Caro affitti. Il Ministero reagisce alle proteste: 660 milioni per gli alloggi universitari

Il problema del caro affitti in Italia ha quasi i caratteri di un’emergenza. Sarebbe sbagliato definirlo così per la sua prevedibilità e la sua stasi nel tempo, ma di un’emergenza presenta certamente l’inclinazione cronica. La corsa dell’inflazione e la crisi economica generale hanno stravolto i prezzi del mercato edilizio; a soffrirne sono più degli altri gli studenti fuori sede, che per abitare Roma, Milano o Bologna devono accettare spesso il peso del debito. 

Ma, voce più voce, gli universitari hanno fatto avanzare le proprie pretese, giungendo, qualche giorno fa, a uno scacco verso le istituzioni. La corale “protesta delle tende” ha funzionato! Il governo sbloccherà 660 milioni per gli alloggi accademici!

Caro affitti, la “protesta delle tende”

Riporta le informazioni Rainews24. La succitata “protesta delle tende” si è diffusa a partire dall’azione della studentessa Ilaria Lamera, del Politecnico di Milano, che pochi giorni fa aveva piantato una tenda davanti al suo ateneo per “accendere una luce sul problema del caro affitti”. Dopo di lei, infatti, altri “colleghi” da tutta Italia hanno portato ai fatti la loro ribellione. 

Vari gruppi studenteschi hanno innestato le proprie tende di fronte alle università di Torino, Firenze, Cagliari, Pavia e Roma, ripresentando fortemente le loro presunzioni. Leone Piva, coordinatore dell’associazione Sinistra Universitaria della Sapienza e organizzatore della mobilitazione romana, ha sostenuto:

I prezzi degli affitti sono diventati altissimi, a Roma non si scende sotto i 500 euro per una camera. Quella che stiamo vivendo è un’emergenza abitativa. Gli studenti chiedono un tavolo con gli atenei e la Regione per trovare una soluzione

Mentre Damiano, uno studente al primo anno di Lettere e Filosofia dello stesso ateneo, ha lamentato:

È un problema che vivo in prima persona. Faccio il pendolare, tutti i giorni ci metto 3 ore per andare a lezione e tornare a casa a Civitavecchia, dove vivo. Una casa non me la posso permettere.

Caro affitti
Sapienza Università di Roma. Fonte: Wikimedia Commons

Le risposte istituzionali al caro affitti: problema in via di risoluzione?

Riporta le informazioni SkyTg24. Il Consiglio dei ministri ha autorizzato la presentazione di un emendamento per “confermare l’immediata operatività” delle misure “che destinano 660 milioni di euro all’acquisizione della disponibilità di nuovi posti letto presso alloggi o residenze per studenti delle istituzioni della formazione superiore”.

Una misura che il governo potrà adottare grazie ai fondi messi a disposizione dal PNRR. L’emendamento, difatti, prima di giungere a Palazzo Chigi è passato per un’interlocuzione nella Commissione europea, la quale ha consentito di escludere “la natura di aiuti di Stato” di tali intervenienti.

L’esempio UniMe: in anticipo sul problema

Anche l’Università degli Studi di Messina ha preso a cuore il problema caro-affitti: grazie al progetto “Casa UniMe”, 230 studenti ricevono un contributo per le loro spese di locazione. E dal 2 maggio, per mezzo di un accordo con l’Università, l’Hotel Liberty ha messo a disposizione degli universitari 102 posti letto aggiuntivi.

Tutto ciò è il frutto di un lavoro comunitario che ha visto convolti: l’ERSU (Ente Regionale per il diritto allo Studio Universitario), la società UNI. LAV., l’amministrazione accademica nella figura del Magnifico Rettore Salvatore Cuzzocrea e il dott. Pietro Franza, concessore delle risorse dell’Hotel Liberty.

Gabriele Nostro

Georgia: la popolazione civile è riuscita ad ottenere il ritiro di una legge “controversa”

Dopo 3 giorni di proteste, il Parlamento della Georgia ha bocciato in seconda seduta la proposta di legge “sulla trasparenza dell’influenza straniera” (denominata “Russian law” dai manifestanti) con 35 voti a favore e uno contrario. La seconda seduta si sarebbe dovuta tenere il 21 marzo ma la violenza delle proteste e l’attenzione internazionale che hanno provocato, hanno spinto il partito di maggioranza GD (Georgian Dream) ad anticiparla.

La legge, nello specifico

Nel secondo articolo, la legge descrive gli “agenti di influenza straniera” come organizzazioni non governative, emittenti televisive e media agency che ricavano il 20% del loro sostentamento annuale da potenze estere, definite a loro volta come altre nazioni, ma anche come semplici individui e organizzazioni con sede legale situata al di fuori del territorio georgiano. Per la legge, chi rientra all’interno della categoria di agente straniero ha l’obbligo di dichiararsi alle autorità, pena multa di novemila euro.

La parola agente è sinonimo di spia in georgiano, ed i manifestanti temono che l’obbligo di denunciarsi alle autorità pubbliche come spia sottintenda la volontà del governo di controllare il dibattito politico del paese, con l’espediente della trasparenza. Giustificazione che non regge, poiché i media georgiani pubblicano le informazioni riguardanti le loro finanze e donazioni sui loro siti e vengono verificate da enti esterni, molte volte durante l’anno. In secondo luogo, appare evidente che a subire questo trattamento saranno determinate agenzie, con una selezione quantomeno arbitraria.

Come si è arrivati al ritiro

Fondamentali sono state le proteste che hanno coinvolto migliaia di cittadini della capitale georgiana già dalla notte di martedì, dopo l’approvazione in prima lettura della legge. Da subito le proteste si sono caratterizzate per la violenza degli scontri tra cittadini e polizia.

I primi  hanno utilizzato molotov e fuochi d’artificio mentre i secondi hanno risposto con cannoni ad acqua, granate stordenti e proiettili di gomma. L’apice della tensione si è avuto mercoledì, quando i manifestanti hanno tentato l’incursione all’interno del parlamento, prontamente respinti dagli agenti in tenuta anti-sommossa. Giovedì il governo ha annunciato il ritiro senza condizioni della legge (in vista della partecipazione di massa alle proteste) avvenuto ufficialmente venerdì.

In supporto delle proteste, si è espresso anche il Presidente francese Emmanuel Macron, che con un tweet ha sottolineato come il popolo francese sia vicino al grande desiderio di democrazia dei georgiani:

La “Russian law” e l’impetuosità delle proteste in Georgia

Alla base della grande reazione che questa legge ha provocato all’interno dell’opinione pubblica della capitale, ci sono i rapporti tra Mosca e Tbilisi e la voglia di democrazia del popolo georgiano. La Georgia è stata una repubblica sovietica fino al 1991, quando con un referendum il 99% della popolazione ha scelto l’indipendenza.

Nel 2008 la Russia ha invaso il paese, sottraendone il 20% del territorio a causa dell’istituzione di due repubbliche separatiste ( Ossezia del sud, Abcasia). Dal 2012 la Georgia ha come partito di maggioranza il GD finanziato da Bidzina Ivanishvili, un georgiano che ha fatto fortuna in Russia. 

Subito dopo l’invasione Russa in Ucraina, il Paese ha subito fatto richiesta per entrare nell’Unione Europea, richiesta respinta nel giugno del 2022 a causa di alcune criticità rinvenute nel sistema democratico.  La legge, oltre a riprendere in modo evidente una legge introdotta in Russia nel 2012 e responsabile della fine della libertà di stampa nel paese, rappresenterebbe un ulteriore ostacolo nell’ammissione  all’interno dell’Unione Europea poiché accentuerebbe le criticità del sistema democratico, scontrandosi inoltre contro la stessa Costituzione (art.78) georgiana che impone l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire l’integrazione Europea della Georgia.

Per i georgiani protestare contro l’adozione di questa legge significa lottare per la loro libertà, contro un nemico (la Russia) dal quale si sono già difesi 15 anni fa e che continua mettere a rischio la loro indipendenza. In questa battaglia, la bandiera dell’Unione Europea rappresenta il sogno di un futuro democratico da difendere con tutte le proprie forze.

Giuseppe Calì

 

 

In Iran centinaia di bambine sono state avvelenate per far chiudere le scuole femminili

Nelle ultime settimane sono stati segnalati oltre duecento casi di studentesse di circa 10 anni, e di 14 scuole diverse, con sintomi di avvelenamento da agenti chimici, a pochi mesi dallo scoppio delle proteste in Iran legate alla morte della giovane Mahsa Amini.

Iran, bambine avvelenate per non farle andare a scuola. Fonte: Vanity Fair

Dopo un’iniziale reticenza, domenica scorsa sul caso si è espresso il viceministro dell’Istruzione iraniano Younes Panahi, secondo cui l’avvelenamento seriale di studentesse nella città religiosa di Qom e in altre città sarebbe “intenzionale”, nel tentativo di provocare la chiusura delle scuole femminili. Numerosi i genitori scesi in strada per chiedere più tutele da parte delle autorità locali e nazionali.

Qom, la città dell’Iran dove tutto è cominciato

La recente segnalazione rappresenta in realtà soltanto l’ultimo episodio di una serie di avvelenamenti “intenzionali” nei confronti di almeno 400 ragazze, con l’obiettivo di impedire l’istruzione femminile.

Il primo avvelenamento risale al 30 novembre, quando diciotto studenti della scuola tecnica Nour della città religiosa di Qom giungono in ospedale con sintomi di intossicazione grave. Da allora, più di dieci le scuole femminili nel mirino: sono almeno 194 gli avvelenamenti della scorsa settimana in una scuola femminile nella città di Borujerd, così come a Teheran e Ardebil.

Centinaia le famiglie spaventate che, vedendo da novembre figlie bambine o adolescenti rientrare da scuola con nausea, mal di testa, tosse, respiro difficile, palpitazioni, letargia, hanno messo in atto un passaparola che ha fatto chiudere le scuole per due giorni la settimana scorsa. Già il 14 febbraio, un gruppo di genitori protestava davanti al governatorato della città per chiedere spiegazioni.

Ad aggravare l’accaduto le ultime notizie sui social, secondo cui una delle studentesse di Qom avvelenate da sostanze chimiche non ancora certificate, sarebbe morta. Si chiama Fatemeh Rezaei e appare su centinaia di hashtag su Twitter. La famiglia dell’undicenne, allieva della più prestigiosa scuola religiosa della Repubblica islamica, è stata minacciata di non divulgare la notizia, poi rilanciata dagli amici della vittima.

Non è un caso che gli avvelenamenti siano cominciati proprio a Qom, città da 1,2 milioni di abitanti. Una città “santa”, sede di molte istituzioni del clero iraniano e che ha ospitato la maggior parte dei leader del paese.

Le dichiarazioni sul movente

Sebbene Panahi non abbia indicato i possibili responsabili nelle sue dichiarazioni, alcuni media locali riferiscono che le ragazze sarebbero state avvelenate proprio da movimenti di estremisti religiosi, probabilmente ispirati dalle politiche dei talebani afghani di vietare l’accesso alle scuole a bambine e ragazze.

Alla luce dei primi elementi emersi con le indagini del ministero dell’Istruzione e l’intelligence iraniana, il viceministro iraniano alla Salute ha affermato:

«Si è scoperto che alcune persone volevano che tutte le scuole, in particolare le scuole femminili, fossero chiuse», aggiungendo tuttavia che «i composti chimici usati per avvelenare gli studenti non sono prodotti chimici di guerra, gli studenti avvelenati non hanno bisogno di trattamenti aggressivi, e una grande percentuale degli agenti chimici usati sono curabili».

Anche Homayoun Sameh Najafabadi, membro del comitato parlamentare per la Salute, ha confermato in un’intervista al sito “Didbaniran” che l’avvelenamento delle studentesse nelle scuole di Qom e Borujerd è intenzionale. Le dichiarazioni giungono dopo che il ministro dell’Istruzione, Youssef Nouri, aveva definito come mere “voci” le notizie sull’avvelenamento.

Un evidente cambio di posizione da parte del regime, che appena dieci giorni fa definiva come “non confermate” le notizie degli avvelenamenti.

La condanna dell’Italia

Dinnanzi ai fatti di un Paese che continua ad essere dilaniato da forti instabilità politiche, la Lega ha deciso di presentare un’interrogazione parlamentare:

«Ennesimo episodio sconcertante che non può lasciarci in silenzio […] L’accanimento terribile e violento contro le donne iraniane continua a sconvolgerci e a indignarci. Come Lega, domani presenteremo un’interrogazione al ministro degli Esteri Tajani, perché su fatti drammatici del genere urgono risposte celeri», si legge in una nota dei senatori della Lega nelle commissioni Esteri e Difesa: Marco Dreosto, Andrea Paganella e Stefania Pucciarelli.

Severe anche le considerazioni di Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde e deputato di Verdi e Sinistra:

«I fatti gravissimi accaduti in Iran sono una dolorosa evidenza del fatto che ci troviamo di fronte a pratiche che ricordano l’orrore di quelle di sterminio naziste. Una situazione davanti a cui il Governo, insieme all’Unione europea, deve stabilire subito cosa intende fare per garantire il rispetto dei diritti umani»

Il ruolo delle donne nelle proteste

Parte dei movimenti di opposizione al regime iraniano ha accusato le autorità del paese per gli avvelenamenti, collegandoli al ruolo di riferimento che le giovani iraniane ricoprono nel movimento di rivolta nato con la morte di Mahsa Amini. Ad oggi, sui social circolano foto e video in cui le iraniane si tagliano i capelli e bruciano il velo islamico in segno di protesta.

Fonte: Agenzia Nova

Intanto, nelle ultime ore è stata rilasciata una cittadina 24enne spagnola, Ana Baneira, detenuta dallo scorso novembre. Le circostanze dell’arresto non sono mai state precisate, ma la durata della sua detenzione ha coinciso con il culmine delle proteste in Iran.

Gaia Cautela

Iran: dopo le incessanti proteste viene abolita la polizia morale

Era il 16 settembre quando la ventiduenne iraniana Mahsa Amini veniva picchiata a morte dalla polizia morale. Quell’evento ha generato un’enorme quantità di proteste, partite dall’Iran e arrivate a coinvolgere tutto il mondo. Ad oggi, dopo circa 2 mesi dall’accaduto, si comincia ad intravedere un filo di luce in fondo al tunnel.

Da pochi giorni infatti si sta diffondendo la notizia secondo cui il programma Gahst-e Ershad, la cosiddetta “polizia morale”, è stato interrotto.

Cos’è la “polizia morale” iraniana

Quando si parla di polizia morale non si intende un vero e proprio organismo di autorità distaccato dalle forze dell’ordine regolari. Si tratta tecnicamente di un programma gestito dalla polizia locale, nato nel 2005 con il compito di far osservare determinate regole riguardanti soprattutto gli abiti indossati dai cittadini. Prima che il Ministero degli Interni iraniano desse il via al programma Gahst-e Ershad il controllo del dress code era affidato prevalentemente ai Komite, corpo poliziesco nato in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979.

Immagine di un controllo da parte della polizia morale. Fonte: insideover.ilgiornale.it

Da quando le proteste divampano tra le strade e le piazze delle principali città della nazione risulta sempre più raro poter osservare agenti della polizia morale in azione. Infatti ad oggi sono quasi esclusivamente le forze di sicurezza ad essere presenti in numero elevato nelle zone di rivolta, con lo scopo principale di reprimere e allontanare coloro che manifestano, molto spesso anche per mezzo della violenza.

La domanda che in molti si porrebbero a questo punto è: basta la scarsa presenza “sul campo” per desumere che la polizia morale è stata abolita?

Nel caso non bastasse ciò, negli ultimi giorni sono trapelate diverse dichiarazioni in merito da parte del procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri. Le sue parole:

«La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l’ha creata».

A strozzare il grido di gioia derivante dal presunto annuncio ci ha pensato la tv di stato iraniana in lingua araba Al Alam che, durante le trasmissioni successive alla fuga di notizie riguardanti lo smantellamento del Gahst-e Ershad, ha divulgato un comunicato che recita:

«Nessun funzionario della Repubblica Islamica ha detto che la polizia religiosa è stata chiusa».

Dunque il dubbio permane.

Lo sciopero di 3 giorni

Non accennano a placarsi però nemmeno i moti di protesta. L’ultima iniziativa popolare consiste in uno sciopero quasi totale delle attività, promosso in prima battuta dagli studenti delle più importanti università dell’Iran e poi sposato anche dai sindacati dei lavoratori.

Alcuni studenti hanno anche scritto una lettera d’invito alla mobilitazione popolare. Questo il comunicato che è stato fatto circolare:

«Sono più di due mesi che ogni giorno un essere umano viene assassinato a pochi metri da noi, nella nostra città, nel nostro Paese, dal Kurdistan a Zahedan. Ogni giorno ci troviamo di fronte a una marea di nuovi prigionieri politici. Protestiamo contro questa brutale repressione».

Va detto però che a causa della mancanza di un coordinamento adeguato risulta difficile che lo sciopero sortisca gli effetti desiderati. La partecipazione alla protesta è inoltre ostacolata dalla comprensibile paura di molte persone legata a ciò che potrebbe accadere nel caso venissero arrestate.

I negozi rimasti chiusi. Fonte: avvenire.it

La “repressione brutale” non si placa

Il governo iraniano continua a non essere intimorito dai vari moti e iniziative di rivolta. Anzi la sensazione che si ha è che più la protesta risulta ambiziosa e rumorosa più la reazione delle autorità è dura e aggressiva.

«Il corpo paramilitare dei basij, la polizia e le forze di sicurezza non esiteranno a fronteggiare duramente i rivoltosi, i criminali armati e i terroristi che sono stati assoldati dai nemici. Dopo la sconfitta della nuova sedizione, creata dai nemici, il sistema sacro della Repubblica islamica continuerà con forza a realizzare la sua causa e sconfiggerà il fronte unito dei nemici»

Questo il comunicato delle Guardie della rivoluzione iraniana. Parecchio pesanti anche le dichiarazioni del capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei:

«I rivoltosi, condannati a morte per “Guerra contro Dio” o “Corruzione sulla Terra” saranno impiccati presto».

Queste parole generano brividi e non fanno altro che far crescere la preoccupazione per la situazione dei cittadini iraniani. La speranza è che tutte le proteste e rivolte riescano a scuotere le alte cariche dello stato perché non è accettabile che nel 2022 esistano ancora dei posti nel mondo in cui alcuni valori imprescindibili dell’essere umano, come la dignità e la libertà personale, vengono calpestati in maniera così spietata.

Francesco Pullella

 

 

Anche in Italia le proteste contro il climate change: lancio di zuppa di verdura contro le opere d’arte

Imbrattare dipinti di fama globale per ribadire l’urgenza della crisi climatica è uno dei trend degli ultimi mesi. Monet, Van Gogh, Constable, Boccioni, Vermeer, Goya e molti altri celebri artisti, sono le vittime di attacchi da parte degli attivisti, per la difesa del clima e dell’ambiente.

Lo scorso 4 novembre, anche a Roma, alcuni militanti del movimento ecologista hanno imbrattato con una zuppa di verdura l’opera di Vincent Van Gogh “il seminatore”, durante una mostra a Palazzo Bonaparte. L’opera era fortunatamente coperta dal vetro, ma la possibilità di danni concreti era molto vicina. L’azione è stata portata avanti da tre esponenti del movimento “Ultima generazione”, costola italiana dell’organizzazione “Extinction Rebellion”, che ha già fatto dimostrazioni di questo tipo in altri musei esteri.

È una prassi che sembrerebbe rasentare il vandalismo. Ma contrariamente loro si ritengono “attivisti” più che “ambientalisti”. Credono che non si tratti di vandalismo, il loro è “un grido di allarme di cittadini disperati, che non vogliono andare incontro alla distruzione del pianeta e della propria vita”.

 

Ma chi sono questi attivisti, che “Vogliono con forza” raggiungere i loro obiettivi?

Sono giovani militanti provenienti dal “Just Stop Oil”, un gruppo ambientalista che protesta contro l’uso dei combustibili fossili, dal “Extinction Rebellion” e la sua divisione italiana “Ultima generazione”.

L’Extinction Rebellion è un movimento internazionale non violento fondato in Inghilterra, in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane. Si chiede disobbedienza civile non violenta, così che i governi possano invertire la rotta, per non giungere ad un disastro climatico ed ecologico. Chiedono verità sulla situazione, affinché “il governo dichiari l’emergenza climatica e ecologica”. Vogliono un’azione immediata, che porti “al blocco della distruzione degli ecosistemi e della biodiversità e si portino allo zero netto le emissioni di gas serra entro il 2025”. Infine sperano di andare oltre la politica, affinché “il governo costituisca e sia guidato dalle decisioni di un’assemblea di cittadini/e sulle misure da attuare e sulla giustizia climatica ed ecologica”.

Le azioni dimostrative di questi gruppi sono iniziate lo scorso 29 maggio. Quando, al Louvre di Parigi, alcuni giovani attivisti al grido “Salviamo il Pianeta” hanno lanciato una torta sulla “Gioconda” di Leonardo Da Vinci.

Militanti ecologisti alla National Gallery di Londra, fonte: Corriere della Sera

Nei mesi successivi militanti del gruppo “Just Stop Oil” hanno preso di mira una serie di musei inglesi. Il 14 ottobre sono stati lanciati due barattoli di zuppa al pomodoro sul capolavoro di Van Gogh “i girasoli”, in mostra alla National Gallery di Londra. Dieci giorni dopo, sostenitori dello stesso gruppo, hanno lanciato una fetta di torta contro “la statua di cera di Re Carlo d’Inghilterra”, al museo Madame Tussauds, per chiedere al governo britannico di fermare “tutte le nuove licenze e permessi di petrolio e gas”.

In Germania, attivisti di Ultima generazione hanno imbrattato “il pagliaio” di Monet al Museo Barberini di Postdam, lanciando contro purè di patate. Inoltre, è stato colpito il capolavoro di Vermeer “la ragazza con l’orecchino di perla” esposta all’Aja.
Negli ultimi giorni in Spagna, al Museo Nazionale del Prado di Madrid, degli attivisti di “Futuro Vegetal”, si sono incollati alle cornici dei due dipinti, “Maja desnuda e la Maja vestida”, di Francisco Goya contro l’emergenza climatica.

In Italia durante i mesi estivi sono stati molti i movimenti di protesta da parte degli attivisti su questi temi. Ma quello che più colpisce la nostra attenzione è quanto accaduto a Roma, durante la mostra su Van Gogh a Palazzo Bonaparte, dove ad essere imbrattata è stata l’affascinante opera “il seminatore”.

Dal grido delle attiviste, alla denuncia da parte del ministro della Cultura 

“Siamo in un momento storico in cui la siccità prolungata, le catastrofi, le alluvioni stanno distruggendo i nostri raccolti. Questo significa che il cibo verrà a mancare nelle nostre tavole e sta già mancando adesso

Fonte: artemagazine

Queste le parole della portavoce delle attiviste davanti al quadro di Van Gogh, subito dopo averlo imbrattato ed essersi attaccate con una mano.
Le reazione degli altri visitatori non sono state positive. Pieni di rabbia per l’atto alla quale avevano appena assistito, hanno iniziato ad inveire contro le attiviste con frasi colme di rabbia come  “La smettiamo con questa storia? ma vergognatevi, BASTA!”.
Ma le ragazze non si sono fatte intimidire, con tono forte e deciso hanno continuato a gridare 

“Siete arrabbiati perché abbiamo sporcato un vetro che domani sarà pulito ma tra qualche anno i vostri figli non potranno più mangiare. Dovremmo esplodere di rabbia perché rischiamo un futuro di morte, guerra e fame: dovreste essere arrabbiati per questo e non per questa stupidaggine. Se vogliamo proteggere l’arte dovremmo proteggere le nostre vite e il nostro futuro!”.

I carabinieri hanno identificato subito le giovani, che probabilmente sono state denunciate. All’Ansa Iole Siena, presidente e amministratrice delegata di Arthemisa società che ha prodotto e organizzato la mostra, ha dichiarato “mi aspettavo accadesse ciò da prima dell’apertura”. Infatti, fin da subito molte sono state le riunioni con i carabinieri e responsabili del museo, per prevenire ciò. “Avevamo anche identificato quali opere avrebbero potuto colpire -spiega Iole Siena- il seminatore era ovviamente tra queste”.
Al quadro sembrerebbe non esser successo niente, ma l’amministratrice condanna “con massima severità” queste azioni dimostrative. Le ritiene un gesto inutile, un’azione troppo genericagesti plateali fini a se stessi e “dannosi nell’immaginario collettivo”.

Anche il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, è giunto a Palazzo Bonaparte, poiché ha ritenuto questo come un atto da scongiurare nel modo più fermo e immediato possibile.

Le dichiarazioni di Sangiuliano a Palazzo Bonaparte, fonte: il Messaggero

Attaccare l’arte è un atto ignobile che va fermamente condannato. La cultura che è alla base della nostra identità, va difesa e protetta, non certo utilizzata come megafono per altre forme di protesta”.

Siamo in un paese democratico che ovviamente rende libere tutte le forme di protesta. “ Il nostro patrimonio culturale va tutelato –afferma il ministro– proprio dalle conseguenze del cambiamento climatico. Per questo sono tante altre le modalità per esprimere la propria sensibilità verso l’ambiente”. Ricorda Sangiuliano che “i reati contro i beni culturali sono puniti gravemente e che gli autori sono perseguibili penalmente”.

Perché questi atti si sono intensificati ultimamente?

I giovani attivisti  hanno trovato una forma insolita e controversa per sensibilizzare sul tema, contro l’immobilismo dei governi. Tutti gli incidenti sembrerebbero non aver mai portato a dei gravi danni alle opere, in quanto protette da vetri blindati che preservano i capolavori da qualsiasi danneggiamento. Ma davvero solo così riusciranno a raggiungere i loro obiettivi, mettendo a rischio capolavori inestimabili?
Sembrerebbe che le proteste si siano intensificate negli ultimi tempi, poiché proprio dal 6 novembre a Sharm el-Sheikh è iniziata la ventisettesima conferenza Onu sul clima. Il vertice vede la partecipazione di novanta capi di Stato e di governo da tutto il mondo, che si consulteranno fino al prossimo 18 novembre. Un momento molto atteso dagli attivisti, poiché verranno annunciate le nuove politiche di contrasto al “climate change”. Queste nuove scelte placheranno i loro animi? Staremo a vedere!

           Marta Ferrato

Morire per una ciocca di capelli. L’Iran in rivolta per la tragedia di Mahsa Amini

Tre settimane fa, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo: il 16 settembre, la ventiduenne iraniana Mahsa Amini è stata picchiata a morte dalla polizia morale”, perché dal velo le sfuggiva una ciocca di capelli. La giovane è morta in ospedale tre giorni dopo e da allora, a partire dalle province con forte presenza di curdi, è dilagata nel Paese una rivolta.

Proteste a Teheran e nel resto dell’Iran per la tragedia di Mahsa (fonte: zazoom.it)

 

Arrestata per una ciocca di capelli fuori dall’hijab

La questione ha velocemente trovato eco in tutti gli angoli del mondo, soprattutto perché le donne iraniane hanno dato avvio alla più grande ribellione mai vista negli ultimi cinquant’anni.

Dal 1979, l’hijab, il velo, copre la testa delle donne già dall’età di nove anni. Fu detta “rivoluzione iraniana” e voluta dal regime degli ayatollah. “Rivoluzione” è un termine carico di storia, forse una delle parole più piene di significato in tutte le lingue: fa subito pensare alla ricerca e l’ottenimento di una libertà, in ogni caso più grande di ciò che precede. Nel caso delle donne iraniane e arabe tutte, questo termine ha avuto tutt’altra valenza, per mezzo secolo ha assunto il significato del suo contrario, quello di involuzione.

Mahsa era in vacanza a Teheran con la famiglia, originaria di una provincia del nord dell’Iran, quando è stata fermata proprio a causa del suo velo, che gli è costato la vita, solo perché non indossato rigorosamente a copertura di tutti i capelli.

Il generale Hossein Rahimi, il capo della polizia di Teheran, ha respinto le accuse di maltrattamento e ha dichiarato che la giovane è stata vittima diuno sfortunato incidente“, che sia morta di infarto e non per le percosse ricevute. Così la un altro colpo è stato inferto.

Al padre di Masha, Amjad Amini, è stato negato l’accesso alle informazioni riguardo il caso della morte di sua figlia:

“Nessuno mi dice cosa le hanno fatto e non mi fanno vedere i dati sulla sua morte”.

È intervenuto nella vicenda il presidente stesso dell’Iran, Ebrahim Raisi. Aveva promesso che sulla vicenda sarebbero state fatte indagini e pure con una certa celerità, ma ancora non vi sono novità, resta tutto nella vaghezza, seppur sembrano non esservi dubbi per le persone. Per il mondo intero è tutto chiaro: Mahsa è stata uccisa per una ciocca di capelli.

La morte della ventiduenne Mahsa fa scoppiare proteste che potrebbero cambiare per sempre il volto dell’Iran (fonte: lacrocequotidiano.it)

Le proteste dopo la morte di Mahsa e la risonanza in tutto il mondo

Nella sua inspiegabile tragedia Mahsa è divenuta il simbolo di una nuova lotta importantissima per un progresso sociale. Le piazze hanno iniziato ad infiammarsi, seguite soprattutto dalle università. Molte donne stanno scendendo in strada e, in segno di protesta contro il regime, si tagliano i capelli o bruciano hijab. Molti uomini le affiancano.

Attraverso i social media soprattutto arrivano testimonianze di ciò che sta accadendo: chi protesta viene investito dalla repressione delle forze dell’ordine iraniane, che si armano di gas lacrimogeni e violenza. Gli arresti sono in continua crescita e, purtroppo, alcune fonti segnalano la morte di varie persone.

Le donne che si ribellano rischiano la vita, ma continuare a lasciare da parte la libertà individuale non è un prezzo che vogliono ancora pagare.

Internet aiuta a raccontare, affinché sempre più persone possano sapere – così come le stesse iraniane supplicano di fare – e perché ciò che finora è stato normalità, possa esser descritto per quello che realmente è: una violazione dell’inalienabile libertà personale. Anche persone note stanno veicolando la propria popolarità perché un cambiamento reale possa avvenire. In Iran,

In Italia, l’attrice Claudia Gerini, nella giornata di ieri, si è filmata mentre si tagliava una ciocca di capelli, poi messa in una busta indirizzata all’ambasciata iraniana in Italia, a Roma: un gesto forte e chiaro, che molte altre attrici, anche non italiane, stanno compiendo per sottolineare l’importanza di far qualcosa e per farsi sentire più vicine alle donne iraniane.

L’obiettivo è quello di smuovere le coscienze della classe politica iraniana, di coloro che mantengono vivo un regime poco rispettoso dei diritti delle persone.

 

Un’italiana arrestata a Teheran

Alcune fonti segnalano dati terribili: molte persone sarebbero morte per la repressione delle proteste e ancora di più sono state arrestate.

Inoltre, è giunta la notizia dell’arresto di una ragazza italiana, in viaggio in Iran, la romana Alessia Piperno. Non si avevano notizie dallo scorso 28 settembre, data dell’arresto. Lei una viaggiatrice per lavoro, ormai da sette anni, con un amore grande per il mondo e le diverse culture. La trentenne travel blogger potrebbe trovarsi nel carcere di Evin, noto per essere il luogo riservato agli oppositori politici della repubblica islamica iraniana.

Alessia Piperno, travel blogger italiana arrestata in Iran (fonte: zazoom.it)

Alessia è riuscita, dopo giorni di silenzio, è riuscita ad avere una telefonata con la famiglia. Ha raccontato di essere stata fermata dalla polizia a Teheran, ma i motivi dell’arresto rimangono ancora sconosciuti.

Amnesty International ha ricordato quelli sono i capi d’accusa che il governo iraniano solitamente imputa ai prigionieri politici, per volere degli ayatollah, gli stessi che nel ’79 introdussero proprio l’obbligo dell’hijab:

“L’Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni. Se questa fosse l’accusa anche per Alessia sarebbe del tutto ingiustificata – le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italian – ma i possibili capi d’accusa rischiano di passare dalla ‘minaccia contro la sicurezza nazionale’ alla ‘propaganda’ fino allo ‘spionaggio’.”.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio è a lavoro per cercare di risolvere la complicatissima situazione. Ha già avuto un colloquio telefonico con il suo omonimo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Attraverso una nota ne sono stati resi noti i punti affrontati. Sembrerebbe, però, che il nome della giovane italiana non sarebbe stato fatto inizialmente. Il ministro Iraniano avrebbe parlato solo della situazione generale, dei disordini registrati dopo la morte di Mahsa Amini. Sarebbe stato, secondo fonti attendibili, il ministro Di Maio a sollevare la questione dell’arresto di Alessia.

In ogni caso, la Farnesina, per la liberazione della nostra connazionale, come reso pubblico tramite una nota, sta facendo leva su “legami secolari” che uniscono il nostro Paese all’Iran. Il lavoro per la diplomazia è molto difficile. La vicenda è delicatissima, una problematica potrebbe avere conseguenze gravissime.

Intanto le donne iraniane continuano a combattere per la propria libertà e anche quella di tutti noi indirettamente, poiché la libertà è un concetto universale o almeno dovrebbe esserlo. Forse, finalmente, stanno per esser spezzate alcune delle catene imposte dall’uomo conservatore che spesso confonde la tutela della libertà individuale con il mancato rispetto della moralità.

 

Rita Bonaccurso

Corsica: proteste e violenza dopo l’aggressione in carcere all’ex leader indipendentista Yvan Colonna

Yvan Colonna è uno storico membro del fronte indipendentista della Corsica condannato all’ergastolo nel 1998 per l’omicidio del prefetto francese Erignac. Pochi giorni fa, all’interno del carcere dove sta scontando la condanna, è stato aggredito in maniera violenta e senza ricevere alcun aiuto da parte degli agenti penitenziari; adesso è in coma. La vicenda sembra aver donato nuova linfa al Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Nei giorni seguenti, infatti per le strade di alcune città dell’isola si sono svolti numerosi cortei, diventati molto spesso proteste violente che hanno causato un numero elevato di feriti.

Fonte: “tg24.sky.it”

Il Fronte di Liberazione Nazionale Corso

In Corsica era ormai da parecchio tempo che non si verificavano scenari del genere. Tuttavia, negli ultimi decenni del secolo scorso, si poteva assistere ad una grande quantità di proteste, spesso anche violente. Molti abitanti dell’isola manifestavano un forte desiderio di indipendenza dalla Francia che portò alla formazione del Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Nato nel 1976, il gruppo militante indipendentista si è reso protagonista di un numero elevato di cortei violenti in alcune città francesi e di alcuni assalti armati. Il più ricordato è l’attacco alla base NATO a Solenzara (piccolo comune nel sud della Corsica) nel 1978. Nel corso degli anni però il desiderio d’indipendenza è andato via via a scemarsi sempre di più fino al 2014 quando il FLNC ha annunciato la fine della lotta armata.

Il Fronte di Liberazione Nazionale Corso. Fonte: “miglioverrde.eu”

Dopo il 2014 lo scenario in Corsica è divenuto stabile. Le proteste sono diminuite e non si sono più verificati atti di violenza da parte degli indipendentisti. Il contesto però è cambiato drasticamente dopo l’aggressione a Yvan Colonna. Migliaia di cittadini sono scesi nelle piazze delle maggiori città della Corsica a protestare per la mancata difesa da parte degli agenti penitenziari. Tali proteste denotano poca fiducia nella giustizia carceraria ma più in generale nello Stato francese che più volte, a mezzo di slogan, è stato definito “Assassino”.

L’assalto al Palazzo di Giustizia di Ajaccio

Non solo cortei e proteste nelle piazze. Pochi giorni fa è stato preso di mira anche il Palazzo di Giustizia di Ajaccio, una delle città più importanti della Corsica. Alcuni manifestanti in seguito all’attacco hanno anche provato a fare irruzione nella struttura, riuscendoci.

Assalto al Palazzo di Giustizia di Ajaccio. Fonte: “ilfattoquotidiano.it”

La violenta manifestazione a Bastia

“Tutto il popolo corso è mobilitato contro l’ingiustizia, la richiesta di verità e, oltre a ciò, di una vera soluzione politica”

Queste le parole del presidente autonomista del consiglio esecutivo corso Gilles Simeoni facendo riferimento a ciò che è accaduto a Bastia. Forse la manifestazione più violenta tra le tante di questi giorni. Secondo la prefettura le persone scese in piazza erano 7000, anche se gli organizzatori del corteo dichiarano di aver coinvolto un più alto numero di cittadini. I manifestanti erano muniti di molotov e hanno causato parecchi danni, attaccando edifici pubblici e aggredendo gli uomini della polizia. In tutto si contano 67 feriti, di cui 44 delle forze dell’ordine.

La volontà della Francia di calmare la situazione

Il clima teso della Corsica ovviamente preoccupa molto le autorità francesi. Il ministro dell’Interno Gérald Darmanin nei prossimi giorni si recherà sull’isola al fine di risolvere la questione in maniera diplomatica e pacifica. Si dichiara pronto ad “aprire un ciclo di consultazioni”. Il Governo “ha sentito le richieste dei rappresentanti locali della Corsica sul futuro istituzionale, economico sociale o culturale”. Ha però chiarito l’esigenza di un “un immediato ritorno alla calma” al fine di far iniziare la negoziazione. L’isola, dal canto suo, chiede lo statuto speciale autonomo.

Risulta probabile che questa possibile concessione – mai presa in considerazione dalla Francia prima di adesso – sia dovuta alla necessità di annullare ogni tipo di dissidio interno alla nazione per concentrarsi sui problemi riguardanti l’equilibrio mondiale legati alla situazione Russia – Ucraina.

Francesco Pullella

Rivolta in Kazakistan: adesso è repressione a guida del Cremlino. Ecco cosa sta succedendo in Asia centrale

Fonte: it.notizie.yahoo.com

Le prime due settimane di gennaio iniziano con una forte tensione in Asia centrale: una protesta del gas, cominciata il giorno di Capodanno in Kazakistan, si è rapidamente trasformata in una rivolta – tutt’ora in corso – contro l’oligarchia al potere, effetto di una più ampia lotta tra fazioni dell’élite del Paese.

Nel giro di pochi giorni le manifestazioni sono dilagate in tutto il Kazakistan, provocando un preoccupante numero di morti, feriti e arresti, e mettendo in difficoltà il regime di Kassym-Jomart Tokayev, che grazie all’aiuto militare della Russia è riuscito a reprimere gran parte delle rivolte.

Dura la reazione da parte degli Stati Uniti, mentre l’Ue si mostra neutrale con l’invito alla responsabilità delle parti. Il tutto nell’incertezza di eventi accompagnati dal blackout nazionale di Internet.

Proteste in tutto il Paese

L’aumento delle tariffe del gas – e in particolare del Gpl – annunciato nei giorni precedenti dal presidente Tokayev si è presentato come il casus belli perfetto di una rivolta che, a dire il vero, era nell’aria già da un po’ di tempo a causa dell’insofferenza nei confronti di un intero sistema fondato e guidato per un trentennio dall’ex presidente Nursultan Nazarbayev.

Nazarbayev si era dimesso nel 2019, ma da allora ha comunque continuato – fino a prima della rivolta – ad esercitare un forte controllo sul Paese in quanto presidente del Consiglio di sicurezza e “Leader della nazione”.

Le prime proteste hanno avuto inizio nel Mangystau, principale provincia petrolifera affacciata sul Mar Caspio, seguita da Almaty (cuore economico del Paese) ed estesesi poi a macchia d’olio in tutto il territorio kazako.
Stando ai bollettini più recenti, le vittime ufficiali sfiorerebbero quota 200, migliaia di manifestanti sarebbero stati incarcerati e, secondo la televisione di stato, uccisi 16 poliziotti e altri 1.300 sono rimasti feriti.

Fonte: euronews

Internet assente

È impossibile dire con precisione quale sia il bilancio delle violenze anche a causa di un blocco quasi generale di internet e della rete dei telefoni cellulari iniziato il 4 gennaio, che ha improvvisamente riportato il Kazakistan ai primi anni ’90.

Ciò sarebbe dovuto al provider Internet Kazakhtelecom che ha disabilitato l’accesso alla rete in tutto il paese e alle interruzioni dei maggiori operatori di telefonia mobile Kcell, Beeline e Tele2. I siti di notizie locali non sono disponibili.

Fonte: newsmeter.in

Si tratta di un’interruzione accertata anche dal servizio britannico NetBlocks, che monitora lo stato della rete in tutto il mondo, il quale sostiene che le interruzioni a livello della rete non possono essere aggirate, nemmeno con l’aiuto di un software speciale o di una VPN:

«Il Kazakhstan sta attualmente vivendo un blackout di Internet a livello nazionale dopo una giornata di interruzioni di internet mobile» e altre «restrizioni parziali», ha affermato l’ong, annunciando che questo «potrebbe limitare gravemente la copertura delle proteste antigovernative che si stanno intensificando», ha denunciato qualche giorno fa il gruppo di monitoraggio su Twitter.

È certo che questo accaduto porta con sé delle conseguenze che dipenderanno soprattutto dalla durata del blackout, ancora non del tutto chiara.

La missione in Kazakistan

Al momento la situazione nei maggiori centri urbani sembra essere relativamente più calma, chiara conseguenza dell’intervento di 2.500 militari provenienti da un’alleanza di Paesi guidati dalla Russia.

È la prima volta che la “Collective Security Treaty Organization” (CSTO), nella sua storia, autorizza l’invio di truppe nei territori di un Paese membro: di fronte al precipitare della crisi, al presidente Tokayev non è rimasto che proclamare lo stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale e ricorrere all’aiuto di Putin per fermare le agitazioni.

Così, in un comunicato, il governo kazako ha scritto che varie «infrastrutture strategiche» ora sono sotto il controllo della forza militare inviata dalla Russia, la quale ha in particolare contribuito a riprendere il controllo dell’aeroporto di Almaty, occupato fino ad allora dai rivoltosi.
Il comunicato di un altro collaboratore del presidente ha per giunta criticato i media occidentali per aver dato «la falsa impressione che il governo kazako abbia colpito manifestanti pacifici».

Fonte: geopolitica.info

Lotta tra fazioni politiche

Intanto che la repressione infuria in Kazakistan, lo scorso sabato il governo kazako ha annunciato l’arresto di Karim Massimov, ex primo ministro e leader del Comitato per la sicurezza nazionale.
Accusato di tradimento e di aver fomentato le rivolte, Massimov era una delle persone più potenti del Kazakistan e stretto alleato dell’ex presidente Nursultan Nazarbayev.

Anche Nazarbayev, come già detto, pur avendo lasciato la presidenza manteneva il controllo informale sugli apparati di sicurezza del paese. Eppure, è stato costretto a dimettersi da ogni incarico pubblico al momento dello scoppio delle rivolte, e lo stesso è avvenuto con altri suoi importanti alleati politici.
Ciò ha spinto molti analisti a pensare che dietro alle rivolte ci sia stata una più ampia lotta per il potere tra la fazione politica fedele a Tokayev e quella fedele a Nazarbayev.

La dottrina Putin

A condurre ora il gioco del Paese (dove la minoranza russa è consistente) è quindi il Cremlino, che ha imposto un’interpretazione forzata dell’articolo 4 del Trattato di cooperazione sulla sicurezza, secondo cui un’aggressione militare giustifica l’intervento di forze congiunte, e riadattando le norme alle circostanze di una serie di rivolte qualificate come aggressione di bande terroristiche formatesi all’estero:

«La dottrina Putin è ormai consolidata nella tolleranza zero nei confronti di tutte quelle che una volta erano state chiamate rivoluzioni colorate, che hanno interessato appunto diverse repubbliche ex sovietiche rette dalla caduta del Muro da ex funzionari del Partito comunista: Georgia, Ucraina, Kirghizistan, Azerbaijan, Bielorussia. Putin non tollera più nel suo tentativo di ricostruire la grande Russia sovietica alcun tipo di richiesta di democratizzazione che possa allontanare questi Stati dalla sfera di influenza di Mosca», ha spiegato il sociologo Massimo Introvigne.

Le posizioni di Usa e Ue

L’occidente intanto segue dall’esterno la vicenda restando vigile sui fatti, specialmente gli Stati Uniti, il cui portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha detto che essi “sorvegliano” per verificare eventuali abusi dei diritti umani da parte delle truppe russe in Kazakistan:

«Gli Stati Uniti e il mondo intero monitorano tutte le eventuali violazioni dei diritti umani e sorvegliano anche eventuali azioni che possano gettare le basi per una presa di controllo delle istituzioni del Kazakistan».

Fonte: middleeastmonitor.com

Mentre l’Unione europea mantiene una posizione neutrale, come si evince in una nota del portavoce dell’Alto rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell:

«Invitiamo tutti gli interessati ad agire con responsabilità e moderazione e ad astenersi da azioni che potrebbero portare a un’ulteriore escalation di violenza».

L’Europa, insomma, sta seguendo da vicino gli sviluppi, precisando che:

«Il Kazakistan è un partner importante per l’Unione europea e contiamo sul fatto che mantenga i suoi impegni, tra cui la libertà di stampa e l’accesso alle informazioni online e offline».

Gaia Cautela

Proteste ‘’No green pass’’. Ecco le nuove restrizioni annunciate dalla ministra Lamorgese

Nella serata di mercoledì scorso il Viminale ha annunciato nuove restrizioni sulle manifestazioni dei no green pass, che da ormai settimane stanno provocando forti disagi in diverse città italiane.

Fonte: TGCom24

La direttiva – vale a dire un documento che contiene norme e istruzioni – predisposta dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, esorta all’individuazione di aree sensibili e impone tutta una serie di altre limitazioni. L’obiettivo è garantire il diritto a manifestare ma proteggendo l’attività economica e la salute pubblica, soprattutto in vista di un nuovo sabato di proteste atteso per il 13 novembre.

Le nuove misure su cortei e manifestazioni

Con il Natale alle porte, il dilagare del fenomeno proteste per le misure emergenziali dettate dalla pandemia ed il continuo aumento dei contagi, Lamorgese ha ritenuto urgente l’imposizione di una nuova linea a chi ha il compito di tutelare l’ordine pubblico.

La ministra ha quindi inviato due giorni fa una circolare a tutti i prefetti d’Italia, che avranno la facoltà di «individuare specifiche aree urbane sensibili» e di particolare interesse per lo svolgimento ordinato della vita cittadina, che «potranno essere oggetto di temporanea interdizione» agli stessi cortei, almeno fino alla fine dello stato di emergenza.

La ministra degli Interni, Luciana Lamorgese. Fonte: Ansa

I manifestanti dovranno essere tenuti lontani da centri storici e affollati delle città, oltre che da obiettivi sensibili come sedi di sindacati e partiti, palazzi delle istituzioni e ambasciate. Tra le disposizioni c’è poi la possibilità di imporre lo svolgimento delle proteste in forma statica soltanto (sit-in), l’obbligo di mascherina all’aperto e regolamentazione di percorsi idonei a preservare aree urbane nevralgiche.

Le decisioni sulle misure specifiche – da adottare comunque caso per caso – avranno attuazione immediata e saranno affidate ai Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica (in cui si riuniscono il sindaco del capoluogo di provincia, il presidente della provincia, il questore e i rappresentanti delle forze dell’ordine).

Lamorgese e Mattarella in difesa del bilanciamento dei diritti

Nonostante la direttiva nasca con l’obiettivo esplicito di contenere i disagi derivanti dalle manifestazioni di dissenso delle ultime sedici settimane, la ministra degli Interni ha tenuto a specificare che la circolare non riguarda esclusivamente le manifestazioni ‘’No Green Pass’’ e che pertanto le restrizioni a cui rimanda potranno essere applicate anche a proteste «attinenti ad ogni altra tematica».

Intervenuta all’assemblea dell’Anci, Luciana Lamorgese ha spiegato:

«Il diritto di manifestare è costituzionalmente garantito ma esiste anche un bilanciamento dei diritti: si può manifestare ma servono regole che proteggano gli altri cittadini, il diritto al lavoro e il diritto alla salute». Ha poi messo in evidenza che «Non si può pensare che a fronte di un’economia in rialzo, la penalizziamo con tutte queste manifestazioni».

Ed in merito a ciò è intervenuto anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella:

«Dissenso non può sopraffare il dovere di proteggere i più deboli».

Il presidente Sergio Mattarella. Fonte: AGI

L’elenco dei luoghi vietati

I prefetti, in accordo con i sindaci, hanno già pensato ad una serie di provvedimenti per impedire le manifestazioni in alcune zone della città. A tal proposito, il Corriere della Sera ha stilato un elenco delle piazze italiane in cui non sarà possibile manifestare: l’intenzione è di seguire l’esempio del prefetto di Trieste Valerio Valenti, il quale ha vietato le manifestazioni in piazza Unità d’Italia fino al 31 dicembre.

Proteste No Green Pass a Firenze in piazza Santa Maria Novella. Fonte: SkyTG24

Pertanto:

• Vietate piazza Fontana, la zona del Duomo e di Brera a Milano;
• Vietata piazza del Popolo con l’indicazione di concentrarsi al Circo Massimo a Roma;
• Vietate Santa Croce e Santa Maria Novella a Firenze;
• Divieto manifestazioni sul lungomare, in piazza Dante e piazza del Plebiscito a Napoli;
• Vietata piazza Maggiore a Bologna;
• Niente manifestazioni a piazza del Ferrarese a Bari;
• Vietata piazza Sant’Oronzo a Lecce;
• Vietata piazza Verdi a Palermo;
• Divieto in piazza Garibaldi a Cagliari;
• Si valuta di vietare piazza della Vittoria a Genova;
• Al vaglio la possibilità di non concedere più piazza Dante a Trento.

La voce degli oppositori

Dopo l’annuncio delle nuove restrizioni, molti gruppi di manifestanti sono sul sentiero di guerra contro tali divieti. Altri si sono mostrati invece maggiormente disposti ad accettare piazze e altri luoghi alternativi.

Tra gli oppositori, a Milano, il Comitato che promuove i cortei del sabato ha annunciato lo stop alle trattative con la questura perché:

«dopo questo sabato, per noi è diventato impossibile sederci al tavolo con chi ha rinchiuso centinaia di manifestanti pacifici in una via e li ha trattati peggio dei criminali».

Più moderati i toni di Marco Liccione, portavoce del movimento ‘’Variante Torinese’’ e organizzatore da settimane delle proteste a piazza Castello che ha detto:

«non possono vietarci di manifestare. Leggeremo la circolare e, per il bene delle persone che aderiscono alla manifestazione e per rispetto dei commercianti, valutiamo per sabato di cambiare luogo di ritrovo».

Problemi di applicazione delle strette

Fonte: SkyTG24

Entro questo scenario non è ancora chiaro fino a che punto potranno essere applicate le nuove limitazioni: mentre potrebbe risultare non particolarmente complessa l’individuazione di un’area «sensibile» da presidiare con l’aiuto delle forze dell’ordine, più difficile sarà obbligare i manifestanti al concordamento del percorso, dopo che nelle manifestazioni delle ultime settimane sono stati in diversi gli attivisti privi di autorizzazione. Così come sarà altrettanto complicato obbligare eventualmente i manifestanti a protestare in forma statica.

Gaia Cautela

La Polonia mette in dubbio il primato del diritto europeo sulla Costituzione. Ecco cosa potrebbe succedere

Polonia, migliaia di sovranisti scendono in piazza con lo slogan ”Io resto Ue”. Fonte: Sky TG24

Varsavia, Cracovia, Poznań: l’intera Polonia pullula di manifestanti nelle piazze dopo che la Corte costituzionale polacca ha emesso una sentenza che mette fortemente in dubbio il primato del diritto europeo sulle leggi nazionali, minando di fatto uno dei principi fondanti dell’Unione e sollevando interrogativi circa la stessa adesione della Polonia all’Ue.

Manifestazioni pro-Ue in tutto il Paese

Le iniziative pro-Ue si sono svolte tra sabato e domenica in 120 località del Paese con cento cortei e la partecipazione di migliaia di cittadini, ma resta il rischio legato ai focolai nazionalisti che potrebbero essere alimentati in Italia così come in altri Paesi esteri che contestano l’ingerenza di Bruxelles.

A sostenere la protesta di domenica 10 ottobre c’erano diversi partiti e organizzazioni, fra cui Piattaforma civica, guidata dall’ex presidente del Consiglio europeo e maggiore leader dell’opposizione Donald Tusk, in nome di una Polonia ”indipendente, europea, democratica, che si attiene alle leggi e onesta”.

https://youtu.be/0n5eIixfexs

La Corte di Varsavia rigetta i trattati Ue

Tutto è cominciato alla fine della scorsa settimana quando la più alta corte polacca, capeggiata dalla giudice Julia Przylebska, ha decretato che alcuni articoli del Trattato sull’Unione europea sono incompatibili con la Costituzione dello Stato polacco e che le istituzioni dell’Unione “agiscono oltre l’ambito delle loro competenze”.

Al centro del contenzioso vi si colloca nello specifico la riforma sulla magistratura voluta dal partito al governo Diritto e giustizia (Psi), conservatore ed euroscettico, del leader Jaroslaw Kaczynski. Tale riforma prevede un nuovo sistema di disciplina dei giudici che secondo l’Ue mina l’indipendenza del sistema giudiziario stesso.

Lo Stato polacco e il primato del diritto costituzionale

Mentre le preoccupazioni dell’Unione Europea sono alte, a Varsavia il governo del Primo ministro Mateusz Morawiecki ha accolto favorevolmente la decisione della Corte che conferma “il primato del diritto costituzionale sulle altre fonti del diritto”: secondo il portavoce Piotr Muller, la sentenza si riferisce alle competenze dello Stato polacco non trasferite agli organi Ue.

Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki. Fonte: Formiche.net

Ma l’Unione Europea non è chiaramente d’accordo, e infatti la vicepresidente della Commissione europea, Vera Jourova, ha oggi dichiarato nel suo intervento al Forum 2000:

“Il principio dello stato di diritto è che nessuno è sopra la legge, per questo noi siamo ferrei su questo. Lo stato di diritto – ha spiegato – è anche la limitazione dei poteri, principio alla base degli Stati membri. Ora, dopo la decisione della Corte costituzionale polacca, devo dire che se non confermiamo il principio nell’Ue che regole uguali sono rispettate allo stesso modo in ogni parte dell’Europa, tutta l’Europa comincerà a collassare”.

Alle origini dell’Unione europea, i principi

25 marzo 1957: a Roma nasce la Comunità economica europea. Fonte: Secolo d’Italia

Dal 1957, la costruzione europea si basa sul principio del primato del diritto europeo, il cui ordine giuridico comunitario è stato riconosciuto nel 1963 e 1964 dalla Corte di giustizia.

Entrando volontariamente nell’Unione Europea, qualsiasi Paese deve formulare e negoziare politiche e leggi con gli altri membri. La costruzione giuridica dell’Unione crollerebbe nel momento in cui uno Stato membro decidesse all’improvviso di rifiutare di rispettare e applicare una legge europea in nome di un principio interno o introducendo una legge nazionale.

In poche parole, l’individualismo nazionalista finirebbe col sovrastare quel patto politico fondamentale di fiducia reciproca alla base del successo europeo. In Polonia, membro dell’Ue dal 2004, è accaduto proprio questo.

Von der Leyen: ”Il diritto europeo prevale”

La presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, si dichiara

«profondamente preoccupata» per la sentenza della Corte costituzionale polacca e ha garantito che la Commissione userà «tutti i poteri che abbiamo in base ai trattati per assicurare» il primato del diritto Ue su quelli nazionali, incluse «le disposizioni costituzionali. È quello che tutti gli Stati membri dell’Ue hanno sottoscritto come membri dell’Unione».

Fonte: Europa Today

La presidente ha poi sottolineato: «L’Ue è una comunità di leggi e di valori: è questo che tiene l’Unione insieme e che ci rende forti». Conclude poi evidenziando l’impegno della Commissione nell’assicurare la protezione dei diritti cittadini polacchi e dei benefici derivanti dall’appartenenza Ue.

Le destre europee in difesa di Varsavia

In seguito alla sentenza, per i giudici polacchi ci sono tre opzioni: cambiare la costituzione, cambiare i Trattati o uscire dall’Unione europea.

Il premier polacco si è premurato di confermare la volontà di restare nell’Ue ma questo non è bastato a placare le formazioni politiche a sostegno di tale decisione: da tempo il premier ungherese Victor Orbán contesta le decisioni di Bruxelles, l’estrema destra francese di Marine Le Pen ha difeso la Polonia che «esercita il suo diritto legittimo e inalienabile alla sovranità» e in Italia Giorgia Meloni sostiene che «si può stare in Europa anche a testa alta, non solo in ginocchio come vorrebbe la sinistra».

Giorgia Meloni dalla parte della Polonia. Fonte: Il Fatto Quotidiano

Possibili sanzioni alla Polonia

In seguito alla decisione della Corte polacca, la Commissione europea – preoccupata sull’integrità dello stato di diritto polacco – è restia ad approvare i finanziamenti per il piano di risanamento. Il Recovery Fund per la Polonia è infatti vincolato al rispetto dello stato di diritto polacco, indebolito già da diverso tempo rispetto agli standard europei.

Le somme del Next Generation Ue ammonterebbero a 58,7 miliardi di euro fra prestiti e sussidi. Ma il via libera di Bruxelles non è stato ancora dato e, date le condizioni, ora più che mai è inimmaginabile:

“l’Ue e gli Stati membri devono intraprendere un’azione legale, politica e finanziaria urgente e chiarire che questi principi fondamentali non sono aperti a negoziati o al gioco”, sostiene Eve Geddie, direttrice della sede europea di Amnesty International.

Gaia Cautela