Varsavia, la più grande protesta del popolo polacco dalla fine del comunismo

Andrzej Duda, Presidente della Repubblica polacca in carica dal 2015, ha firmato una legge che prevede di indagare, tramite una commissione, se i partiti dell’opposizione abbiano permesso alla Polonia di essere influenzata dalla Russia. La legge verrà revisionata dal Tribunale Costituzionale, nonostante sia già entrata in vigore. Il popolo polacco reagisce contro le decisioni del governo e scende in piazza a protestare. Ma vediamo insieme nel dettaglio. 

Cosa prevede la legge?

La legge vieta a chiunque prenda decisioni, sotto influenza russa, di ricoprire carice pubbliche per 10 anni. I politici di opposizione, ma anche il Dipartimento di Stato Americano e la Commissione Europea, hanno criticato questa mossa, in quanto la legge non rispetta la Costituzione.

Secondo l’opposizione questa legge è stata ideata in vista delle elezioni politiche, che si terranno in autunno prossimo per estromettere Donald Tusk. Non a caso, è stata soprannominata dai media Lex Tusk (Legge Tusk).

La legge è contro Tusk ma possiamo essere tutti presi di mira da questa legge, perché non esiteranno a usarla contro chiunque.

Queste le parole dell’avvocato e attivista per i diritti, Sylwia Gregorczyk-Abram, prima della manifestazione.

Chi è Donald Tusk, un avversario pericoloso?

Tusk è stato primo ministro dal 2007 al 2014 ed ex presidente del Consiglio Europeo dal 2014 al 2019. Adesso è il leader del maggiore partito di opposizione, “Piattaforma Civica(partito di Centro, liberale europeista).

Quest’ultimo ha accusato i parlamentari del partito politico “Diritto e Giustizia”, guidato dal primo ministro Mateusz Morawiecki, di «volersi sbarazzare dell’avversario più pericoloso».

Il partito è salito al potere nel 2015 e in questi anni ha intaccato le norme democratiche, attaccato la magistratura indipendente e lanciato campagne contro la comunità LGBTQ+ e i diritti riproduttivi. Il deputato Marcin Kierwinski, esponente del partito “Piattaforma Civica”, ha dichiarato che:

In un normale Paese democratico, un Presidente non firmerebbe mai una legge così staliniana.  

Migliaia di persone scendono in piazza per protesta

Voglio che il governo inizi ad avere paura il 4 giugno e che le persone vedano che hanno potere e possono cambiare le cose.

A Varsavia, guidati da Tusk, migliaia di persone – mettendo in mostra i colori della bandiera polacca (il bianco e il rosso), quelli dell’Unione Europea e quelli del Solidarnosc (il sindacato dei lavoratori) – hanno deciso di protestare contro il carovita, la corruzione ed le elezioni libere.

Non a caso, la manifestazione si è svolta nel 34° anniversario dalle prime elezioni democratiche, che hanno portato al crollo del regime comunista in Polonia. É stata definita come la più grande manifestazione del Paese dalla fine del comunismo, nel 1989. I manifestanti hanno marciato con striscioni con su scritto «Polonia Europea libera- Unione Europea sì, PiS no». Alcuni avevano maschere del leader del partito al potere, Jaroslaw Kaczynski, con su scritto “vergogna”.

Il partito “Diritto e Giustizia” ha pubblicato un video di propaganda, in cui si vedono alcune immagini del campo di concentramento nazista di Auschwitz (Polonia). Queste immagini sono state associate alla marcia di protesta dell’opposizione; la cosa non ha giovato a loro favore, piuttosto, ha attirato nuove critiche e alimentato ancor di più le proteste.

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Tusk, al centro con i manifestanti. Fonte: Il Post

 

Anche Lech Walesa, ex leader del sindacato Solidarnosc e Premio Nobel per la pace, ha preso parte alla manifestazione. Ha indossato una maglietta con su scritto “Costituzione”, queste le sue parole:

La prima cosa da fare per iniziare la strada verso la vittoria è fare i conti per sapere quanti siamo.

Leck Walesa prende parte alla manifestazione. Fonte: The Guardian

 

L’attuale primo ministro, Mateusz Morawiecki, ha paragonato le proteste a un “circo” e ha affermato che:

Fa un po’ ridere quanto le vecchie volpi, che sono in politica da anni, organizzino una marcia antigovernativa e la presentino come una protesta civica spontanea.

Gabriella Pino

La Sapienza, caricati dalla polizia gli studenti in protesta: le risposte delle istituzioni

Martedì, mentre a Montecitorio si votava la fiducia al governo di nuova formazione con a capo Giorgia Meloni, nei pressi dell’Università La Sapienza di Roma, degli studenti sono stati caricati e manganellati dalla polizia durante una protesta.

Le ragioni della manifestazione riconducevano ad un convegno organizzato da Azione Universitaria (sigla degli studenti di destra) presso la facoltà di Scienze Politiche, che ha visto la partecipazione di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia (quale il deputato Fabio Roscani) ed il giornalista Daniele Capezzone. Il tema del convegno era intitolato al “Capitalismo, il profilo nascosto del sistema” ed aveva ricevuto la regolare autorizzazione da parte dell’Università.

La manifestazione e l’intervento delle forze armate

La sera prima, alcuni studenti appartenenti ai collettivi studenteschi hanno annunciato che si sarebbe tenuta una manifestazione per esprimere il proprio dissenso nei confronti del convegno che, secondo quanto lamentato, non sarebbe stata un’occasione di dibattito in quanto carente del contraddittorio. Tra i relatori, oltre ai diversi esponenti di Azione Universitaria, due docenti rispettivamente di Sociologia e di Politica Economica. Inoltre, l’accaduto si è svolto in piena campagna elettorale: infatti, alla Sapienza si voterà nei giorni tra il 7 e l’11 novembre.

Alla manifestazione è stata registrata la presenza di una cinquantina di giovani, alcuni dei quali hanno esposto uno striscione che recitava “Fuori i fascisti dalla Sapienza”. Sarebbe anche stato riportato il tentativo di alcuni dei partecipanti di accedere all’evento, ma le forze dell’ordine avrebbero provveduto al contenimento con delle cariche di alleggerimento. Tuttavia, su questo punto – riporta il Fatto Quotidianola Facoltà un quarto d’ora prima del convegno sarebbe stata letteralmente blindata e le porte d’accesso sarebbero state chiuse anche attraverso le inferriate esterne, impedendo l’accesso dei manifestanti.

Un manifestante, identificato dalla polizia, avrebbe brandito un’asta contro gli agenti ed al momento la sua posizione rimane sotto esame.

(Immagini dello scontro registrate durante la protesta. Fonte: ansa.it)

La risposta di Sapienza non si è fatta attendere. Cancelli sbarrati, cordone di polizia, cariche e fermi, questa la risposta alla mobilitazione degli studenti nella giornata in cui viene organizzato un convegno alla presenza di rappresentanti del governo con una contestazione degli studenti.

Questo quanto affermato dal Fronte della Gioventù Comunista. E continua:

L’atteggiamento dell’amministrazione è a dir poco vergognoso: in un’università in cui mancano spazi, con tasse sempre più alte e barriere economiche per gli studenti degli strati popolari, Sapienza pensa ad organizzare convegni con esponenti di governo, pro-vita e antiabortisti. Un’università che manganella gli studenti e srotola il tappeto rosso ai reazionari è un’università che si schiera apertamente a favore della repressione e della reazione. È evidente che per l’amministrazione attuale, che non si è risparmiata neanche di fare i complimenti a Giorgia Meloni per la sua elezione, queste siano le priorità. Inammissibile e vergognoso: Sapienza condanni immediatamente ciò che è successo.

Le parole delle istituzioni

A commentare l’accaduto anche la rettrice Antonella Polimeni:

L’Università deve essere un luogo in cui si studia, si cresce, in cui bisogna incontrarsi e confrontarsi, ma non scontrarsi fisicamente. Condanniamo ogni forma di violenza e garantiamo, ad ogni individuo che agisca secondo i Principi costituzionali, il diritto a manifestare liberamente le proprie opinioni nel rispetto della pluralità delle idee.

Il Dipartimento di Scienze Politiche della Sapienza, in un comunicato, ha invece condannato l’utilizzo della forza pubblica all’interno dell’Università, sostenendo che dovrebbe essere limitata alle sole situazioni eccezionali ed auspicando la valorizzazione del dialogo come mezzo di risoluzione dei conflitti.

La Flc Cgil, organizzazione della Cgil che opera nel settore dell’istruzione, ha ritenuto inaccettabile la reazione della polizia ed ha richiesto chiarimenti circa l’accaduto a tutte le istituzioni. Secondo quanto affermato dalla rettrice, l’intervento delle Forze dell’Ordine è stato deciso e coordinato dal Dirigente del servizio predisposto dalla Questura di Roma.

E ritornando alla situazione in Parlamento, anche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata chiamata a rispondere degli avvenimenti di martedì, con pesanti critiche da parte del centrosinistra, tra cui la senatrice Ilaria Cucchi e il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, che ha commentato le immagini “da brividi”: «vedere manganelli e cariche contro gli studenti che dalle immagini appaiono indifesi mi preoccupa da cittadino e da professore universitario».

(La Presidente del Consiglio espone il discorso programmatico alle Camere. Fonte: ansa.it)

La Premier, che appena poche ore prima aveva sottolineato, all’interno del proprio discorso programmatico, l’importanza dell’entusiasmo e del coraggio dei giovani per risollevare il Paese, ha risposto direttamente alle critiche della senatrice Cucchi:

Io vengo dalla militanza giovanile, ho organizzato tantissime manifestazioni, e in tutta la mia vita non ho mai organizzato una manifestazione per impedire a qualcun altro di dire quello che voleva dire. Mai. Io ho organizzato manifestazioni per dire quello che io volevo dire. Quelli non erano manifestanti pacifici, erano manifestanti che facevano un picchetto per impedire che ragazzi che non pensano come loro potessero dire la loro.

Ad ogni modo, la Presidente non si è espressa nello specifico sull’intervento della polizia contro gli studenti.

A Roma dilagano le occupazioni

In seguito agli avvenimenti di martedì, le proteste sono dilagate sotto forma di occupazioni: dapprima il Liceo classico Albertelli che, oltre a condannare le cariche della polizia contro gli studenti, intende mandare un segnale a un «governo che si insedia con premesse pessime: Valditara, complice del taglio di 10 miliardi su scuola e università della Riforma Gelmini, come Ministro dell’Istruzione e l’aggiunta del concetto di “Merito” al Ministero sono punti di partenza sconcertanti».

Ieri il movimento Cambiare Rotta ha occupato il Dipartimento di Scienze politiche, dove gli studenti hanno inneggiato, tra le altre cose, anche alle dimissioni della rettrice Polimeni.

 

Quanto avvenuto negli ultimi giorni non può che suscitare perplessità in capo all’intera comunità studentesca, che adesso si ritrova spaccata dalle opinioni e strumentalizzazioni politiche della vicenda. Far venir meno uno dei più importanti pilastri del mondo studentesco, ovverosia che gli studenti indifesi non dovrebbero mai essere sfiorati dalle forze dell’ordine in qualsiasi contesto, significa togliere solidità alla base di interessi comuni che ci caratterizza, in quanto studenti, a prescindere dal colore politico. Sarebbe tuttavia necessario un impegno ad uno svolgimento del conflitto sociale – che di per sé non rappresenta una minaccia ai nostri valori democratici – ispirato al pluralismo delle idee (che è e rimarrà sempre un principio costituzionale indispensabile) ed al rispetto reciproco, in modo tale da favorire il soddisfacimento di quelle esigenze cui ciascun studente dovrebbe, individualmente e collettivamente, collaborare a raggiungere per sé e per gli altri.

Valeria Bonaccorso

Spagna: approvata la nuova legge contro i Pro Vita: sarà reato minacciare o intimidire chi sceglie di abortire

Il Senato spagnolo ha approvato la modifica del Codice penale: sarà considerato reato intralciare o intimidire chi ricorrerà all’aborto.

L’aborto in Spagna -Fonte:favacarpediem.wordpress.com

La legge, promossa dal Premier del Partito Socialista Pedro Sanchez e già approvata dalla Camera, ha ricevuto il voto favorevole del Senato mercoledì 6 aprile. Con la sua ufficiale entrata in vigore sarà qualificato come reato il tentativo di importunare o intimidire una donna che si reca in una struttura sanitaria per abortire.

La legislazione spagnola: ecco cosa ha previsto negli anni

Il diritto all’aborto è stato riconosciuto, e dunque depenalizzato, nel 1985. Fino ad allora in Spagna era considerato reato qualsiasi interruzione della gravidanza anche per stupro, malformazione fetale e grave rischio per la donna. Con il suo riconoscimento è stato fatto un importante e decisivo passo in avanti nella garanzia della salute e del benessere delle donne nonché ovviamente la loro autodeterminazione.

La piena legalizzazione del ricorso a tale pratica, fino alla quattordicesima settimana di gestazione ma in alcuni casi specifici anche fino alla ventiduesima, è stata legittimata però solamente nel 2010.

Fumetto pro aborto -Fonte:corrieredibologna,corriere.it

La forte tradizione cattolica del Paese ha fatto sì che le donne incontrino spesso numerosi ostacoli qualora scelgano di ricorrere a tale soluzione. Ostacoli posti anche dai numerosi movimenti “anti-scelta” e dall’elevato numero di medici obiettori di coscienza.

Uno studio dell’Associazione spagnola delle cliniche autorizzate per l’interruzione della gravidanza (ACAI) ha visto una percentuale sempre maggiore delle donne vittime dei sostenitori dei diritti riproduttivi. L’indagine ha portato che circa l’89% di esse è stata soggetta a molestie mentre si dirigeva in clinica, mentre il 69% ha subito intimidazioni.

Tali gruppi si riuniscono fuori dalle cliniche dove si praticano aborti per cercare di convincere le donne a non entrarvi.

La modifica del Codice penale

La modifica apportata al Codice penale pone sanzioni penali a coloro che

“Al fine di ostacolare l’esercizio del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza mettano in pratica contro una donna atti molesti, offensivi, intimidatori o coercitivi che ledano la sua libertà.”

Legge spagnola pro aborto -Fonte:luce.lanazione.it

La pena prevede la reclusione da tre mesi a un anno o una sanzione alternativa in lavori di pubblica utilità che va dai 31 agli 80 giorni.

Tale normativa sarà applicata anche a coloro che intimidiscono gli operatori sanitari che lavorano nelle strutture dove si eseguono aborti. Si eviterà inoltre la diffusione di slogan, cartelli o le orazioni di chi si rivolge direttamente alle donne con piccoli feti di plastica o turbandole facendole ascoltare attraverso un monitor battiti del cuore del feto.

La protesta degli attivisti anti-aborto

La radunanza in piazza avvenuta mercoledì 6 aprile ha visto come protagonisti un gruppo di attivisti pronti a difendere la “criminalità” delle loro azioni. Con cartelloni e piccoli feti di plastica si sono presentati davanti al Senato spagnolo protestando contro le misure prese.

Secondo quanto fatto sapere sulla piattaforma Right to Live, il gruppo continuerà a “pregare ed a offrire aiuto a tutte quelle donne che ne hanno bisogno in modo che possano capire che l’aborto non è l’unica soluzione.”

Aborto, diritto di scelta -Fonte:lavocedellelotte.it

Non sono mancate, nelle ultime settimane, numerose proteste contro l’aborto in tutto il territorio spagnolo. Striscioni sono comparsi anche a Madrid dove hanno marciato per le strade della capitale fino a giungere a Plaza de Cibeles. A manifestare, secondo le indagini dell’associazione “Si alla vita” che ha organizzato la protesta, erano in 20 mila e urlavano contro il diritto a interrompere la gravidanza.

… e in Italia?

Nel quadro sconfortante di molti Paesi in cui è prassi fare i conti con militanti anti- scelta, non c’è da sentirsi più di tanto fortunati nel territorio italiano. Sebbene sia raro essere vittime di ostacoli fisici presso cliniche e ospedali che garantiscano il diritto d’aborto, chi vuole accedervi non è esente da percorsi di paternalismo.

È compito dello Stato proteggere il diritto all’aborto se è costantemente minacciato e giudicato immorale, rispettando così tutte le posizioni. Il tabù che ancora marchia tale diritto in Italia rende ancora più difficile tutelarlo.

Legge 194/78 -Fonte:ingenere.it

Nonostante la regolamentazione presente alla Legge 194/78, una donna che decide di accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza (IVG) ha, quasi sette possibilità su dieci (67%) di vedersi negato da un ginecologo tale accesso. Ciò in virtù del diritto all’obiezione di coscienza individuale riconosciuto dall’art. 9 della legge 194/1978 che ha contestualmente sancito la non punibilità delle IVG.

Se in Spagna è bastata una legge, nel Bel Paese sarebbe necessario lo smantellamento dell’intera sanità pubblica, nonché la disintossicazione dalle colpe provenienti dal Vaticano.

Il tema delle interruzioni volontarie di gravidanza riaffiora sempre per il continuo rimodellamento legislativo e trasversale che attraversa tutto il globo. La decriminalizzazione dell’aborto, non lo ha contestualmente trasformato in un diritto della donna, bensì ha mantenuto come perno una sorta di divieto morale di abortire. Ecco che l’Italia si inserisce in un contesto europeo ove le leggi sulle interruzioni di gravidanza sono costruite per “casistiche” e “circostanze” entro cui è permesso abortire. Vengono riconosciute come circostanze legittime i casi in cui la prosecuzione della gravidanza comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica. Meno agevole invece se una donna scelga, entro le prime 12 settimane di gestazione, di interrompere la gravidanza perché semplicemente non convinta e per il sussistere di ragioni personali non rientranti in casistiche predeterminate.

A detta di molti giuristi però, sebbene la Legge 194 non abbia fatto dell’aborto un diritto, il suo riconoscimento quale livello esseniale di assistenza (LEA) permette di parlare di “diritto all’aborto” anche in Italia.

La criminalizzazione dell’aborto nel mondo

È chiaro che l’enorme politicizzazione dell’argomento, per motivi etici e/o religiosi, e le conseguenti negazioni del suo riconoscimento hanno portato in giro per il mondo al triste giro dell’aborto clandestino.

UNFPA -Fonte:dailytrendznews.it

I dati recenti raccolti dal UNFPA, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ha constatato che il 45% degli aborti praticati a livello internazionale sono clandestini. Un dato che vede coinvolta anche l’Italia, dove però ancora si sostiene che tale fenomeno si sia estinto negli anni ’70.

Per venire incontro ai bisogni di milioni di donne abbandonate dalle istituzioni sono stati fondati numerosi enti privati. Ad esempio, solo nel nostro Paese nell’ultimo anno circa 473 donne si sono rivolte a “Women on Web”, un’associazione canadese senza scopo di lucro che aiuta le donne ad accedere ai servizi di IVG. quando le circostanze esterne non lo permettono, cercando di ridurre sempre più il fenomeno dell’aborto clandestino che si credeva estinto negli anni 70.

Giovanna Sgarlata

 

No Delivery Day: “Non ordinate, non consegniamo in nome dei nostri diritti”. Anche a Messina i rider scioperano

Oggi, 26 marzo, è la giornata in cui i rider di tutta Italia hanno deciso di scioperare con l’obbiettivo di portare alla luce una condizione lavorativa dove mancanza di tutele e contratti irregolari sono in realtà sotto gli occhi di tutti. Proprio coloro che durante il lockdown e le restrizioni varie imposte dalla pandemia erano gli unici a popolare le strade fino a tarda notte, intemperie avverse o meno, per fornire un servizio altrimenti lasciato morire, sono gli stessi che adesso scendono in piazza per rivendicare a gran voce diritti che faticano ad essere riconosciuti. Definiti “essenziali” dalle istituzioni ma rimasti ad esse fino ad ora soltanto invisibili, i rider annunciano il “No food deliveryaccolto in tutta Italia, compresa la città di Messina, il cui appuntamento è fissato a Piazza Cairoli alle ore 19.00.

La denuncia di RiderXidiritti

Il movimento RiderXiDiritti rivolge un appello di supporto a tutti i cittadini, destinatari di una lettera aperta, in cui spiegano:

Siamo pedine nelle mani di un algoritmo, siamo considerati lavoratori autonomi; siamo inseriti in un’organizzazione del lavoro senza alcun potere ma non siamo considerati lavoratori dipendenti dai nostri datori di lavoro. Il lavoro autonomo è solamente un espediente: consente a multinazionali feroci di non rispettare i contratti e di non riconoscerci tutele”.

Continuano affermando una realtà già nota a livello giuridico in Europa e in Italia, ma sorda alle orecchie delle grandi multinazionali, che ammettono esclusivamente un modello di business basato su sfruttamento, cottimo e precarietà:

In tutta Europa i tribunali stanno riconoscendo la verità: il nostro è un lavoro subordinato. Anche il tribunale del lavoro di Palermo, nel primo grado di giudizio, si è mosso in questa direzione. Il Tribunale di Milano ha fatto luce su casi palesi di caporalato dentro Uber Eats, che arrivavano a sorveglianza, non solo digitale ma persino fisica, con contorno di violenza e aggressioni nei confronti di riders resi ricattabili (reclutati anche nei centri di accoglienza) da indigenza ed estremo bisogno. Il Tribunale di Bologna ha riconosciuto che l’algoritmo è un dispositivo discriminatorio nei confronti dei lavoratori. La procura di Milano ha recentemente ribadito che il tempo dello schiavismo deve finire e deve cominciare quello di un lavoro che riconosca tutti i diritti di cittadinanza; ha per questo comminato maxi-multe per centinaia di milioni di euro alle aziende, intimandogli di assumerci e riconoscerci tutele piene”.

Il sostegno su Twitter della Cgil Lombardia. Fonte: Twitter.

La situazione in Italia: il contratto Assodelivery-sindacati

E se in Europa, come afferma la Cgil di Roma e Lazio, le aziende si sono messe già in moto per garantire diritti, sicurezza e salario, in Italia Assodelivery – prima e unica associazione dell’industria del food delivery alla quale aderiscono Deliveroo, Glovo, SocialFood e Uber Eats – “preferisce soccombere in tribunale e rischiare di pagare milioni di multe piuttosto che trattare davvero con le organizzazioni sindacali.”

Infatti, nella giornata del 24 marzo, Assodelivery in accordo con le rappresentanze sindacali di Cgil, Uil e Cisl ha siglato un protocollo riassunto in tre punti fondamentali: il primo riguarda l’impegno delle aziende aderenti ad Assodelivery ad adottare un modello organizzativo in grado di prevenire comportamenti scorretti e l’adozione di un Codice Etico; il secondo punto assume l’impegno delle piattaforme a non ricorrere ad aziende terze, almeno fino a quando non verrà creato un apposito albo delle stesse piattaforme; l’ultimo punto prevede la costituzione di un Organismo di Garanzia (che coinvolgerà sia rappresentati delle aziende e sia rappresentati sindacali) il cui compito sarà di vigilare sulle dinamiche lavorative dei rider e riportare eventuali specifiche segnalazioni alla Procura della Repubblica.

A presenziare l’accordo anche il ministro Orlando, il quale ha convocato per il primo aprile un tavolo per garantire procedure anti-Covid su salute e sicurezza dei lavoratori (non dimenticando che durante la pandemia i rider hanno ottenuto le mascherine dalle aziende solo dopo il ricorso a vie legali) e la contrattazione su diritti e tutele da mettere in atto il prima possibile.

Immediata la risposta di Deliverance Milano, che ha scritto: “Nonostante la buona notizia di oggi confermiamo lo sciopero del 26 Marzo e le manifestazioni organizzate in oltre 20 città italiane in occasione del No Delivery Day, a riprova del fatto che non bastano gli impegni formali ma occorre aggiungere sostanza e serietà alle promesse fatte ai lavoratori, da parte delle aziende e delle istituzioni.”

Uniti contro lo sfruttamento, Messina non si tira indietro

Le pretese sono più che mai legittime in un sistema come il nostro (formalmente) democratico: essere alla pari di tutti i lavoratori dipendenti del nostro paese. Un’intera categoria privata di salari, sicurezza, malattia, ferie, contributi, mensilità aggiuntive, TFR, contratte nazionale, è una sconfitta morale e sociale per tutti, non riguarda i singoli lavoratori. Un gesto semplice – rifiutarsi per un giorno di fare click – può sostenere una causa che non è solo quella dei rider, ma quella della civiltà di un Paese e del mercato del lavoro. Uniti possiamo fare la storia verso i diritti del futuro contro un regime di sfruttamento ottocentesco”.

NoDeliveryDay
Locandina a Messina per la mobilitazione nazionale dei rider. Fonte: Normanno.

La partecipazione prevista anche per i rider di Messina, che si augurano possa cambiare qualcosa grazie a un movimento di risonanza nazionale: “Già nelle grandi città ci sono state attuazioni del genere. A Messina ancora no e ciò ci preoccupa perché il mercato del lavoro continua a rimanere precario e senza tutele anche da parte di aziende locali.”

Che sia giunto finalmente il momento in cui sarà riconosciuta dignità ai lavoratori che ne sono giuridicamente privi?

Alessia Vaccarella

Elezioni in Israele. Il destino di un Paese e di un primo ministro appese a un filo

Oggi, martedì 23 marzo, in Israele si andrà al voto per la quarta volta in meno di due anni. Il primo ministro uscente, Benjamin Netanyahu, negli ultimi mesi è riuscito a rimanere al suo posto, nonostante il processo per corruzione in corso contro di lui; ha continuato a mantenere un alto indice di gradimento, soprattutto grazie al successo della campagna vaccinale israeliana, anche se comunque in calo rispetto alle ultime elezioni tenute appena un anno fa.

In base alla Legge israeliana, un primo ministro può restare in carica anche se sotto processo. Tuttavia, in questo caso, le prove a sfavore sembrano abbastanza schiaccianti e, se fosse condannato, sarebbe costretto a dimettersi e potrebbe finire subito in galera.

Al momento, vi è una concreta possibilità che Netanyahu possa perdere le elezioni, un esito che sarebbe una grossa novità per la politica israeliana.

(fonte: World Politics Blog)

Chi è Benjamin Netanyahu

Benjamin Netanyahu, spesso soprannominato Bibi, è l’attuale Primo ministro dal 31 marzo 2009, dopo esserlo stato già tra il 1996 e il 1999; membro della Knesset e leader del Likud, il principale partito del centrodestra israeliano.

Il primo mandato del 1996 è frutto soprattutto di una campagna elettorale basata sullo slogan “una pace sicura, con il quale, da un lato, promise la prosecuzione del dialogo con l’Anp – organismo politico di auto-governo palestinese formato nel ’94, in seguito agli Accordi di Oslo, per il governo della Striscia di Gaza e le aree A e B della Cisgiordania – dall’altro, però, una forte intransigenza contro ogni movimento terroristico, anche a costo di usare la forza. Infatti, proprio in quei mesi, Israele è stato attraversato da una lunga e funesta scia di attentati terroristici.

Netanyahu vanta diversi record personali: è il primo premier eletto in maniera diretta, il primo leader ad esser nato nel Paese dalla sua fondazione nel 1948 e il più longevo premier della storia d’Israele, con ben 14 anni e 300 giorni di governo (primo incarico: 3 anni e 18 giorni; secondo e corrente incarico: 11 anni, 282 giorni).

Sicurezza e crescita economica sono state le chiavi del suo successo stabile e durevole nel tempo.

La prima è stata assicurata da un progressivo rafforzamento dell’esercito, accompagnato peraltro da politiche dure nei confronti dei palestinesi, che, però, avrebbero potuto essere ancora più dure, considerando le coalizioni di destra al governo nel Paese negli ultimi dodici anni. Infatti, in questo periodo, Netanyahu ha deciso di iniziare una sola vera guerra, durata poco meno di due mesi, e ha ritirato più volte la promessa di annettere parte della Cisgiordania al territorio israeliano.

In tema di crescita economica, dal 2009 ad oggi, il PIL israeliano è raddoppiato, unico caso in Occidente; il tasso di disoccupazione si è dimezzato, scendendo sotto al 4% nel 2020. Anche per questa ragione Netanyahu era riuscito a vincere le ultime tre elezioni e a formare dei governi guidati da lui, sebbene molto instabili per via della frammentatissima politica israeliana.

La prova più grande è stato l’arrivo della pandemia. Prima che iniziasse la campagna vaccinale, Israele era uno dei Paesi con più contagiati al mondo in rapporto alla popolazione, e la scorsa estate si erano susseguite enormi proteste di piazza contro le misure del governo per bilanciare gli effetti della pandemia sul sistema economico.

https://www.youtube.com/watch?v=6ZVTipkQOsM

I possibili esisti delle votazioni

Proprio oggi, gli israeliani andranno per la quarta volta in due anni alle urne e già si parla di un quinto voto nei prossimi mesi. L’intento sarebbe quello di continuare con le elezioni fino a sbloccare la situazione, o meglio, eleggere un governo di coalizione stabile e guidato da Netanyahu.

Infatti, la speranza del primo ministro sarebbe quella di convincere il Parlamento (Knesset) ad approvare una legge che gli garantisca l’immunità fin quando resterà in carica; a quel punto la sentenza del tribunale non avrebbe alcun rilievo, perché a Bibi basterebbe conservare l’incarico.

A suo discapito, però, diversi esponenti della coalizione non sono disposti a votare l’immunità, pur sostenendo il suo governo in generale. Questo significa che per formare una coalizione servirà un intenso lavoro, con ogni potenziale partner che proporrà le proprie richieste.

Nelle tre elezioni che si sono susseguite dall’aprile del 2019 Netanyahu è riuscito a formare una coalizione per tre volte, ma è sempre stato costretto a includere un partito che non è mai stato intenzionato a concedergli l’immunità.

Tuttavia, il successo nella campagna vaccinale non ha cancellato gli estesi timori per l’economia, segnati da una riduzione del PIL e dall’incremento del tasso di disoccupazione. La Banca d’Israele ha anche criticato il governo per l’assenza di misure di stimolo per la ripresa.

(fonte: LaRepubblica)

«Il partito di Netanyahu non è cresciuto nei sondaggi perché ci sono radicati timori che la crisi economica causata dalla pandemia non sia stata gestita bene dal governo», afferma il Times of Israel sulla base di un recente sondaggio che assegnava al Likud, il partito di Netanyahu, 27 seggi sui 120 totali della Knesset, il Parlamento israeliano, contro i 37 controllati oggi.

Stando agli ultimi sondaggi, dei quattro partiti oggi più popolari tre sono di destra: oltre al Likud ci sono anche Nuova Speranza, fondato dall’ex ministro e dirigente del Likud Gideon Sa’ar, in polemica con Netanyahu, e Yamina, guidato da Naftali Bennett.

Tuttavia, Nuova Speranza ha promesso che non sosterrà un nuovo governo Netanyahu, dunque Bennet appare visibilmente la sola speranza: si è già presentato più volte alle elezioni con partiti a destra di Netanyahu, finendo sempre per allearsi con lui, e l’anno scorso ha pubblicato un libro in cui criticava la gestione della pandemia del governo, ma senza nemmeno citare una volta Netanyahu.

Stando ai sondaggi un’eventuale coalizione fra Likud, Yamina e i partiti della destra religiosa, escluso Nuova Speranza, è data appena sotto i 61 seggi necessari per dare la fiducia a un nuovo governo.

C’è da dire che anche la frammentazione centrosinistra è netta: Blu e Bianco, il partito che un anno fa arrivò secondo, si è spaccato dopo la sorprendente decisione del leader Benny Gantz di formare un governo di coalizione con Netanyahu; la fazione opposta al governo con Netanyahu ha, invece, rifondato il partito centrista Yesh Atid, il quale è secondo nei sondaggi con una ventina di seggi, ma non è chiaro cosa intenda fare dopo il voto. Al momento un’alleanza dei partiti di sinistra sembra difficile.

Una terza improbabile opzione prevede un governo di coalizione fra partiti di destra e di centro che taglierebbe fuori il Likud: potrebbe superare di poco i 61 seggi, e dare la fiducia a un governo di centrodestra senza Netanyahu.

In ogni caso, in Israele alcuni sembrano convinti che esista una sola opzione: la quinta elezione in poco più di due anni, nel caso in cui anche quella di oggi non riesca a dare al Paese un governo stabile.

 

Manuel De Vita

La Sicilia potrebbe ospitare depositi dei rifiuti nucleari. Sindaci e Nello Musumeci in protesta. Ecco cosa sta succedendo

Accanto alla proposta del Cts, arrivata nelle ultime ore, di fare della Sicilia zona rossa per tre settimane, a preoccupare la nostra isola è la Cnapi, la carta pubblicata da Sogin, dopo il nullaosta del Governo, nella notte tra il 4 e il 5 gennaio, che indica le 67 aree idonee ad ospitare infrastrutture per lo smaltimento dei rifiuti nucleari. Tra queste, 4 sono siciliane: Calatafimi-Segesta, Castellana Sicula, Petralia Sottana e Butera.

Mappa dei luoghi selezionati da Sogin – Fonte: www.blitzquotidiano.it

Il “no” dei sindaci e di Musumeci

La notizia è stata accolta con dissensi e proteste dei sindaci e del presidente della regione Nello Musumeci. Ha affermato il sindaco di Petralia-Sottana, Leonardo Neglia:

Sono rimasto di stucco e anche un po’ contrariato apprendendo la notizia. Ci lascia sgomenti: noi siamo anche sede dell’ente parco delle Madonie, da un lato si vuole la protezione della zona, dall’altro si vogliono seppellire scorie nucleari”.

Per il governatore della regione la selezione delle aree siciliane è da mettere in discussione:

Abbiamo elementi tecnici inoppugnabili per contestare questa scelta, in contrasto con tutti gli indicatori fisici, sociali, economici e culturali dell’Isola e lo faremo anche con il coinvolgimento dei Comuni interessati, che condividono le nostre preoccupazioni. La Sicilia, anche per la sua alta vulnerabilità sismica e per la disastrosa condizione della viabilità interna, su cui la Regione non ha competenza diretta, non può permettersi né di ospitare né di trasportare rifiuti nucleari”.

L’associazione di Calatafimi-Segesta “Amunì Calatafimi” ha lanciato una petizione contro il deposito delle scorie nucleari che ha già raccolto circa 600 firme. Scrive l’Associazione:

Con questa petizione miriamo, sin da subito, a bloccare questa possibile follia. Chiediamo a tutte le realtà territoriali di unirsi a noi prima della scadenza della consultazione pubblica. Anche solo l’aver inserito queste zone nella lista dei siti idonei a ospitare un deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani, è pura follia. Territori ad alto rischio sismico, con risorse agricole, paesaggistiche, turistiche ed archeologiche. Territori logisticamente remoti, come possono essere valutati idonei a tal fine?

I criteri di selezione dei luoghi

Le critiche fanno sembrare la scelta delle aree in Sicilia totalmente in contraddizione con i criteri di selezione stabiliti dall’Ispra nel 2014. Secondo l’istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, i luoghi atti ad ospitare depositi nucleari sarebbero quelli con pochi abitanti, non a quote troppo elevate, non su pendenze eccessive, non troppo vicini al mare, con una sismicità modesta, senza vulcani né rischi di frane e alluvioni. Criteri che certamente generano dei dubbi intorno all’idoneità della Sicilia, territorio a rischio idrogeologico, noto per l’attività sismica e vulcanica, votato all’agricoltura e al turismo.

Perplessità relative alla scelta delle aree sono sorte anche in altre regioni selezionate per accogliere i depositi. Forti critiche sono giunte in particolare dalla Sardegna e dalla Puglia. Alessio Valente, sindaco di Gravina in Puglia, scrive: “La vocazione di queste nostre aree è agricola e turistica, e non permetteremo che ci trasformino in un cimitero di scorie nucleari. Mai”.

Una questione rimandata da molto tempo

D’altronde, se si pensa all’intero territorio italiano, sembra difficile trovare delle zone idonee al 100%, capaci di rispecchiare tutti i criteri stabiliti. Eppure, la questione dei rifiuti nucleari, rimandata già da troppo tempo, necessitava di una soluzione.

Era la stessa Unione Europea a reclamarlo. Infatti, secondo l’articolo 4 della Direttiva 2011/70 la sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi deve avvenire nello Stato membro in cui sono stati generati. Al momento, in Italia sono presenti una ventina di siti provvisori, non idonei allo smaltimento definitivo. La Cnapi, scritta nel 2010, rinviata di anno in anno, doveva essere pubblicata già nel 2015. Il ritardo, dovuto sia ad accertamenti tecnici della Sogin e dell’Ispra sia a vicissitudini politiche, dalle regionali del 2015 al referendum costituzionale del 2016, fino alle elezioni del 2018, è costato all’Italia una procedura di infrazione aperta dall’UE nell’ottobre del 2019.

Insomma, si tratta di una questione non più rimandabile. L’ha detto anche il sottosegretario all’ambiente Roberto Morassut, il quale ha garantito trasparenza e collaborazione con le associazioni ambientaliste:

“È un provvedimento da tempo atteso e sollecitato anche dalle associazioni ambientaliste, che consentirà di dare avvio ad un processo partecipativo pubblico e trasparente al termine del quale sarà definita la localizzazione dell’opera. Un impegno che questo Governo assume anche in ottemperanza agli indirizzi comunitari e nel rispetto della piena partecipazione delle comunità alle decisioni”.

Roberto Morassut – Fonte: www.italiaincammino.it

Il progetto

Il progetto del deposito nazionale per lo smaltimento dei rifiuti nucleari non riguarda, per fortuna, le scorie più pericolose, ma quelle con media e bassa attività radioattiva, in totale circa 78000 metri cubi di rifiuti che si producono ogni giorno: reagenti farmaceutici, mezzi radiodiagnostici degli ospedali, guanti e le tute dei tecnici ospedalieri, il torio luminescente dei vecchi quadranti degli orologi, i marker biochimici e i biomarcatori, i parafulmini e i rilevatori di fumo. 33000 metri cubi di rifiuti sono già stati prodotti, i restanti 45000 metri cubi si prevede che verranno prodotti nei prossimi 50 anni.

Cosa accadrà adesso?

Dopo il nulla osta alla pubblicazione della Cnapi, arrivato il 30 dicembre da parte dei ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, si è aperta una fase di 60 giorni durante la quale le Regioni e gli enti locali sono tenuti ad avanzare critiche e proposte. Allo scadere di questo periodo, si terrà un seminario nazionale di 4 mesi che farà del deposito di rifiuti nucleari l’oggetto di un dibattito tra sindacati, università, enti locali, enti di ricerca. In base a quanto emergerà nel seminario nazionale, la Cnapi verrà rivista, modificata e poi sottoposta ai ministeri dello Sviluppo economico, dell’Ambiente e delle Infrastrutture e dei Trasporti che dovranno convalidarla.

Chiara Vita

 

 

Esame di stato, il Movimento dei dottori in Psicologia: ” Il ministro Manfredi e il presidente Lazzari mantengano le promesse”

Riceviamo e pubblichiamo il comunicato del Movimento dei dottori in Psicologia. Nella nota si espone la situazione dei laureati in psicologia, prossimi all’esame di abilitazione e gli sviluppi a seguito delle varie proteste nazionali. (Noi di UniVersoMe ne avevamo parlato qui.)

“E’ necessario che Ministero dell’Università e della Ricerca e Consiglio Nazionale Ordine Psicologi stabiliscano un incontro immediato anche telematico, in nostra presenza, così da poter mantenere gli impegni presi e dare sostanza alle dichiarazioni pubbliche espresse. Noi crediamo nella lealtà dei soggetti coinvolti prima ovviamente dell’inizio della sessione dell’esame di Stato per l’abilitazione degli psicologi del prossimo 16 Luglio”. Una dichiarazione molto forte quella adottata dall’avvocato professor Antonio Ruggiero del foro di Milano, che ha avuto mandato di difendere i diritti e le richieste del movimento spontaneo formato da oltre 10 mila dottori in psicologia, che da 4 mesi lottano per ottenere l’abilitazione alla professione attraverso una riformulazione dell’esame di Stato per le sessioni d’esame di Luglio e Novembre 2020. Una professione che grazie al decreto Lorenzin del 2018 ha acquisito il profilo di professione sanitaria. Ma andiamo ai fatti. Il 12 Giugno l’Italia ha assistito ad un evento mai accaduto nella storia della categoria professionale psicologica: un movimento composto da oltre 10 mila aspiranti psicologi è sceso numeroso in piazza Montecitorio per manifestare contro le modalità telematiche previste dal DM n. 57 del 29 aprile 2020, recante le norme di svolgimento della sessione degli esami di Stato per l’abilitazione alla professione. In quella stessa giornata i rappresentanti del movimento sono stati invitati a Montecitorio e, grazie alla disponibilità dimostrata, hanno avuto un incontro-confronto proprio con il Ministro all’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi che, aveva aperto spiragli di speranza per una riforma avvertita, tra l’altro, come estremamente necessaria sia da parte dei candidati sia da parte di diversi professionisti iscritti all’ordine professionale. L’unica conditio sine qua non, posta dal Ministro stesso, era il benestare del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP). Proprio per arrivare alla risoluzione della vicenda, il 22 Giugno è stato fissato un incontro telematico tra i rappresentanti ministeriali, il Presidente del CNOP dott. David Lazzari, il Presidente del Consiglio Nazionale Studenti Universitari (CNSU) Luigi Leone Chiapparino e i rappresentanti del Movimento dei dottori in Psicologia. Purtroppo in quell’incontro, la proposta d’adozione di linee guida per lo svolgimento dell’esame di Stato proposte dal CNOP e tuttavia non legalmente vincolanti, non ha soddisfatto i futuri psicologi. Proprio per tale motivo venerdì 26 Giugno il Movimento dei dottori psicologi ha incaricato, con formale mandato, l’Avvocato Professor Antonio Ruggiero del foro di Milano che, capendo e accogliendo la giusta richiesta dei dottori e arguendo l’emergenza legata alla prima data utile dell’esame di Stato prevista per il prossimo 16 luglio, si è immediatamente impegnato per intessere nuovamente le fila della trattativa con il Ministro Manfredi, con i rappresentanti del Ministero e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché con il Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi dott. David Lazzari. Dopo un’iniziale resistenza, ma grazie alla capacità di mediazione e all’instancabile attività continua posta in essere, entrambi gli organismi statali hanno affermato, in separate sedi, di voler procedere con la rimodulazione dell’esame di Stato come da nostre indicazioni, già dalla sessione di Luglio e poi di Novembre. Tuttavia nonostante le intenzioni espresse singolarmente dagli organi istituzionali, alle quali è seguita, da parte ministeriale, la reale collaborazione in tale direzione, vi è stata una chiusura da parte del nostro Ordine professionale. Tra l’altro proprio il Presidente dell’Ordine, il Dott. David Lazzari aveva affermato in una dichiarazione pubblica che: “il CNOP ha esplicitato al Ministero e alle Università la disponibilità ad una normativa analoga a quella definita per la professione medica (tirocini abilitanti come esame di Stato)”. Ma ad oggi e a pochi giorni dall’inizio dell’esame di Stato, non è stato fatto alcun passo avanti per soddisfare quanto da noi richiesto. Occorre che le parti prendano contatti immediati superando qualsiasi incomprensione e personalismo per trovare un accordo che soddisfi tutte le parti sociali coinvolte. Lo chiedono a gran voce oltre 10.000 dottori in Psicologia che ad oggi sono stati lasciati in un limbo di incertezza in merito ad un esame dal quale dipende il loro futuro lavorativo. Chiediamo quindi un urgente riscontro.”

Il Movimento dei dottori in Psicologia

Portavoce

Dott. Pirrone Davide

Dott.ssa Marialisa Maioli

Dott. Fabbri Patrick

Dott. Di Marzio Antonello

Dott.ssa Caccia Monica

Dott. Romeo Pasquale

È caos in casa Facebook: ecco perché i dipendenti protestano contro Zuckerberg

I dipendenti di Facebook prendono le distanze dalle decisioni di Zuckerberg di non intervenire a oscurare i post di Trump. Su Twitter continuano le polemiche.

Il Presedente Americano Donald Trump il 28 maggio ha firmato un ordine esecutivo con l’intento di ridurre la possibilità, da parte dei social network, di segnalare o eliminare i contenuti dei propri utenti.  Il provvedimento prevede di non censurare neppure i contenuti falsi o che incitano all’odio.

Con la nuova normativa imposta dalla casa bianca, social network come Twitter e Facebook non godranno più di una sorta di “immunità”. Infatti, qualora dovessero eliminare un post le autorità competenti dovranno valutare se hanno leso o meno la libertà di espressione. Il decreto è stato presentato pochi giorni dopo che Twitter ha segnalato due post del presidente, considerandoli come “potenzialmente fuorvianti”. I contenuti non sono stati rimossi, ma è stato allegato un link dove era possibile approfondire i fatti che sono stati riportati erroneamente.
Trump prima di firmare il provvedimento ha affermato che l’esecutivo è volto a

«difendere la libertà di espressione da uno dei pericoli più gravi che si sia dovuto affrontare nella storia americana».

La volontà del Presidente Americano di non censurare i contenuti degli utenti, accade in virtù della norma conosciuta come “Sezione 230” contenuta all’interno del Telecommunications Act statunitense del 1996. Il provvedimento è stato istituito negli anni del boom tecnologico ed emanata per regolarizzare i contenuti pedopornografici, poi modificata nel 2018. La normativa però, esenta le piattaforme dalla responsabilità dei contenuti pubblicati dai propri utenti.

«Sui social media» –afferma Trump – «una manciata di realtà controllano una vasta porzione di tutte le comunicazioni pubbliche e private negli Stati Uniti. Hanno avuto il potere incontrollato di censurare, limitare, modificare, modellare, nascondere, alterare, praticamente qualsiasi forma di comunicazione tra cittadini privati».

Ci sono però dei limiti decisionali da parte di Trump; l’ordine esecutivo prevede infatti che il Dipartimento del Commercio e il procuratore generale William Barr modifichino la legge dalla Federal communications commission (Fcc). L’agenzia governativa è indipendente dal governo e può decidere se modificare o meno le norme vigenti, considerando i social network al pari del giornali.

Ciò che appare chiaro è che Trump punta a diminuire il potere delle grandi piattaforme, cambiando una legge del 1996 che le tutela a livello legale.

Il caso Twitter

L’antefatto tra Twitter e Trump, riguarda due tweet del Presidente considerati fuorvianti dal social network.
Nel primo affermava, senza alcuna prova, che le votazioni per posta avrebbero portato una diffusa frode fiscale nei confronti degli statunitensi. Trump ha prontamente reagito all’accaduto, scrivendo che quest’atto si può considerare censura, e anche quest’ultimo post è stato considerato come “non veritiero”.

Il decreto voluto dal Presidente infatti, cita direttamente Twitter affermando che questo applichi una selettiva che considera, erroneamente, i post come inaffidabili. Nel provvedimenti vengono citati anche Google che, secondo il parere di Trump, aiuterebbe la Cina a spiare i cittadini americani e Facebook che riceverebbe un cospicuo guadagno dalle pubblicità cinesi.

Dipendenti di Facebook in protesta

Il provvedimento di Trump ha creato all’interno dell’aziende del Network abbastanza scompiglio. I dipendenti manifestano contro il rifiuto di CEO, Mark Zuckerberg, di sanzionare i post incendiari del presidente americano. Alcuni dipendenti, infatti, si astengono dal lavorare per contrastare l’imparzialità da parte di Zuckerberg. «Riconosciamo la sofferenza che molti della nostra gente sta provando ora, in particolar modo la nostra comunità nera» affermano i dipendenti, incoraggiando altri lavoratori «a parlare apertamente quando non sono d’accordo con i vertici dell’azienda».
Parlando a Fox News, però, il fondatore del colosso ha affermato che i social privati non dovrebbero essere arbitri della verità di quanto le persone sostengono online.

Il Presidente Americano ha ritwittato l’intervista, dopo che i suoi post che incitavano alla violenza contro i manifestanti non sono stati censurati per incitamento all’odio. Anche il direttore dei prodotti Facebook si discosta dal modo in cui Zuckerberg sta gestendo la situazione e afferma:

«Non sono fiero di come si sta muovendo l’azienda e molti colleghi con cui ho parlato la pensano come me. Dobbiamo far sentire la nostra voce».

Nel corso di una conferenza, tenuta nella giornata di ieri, il numero uno di Facebook Zuckerberg parlando ai suoi dipendenti ha affermato che è stata “una decisione difficile” ma “approfondita” e aggiunge

«Sapevo che avrei dovuto mettere da parte la mia opinione personale, conscio che decisioni come questa avrebbero turbato molti all’interno della compagnia e avrebbero attirato critiche dai media».

Paola Caravelli

https://www.lifegate.it/persone/news/trump-contro-twitter (03/06/2020)

https://www.lastampa.it/esteri/2020/06/02/news/usa-zuckerberg-non-interviene-su-post-di-trump-in-sciopero-i-dipendenti-di-facebook-1.38918721 (03/06/2020)

https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2020/06/02/zuckerberg-si-difende-su-trump-decisione-difficile-_799835fe-3bb8-433f-a2b2-416293fe3650.html (03/06/2020)

 

Sistema carcerario in crisi. Movimenti sovversivi arrivano fino a Gazzi

L’inaspettata diffusione del coronavirus ha portato il governo a prendere delle misure restrittive anche per gli ambienti delle carceri dove, tra le altre, la sospensione dei colloqui predisposta per evitare contagi ha causato rivolte in molti penitenziari italiani.  Da nord a sud il sistema carcerario, dunque, sembrerebbe in crisi: primi episodi di ribellione violenta sono stati registrati a Pavia e a Modena, ma l’ondata sovversiva ha coinvolto ben 22 istituti penitenziari della penisola causando morti, occupazioni, sequestri ed evasioni. Il clima di sommossa arriva in maniera singolare anche a Messina dove ad incitare la protesta sono stati i parenti dei detenuti all’esterno della casa circondariale di Gazzi.

La rivolta di Pavia– I due poliziotti presi in ostaggio sono stati liberati nella notte di domenica: uno dei due è il comandante della polizia penitenziaria della struttura Torre del Gallo. I carcerati sono scesi dai tetti e dai camminamenti dove si erano asserragliati dopo una trattativa con il procuratore aggiunto pavese Mario Venditti. La protesta, nata sull’onda dello stop ai colloqui “a vista” per il coronavirus, ha dato spazio anche a lamentele su questioni che riguardano il trattamento carcerario.

Modena – E’ qui che si è registrata la rivolta più violenta, dove sono morti ben 6 detenuti. Il motivo dei decessi è legato però a overdose e psicofarmaci. Durante la rivolta, infatti, si è verificato un assalto all’infermeria da cui sono stati prelevati diversi farmaci come sostanze oppioidi e benzodiazepine che hanno provocato il decesso accertato di tre dei detenuti di Modena. Altri tre detenuti sono morti nei penitenziari di Verona, Alessandria  e Parma ma provenienti comunque dal carcere di Modena. Il settimo invece è deceduto nel carcere San Benedetto del Tronto.

Foggia – Continuano le ricerche di 23 evasi ancora in circolazione tra cui persone legate alla mafia garganica e un condannato per omicidio, Cristoforo Aghilar, il 36enne che il 28 ottobre scorso ha ucciso ad Orta Nova Filomena Bruno, 53 anni, mamma della sua ex fidanzata. Ieri infatti, approfittando dei disordini, 77 detenuti sono riusciti a fuggire ma 54 sono stati già catturati, tra cui due persone che hanno scelto di costituirsi. Al momento per tutti l’accusa è di evasione ma successivamente sarà analizzata la posizione di ogni singolo detenuto.

La rivolta di Milano– Anche nel carcere di San Vittore, a Milano, un gruppo di detenuti era salito sul tetto della struttura gridando “Libertà, libertà”. Nel carcere è poi entrata la polizia penitenziaria in assetto antisommossa. A dar vita alla protesta, i detenuti de ‘La Nave’, il reparto modello riservato a chi soffre di forme di dipendenza. Persone che hanno scelto di seguire la strade del recupero. Due i raggi del carcere devastati prima che la protesta rientrasse. Sul posto sono intervenuti anche i vigili del fuoco.

La rivolta a Roma– A Rebibbia la protesta si è spostata anche fuori dal carcere, dove circa venti donne hanno bloccato via Tiburtina all’altezza dell’istituto penitenziario. Le forze dell’ordine hanno circondato il carcere. La rabbia è esplosa anche nel complesso di Regina Coeli. In diversi bracci sono stati segnalati roghi e fumo. Immediato l’intervento dei vigili del fuoco.

Bologna – “I detenuti si sono ormai impossessati del carcere e il personale è fuori, con il supporto delle altre Forze dell’ordine”, ha fatto sapere il sindacato Sappe sulla situazione del carcere bolognese della Dozza. Nel carcere di Villa Andreino alla Spezia la direttrice Maria Cristina Biggi e alcuni operatori sono “asserragliati all’interno per cercare di riportare la situazione alla calma”  ha raccontato un operatore, mentre alcuni detenuti sono saliti sui cornicioni. Intorno alla struttura si sono dispiegate decine di auto delle forze dell’ordine per questioni di sicurezza e per evitare eventuali tentativi di evasione.

Messina – Caos ieri davanti al carcere di Gazzi. La protesta è iniziata dentro le celle con il rumore delle pentole sbattute dai detenuti contro le inferriate per poi estendersi al di fuori. La differenza è che a Messina si è verificata una manifestazione fortunatamente pacifica terminata grazie alla supervisione delle forze dell’ordine. Protagoniste in questo caso sono state le donne che hanno coinvolto anche i loro figli originando un corteo partito da Via delle Corse per poi stazionarsi davanti l’entrata pedonale del penitenziario.

Hanno sospeso i colloqui senza avvisarci – ha spiegato la moglie di un detenuto– non è giusto agire in questo modo. C’è gente che è venuta dalla provincia e si è ritrovata la porta sbarrata con la sola possibilità di lasciare i pacchi per i propri cari. Pretendiamo rispetto“.

Alla protesta si sono aggiunti anche attimi di tensione tra i manifestanti e gli automobilisti in seguito alla chiusura del traffico in via Consolare Valeria.

protesta gazzi

Al momento le visite sono state proibite fino al 22 Marzo e oltre all’impossibilità di vedere i parenti cresce la preoccupazione per i rischi di contagio tra gli stessi detenuti.A tal proposito, la Protezione Civile si sta giù muovendo e nei prossimi giorni verranno distribuite 100mila mascherine negli istituti penitenziari mentre saranno montate 80 tende di pre-triage per lo screening del Covid-19.

«E’ nostro dovere tutelare la salute di chi lavora e vive nelle carceri ma deve essere chiaro che ogni protesta attraverso la violenza è solo da condannare e non porterà ad alcun buon risultato», ha spiegato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che mercoledì terrà in aula al Senato una informativa urgente sulla situazione.

Antonio Gullì

 

4 Giugno 1989: 29° anniversario della protesta di piazza Tienanmen

Risultati immagini per tienanmenAccadeva proprio oggi, nella notte tra il 3 e 4 giugno 1989,  la protesta di piazza Tienanmen, nota anche come Primavera democratica cinese, e denominata in Cina “incidente di piazza Tienanmen” o “incidente del 4 giugno”. Questo evento si consumò in una serie di dimostrazioni di massa, che ebbero luogo principalmente in piazza Tienanmen a Pechino.

Nel 1989 due eventi fecero esplodere la protesta studentesca: in aprile la morte dell’esponente riformista Hu YaoBang, costretto anni prima dai conservatori a dimettersi dalla carica di primo ministro per aver appoggiato i movimenti democratici; in maggio la visita a Pechino del presidente russo Gorbačëv, ritenuto il simbolo della democratizzazione dei regimi comunisti.

La visita dell’ultimo segretario generale del PCUS, costituiva per gli studenti l’occasione per rendere visibili le loro richieste al mondo intero. Così, quasi un milione di universitari di Pechino si riversò nella Piazza Tienanmen, davanti alla Città Proibita (l’antica residenza degli imperatori), per chiedere l’abolizione di ogni forma di dispotismo e una maggiore libertà politica. Alle manifestazioni nella piazza, che durarono quaranta giorni, si unirono via via operai, impiegati, giornalisti, imprenditori.

Il 13 maggio 1989, al rifiuto del governo di qualsiasi forma di dialogo, un gruppo di studenti, davanti alle telecamere, proclamò uno sciopero della fame e innalzò nella piazza un’enorme monumento ispirato alla Statua della Libertà statunitense. Una settimana dopo i dirigenti comunisti, sempre più preoccupati per l’estendersi delle proteste ad altre città della Cina, proclamarono la legge marziale e nella Piazza Tienanmen comparvero i carri armati. La dura presa di posizione del regime, tuttavia, non fermò la protesta.

Fu così che si arrivò al tragico  4 giugno 1989,  dove i militari accerchiarono con mezzi blindati la piazza, aprendo il fuoco contro i dimostranti provocando un massacro: molti furono schiacciati dai cingolati, altri furono gravemente feriti durante i violenti scontri con l’esercito.

I dati sulle vittime sono controversi, ma comunque ben diversi da quelli forniti dai dirigenti cinesi: il governo dichiarò la morte di 200 civili e 100 soldati, cifra successivamente ridotta a una decina; la Croce Rossa cinese parlò di 2600 morti e 30.000 feriti, mentre le stime più alte fanno salire a 12.000 il numero delle vittime.

Il governo non solo non ha mai fornito una versione ufficiale, ma censura ogni approfondimento sulla strage e ne proibisce la commemorazione. Simbolo della rivolta rimane l’ormai famoso Rivoltoso Sconosciuto o Tank man, un coraggioso studente che la mattina del 5 giugno 1989 cercò di bloccare l’avanzata di una fila di carri armati, spostandosi a seconda della loro traiettoria.

Diverse ipotesi sono state avanzate sull’identità del ragazzo, ma nessuna è stata mai provata e lo stesso regime non ha mai fornito informazioni sull’accaduto; alcuni ritengono che il ragazzo abbia passato anni nei campi di rieducazione, altri dicono che sia stato ucciso dopo poche ore o giorni. L’unica certezza rimane il suo gesto che, in tutto l’Occidente, è diventato l’emblema della rivolta popolare contro l’autoritarismo del governo cinese e la lotta per la libertà e la dignità della persona.

Santoro Mangeruca