Il caso “dossieraggio” travolge politici e personaggi famosi

Da giorni nella stampa italiana infiamma un caso di “dossieraggio” che ha coinvolto numerosi politici  e personaggi italiani del mondo dello spettacolo, sport e industria. Con dossieraggio si intende, nel gergo giornalistico, una pratica volta alla realizzazione di dossier contenenti informazioni riservate su una o più persone per diversi scopi, fra cui il ricatto. Il caso aperto dalla procura di Perugia vede come suoi indagati principali il luogotenente della Guardia di Finanza Pasquale Striano, il magistrato Antonio Laudati e tre cronisti del quotidiano “Domani “.

I nomi dei dossier

A partire dal 2021 Striano e Laudati avrebbero condotto più di ottocento accessi alla banca dati della DNA, la Direzione Nazionale Antimafia, per ottenere informazioni riservate poi trasmesse al quotidiano. Altri dati rubati attengono anche a banche digitali come quella dell’Agenzia dell’Entrate. I dossier conterrebbero informazioni riservate prevalentemente riguardanti indagini preliminari, procedimenti giudiziari chiusi o in corso e redditi di personaggi noti appartenenti perlopiù alla politica. Fra questi i ministri Crosetto, Lollobrigida, Urso, Casellati, Fratin, Calderone ma anche altri esponenti politici come Salvini, Ceccardi e il sindaco di Palermo Lagalla. Fra i volti noti della società  presenziano Fedez, Agnelli, Ronaldo e il presidente della FIGC (la Federazione Italiana Giuoco Calcio ), Roberto Gravina.

Le informazioni trapelate non hanno però portato a indagine gli spiati, ad eccezione del presidente della FIGC  Gabriele Gravina. Egli è stato ascoltato dalla Procura di Roma nella giornata di mercoledì per le accuse di appropriazione indebita e autoriciclaggio riguardanti irregolarità nell’assegnazione dei diritti televisivi della Lega Pro 2018, il cui bando è stato vinto dall’azienda ISG Ginko. Gravina avrebbe accettato una somma di denaro nel corso di una compravendita di libri antichi e l’avrebbe poi riciclata con l’acquisto di un immobile a Milano intestato alla figlia.

 

 

Fonte : Public Domain Pictures

Il caso Crosetto

L’indagine è stata riaperta appena dopo la pubblicazione nell’agosto 2023 da parte del quotidiano Domani di informazioni riservate che riguardavano il Ministro Crosetto. Secondo queste informazioni, il Ministro avrebbe incassato dei compensi grazie a delle consulenze a favore di alcune aziende dell’industria bellica. Ciò sarebbe avvenuto dopo la sua nomina a ministro della Difesa, incompatibile per la legge con questo tipo di attività. La Procura di Roma avrebbe così aperto un’inchiesta sul Ministro, risalendo nel frattempo a Striano come fonte delle informazioni..

 

L’inchiesta sul magistrato Laudati

Dato il suo coinvolgimento, l’indagine è passata alla Procura di Perugia. Questa è la prassi quando ad essere indagato è un magistrato appartenente alla giurisdizione romana. In precedenza già sospettato per presunte istruttorie in cui favoriva se stesso e suoi amici, Laudati impedì a un’azienda l’acquisto di un ex convento a Santa Severa, vicino Roma, dove il magistrato possiede un immobile. L’istruttoria sarebbe stata quindi avviata per impedire la realizzazione di diversi cantieri nell’area vicino allo stabile, dove l’azienda era interessata a realizzare diverse villette.

Laudati poi, nel corso del suo incarico di capo della Procura di Bari nel 2009, sarebbe stato poi coinvolto in tentativi di protezione giudiziaria nei confronti dell’imprenditore Gianpaolo Tarantini, condannato per aver portato diverse escort nelle residenze dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.  Tarantini era stato intercettato durante alcune conversazioni intraprese con l’ex consigliera comunale di Bari , la quale partecipò alle feste organizzate dall’ex premier ricevendo compensi e la candidatura alle amministrative di Bari. Infine il magistrato sarebbe stato coinvolto in irregolarità nell’assegnazione di appalti nel settore sanitario.

Ancora perplessità sulle finalità

Non è chiaro quale fosse lo scopo  di queste soffiate e ci sono diverse  ipotesi.  La più probabile  è quella di uno spionaggio nei confronti dei personaggi sotto i riflettori in quel dato momento, ad esempio i membri del governo sono stati vittime a partire dalla loro nomina.

Da escludere per il momento la strada del ricatto. Infatti, nessuna delle vittime risulta accusato di corruzione. Secondo il procuratore nazionale antimafia Melillo e il procuratore di Perugia Cantone  le indagini sono ancora molto premature . Ma è lecito pensare che Striano e Laudati non siano gli unici ad aver effettuato questi accessi e altri casi simili verranno fuori nel corso delle indagini. La preoccupazione nasce dalla nota debolezza delle strutture digitali pubbliche, cui gli attori istituzionali possono accedere senza andare incontro a rigidi controlli.

L’opinione pubblica a riguardo

Dalla premier Meloni alla leader dell’opposizione Schlein, il mondo della politica si unisce nella condanna dei furti di notizie riservate ritenuti vergognosi e sollevando la necessità di far chiarezza.

Il quotidiano Domani ha invece difeso i suoi cronisti specificando che avrebbero agito nel pieno diritto di libertà di stampa.

Francesco D’Anna

 

Singapore e quel sottile confine tra Smart City e ipercontrollo

Singapore, l’isola città-Stato situata a sud della Malesia, è considerata in base a varie classifiche la città più tecnologicamente all’avanguardia, oltre che secondo Paese (dopo l’Islanda) più sicuro al mondo. Si tratta di uno Stato in cui non si vedono poliziotti per strada e dove i reati, oltre a non essere commessi, non vengono neppure immaginati: la trasgressione è infatti percepita come una forma di follia. Eppure, stiamo parlando dello stesso luogo in cui esistono ancora pene corporali e pena di morte, incorrendo in un controsenso tanto inestricabile quanto apparente.

Fonte: We Build Value

L’organizzazione statuale della Singapore post-coloniale è frutto del modello di sperimentazione originale di Lee Kuan Yew, consideratone non per puro caso il fondatore. Esso aderisce ad un criterio di massima valorizzazione delle tecnologie digitali, proponendosi all’avanguardia nel mondo contemporaneo seppur con inevitabili riverberi sulla sfera dei diritti dei cittadini, sottoposti a costante e pervasivo controllo. Un presente, quindi, dove a dominare è la pervasività della tecnologia, che se da un lato assicura una grande efficienza, dall’altro assume forme distopiche inquietanti in cui l’autorità può controllare nel dettaglio il movimento degli individui grazie ad un uso disinvolto di dati personali, i cosiddetti Big Data. Con tutto ciò viene da chiedersi: in che modo lo Stato anticipa comportamenti e reati nel pratico?

Il discredito sociale come deterrente

Quello di Singapore è un regime autocratico poggiato, piuttosto che sull’autoritarismo ruvido delle dittature, sulla pervasività della presenza governativa nella vita dei cittadini, basata sullo scambio tra benessere sociale e adesione conformistica al potere.
Durante un recente servizio del TG1 è stata intervistata una ragazza di nome Crystal Abidin, considerata una delle migliori menti under 30 al mondo nello studio dei comportamenti dei nativi digitali:

“Qui anche le razze sono profilate. In aeroporto un software riconosce i volti: il sistema riconosce l’etnia, e in base alla casistica, alcune razze vengono fermate più spesso di altre. Decide tutto l’algoritmo.”

In foto, la ricercatrice Crystal Abidin. Fonte: WISHCRYS

L’antropologa della Western Australia University continua poi dicendo:

“Nessuno è disturbato dal controllo, la nostra è una società pragmatica: privacy, diritti umani, libertà d’informazione, sorveglianza di massa. Di tutto questo, ancora una volta, non c’è coscienza. Nessuno si pone domande se vive in una società confortevole, ricca e dove a casa il cibo è assicurato.”

Sono affermazioni che fanno di certo riflettere molto, ma la scelta di Singapore del discredito sociale come metodo efficace per combattere l’elusione è ancor più sbalorditivo: dal momento che il PIL pro-capite del Paese è tra i più alti al mondo, se qualcuno getta ad esempio una carta a terra le telecamere lo riconoscono e la polizia, invece dei soldi infliggerà come pena di dover indossare una maglia fosforescente con su scritto ‘litterer’ (colui che sporca) per una settimana. E se lo rifarà, dovrà anche pulire il parco.

Con lo stesso metodo della sorveglianza già nel 2016 è stato arrestato un uomo prima che commettesse uno stupro, dopo che erano stati registrati e filmati comportamenti anomali, e un gruppo di terroristi che preparava un attentato alla vigilia del Gran Premio di Formula 1 di Singapore.

È così che viene portata avanti una società disciplinare: invece di punire a valle i reati si inducono i cittadini a comportarsi bene usando i Big Data. Lo Stato li raccoglie in un super computer e li analizza per creare algoritmi che regolino la vita dei cittadini in modo da anticiparne i bisogni, ancor prima che vengano espressi, approfittandone, tra le altre cose, per orientare dolcemente i comportamenti futuri in modo efficiente per la comunità. Tutto è inquietantemente data-driven, guidato cioè dai dati.

Confucianesimo: il “consenso dietro benessere”

Il filosofo Confucio. Fonte: Scaffale cinese

Singapore è una città-Stato multietnica, con una comunità cinese – suddivisa in diversi gruppi linguistici – rappresentante il 77% della popolazione residente. La seconda comunità, quella malese raggiunge il 14%; gli indiani l’8%, gli euroasiatici ed arabi poco più dell’1%. Venendo a conoscenza di un simile assetto viene forse più semplice immedesimarsi nei panni di chi ha ritenuto indispensabile il rigore per impedire scontri tra etnie e ricostruire un’identità comune al momento della formazione del Paese.

La proiezione verso il ruolo di quarta potenza finanziaria globale e di modello avanzato di Smart City, descrivono la traiettoria di un innegabile successo dell’esperienza singaporiana, se riguardato esclusivamente dal punto di vista efficientistico, all’interno di una cultura ispirata ai valori confuciani.

La base dottrinaria del confucianesimo (che sostiene l’adesione del popolo alle gerarchie) considera le élite al governo alla stregua di civil servants a servizio della comunità. La selezione delle élite avviene per merito e per virtù e la funzione di governo è vocata al conseguimento del benessere collettivo. In questo schema si rende possibile l’attuazione del sinallagma “consenso dietro benessere”.

Ecco, quindi, che i singaporiani neppure si pongono il problema della privacy:

“Tutto funziona, quindi la gente non pensa alla tecnologia separata dalla vita perché ormai è tutt’uno. Da voi in Europa non è ancora così. Noi abbiamo un numero identificativo che ci segue dappertutto, a scuola, a lavoro. Non ci si fa più caso”, ha sottolineato la giovane antropologa Crystal Abidin.

“Smart Cities” sempre più diffuse

Da tempo, il governo di questa città-stato è impegnato nella creazione di una Smart Nation, al fine di migliorare la vita dei propri residenti attraverso l’utilizzo di svariate tecnologie. Ma proprio perché è così avanzata tecnologicamente, è anche un laboratorio per il futuro dei centri urbani. I visionari di WOHA, celebre studio di architettura con sede a Singapore, fondato nel 1994 da Wong Mun Summ e Richard Hassell, hanno realizzato il video Singapore 2100, che presenta questo insediamento come una città 50/50: metà della superficie è destinata alla natura e metà agli spazi urbani. Grazie alla biodiversità che prospera, l’effetto dell’isola di calore si riduce, l’aria è più pulita e la qualità della vita degli abitanti migliora.

Sono realtà che si ripetono, con diverse sfumature, anche in altri Paesi asiatici caratterizzati da megalopoli ipertecnologiche: dal Giappone alla Corea del Sud, passando per l’Arabia Saudita e la Cina, le smart city costituiscono modelli virtuosi di sostenibilità e sono pioniere di progetti suggestivi e rivoluzionari in grado di rafforzare la sicurezza urbana e di garantire una gestione attenta dell’energia. L’idea comune a tutte queste città del futuro è quella di creare un nuovo standard di vita urbana con regole diverse e infrastrutture intelligenti in grado di supportare i cittadini nelle loro attività quotidiane, dalle più banali alle più complesse.

Anche in Italia il processo di cambiamento sta procedendo rapidamente e, nonostante il notevole divario tecnologico rispetto alle metropoli più avanzate, le città italiane stanno diventando sempre più sostenibili e digitalizzate: tra queste Firenze, Milano e Bologna aventi il ruolo di leader.

Il 13% di Singapore sarà milionario entro il 2030

L’Asia ospita attualmente 16 delle 28 megalopoli del mondo e il dato non deve affatto sorprendere: le città asiatiche sono caratterizzate da un’elevata densità di popolazione, tanto che le Nazioni Unite prevedono un raddoppio della loro popolazione urbana entro il 2030. La rapida crescita, alimentata dalla migrazione di massa, porta all’aumento dei redditi e al cambiamento degli stili di vita, il che mette a dura prova le infrastrutture e le risorse urbane, soprattutto nelle aree economicamente emergenti.

Singapore, patria di milionari. Fonte: ItaliaOggi

Un rapporto di HSBC intitolato “The Rise of Asian Wealth” ha indicato con forza che entro il 2030 Singapore vedrà una percentuale più alta della sua popolazione diventare milionaria rispetto a Stati Uniti, Cina e qualsiasi altra nazione dell’Asia Pacifico. Nel 2021 il 7,5% della popolazione dell’avanzata nazione insulare – sia cittadini che residenti permanenti – aveva lo status di milionario, ma si prevede che quel numero salirà al 9,8% nel 2025 e al 13 % nel 2030.

Il rapporto ha spiegato che le economie in più rapida crescita stanno accumulando ricchezza molto più velocemente, evidenziando come paesi quali Vietnam, Filippine e India vedrebbero aumentare coloro con ricchezze superiori a $ 250.000 più del doppio, seguite da vicino anche da Malesia e Indonesia.

Un modello che fa pensare

L’esempio di Singapore fa riflettere sul concetto di datacrazia e sulla costante esigenza di dati da parte di colossi tecnologici e Stati, il che significa principalmente l’inclusione di elementi sempre crescenti di intelligenza artificiale nel mondo umano.
Bisognerebbe poi chiedersi chi vorrà vivere – al di là di chi se lo potrà permettere – in luoghi asettici per quanto “ordinati”, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte e incrociano più quel “fascino folle” che un ovattato “ordine”.

In foto, il filosofo Luciano Floridi. Fonte: Il Dubbio

Luciano Floridi, filosofo della Oxford University, sostiene:

”Singapore è un modello che molti hanno in mente con un po’ di invidia, per ragioni di tipo finanziario, educativo e di stabilità sociale. Ma c’è qualcosa di preoccupante in questo modello: una componente di controllo della libertà individuale da parte delle istituzioni. È un luogo che è stato molto criticato da Amnesty International, per esempio, per problematici rapporti con i diritti umani. Singapore è pur sempre un luogo in cui un solo partito ha dominato la scena delle elezioni per gli ultimi 60 anni circa”.

Gaia Cautela

Privacy, Meta potrebbe chiudere Facebook e Instagram in Europa

Meta non sta attraversando un periodo positivo. Dopo il down di 6 ore dello scorso ottobre con la conseguente  perdita di diversi miliardi, la recente scelta di un rebranding per rimescolare gli obiettivi del colosso di Zuckerberg (ne abbiamo parlato qui) che è costata un colpo basso da Wall Street per altrettanti miliardi in borsa, il vecchio continente non sembra essere più terreno fertile per Meta. Poco meno di una settimana fa da Menlo Park hanno fatto sapere che Meta potrebbe chiudere Facebook e Instagram in Europa se non sarà risolta la diatriba sui dati personali, salvo poi rassicurare gli utenti:

“Non abbiamo assolutamente alcun desiderio e alcun piano di ritirarci dall’Europa”

Il rapporto annuale e i motivi dell’addio 

Mark Zuckerberg (fonte: repubblica.it)

Il monito è arrivato durante la relazione annuale alla Securities and Exchange Commission (SEC) degli Stati Uniti, tenutasi lo scorso giovedì. Tra le righe dedicate allo stato di salute dell’azienda, ha fatto capolino il problema legato all’opposizione dell’Europa al trasferimento e alla comunicazione dei dati che, secondo Meta, rappresenterebbe un problema, anzi una vera e propria causa ostativa che impedirebbe a Facebook e Instagram di erogare i propri servizi sul mercato europeo.

“Se non saremo in grado di trasferire i dati tra Paesi e regioni in cui operiamo, o ci sarà vietato di condividere dati tra i nostri prodotti e servizi, ciò potrebbe influire sulla nostra capacità di fornire tali servizi e indirizzare la pubblicità”.

Meta, che sotto il proprio cappello conta Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger, nonché circa 309 milioni di utenti attivi ogni giorno e 427 milioni ogni mese soltanto in Europa, potrebbe interrompere alcuni di questi servizi nel vecchio continente, se entro il 2022 non riuscirà a giungere ad un accordo che disciplini il trattamento dati degli utenti.

“Se un nuovo quadro normativo sul trasferimento transatlantico dei dati non verrà adottato e non saremo capaci di continuare a fare affidamento sulle SCC o altri metodi alternativi per il trasferimento dei dati dall’Europa agli Stati Uniti, probabilmente non riusciremo a offrire alcuni dei nostri prodotti e servizi più significativi, fra cui Facebook e Instagram, in Europa, il che potrebbe influenzare materialmente e negativamente il nostro giro d’affari, le condizioni finanziarie e il risultato delle operazioni”

Privacy Shield e l’accordo non ancora raggiunto 

Gli accordi tra Meta ed UE circa il trasferimento dati sono stati regolati prima dal Safe Harboursottoscritto nel 2000 e bocciato dalla Corte di Giustizia europea nel 2015 con la sentenza Schrems e poi dalla Privacy Shield, accordo approvato nel 2016. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, però, nel luglio del 2020 ha dichiarato invalida la decisione 2016/1250 della Commissione europea sull’adeguatezza della protezione offerta dal regime dello scudo UE-USA per la privacy , in quanto non sembrava garantire sui dati europei tutele sufficienti, alla luce del Gdpr, nei confronti dei programmi di sorveglianza del Governo Usa svelati da Edward Snowden.

Da quel momento Usa ed UE stanno negoziando una nuova versione, ma Meta teme che le disposizioni di un nuovo accordo possano limitarne la capacità di trasferire i dati e usarli per fare pubblicità mirata. Nick Clegg, vicepresidente dell’azienda per gli affari globali, al quotidiano finanziario londinese CityAM ha spiegato:

“Esortiamo le autorità di regolamentazione ad adottare un approccio proporzionato e pragmatico, per ridurre al minimo le interruzioni per le molte migliaia di aziende che, come Facebook, si sono affidate in buona fede a questi meccanismi per trasferire i dati in modo sicuro”.

L’intervento dell’Europa

L’Unione Europea non ha tardato a fornire la propria versione dei fatti: “L’Ue stabilisce la sua legislazione tenendo conto dei nostri valori, degli interessi dei consumatori e dei cittadini” ha riferito il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer. L’Ue tiene “ovviamente conto dei punti di vista espressi dagli operatori economici, ma agisce autonomamente quando deve stabilire i suoi regolamenti”.

L’annuncio di una probabile interruzione di alcuni servizi in Europa appare più un tentativo volto ad accelerare e pressare la stipula di un accordo tra le parti facendo leva su milioni di utenti che quotidianamente vivono e guadagnano tramite le piattaforme, piuttosto che una seria quanto definitiva decisione. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi tempi, delle perdite economiche che Meta sta registrando e della volontà di stabilire in Europa una sede che contribuisca allo sviluppo del Metaverso, abbandonare una importante fetta di mercato metterebbe ulteriormente in crisi il colosso di Zuckerberg.

Elidia Trifirò 

Il Garante della Privacy ai giovani: l’identità personale non è merce di scambio

Si è svolto ieri, in diretta sul canale Youtube di Gazzetta del Sud, il webinar dal tema “I diritti dei minori e la rete: opportunità e rischi”, promosso da Società Editrice Sud con l’Università degli Studi di Messina e l’associazione degli ex allievi AluMnime nell’ambito della GDS Academy del progetto “Gazzetta del Sud in classe con Noi Magazine”.

L’iniziativa è stata presa in vista del 20 novembre, data in cui ricorre la Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Fondamentale è stata la presenza dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, presieduta dal prof. Pasquale Stanzione e rappresentata dall’avv. prof. Guido Scorza.

Il webinar è stato moderato dalla dott.ssa Natalia La Rosa (Responsabile dell’Inserto Noi Magazine), con la partecipazione del direttore del dipartimento di Giurisprudenza, prof. Franco Astone, e del vicedirettore del DICAM, prof. Giuseppe Ucciardello, oltre che dal prof. Francesco La Pira (Delegato del Rettore alla Comunicazione dell’Università di Messina e professore associato di Sociologia), dal dott. Lino Morgante, presidente della Società Editrice Sud e dalla presidentessa di AluMnime, prof.ssa Vittoria Calabrò.

I diritti dei più giovani: una scommessa per il Garante per la privacy

“È una tempesta perfetta”, ha affermato l’avv. Scorza, “Ed una scommessa che consiste nell’identificare la rotta per trarre in porto la barca, rappresentata dai diritti dei più giovani”.

Ma il rischio di ritrovarsi in acque agitate è sempre presente – questo, l’Autorità Garante, lo sa bene. Poi tuona: bisogna prendere coscienza che la rete non è stata fatta per i ragazzi, ma è inevitabilmente giunta nelle loro mani solo per dinamica commerciale. E, tra i vari punti problematici che sono stati esaminati dall’avvocato, emerge anche la riflessione su come la persona su internet sia, al contempo, fruitore produttore di contenuti. Con pieghe ancor più cupe: vittima e carnefice. Ciò implica una maggiore conoscenza dei nostri interessi da parte del produttore, quindi una maggiore tendenza a lasciarci convincere. Se questa implicazione è problematica già per un adulto, basti pensare che un minore non ha le stesse capacità di decodificare un tale meccanismo d’induzione.

(fonte: redattoresociale.it)

Il prezzo che tutti sono costretti a pagare è, quindi, quello della vendita dei propri dati personali.

Così si convincono i giovani che l’identità personale sia merce di scambio

Ha affermato poi l’avv. Scorza: se le Autorità Garanti in tutta Europa si chiedono se sia lecito per un adulto, sono tuttavia d’accordo sull’escludere tale possibilità per un minore.

“Opportunità e rischi: due termini dalla valenza antinomica che rispecchia la realtà complessa dell’ambiente digitale”, ha affermato il prof. Giuseppe Ucciardello nel proprio intervento, per poi continuare:

Ma come costruire ambienti digitali su misura per i minori?

Una risposta dal Garante per la protezione dei dati personali

Secondo l’avv. Scorza, una prima soluzione consisterebbe nel basarsi sul c.d. principio del “Children First”, che prevede che la progettazione di nuove piattaforme si adatti anche alle esigenze dei minori; successivamente, una più efficace age verification, ossia un controllo effettivo sull’età dell’utente.

“La Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, all’articolo 17, sottolinea il ruolo importante nel percorso di crescita dei mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, ma anche la necessità di direttive volte a proteggere i più piccoli da ciò che nuoce al loro benessere. Cosa pensa di quanto accaduto a Treviso, ove un ragazzo è stato picchiato dai coetanei ispirati dalla serie tv targata Netflix Squid Game?”

“Netflix è una delle piattaforme che si presentano come praterie attraversabili liberamente da ragazzi di ogni età, ma in realtà fa poco per scongiurare il rischio che un contenuto non destinato ad un pubblico minore lo raggiunga. Credo che ci sia una responsabilità condivisa tra i gestori di quelle piattaforme – che dovrebbero maturare un’abilità a misurare gli impatti dei contenuti che diffondono sul pubblico reale e non su quello atteso (non basta scrivere che un dato contenuto sia riservato ad una certa fascia di età). Si tratta di una responsabilità importante anche per le famiglie. Nell’ultimo anno abbiamo assistito a genitori che non si rendono conto della circostanza che nella dimensione digitale non tutto sia per tutti.”

(fonte: das.it)

 

“Spesso ed anche di recente (basti pensare alle cronache sulle vicende afghane) abbiamo assistito a situazioni in cui non si è tenuto conto dei diritti dei più piccoli. Il Garante per la privacy come può intervenire per salvaguardare ragazzi che spesso sono senza identità (e che apparentemente non hanno una tutela) da una comunicazione anche – e soprattutto – social non sempre rispettosa?”

“Il Garante può e prova ad intervenire di frequente. Ieri è intervenuta sulla pubblicazione diffusa su molti media delle immagini del bambino ucciso dal padre in provincia di Viterbo. Naturalmente lo fa in tutti i contesti in cui i dati dei minori sia utilizzata, sfruttata dai soggetti professionisti e non professionisti a caccia solo ed esclusivamente di click, di giochi sulle emozioni degli utenti. Tuttavia non basta l’enforcement delle regole da parte dell’autorità: abbiamo l’obbligo di provare a far di più, ma fin quando non riusciremo a diffondere un’educazione capillare sui diritti fondamentali – primo tra tutti quello alla privacy – dubito che avremo successo”.

Il webinar si inserisce in un ciclo di seminari ed attività promosse dalla Società Editrice Sud a favore degli studenti delle scuole di Sicilia e Calabria.

Valeria Bonaccorso

 

 

Apple ha fatto perdere miliardi di dollari a Facebook e altre piattaforme

Il nuovo sistema ATT rende più difficile tracciare gli utenti e mostrare loro annunci pubblicitari personalizzati

Secondo un’analisi realizzata dall’azienda di pubblicità online Lotame, poi ripresa dal Financial Times, dal mese di aprile 2021, Apple ha fatto perdere miliardi di dollari in ricavi a Facebook e ad altre piattaforme come Snapchat, Twitter e YouTube. Il tutto a causa dell’introduzione di un nuovo sistema, l’App Tracking Transparency (ATT). Questa nuova funzionalità permette agli utenti iOS di bloccare il tracciamento delle app di terze parti durante l’utilizzo delle applicazioni, con la conseguente impossibilità di mostrare loro gli annunci pubblicitari personalizzati solitamente più redditizi per le aziende.

Tim Cook, ceo di Apple  (fonte: iphoneitalia.com)

Cos’è l’ATT e perché è stato introdotto

La Apple con l’aggiornamento iOS 14.5, nell’aprile 2021, ha introdotto il suddetto ATT, una nuova funzionalità del sistema operativo che assicura nuovi criteri di privacy. L’App Tracking Transparency prevede che ogni applicazione consenta agli utenti di scegliere tra la possibilità di essere tracciati o meno, in modo da ricevere annunci pubblicitari personalizzati oppure generici. Una volta aggiornato il sistema operativo, le applicazioni quindi potranno ottenere i dati degli utenti solo previa autorizzazione, richiesta tramite notifica all’apertura dell’app.

“Privacy. This is iPhone”

Gli effetti dell’ATT, gli utenti non vogliono essere tracciati

Una scelta totalmente in controtendenza rispetto a quella di alcune tra i giganti dell’high tech, tra cui Facebook, i cui introiti derivano in gran parte dalle aziende che decidono di fare pubblicità sulla piattaforma. Come riporta il Financial Times, in seguito al nuovo aggiornamento, molti inserzionisti hanno ridotto i propri investimenti pubblicitari dirottandone i rimanenti verso Android, le cui regole sulla privacy sono diverse. Nonostante la scelta della Apple sia stata criticata dai maggiori competitor, il comportamento adottato dagli utenti ha però dimostrato un certo grado di apprezzamento circa la nuova linea dell’azienda, confermando dunque l’effettiva utilità della nuova funzione.

Appena qualche settimana dopo il rilascio, i dati di Flurry Analysis riportavano che su un campionamento di 2,5 milioni di utenti iOS attivi ogni giorno negli Usa e di 5,3 milioni di utenti nel resto del mondo (Italia inclusa), solo il 4% degli utenti iPhone negli Usa e il 12% nel resto del mondo aveva scelto il monitoraggio delle app di terze parti.

Mark Zuckerberg, creatore di Facebook (fonte: Forbes Italia)

Quale piattaforma ne ha più risentito?

Secondo quanto riportato da The Verge, Gizmodo e Financial Times, le nuove policy adottate dalla società di Cupertino hanno comportato perdite miliardarie per i colossi del mondo del Web. YouTube, Facebook, Twitter e Snapchat avrebbero perso circa 9,85 miliardi di dollari nella seconda metà del 2021.

Facebook sembra essere la realtà più colpita in assoluto. Le app di Zuckerberg vantano un bacino di utenti più grande delle altre piattaforme. Inoltre, gli aumenti dei costì per gli annunci sul social network hanno indotto molti inserzionisti a ridurre i propri investimenti e dirottarli presso altre piattaforme più economiche, come Tik Tok. Il secondo gradino del podio lo occupa Snapchat in quanto dotato di un sistema fortemente incentrato sugli smartphone. Twitter, invece, sembra essere stato interessato poco dalla nuova policy. Questo perché l’app di Dorsey mostra gli annunci sulla base dei contenuti e non tiene conto delle abitudini di navigazione degli iscritti.

Elidia Trifirò 

I cookie: cosa sono e perché se ne parla tanto

Oggi, cercare risposte sul web è una pratica molto comune ed efficace, grazie alla quale è possibile reperire informazioni in pochi secondi. Come molti servizi e strumenti di uso comune anche il web, però, nasconde alcune insidie. Tra quelle attualmente più discusse vi è senza dubbio l’utilizzo dei cookie.

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Fonte immagine: https://www.cybersecurity360.it/legal/privacy-dati-personali/digital-advertising-e-consenso-ai-cookie-regole-operative/

Ma prima di tutto, cosa sono i cookie?

I cookie non sono altro che delle piccole quantità di informazioni. I server a cui ci colleghiamo le inviano al nostro browser (il programma con cui cerchiamo su internet) e vengono conseguentemente memorizzate nel computer. Al successivo avvio, il browser potrà recuperare questi dati, salvati localmente e migliorare le prestazioni e l’esperienza d’uso di un sito web. Sono proprio i cookie che ci permettono, ad esempio, di non dover reinserire le credenziali di accesso ad un account o di ritrovare degli articoli che abbiamo inserito nel carrello di un e-commerce. O ancora di salvare le preferenze grafiche o linguistiche di una pagina online.

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I primi vengono creati durante la navigazione e possono raccogliere dati riguardanti le ricerche o i siti web visitati, ma una volta chiuso il browser vengono distrutti. I secondi, quelli che suscitano più clamore, permangono invece anche dopo la chiusura. Una volta fatta questa distinzione, risulta evidente il motivo per il quale i cookie accendano molti dibattiti.
I persistenti sono proprio quelli, come detto prima, che ci permettono di salvare delle credenziali di accesso ad un sito web, proprio perché questi dati rimangono salvati permanentemente (a meno di una cancellazione manuale) nel computer. Ovviamente, questo tipo di cookie non salva solamente dati di accesso, ma anche molte informazioni sulle nostre ricerche internamente ad un sito o direttamente sul motore di ricerca, causando un piccolo danno alla nostra privacy.
Ecco spiegato perché aprendo una pagina web troviamo delle pubblicità su un prodotto cercato il giorno precedente su un altro sito!

Dunque i cookie possono rappresentare un pericolo per la nostra sicurezza?

Fonte immagine: https://www.ricciardivince.it/generatori-automatici-privacy-policy-cookie-policy/

È difficile dare una risposta a questa domanda e, anche se quest’ultima fosse affermativa, non dovrebbe sconvolgerci. Infatti, sono già tanti i mezzi con cui possiamo essere “spiati” e dunque i cookie non sarebbero altro che un piccolo pezzo in più in questo grande puzzle di tracciamento informativo.
Quindi, i nostri movimenti, nella maggior parte dei casi, vengono ispezionati da computer (difficilmente da persone) al fine di mostrare delle pubblicità mirate che possano spingere gli utenti a fare acquisti. Il problema nasce quando dei malintenzionati riescono a penetrare tutte le barriere di sicurezza e accedere tramite i cookie ai dati sensibili degli utenti compromettendoli. Anche questo però è un film già visto che avviene anche in migliaia di altri metodi. Le grandi discussioni sulla legittimità dei cookie hanno però spinto le autorità a regolamentarne l’uso, come previsto dal GDPR (General Data Protection Regulation), obbligando i siti a chiedere il permesso d’utilizzo agli utenti.

Che succede se decido di non accettare i cookie?

Fondamentalmente niente. Le uniche conseguenze possono riguardare qualche leggero malfunzionamento di alcune funzioni automatiche come quelle già citate ad inizio articolo causando semplicemente un po’ di noia in più per l’utente. Quindi, se vogliamo toglierci qualsiasi dubbio, possiamo tranquillamente rifiutarci di accettare i cookie, impedendo, seppur in parte, il tracciamento.
Tirando un po’ le somme, i cookie sono diventati uno strumento pervasivo di raccolta dati al fine perlopiù pubblicitario, che però in mani sbagliate può causare problemi alla sicurezza degli utenti.

Fonte: https://www.mr-loto.it/2020/banner-cookie-wordpress-senza-plugin.html

Dunque sta un po’ nel singolo decidere se evitare qualsiasi forma di salvataggio dati e quindi di utilizzo di qualche funzione più comoda. Oppure se navigare tranquillamente, consapevole però che, anche se con una probabilità molto remota, alcune informazioni salvate potrebbero causare problemi per la propria sicurezza.
Per tranquillizzare un po’ tutti, può essere utile ricordare che ogni browser permette la cancellazione dei cookie manualmente oppure l’impostazione di un automatismo che la esegue ad ogni chiusura del programma.

Giovanni Lombardo

WhatsApp: modifiche sulla privacy e scatta l’allarme. Ecco perchè possiamo stare tranquilli

A partire dal 7 gennaio, moltissimi utenti di WhatsApp hanno cominciato a ricevere sui loro cellulari, all’apertura dell’app, un avviso che recita: «WhatsApp sta aggiornando i propri termini e l’informativa sulla privacy». E ancora: «Toccando “accetto”, accetti i nuovi termini e l’informativa sulla privacy, che entreranno in vigore l’8 febbraio 2021. Dopo questa data, dovrai accettare questi aggiornamenti per continuare a utilizzare WhatsApp. Puoi anche visitare il centro assistenza se preferisci eliminare il tuo account e desideri ulteriori informazioni».

L’avviso potrà inizialmente essere accantonato, per poi riapparire ad un’apertura successiva, dicendo chiaramente che chi non accetta non potrà più usare WhatsApp a partire proprio dall’8 febbraio.

(fonte: DDay.it)

Il complottismo generato

Sicuramente se fate uso della piattaforma social più popolare al mondo, questo avviso lo avrete già ricevuto, avviso che ha creato un po’ di preoccupazione su cosa possa succedere a chi usa WhatsApp, dato soprattutto dal fatto che viviamo in un periodo dove il complottismo e la paura di essere controllati da “entità superiori” dilagano indisturbate. Anche perché quel “dopo tale data dovrai accettare i termini per continuare a usare WhatsApp” ha scatenato tutta una serie di reazioni.

Addirittura, alcuni siti e pseudo-siti di news, anche in Italia, hanno scritto che Facebook, che possiede WhatsApp, si starebbe preparando a gravi violazioni della privacy degli utenti.

Quella comunicata a tutti i suoi due miliardi di utenti tramite questo avviso è semplicemente una modifica contrattuale unilaterale dei termini e delle condizioni di servizio, una cosa che succede spesso, con le piattaforme online gestite da società private. Il reale punto d’interesse riguarda l’interazione che WhatsApp vuole, e può, avere con Facebook, altra applicazione posseduta da Mark Zuckerberg a partire dal febbraio del 2014, quando stessa Facebook ha acquistato, per una cifra vicina ai 19 miliardi di dollari, WhatsApp; da quella data è sempre stato nell’interesse di Zuckerberg favorire l’interazione fra le due app.

Tuttavia, poiché negli ultimi mesi, proprio questa interazione, è stata oggetto di controllo da parte di regolatori di mezzo mondo, si è reso necessario l’aggiornamento e l’avviso da parte di WhatsApp. In quanto questo aggiornamento mira proprio a tutelare Facebook che continuerà a usare i dati in arrivo dall’app di messaggistica istantanea, e a condividerli anche con Messenger e Instagram.

A ciò deve essere oltretutto aggiunto, a prescindere dal parere personale su tale modifica, che in Italia (e nel resto d’Europa) questo aggiornamento non avrà effetti.

Da questa situazione hanno tratto vantaggio aziende rivali come Signal e Telegram: la prima è un’app di messaggistica concorrente molto rispettosa della privacy, consigliata anche dall’imprenditore americano Elon Musk, ed è balzata in cima alle classifiche delle app più scaricate; la seconda ha registrato 25 milioni di nuovi utenti nelle ultime 72 ore (dati dichiarati dallo stesso fondatore Pavel Durov)

Pavel Durov, ceo di Telegram
Pavel Durov, ceo di Telegram (fonte: MobileWorld)

Differenze tra USA e UE

Negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo, ad eccezione dell’Europa, i nuovi termini di cui WhatsApp chiede l’approvazione prevedono che il servizio di messaggistica intende rendere obbligatoria la condivisione di alcuni dati dei suoi utenti con Facebook per scopi commerciali al fine di migliorare l’esperienza utente. Questo significa che tra i dati che Facebook utilizza per mostrare pubblicità personalizzata ce ne saranno anche alcuni che provengono da WhatsApp, tra cui per esempio il numero di cellulare, la rubrica dei contatti, i messaggi di stato ed altre informazioni.

Questo tipo di condivisione esisteva già prima, ma si poteva escludere; ora sarà obbligatoria.

In Europa invece, le modifiche che hanno fatto preoccupare molti utenti americani, compreso Elon Musk, come già detto, non valgono.

Questo è dato da due nette differenze:

  • i due enti che gestiscono sono differenti: WhatsApp Ireland per gli utenti europei e WhatsApp Inc per il resto del mondo.
  • i cittadini dell’UE sono protetti dal GDPR, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali entrato in vigore nel 2018, che è una delle leggi sulla privacy più avanzate del mondo, a cui sia Facebook che WhatsApp devono sottostare.

Basta mettere a confronto l’avviso che WhatsApp ha mandato agli utenti internazionali e quello degli utenti europei: nel secondo manca un punto, quello legato appunto alla condivisione dei dati con Facebook.

(fonte: Screensite)

Come chiarisce un portavoce di WhatsApp, «non ci sono modifiche alle modalità di condivisione dei dati di Whatsapp nella Regione europea, incluso il Regno Unito, derivanti dall’aggiornamento dei Termini di servizio e dall’Informativa sulla privacy. Non condividiamo i dati degli utenti dell’area europea con Facebook allo scopo di consentire a Facebook di utilizzare tali dati per migliorare i propri prodotti o le proprie pubblicità». Quindi, se mai un giorno WhatsApp volesse condividere i dati degli utenti europei, dovrebbe trovare un accordo col regolatore europeo.

La sicurezza di WhatsApp

WhatsApp non legge e non usa informazioni provenienti dalle chat degli utenti, né negli Stati Uniti né in Europa né in nessuna parte del mondo. A partire dal 2014, infatti, WhatsApp ha applicato alle sue chat un sistema di protezione chiamato crittografia end-to-end che rende i contenuti delle chat inaccessibili a chiunque non sia il mittente o il destinatario. Quindi WhatsApp, anche volendo, non potrebbe accedere alle chat dei suoi utenti.

Bisogna comunque dire che anche in Europa, WhatsApp condivide con Facebook alcuni dati degli utenti: ma lo fa da anni. La differenza principale con il resto del mondo è che in Europa non può farlo per scopi commerciali o di marketing, ma soltanto per scopi tecnici e di sicurezza.

Insomma, se vivete nell’Unione Europea e non eravate preoccupati per WhatsApp prima, non ci sono ragioni per esserlo adesso.

Manuel de Vita

Caso TikTok: origini, sviluppi e controversie. Tutto quello che c’è da sapere

TikTok è un social network cinese nato nel 2016.
Le sue origini, tuttavia, risalgono al 2014, quando viene lanciata la prima versione di musical.ly.

In seguito il servizio è stato acquisito dalla compagnia, sempre cinese, chiamata ByteDance.
In questo modo cambia la gestione del servizio: il nome sarà TikTok per il mercato mondiale, mentre per il mercato cinese prenderà il nome di Douyin.
Douyin è la versione cinese di TikTok, in linea con le disposizioni e le regole imposte dal governo cinese.

La risposta indiana

Nel 2019 era stato chiesto al governo indiano di vietare l’app, con le seguenti motivazioni: “incoraggia la pornografia” e mostra “contenuti inappropriati”.
TikTok era stata vietata dall’India, nonostante la rimozione da parte di Byte Dance di oltre 6 milioni di video che violavano le loro norme e linee guida sui contenuti.
Pochi giorni dopo il divieto è stato revocato a seguito di un appello dello sviluppatore.

La questione si è riaperta lo scorso giugno, quando TikTok insieme ad altre 58 app cinesi viene bandita a tempo indeterminato. La motivazione è di ordine politico: l’app infatti rappresenterebbe una minaccia alla sovranità e alle questioni di politica interna.

Le prime controversie

I primi dubbi sulla sicurezza dell’app sono sollevati dal famoso gruppo di hacktivisti Anonymous.
Questi infatti invitano, in un loro tweet, a “Cancellate TikTok in questo stesso momento” perchè si tratta di “una colossale operazione di sorveglianza di massa.”

L’accusa pare essere fondata da un’analisi concreta dei dati: un utente di reddit avrebbe infatti compiuto un’analisi con reverse-engineering dell’app, scoprendone i meccanismi.
Per gli addetti ai lavori, qui è possibile leggere qualcosa.

La posizione degli Stati Uniti

Un prima dichiarazione, dopo gli sviluppi di cui sopra, proviene dal segretario di Stato americano Mike Pompeo. Lo scorso luglio aveva infatti dichiarato che il governo stava valutando la possibilità di vietare TikTok.
La motivazione: acquisizione dei dati dei cittadini americani non autorizzata e in server cinesi.

A quel punto la famosa app poteva salvarsi solo con un processo di acquisizione da parte di una società molto americana. Questo infatti era l’unico modo per evitare il ban dagli USA.

Microsoft si era fatta avanti, intraprendendo le trattative.
In un primo momento ByteDance cercava di mantenere una partecipazione di minoranza ma in seguito aveva accettato di cedere TikTok a titolo definitivo.
Il primo accordo prevedeva che in caso di acquisizione, Microsoft sarebbe stata l’unica autorizzata nella gestione dei dati.

Nel frattempo, il 14 agosto scorso, Trump concede a ByteDance 90 giorni per vendere TikTok negli Stati Uniti, pur rimanendo diffidente nei confronti della società cinese.

Il 13 settembre Microsoft annuncia, in un comunicato ufficiale, che ByteDance non avrebbe venduto loro TikTok.

https://blogs.microsoft.com/blog/2020/09/13/microsoft-statement-on-tiktok/

Gli ultimi sviluppi

È recente l’annuncio del presidente Trump circa il divieto di WeChat e TikTok dal territorio americano.
A partire da domani, le due app saranno rimosse dagli app store e non sarà più possibile compiere operazioni di pagamento con le stesse.

Per TikTok tuttavia le restrizioni partiranno dal 12 novembre, in quanto è attualmente in corso una trattativa con la società americana Oracle.
Fino a quel momento non sarà possibile aggiornare l’app, ma chi la possedeva già potrà continuare ad usarla.

Angela Cucinotta