi di spettro autistico come un difetto della persona in questione o qualcosa che necessariamente segnerà in maniera negativa la sua esistenza, ma come un punto di forza, di acuta distinzione dalla massa.

Notate bene, affermando ciò non intendo “spettacolarizzare” questa condizione umana, bensì ricordare che una neurodivergenza, una diversità, non definisce l’individuo.

Magari, neurodivergente che stai leggendo, la tua serrata abitudine di uscire di casa tutti i giorni esattamente alle 7.44 del mattino, oggi, potrebbe essere vista come un’ossessione… Ma chissà che diventi il tuo marchio di fabbrica, il tratto distintivo della tua popolarità, domani.

Fonti:

https://specialisterneitalia.com/autismo-neurodiversita-e-neurodivergenza/

Autismo e disturbi dello spettro autistico: di cosa si tratta?

https://www.finestresullarte.info/arte-base/andy-warhol-vita-opere-padre-della-pop-art

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Andy_Warhol

Le 30 persone nello spettro autistico più famose della storia

Perché siamo attratti dai narcisisti?

Si dice spesso che il narcisista è come un vampiro capace di risucchiare tutto ciò che di buono c’è nell’altro. Inganna, manipola, umilia. Ma allora perché ne siamo così attratti?

Disturbo Narcisistico di personalità: quadro clinico

Il Disturbo Narcisistico fa parte dei Disturbi di Personalità del Cluster B: appartengono a questo gruppo individui che appaiono emotivi, melodrammatici, imprevedibili. Il termine “narcisismo” deriva dal mito di Narciso. La leggenda greca, infatti, narra che questo personaggio si innamorò della sua immagine riflessa nell’acqua, rifiutando l’amore della ninfa Eco. Gli individui affetti da Disturbo Narcisistico hanno un’idea irrealistica e grandiosa di sé e si pongono mete molto elevate; nello stesso tempo non presentano empatia nei rapporti interpersonali e sono indifferenti ai sentimenti altrui, ma si aspettano dagli altri un trattamento speciale. Sono ipersensibili alle critiche, desiderano essere continuamente gratificati, traggono scarso piacere dalle proprie attività e spesso provano tristezza, indifferenza e noia.

E’ già noto che la grandiosità del Sé compensa una scarsa autostima. Questi pazienti sono preoccupati da fantasie di grandi successi, di essere ammirati per la loro travolgente intelligenza o bellezza e influenza. Sentono di dover socializzare solo con altre persone altrettanto speciali e di talento come loro, non con la gente comune. Questa associazione con persone straordinarie è utilizzata per sostenere e migliorare la loro autostima.

Tipi di narcisismo

Il primo a parlare di narcisismo fu Freud che lo identificò semplicemente come una fase di sviluppo del bambino. In seguito alcuni studi hanno portato a definire il narcisismo come una patologia derivante da genitori anaffettivi o passivo aggressivo: per difendersi da questa condizioni i figli tendono a sviluppare una visione grandiosa di loro stessi. Negli anni ’90 il dottor Paul Wink identificò due tipologie di narcisisti i narcisisti covert ed overt. Questi due tipi di narcisisti si differenziano per la modalità con cui si manifestano le idee di grandiosità.

Il narcisismo overt si caratterizza per la manifestazione aperta della grandiosità, ad esempio è presente un forte desiderio di mostrarsi, mentre il covert appare ipersensibile e ansioso, timido e insicuro. In quest’ultimo caso la grandiosità non è manifesta, ma coltivata soprattutto nelle fantasie della persona. In entrambe le tipologie, la depressione può insinuarsi prepotentemente e accompagnare tutte quelle dinamiche psicologiche legate alla stabilità dell’immagine di sé. ll trattamento per l’NPD consiste principalmente nella psicoterapia. Non esistono farmaci per il trattamento della patologia, ma si possono utilizzare nel caso in cui si manifesta anche una forma depressiva.

Come manipola il Narcisista?

BREADCRUMBING: letteralmente “briciole di pane”. Il breadcrumbing in psicologia rimanda al comportamento di chi lascia briciole d’amore:

  • attirando l’altro a sé tramite comportamenti ambigui
  • non lasciando trasparire apertamente le proprie intenzioni
  • tenendo l’altro legato alla relazione senza però alcuna possibilità di progettualità futura.

GASLIGHTING: L’obiettivo è quello di indurre la vittima a dubitare di se stessa, della sua memoria e delle sue stesse sensazioni. Frasi tipiche sono:

  • «Non ho detto così, hai capito male»
  • «Non ti ricordi mai come sono andate le cose»
  • «Fatti curare! Perché continui a dire bugie»

Il gaslighting conduce rapidamente al crollo psicologico, perché, per tentare di trovare una spiegazione logica la vittima ne rimarrà sempre più intrappolata.

GHOSTING: Fare ghosting è una modalità di violenza psicologica che significa chiudere una relazione sparendo come un fantasma senza dare spiegazioni.

HOOVERING: ri-adescamento e riaggancio della vittima, il narcisista torna a farsi vivo anche dopo molto tempo. Lo farà in maniera indiretta con una scusa, come una ricorrenza (es. auguri di Natale o di compleanno) o mettendo like/commenti sui social o visualizzando tutte le stories della vittima.

Così facendo il narcisista potrà verificare se sei ancora lì ad aspettarlo e quali sono le mosse necessarie per farti cadere nuovamente nella sua trappola.

Le vittime di un narcisista

Le vittime scelte dal narcisista sono normalmente persone che soddisfano le loro mancanze e la loro necessità di grandezza, attraverso comportamenti complementari ai loro utili al raggiungimento di questo scopo. Tra questi troviamo:

1. Il salvatore

Il modo di dire “sindrome da crocerossina” potrebbe rappresentare perfettamente questa caratteristica comportamentale: persone cresciute prendendosi cura degli altri e che si sentono in dovere di salvare gli altri.

2. Mancanza di una relazione solida familiare

Può capitare che i genitori siano così presi dalla relazioni di coppia o dallo scorrere degli eventi esterni alla famiglia che non prestino attenzione ai messaggi del loro figlio. Quando ci si trova in nuove situazioni familiari e sociali (che sia un divorzio, l’arrivo di un nuovo componente in famiglia, ecc)  è importante che un genitore stia accanto al figlio per fargli capire la situazione e perché prenda coscienza di sé stesso, si senta amato e impari ad amare sé stesso.

3. Pensi di aver bisogno di essere salvato

Questo atteggiamento riguarda quelle persone che si sentono incapaci da uscire dalla situazione in cui si trovano e che cercano un supereroe per sistemare le cose e che pensano di aver bisogno di essere salvati.

4. Madre o padre narcisista

Se si è stati cresciuti da un padre o una madre narcisista è molto facile finire nello stesso modello relazionale che conosciamo: ovvero un ambiente svalutante e violento, in cui l’amore ha poco spazio.

5. L’empatico e il narcisista

Un altro caso classico di persone che attraggono i narcisisti è quello delle persone empatiche. La persona empatica, ascoltatrice e attenta, che si preoccupa degli altri e li consola, che tende ad essere tollerante e compassionevole, potrebbe destare molto interesse nelle persone narcisiste.

Per poter difendersi dagli attacchi di un narcisista è innanzitutto necessario riconoscerlo ed in seguito evitarlo, non avendo alcun contatto con lui/lei.

Carmen Nicolino

FONTI:
https://www.serenis.it/articoli/come-guarire-narcisismo-patologico/
https://www.msdmanuals.com/it-it/professionale/disturbi-psichiatrici/disturbi-della-personalit%C3%A0/disturbo-narcisistico-di-personalit%C3%A0
https://lamenteemeravigliosa.it/siamo-attratti-dai-narcisisti-perche-succede/
https://www.guidapsicologi.it/articoli/perche-attiro-sempre-le-persone-narcisisteidentikit-del-partner-ideale
https://nardonechiara.it/art/glossario-del-narcisista.html

MANUALE DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA-IV EDIZIONE

Manuale di psichiatria e psicologia clinica – IV Edizione

Dagli studenti per gli studenti: cosa sono i sistemi emotivi e come funzionano?

Negli esseri umani esistono dei cosiddetti circuiti affettivi, regioni sottocorticali presenti in ogni mammifero. Questi circuiti affettivi comprendono i 7 sistemi emotivi/affettivi, che sono: paura, collera, desiderio sessuale, cura, panico/sofferenza, gioco. Questa sfera di emozioni nella specie umana riguarda emozioni complesse che non si limitano semplicemente ai puri istinti primitivi.

Vari stati emotivi. Fonte

 

Indice dei contenuti

 

  1. Anatomia, chimica che regola i sistemi emotivi/affettivi
  2. Definizione di personalità
  3. Cos’è esattamente la comorbidità?
  4. Circuiti cerebrali
  5. La schizofrenia 

Anatomia, chimica che regola i sistemi emotivi/affettivi.

Il sistema della ricerca, ovvero tutti quei meccanismi che ci hanno aiutato nell’adattamento in natura, comprende anatomicamente le vie dopaminergiche (divise tra mesolimbiche e mesocorticali); questo è attivato grazie alla produzione di dopamina (o anche altri neurotrasmettitori, come glutammato o dinorfina). Il sistema della ricerca risulta alterato soprattutto nel momento in cui si sviluppa un disturbo depressivo per l’ipoattività del sistema della ricerca, mentre al polo opposto, quindi nel disturbo maniacale, un’iperattività del sistema.
Nel momento in cui il soggetto che fa uso di sostanze psicostimolanti ne abusa, sarà spinto alla ricerca della sostanza, perché gli psicostimolanti aumentano l’attività di produzione della dopamina creando dipendenza.

Le vie dopaminergiche. Autore: Biagino Cavalli. Fonte

 

Per quanto riguarda il sistema del desiderio sessuale, invece, si tratta di un istinto primordiale animale. Il desiderio sessuale è regolato dalla presenza di alti livelli di testosterone, dalla produzione di vasopressina, estrogeni e progesterone e dalla dopamina. Questo sistema risulta alterato nella depressione, come anche il sistema della cura di cui parleremo adesso.

Da cosa è favorito il sistema della cura? Dall’aumento di ossitocina e dall’aumento di oppioidi endogeni; le alterazioni di questo sistema sono provocate anche da lesioni anatomiche.
La paura è innata in noi e il nostro cervello percepisce stimoli, quindi input che si tradurranno in risposte le quali possono essere somatiche, emotive e di altre varie nature.
Il sistema della rabbia è un sistema particolarmente legato all’aumento di testosterone; viene coinvolto anche il Glutammato e da una diminuzione di ossitocina, serotonina e oppioidi endogeni; legato al sistema della ricerca esiste anche una rabbia predatoria (meno legata ad una risposta emotiva ma più istintiva) e una rabbia affettiva che può essere offensiva, difensiva e/o materna. Panksepp afferma che la base della personalità umana sia legata a questi sistemi emotivi/affettivi.

Definizione di personalità

La personalità è l’insieme dei tratti che si muovono lungo un continuum che va dal normale al patologico; questa si ritrova nella normalità nel momento in cui non assume una piega persistente nell’arco della vita, se così fosse parleremo proprio di patologia. Da questo concetto la Nosografia Psichiatrica ha cercato in prima battuta, con la pubblicazione del manuale diagnostico e statistico di personalità (DSM), di categorizzare i disturbi, ma successivamente si è cercato con l’ultima pubblicazione del DSM 5 di dare una dimensionalità ai disturbi psichiatrici. Esistono, quindi, tre dimensioni psicopatologiche attraverso le quali i disturbi psichiatrici si muovono, e sono la dimensione internalizzante, esternalizzante e psicotica. Da diversi studi condotti sulla personalità si è visto come un individuo possa essere affetto da più disturbi psichiatrici. Si parla in questo caso del concetto di Comorbidità.

Più disturbi mentali ci possono attanagliare. Fonte

Cos’è esattamente la comorbidità?

Si tratta della presenza, all’interno dell’individuo, di più disturbi psichiatrici e fisici. La comorbidità può essere intesa in senso stretto, o in senso esteso, come la presenza di più disturbi all’interno di un arco ristretto di tempo per quanto riguarda il primo; intesa in senso esteso, invece, si riferisce alla presenza di più disturbi psichiatrici durante tutto l’arco della vita.
Grazie agli studi effettuati da Damelin, si è visto come la presenza di un singolo disturbo psichiatrico abbia la probabilità di sfociare in un secondo e in un terzo disturbo psichiatrico danneggiando quelli che sono i circuiti cerebrali.

Circuiti cerebrali

Un danno ai circuiti cerebrali, i quali cooperano in unità o un malfunzionamento di essi, sono causa dei disturbi psichiatrici. I circuiti sono il salience network, default mode network, cognitive control network. Nella schizofrenia il salience network risulta alterato, in quanto il soggetto affetto non è in grado di capire gli stimoli salienti, ovvero gli stimoli principali a cui è sottoposta di norma una persona.

https://en.wikipedia.org/wiki/Salience_network
Rappresentazione dei circuiti cerebrali. Fonte

La schizofrenia

La sintomatologia schizofrenica interessò molti studiosi, i quali prima ancora che venisse coniato il termine schizofrenia, la definirono dementia praecox. La schizofrenia è un disturbo cronico, al quale si associano quadri clinici eterogenei, i quali possono riportare: presenza di sintomi positivi e sintomi negativi; i sintomi positivi riguardano allucinazioni, deliri e comportamento bizzarro. I sintomi negativi, invece, sono anedonia, abulia, apatia e anergia. La schizofrenia ha, di solito, un periodo di insorgenza che va dai 18 a 28 anni.

Modalità di azione dei farmaci. Fonte

 

Esistono due classi di antipsicotici di prima e seconda generazione. I primi, chiamati anche antipsicotici tipici o neurolettici, come la clorpromazina e la clotiapina, bloccano gli effetti della dopamina, ma possono indurre effetti avversi come mancanza di forza, irrequietezza e aumento di peso. I secondi, invece, detti anche antipsicotici atipici, agiscono bloccando sia gli effetti dati dalla dopamina che quelli della serotonina; questi rispetto ai farmaci di prima generazione sono spesso più facilmente tollerabili, infatti non inducono mancanza di forza e di volontà e possono causare solo raramente disturbi del movimento.

                                                                                                                                                              Elisa Bentivogli

Bibliografia

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6476274/

Personality disorders – Symptoms and causes – Mayo Clinic

Comorbidità: cosa significa veramente questo termine (vivavoceinstitute.com)

Lo Spirito del Natale: questione di cuore o di cervello anche in pandemia?

Il mese di dicembre, da tutti, viene inevitabilmente associato al Natale: si inizia a percepire un’atmosfera magica, di festa, di gioia, si incontrano i familiari e gli amici e si riscoprono valori importanti quali la solidarietà, la famiglia, la bontà. Se l’atmosfera natalizia di gioia mista a nostalgia è nota, ciò che potrebbe non esserlo è la localizzazione del famoso “Spirito del Natale” nel cervello umano.

Secondo Hougaar (ricercatore in neuroscienze), Lo Spirito del Natale si è diffuso, di generazione in generazione, sotto forma di un “fenomeno” noto da un punto di vista religioso e commerciale, ma non noto da un punto di vista neuro-biologico. A tale scopo, nel 2015, il ricercatore ed i suoi collaboratori condussero uno studio a Copenaghen in cui vennero coinvolti due gruppi:

  • Il primo conteneva 10 soggetti sani residenti a Copenaghen, che festeggiavano ogni anno il Natale,
  • Il secondo 10 soggetti sani, residenti nella stessa zona, che non celebravano le tradizioni natalizie.

L’obiettivo dello studio era l’esatta localizzazione dello Spirito Del Natale a livello corticale e dei meccanismi neuro-biologici coinvolti, motivo per il quale i due gruppi furono sottoposti alla metodica diagnostica della risonanza magnetica funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI) mentre osservavano una serie continua di 84 immagini, mostrate per due secondi ciascuna. La serie era strutturata in modo tale da mostrare ad ogni singolo soggetto sei immagini consecutive aventi un tema natalizio, seguite da sei immagini consecutive non aventi un tema natalizio. Ciascun soggetto, inoltre, dopo essere stato sottoposto alla fMRI, veniva sottoposto ad un questionario contente una serie di domande per indagare sulle credenze, sulle tradizioni rispettate e sulle sensazioni avvertite durante il periodo natalizio.

LO SPIRITO DEL NATALE ESISTE DAVVERO NEL CERVELLO?

Lo studio dimostrò che nel gruppo dei soggetti amanti del Natale, secondariamente all’osservazione delle immagini natalizie, si attivavano delle aree cerebrali in modo molto più significativo rispetto al gruppo dei non amanti del Natale. Grazie a questi risultati, il gruppo di Hougaar identificò un network cerebrale del Natale, che corrispondeva a diverse aree cerebrali, quali:

  • Corteccia motoria primaria;
  • Corteccia premotoria sinistra;
  • Lobo destro inferiore;
  • Lobo parietale superiore;
  • Corteccia somatosensoriale primaria.

PERCHÉ QUESTE AREE CEREBRALI SONO COSI’ IMPORTANTI?

Studi precedenti hanno associato tali aree cerebrali alla spiritualità e al riconoscimento facciale delle emozioni.
Urgesi, noto psicologo e ricercatore in neuroscienze, nel 2000 aveva già dimostrato come i lobi parietali destri e sinistri giochino un ruolo fondamentale nell’autotrascendenza, ovvero il tratto di personalità che determina la propensione individuale alla spiritualità; mentre Balconi dimostrò nel 2013 come la corteccia premotoria esplichi un ruolo chiave per esperire emozioni condivise con altri individui, mettendo in atto gli atteggiamenti altrui e riflettendo lo stato emotivo altrui. Infine, Adolphs nel 2000 dimostrò che la corteccia somatosensoriale è indispensabile non solo per il riconoscimento facciale delle emozioni, ma anche per ricavare informazioni sociali in rapporto alle espressioni e ai volti altrui.

IL NATALE E ALTRE RISPOSTE NEURO-ENDOCRINE

Il Natale, se da un lato è la festa gioiosa per eccellenza, dall’altro riflette le abitudini stressanti della società moderna: le attività pre-natalizie innescano una risposta fisiologica nell’organismo con rilascio di adrenalina e cortisolo. Il secondo, l’ormone dello stress, esercita una profonda attività sull‘ippocampo, con successivo decremento della capacità di apprendere e ricordare nuove informazioni. Tuttavia, al di là dell’aspetto prettamente materialistico che potrebbe condurre il soggetto ad eventi stressanti, il Natale è per eccellenza il simbolo della famiglia: la sensazione di “calore” associata a questi momenti è dovuta in parte all’ossitocina, definita da molti studiosi l’ormone dell’istinto materno e dei legami umani.

LA PANDEMIA CI RUBERÀ’ IL NATALE?

il Natale è ormai alle porte, anche se i festeggiamenti saranno differenti rispetto a quelli degli anni passati. Se da un lato è indispensabile evitare un aumento dei contagi, dall’altro bisogna considerare le conseguenze devastati a livello psichiatrico: l’isolamento esacerberà i disturbi di ansia e i disturbi depressivi maggiori, tanto da considerare questo periodo una vera e propria “emergenza psichiatrica“.

Come dimostrato in uno studio condotto su 402 pazienti al San Raffaele di Milano nei mesi scorsi, i pazienti con una precedente diagnosi di patologia psichiatrica sono peggiorati ed il 56% dei partecipanti allo studio ha manifestato almeno uno di questi disturbiin proporzione alla gravità dell’infiammazione durante la patologia:

  • disturbo post-traumatico da stress nel 28% dei casi;
  • depressione nel 31%;
  • ansia nel 42%;
  • insonnia nel 40%;
  • sintomatologia ossessivo-compulsiva nel 20%.

Sono state riscontrate ripercussioni psichiatriche meno gravi nei pazienti ricoverati in ospedale rispetto ai pazienti ambulatoriali. In generale, infatti, le conseguenze psichiatriche da COVID-19 possono essere causate sia dalla risposta immunitaria al virus stesso, sia da fattori di stress psicologico come l’isolamento sociale, la preoccupazione di infettare gli altri e lo stigma.

 COSA CONSIGLIANO GLI ESPERTI?

Secondo molti psichiatri, i festeggiamenti (nel limite delle norme imposte dal governo) sono un fattore prognostico positivo nel contesto della cosiddetta “ansia da pandemia”; anche la programmazione delle vacanze natalizie rappresenta un ponte tangibile tra il presente, incerto ed angosciante, ed il futuro.

Caterina Andaloro

Bibliografia

  • Adolphs, R., Damasio, H., Tranel, D., Cooper, G., Damasio, A.R. (2000). A role for somatosensory cortices in the visual recognition of emotion as revealed by three-dimensional lesion mapping. Journal of Neuroscience, 20 (7), 2683-2690
  • Balconi, M., Bortolotti, A. (2013). The “simulation” of the facial expression of emotions in case of short and long stimulus duration. The effect of pre-motor cortex inhibition by rTMS. Brain and Cognition, 83, 114-120.
  • Hougaard, A., Lindberg, U., Arngrim, N., Larsson, H.B.W., Olesen, J., Amin, F.M., Ashina, M., Haddock, B.T.  (2015). Evidence of a Christmas spirit network in the brain: functional MRI study. TheBMJ, 351:h6266.
  • Urgesi, C., Aglioti, S.M., Skrap, M., Fabbro, F. (2010). The spiritual brain: selective cortical lesions modulate human self-transcendence. Neuron, 65 (3), 309-319

 

Musicoterapia, un farmaco senza effetti collaterali

Chi al mondo non conosce la musica?

Siamo proiettati sin dalle prime percezioni sensoriali a sentire suoni, melodie, che ci accompagnano poi per tutta la vita. Infatti se da principio nell’Antica Grecia la musica viene intesa come prodotto dell’arte di ideare e produrre, oggi di sicuro è molto più che una semplice arte, è una costante, una compagna quotidiana.

Provando ad analizzare la tua ”giornata tipo” ti accorgerai che è una stabile presenza. Già la sveglia, la mattina, parte con una fastidiosa musichetta, il più delle volte. Ma anche con le pubblicità, o nei bar, discoteche, supermercati, saloni di bellezza, in macchina, in chiesa, palestre, perfino aspettando di parlare con un operatore telefonico, ciò che ti accompagna è la musica.

Cosa ti succede quando ascolti la musica?

Premesso che sentire ed ascoltare sono due azioni differenti (essendo la prima prettamente involontaria e l’ascoltare qualcosa di più attivo), il suono come onda meccanica giunge a livello uditivo e da qui a livello cerebrale.

Le parti del cervello coinvolte dagli stimoli sonori sono numerose. L’ ascolto di un brano musicale, può indurre degli effetti biologici su tutto il corpo e in particolare su:

-Frequenza cardiaca e pressione sanguigna: la velocità del ritmo musicale agisce sul ritmo cardiaco aumentandolo ascoltando musiche veloci mentre diminuendolo con quelle più lente, allentando tensioni corporee, l’ansia e le preoccupazioni. Come se il cuore volesse andare a tempo.
-Temperatura corporea: la musica ad alto volume può alzare la temperatura di qualche grado .
-Respirazione: ascoltare una musica veloce rende il respiro più dinamico mentre i ritmi più lenti provocano un respiro più profondo inducendo uno stato di rilassamento.
-Regolazione degli ormoni dello stress: l’ascolto di musiche rilassanti diminuisce il rilascio di ormoni dello stress come la secrezione di cortisolo; la musica inoltre può regolare il rilascio di ossitocina che regola lo stress, l’ansia e gli stati motivazionali affettivi.

Tutto ciò si esplica concretamente nel potere della musica di calmare, eccitare, concentrare e anche curare.

La storia della musica come terapia

La storia della musicoterapia inizia già dal ‘500. Il suo beneficio nell’ascoltarla, o dal crearne e riprodurne aveva già portato a pensarla come uno strumento terapeutico.
I primi passi concreti però li avremo solo dopo la Seconda Guerra Mondiale in America. Infatti negli ospedali, casualmente si vide quanto la musica giovasse ai pazienti, grazie ad alcuni musicisti che volontariamente vi si recavano per allietare le giornate dei veterani degenti. Da questo piccolo gesto di altruismo, nasce la consapevolezza di quanto fosse importante e quasi necessario questo strumento, ma anche di come prima ci volesse una preparazione preventiva.
La figura del musicoterapista come professionista si deve a tre importanti figure: Ira Althshuler, Willem van de Wall e E. Thayer Gaston, padri della musicoterapia. Al giorno d’oggi ci sono numerose associazioni professionali della musicoterapia, tra cui vale la pena citare l’American Music Therapy Association (AMTA), nata nel 1998, che è attualmente la più vasta associazione di musicoterapia del mondo.

Applicazioni della musicoterapia

La musica può essere considerata un fattore motivante per quei pazienti restii a sottoporsi alla psicoterapia o farmacoterapia;
Gli obiettivi principali della musicoterapia sono:
– ridurre le tensioni
– rimuovere le inibizioni
– facilitare la comunicazione
– stimolare l’attività sociale e individuale
– istaurare un processo che faciliti e favorisca la comunicazione e l’espressione delle emozioni

Demenze

La musicoterapia in questi pazienti si è dimostrata essere uno strumento di comunicazione con il paziente. Soprattutto nell’ambito della Alzheimer, alcuni studi hanno dimostrato ottimi risultati con miglioramenti della
-memoria a breve termine, l’ascolto di un brano conosciuto o a cui si è affettivamente legati può rievocare con molta precisione un episodio della vita;
-orientamento spazio temporale;
-tono d’umore;
-senso di identità;
-competenze espressive e relazional
i;
riduzione dei livelli di cortisolo, e con esso dello depressione, stress e delle compromissioni cognitive che possono scaturire da un incremento di questo ormone.

Terapia palliativa del dolore

Si tratta di programmi terapeutici attuati per lo più in pazienti oncologici in fase terminale. In alcuni studi condotti su persone affette da carcinoma epatico, i risultati sono stati sorprendenti: nei giorni in cui i pazienti effettuavano questa terapia, e soprattutto mentre la eseguivano, non avevano avuto bisogno di somministrazioni di antidolorifici come la morfina che erano soliti prendere nei giorni pregressi. 

Autismo

Nell’ambito dell’autismo la musicoterapia non solo migliora il comportamento, ma influisce anche sulla forza delle connessioni tra le aree cerebrali. In questa patologia c’è uno squilibrio tra le varie connessione neuronali, che sono accentuate. L’ipotesi è che le capacità di comunicazione sociale diminuirebbero a causa di tutta la sovra stimolazione sensoriale. Mi spiego meglio: immagina di parlare con qualcuno, mentre grida, in una stanza con luci molto forti percepite come flash. Quanto saresti in grado di relazionarti adeguatamente in questa situazione? Effettuando la RM durante la musicoterapia si è valutata una diminuzione delle connessioni tra le aree uditive e visive, che può portare a miglioramenti delle abilità sociali.  È possibile che diminuendo i sintomi sensoriali, le abilità sociali migliorino.

In conclusione anche se ad oggi la musicoterapia non è di certo così ampiamente utilizzata, si auspica che in un futuro possa essere maggiormente applicata essendo una metodica a basso costo, che può giovare a chiunque.
Vorrei inoltre proporti di guardare un bellissimo film proprio su questo argomento che si chiama ”La musica che non ti ho detto” e di dedicare sempre del tempo a te stesso, magari chiudendo gli occhi per un po’, dimenticando i tuoi problemi e
ascoltando un po’ di sana, buona musica.

Sofia Turturici

Bibliografia

https://americanamusic.org/node/495
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22743206/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/14689332/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26417751/
http://tesi.cab.unipd.it/51115/1/porcu.elisabetta.1048659.pdf
https://www.stateofmind.it/2018/06/musicoterapia-demenze/

Film da “pazzi”: la psichiatria al cinema

La malattia mentale, affascinante e sconosciuta, ci ha sempre attratto. Il grande e il piccolo schermo ci hanno soddisfatto, con una moltitudine di capolavori disponibili.

Ma cosa è che affascina tanto il pubblico? E cosa è che spinge i produttori?

Sicuramente tra cinematografia e psichiatria c’è un filo conduttore, un qualcosa in comune che permette all’una di ispirarsi all’altra. Eh si, avete capito bene, anche il cinema ha il suo scopo terapeutico e didattico.

Ma a prescindere da ciò, le storie raccontate in prima persona e i sentimenti espressi così bene – quasi come se li stessimo provando noi – sembrano essere magnetici, e la malattia viene mostrata nella sua realtà e crudezza dandoci una nuova visione del mondo.

Così abbiamo scelto cinque tra i film che, secondo noi, rendono meglio le patologia psichiatrica, ma che allo stesso tempo riescono a tenerci incollati al divano.

Toc Toc – Disturbo ossessivo compulsivo

Un apparente errore burocratico riunisce un gruppo di pazienti nell’ambulatorio del dottor Palomero, un presunto terapeuta luminare che però ritarderà all’appuntamento. La sua sala d’aspetto sarà lo scenario del film, una commedia che in un’ora e trenta minuti ci presenterà i vari casi clinici.

Fonte: cuorementelab.it – i protagonisti del film

L’incontro – e lo scontro – tra le varie forme del disturbo si fa esilarante, ma allo stesso tempo non scadendo nei cliché, riesce a mostrare i disagi più profondi dei vari protagonisti.

Dalla scelta del titolo, Toc Toc che sta per Trastorno Obsesivo Compulsivo (in spagnolo, lingua originale) con la ripetizione delle parole tipica del disturbo di una delle pazienti, alla bravura degli attori: ci si immerge in un’esperienza leggera, reale e dal finale inaspettato.

Il lato positivo – Disturbo bipolare

Pat, il protagonista del film, appena uscito dalla clinica psichiatrica dovrà fare i conti con la vita di tutti i giorni. Il reinserimento sociale dopo la diagnosi di disturbo bipolare, dopo “l’incidente” a seguito del tradimento della moglie e dopo lo sgretolarsi di tutte le proprie certezze, rendono giustizia alla malattia. Questa viene trattata con delicatezza e con estrema precisione clinica, facendoci immergere completamente nella vita del paziente.

Fonte: ilmedioweek.com – Pat e Tiffany

L’essere consapevole della propria malattia, rende il protagonista sicuro di sé e lo spinge a cercare il lato positivo, ma non lo farà da solo. Tiffany sarà forse la via giusta per trovarlo?

In un concerto di emozioni e di bravura, Jennifer Lawrence e Bradley Cooper rendono questo film un capolavoro.

Brain on fire Encefalite autoimmune

Diversa dalle altre, questa patologia è quasi a cavallo tra la neurologia e la psichiatria. Una malattia sconosciuta, scambiata per un comune disturbo psichiatrico, rende quello della protagonista del film – nonché della storia reale – un particolare caso clinico.

Basato sull’autobiografia di Susannah Cahalan, questo film mostra la gravità del vivere una situazione sconosciuta e  l’insicurezza di una paziente che non sa se essere “neurologica” o “psichiatrica”. Con una profonda descrizione dell’evoluzione della malattia, questo film include lo spettatore nell’estremo disagio che prova la paziente, i suoi familiari e i medici.

Fonte: ultimenotizieflash.com – Susannah al suo ricovero

Nonostante sia stato molto criticato e poco pubblicizzato, questo film è l’occasione di vedere qualcosa di incredibile e – dal punto di vista scientifico – molto interessante.

Ma d’altronde il cervello che attacca se stesso, può essere noioso?

Into the Wild – Fuga psicotica

Film che racconta la storia vera (e divenuta un mito) di Christopher McCandless,  giovane neolaureato che decide di abbandonare la famiglia per intraprende un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti fino ad arrivare in Alaska.

Perché l’ha fatto? Sicuramente per sfuggire da una società consumista e capitalista nella quale non riesce più a vivere, ma forse c’è qualcosa in più.

Fonte: farnorthscience.com – Chris nel suo “appartamento”

Infatti, la sua storia e il suo comportamento potrebbero farci pensare ci sia qualcosa che va oltre la semplice ribellione: il ragazzo cambia nome, diventando Alexander Supertramp, dà fuoco alla sua macchina e al poco denaro che aveva, evita ogni rapporto umano e vive in un autobus abbandonato. Dietro le immagini romantiche del film, si nasconde la ben più triste storia di una fuga psicotica: Chris non scappava solo da un mondo che non sentiva proprio, ma scappava anche da se stesso.

The Truman Show – Delirio paranoide

The Truman Show, racconta la storia di Truman: un trentenne che scopre di vivere, fin dalla nascita, al centro di un reality show (che porta proprio il suo nome). Il film si presta a numerose interpretazioni e riflessioni filosofiche tra le quali, anche se  probabilmente non era nelle intenzioni del regista Peter Weir, c’è anche quella psichiatrica.

Fonte: dasscinemag.com – scena cult

Se si accettasse l’idea che il mondo falsificato in cui vive Truman sia in realtà il mondo reale, allora il film diventerà una rappresentazione esemplare di delirio paranoide.  Il protagonista crede di essere spiato, filmato, crede che tutte le persone nella sua vita siano attori ed arriverà addirittura ad incontrare Dio stesso. Sempre accettando questa interpretazione, vediamo come la vita felice e spensierata di Tuman venga sgretolata dalla malattia e sostituita da sospetto, paranoia e paura.

Così, abbiamo visto come ogni disturbo e ogni paziente riescano ad essere soggetti di grandi film (e di successo). Il vedere qualcuno che ha qualcosa di diverso,ma allo stesso tempo non così tanto, il notare i sacrifici per rimettere i tasselli della propria vita in ordine e il provare le loro emozioni, crea un effetto magnetico che ci fa sentire un po’ medici e un po’ pazienti.

Barbara Granata e Lorenzo La Scala 

Può un uomo credere di essere morto?

“Dottore, dottore, sono morto!”. Potrebbe essere la scena di un film, invece è davvero possibile che un medico senta una tale frase pronunciata da un paziente. Si tratta della Sindrome di Cotard, conosciuta anche con il nome di “sindrome dell’uomo morto”.

La sindrome di Cotard è un raro disturbo caratterizzato dalla presenza del cosiddetto “delirio di negazione”.
Il soggetto affetto non percepisce più alcun tipo di stimolo emozionale e la sua coscienza spiega questo fenomeno convincendosi di non essere più in vita o di aver perso tutti gli organi interni preposti a tale scopo.

Si evidenziò per la prima volta il 28 giugno 1880, quando Jules Cotard presenta, alla Société Médico-Psychologique, una comunicazione che lo renderà celebre dal titolo “Du délire hypocondriaque dans une forme grave de mélancolie anxieuse” dove riporta il caso di una donna di 43 anni che sostiene di non avere cervello, nervi, torace, stomaco e intestino; tutto quello che le era rimasto erano la pelle e le ossa.

La malattia era iniziata due anni e mezzo prima quando la signora aveva manifestato una grande spossatezza e ansia affermando di sentirsi come un’anima persa. Riteneva, a causa dello stato del suo corpo, di non doversi nutrire, di non potere più morire di morte naturale pensando che l’unico mezzo per porre fine ai suoi giorni fosse quello di essere bruciata viva.

Cotard affermò di avere descritto una nuova varietà clinica di melanconia ansiosa grave le cui caratteristiche sono costituite da:

  • melanconia ansiosa
  • idee di dannazione o possessione
  • tendenza al suicidio e alle automutilazioni
  • analgesia
  • delirio ipocondriaco di non-esistenza o di devastazione di alcuni organi o del corpo intero
  • delirio di immortalità

Al giorno d’oggi sono pochi i casi descritti.

Uno studio condotto presso l’ U.O. di Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Pisa, espone la condizione di un paziente con sospetta sindrome di Cotard.

Riguarda un uomo, EC di 82 anni, senza alcuna storia familiare di disturbi psichiatrici che vive in famiglia. Operoso e partecipe a tutte le attività familiari, il paziente è stato profondamente colpito dalla morte di una sorella verificatasi sei mesi prima di giungere all’osservazione dei medici. Due mesi dopo l’evento luttuoso il paziente ha iniziato a riferire vaghe rachialgie.

Progressivamente l’anziano era divenuto inquieto, preoccupato per il persistere della sintomatologia dolorosa, iporessico ed insonne, aveva abbandonato l’abitudine di fare lunghe passeggiate e si era rifiutato di recarsi al supermercato per le compere quotidiane, rispondendo faticosamente e con parole imprecise alle domande dei familiari.

Un mese prima della valutazione medica, gradualmente, EC aveva manifestato deficit di attenzione, di memorizzazione e di esecuzione di calcoli aritmetici. Nel contempo l’uomo era divenuto ansioso, perplesso, come spaventato, perseverante su previsioni di morte. Successivamente aveva avvertito che il suo corpo era cambiato. Infine si era rifiutato di nutrirsi ritenendosi morto.

Il paziente fu mandato in ambulatorio per i disturbi cognitivi nel sospetto di una sindrome demenziale a decorso sub-acuto. L’anamnesi orientava verso un quadro Cotardiano nell’ambito di una depressione maggiore con manifestazioni psicotiche.

Il paziente fu quindi trattato con farmaci antidepressivi e il quadro clinico ha mostrato una progressiva risoluzione sintomatologica dalla seconda settimana di terapia fino a remissione totale con reintegrazione nel ruolo familiare e nel contesto sociale del soggetto dopo circa quaranta giorni di trattamento farmacologico.

Ma vi sono basi neurobiologiche per spiegare la sindrome di Cotard?

Per quel che riguarda l’aspetto psicologico/neuropsicologico, alcuni studi hanno evidenziato nei pazienti con sindrome di Cotard una disposizione psicologica individuale definibile come stile attribuzionale introiettivo.

Numerosi studiosi infatti analizzarono l’assessment neuropsicologico di pazienti con la sindrome di Cotard ed evidenziarono che il profilo neuropsicologico, attraverso il test di riconoscimento di facce, non mostrava deficit a carico di funzioni cognitive quali le capacità di ragionamento, la memoria visuospaziale per i luoghi, la memoria di riconoscimento verbale, ma i deficit riguardavano il riconoscimento delle facce e le stime cognitive (funzioni esecutive).   

La perdita del significato emotivo di ogni esperienza sensoriale, determinerebbe il delirio di negazione, ovvero “Io sono morto”, quale unica spiegazione per la totale mancanza di emozioni. In particolare le anomalie percettive, soprattutto per i volti, causate dal deficit neurologico di elaborazione emotiva del riconoscimento visivo interagiscono con lo stile attribuzionale interno determinando un vissuto depressivo importante che, a sua volta, è alla base del delirio di negazione.

Anche la diagnostica per immagini ha contribuito nell’approfondire le conoscenze su tale patologia, soprattutto TC e RMN, così come la medicina nucleare: in alcuni pazienti attraverso la SPECT si evidenziò una riduzione di flusso cerebrale.

Solitamente, la sindrome di Cotard viene trattata con medicinali antidepressivi e antipsicotici, associati a delle sedute di psicoterapia. In questo percorso si tende, generalmente, a coinvolgere i familiari, in quanto il paziente potrebbe non riconoscere il proprio stato in piena autonomia.

Nonostante la sindrome di Cotard non sia riportata nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali), e nonostante sia associata ad altre patologie neuropsichiatriche, verosimilmente rappresenta una sindrome ben definita e ciò dovrebbe stimolare i ricercatori a studiarne ulteriormente i meccanismi fisiopatologici. 

Carlo Reina

Questo pazzo, pazzo mondo…

Qualche giorno fa, nel pieno dello scalpore mediatico per le presidenziali francesi, un caro amico, al corrente del mio interesse verso tutto ciò che riguarda mente, cervello e dintorni, mi ha segnalato un video, presente su YouTube, in cui amenamente si argomenta di come il neoeletto Macron sia in realtà un pazzo pericoloso: “lo dice uno psichiatra” afferma perentoriamente il titolo stesso del video (ah, il fascino sempreverde dell'”ipse dixit”!).

Il bello è che è tutto vero: o almeno, è vero che lo dice uno psichiatra (di cui non voglio fare il nome), che durante il video argomenta di come vere o presunte violenze sessuali in età giovanile possano avere reso instabile la mente del povero presidente neoeletto. Non ritengo opportuno pronunciarmi sulla validità di questa “diagnosi” per tutta una serie di motivi: intanto perché non sono psichiatra; e secondariamente perché, anche in psichiatria, le diagnosi, quelle vere, si fanno col paziente davanti e non “per interposta persona”, affidandosi a notizie di dubbia provenienza.

Ma è in particolare su questo che il video in questione mi ha fatto riflettere: sul modo in cui, ancora oggi, dare del pazzo a qualcuno, o meglio, affermare che soffre di un qualsiasi tipo di problemi mentali, possa trasformarsi in una pericolosa arma politica volta a screditarne l’immagine. Non è del resto la prima volta che i nostri media ci deliziano con notizie del genere; anzi, pare che ogni volta che succeda qualcosa di politicamente rilevante ci sia sempre qualcuno pronto a dare del pazzo, o del mentalmente instabile, o dello psicopatico, a qualcun altro. Spesso, purtroppo, appoggiandosi alle parole (a volte fraintese o decontestualizzate, ma purtroppo non sempre) di qualche addetto ai lavori, compiacente o meno. Ricordo che qualche mese fa girarono per un po’ sulla rete le dichiarazioni di un noto psichiatra (neanche di lui faccio il nome), indubbiamente ironiche, ma neanche troppo, che arrivavano addirittura a dire che l’Italia intera è un paese di pazzi.

Trovo che ci sia qualcosa (mi si perdoni il termine) di malato, dietro questa tendenza. O meglio, che tradisca un problema di fondo purtroppo terribilmente attuale e che ormai siamo abituati a dare per scontato. Ovviamente si tratta di un understatement, di qualcosa di non scritto: ma dietro questo modo di atteggiarsi, dietro il fatto che notizie del genere trovino una discreta risonanza nei mezzi di comunicazione, e che ci sia gente che trova interesse a diffonderle, c’è la concezione radicata che essere “pazzi”, soffrire di malattie mentali, sia qualcosa di cui bisogni vergognarsi.

Lo stesso termine “pazzo”, che i profani considerano sinonimo di “paziente psichiatrico”, si porta ancora dietro una fortissima valenza dispregiativa; quando in realtà sarebbe doveroso ricordare che, almeno stando all’accezione comune, le due categorie raramente coincidono. Nella mentalità comune, il termine “pazzo” evoca ancora il tizio seminudo che corre per strada urlando, parla da solo,  si crede Napoleone o Gesù Cristo, ha atteggiamenti bizzarri, magari ha allucinazioni o altre dispercezioni; inteso in questo senso, quello che la gente comune chiama pazzo coincide molto grossolanamente con quello che gli psichiatri indicano come paziente psicotico, che comunque rappresenta solo una piccolissima parte delle tantissime manifestazioni cliniche di cui si occupa la psichiatria (e che tra l’altro è una condizione da cui, seppur limitatamente, grazie ai progressi della medicina, oggi si può persino guarire). In senso lato, poi, quella del “pazzo” diventa una categoria ancora più ampia e abusata; è pazzo il “diverso”, colui che non è “normale”. Il punto è che dallo psichiatra va anche chi soffre di depressione, disturbi d’ansia, disturbo ossessivo-compulsivo e tanti altri, pazienti che, se doveste incontrare per strada, vi apparirebbero come persone assolutamente “normali” e che ogni giorno lottano contro la loro malattia, un po’ come chi soffre di diabete mellito o chi ha un tumore maligno. Ecco, provate a dare loro dei pazzi…

Mi si dirà: ma perché tutta questa polemica? Che cosa cambia a te se la gente continua a usare questi termini e a ignorare quello che c’è dietro?

A me, personalmente niente. Ma a chi queste condizioni le vive sulla propria pelle, moltissimo. Perché se è vero che tanta gente va dallo psichiatra a farsi curare per queste malattie, ce ne sono anche tantissimi che ne soffrono ma dallo psichiatra non ci vanno: perché non riescono ad accettarlo. Perché hanno paura che li si consideri dei “pazzi”. Perché i loro genitori, la loro famiglia, i loro amici, li dissuadono: “ma no, non c’è bisogno che tu vada dallo psichiatra, non sei pazzo, è solo un brutto momento, passerà”. Capita così che tantissimi pazienti che, nelle opportune condizioni, avrebbero potuto beneficiare di un trattamento precoce, finiscano poi con l’essere riconosciuti come tali, e trattati, solo quando ormai è troppo tardi e c’è poco da fare. E intanto, intorno a noi, si continua impunemente ad alimentare quello che gli specialisti del settore chiamano lo “stigma”, il pregiudizio, la discriminazione. Con buona pace di chi soffre…

Gianpaolo Basile