Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Pride month con UVM: Chiamami col tuo nome

Storia commovente e interpretazione notevole da parte degli attori, ma il film non raggiunge i livelli del libro – Voto UVM: 4/5

Come ormai quasi tutti sappiamo, giugno è il Pride Month. Noi di Universome vogliamo celebrarlo attraverso una delle storie d’amore moderne più note: stiamo parlando di Chiamami col tuo nome! Uscito nelle sale nel 2017, il film diretto da Luca Guadagnino è un adattamento cinematografico dell’omonimo libro pubblicato da André Aciman nel 2007.

Il film

Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio (Oliver)

Chiamami col tuo nome è stato acclamato dalla critica cinematografica: ha vinto diversi premi tra cui anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale a James Ivory.

Ma ciò che rende la pellicola così unica e coinvolgente è la perfetta interpretazione dei due protagonisti Elio e Oliver da parte degli attori Timothée Chalamet (anche candidato per l’Oscar come miglior attore protagonista) ed Armie Hammer. I due riescono a identificarsi a pieno con i personaggi descritti nel libro, che in questo modo viene riadattato nella maniera più fedele possibile.

Elio ed Oliver in una scena del film –  Fonte: cinematographe.it

In ogni caso non è neanche da sottovalutare la cura di tutti i particolari, specialmente i luoghi e gli ambienti in cui il film è stato girato: questi, infatti, creano un’atmosfera quasi surreale.

Il film (come anche l’omonimo libro) racconta il legame speciale che si viene a creare tra Elio, ragazzo molto introverso di diciassette anni, figlio di un importane professore di archeologia, e Oliver, studente bello e affascinante di ventiquattro anni, durante l’estate nelle campagne del nord Italia. Inizialmente il rapporto tra i due è molto freddo e distaccato, ma passando molto tempo insieme i due si avvicinano sempre di più, fino a creare una relazione passionale inscindibile.

I personaggi

Il protagonista Elio (Timothée Chalamet)- Fonte: mymovies.it

Elio è diverso dai ragazzi della sua età: trascorre i mesi estivi a suonare il piano, leggere e nuotare. E’ molto solitario, l’unica persona a cui appare molto legato è Marzia, ragazza segretamente innamorata di lui.

Oliver, invece, è diverso da Elio tanto fisicamente quanto caratterialmente: attraente e sicuro di sé, inizialmente appare agli occhi di Elio arrogante e menefreghista con i suoi “dopo”. Solo in un secondo momento questa si mostrerà essere solo una corazza che nasconde una persona totalmente differente.

 Strappiamo via così tanto di noi per guarire in fretta dalle ferite, che finiamo in bancarotta già a trent’anni e abbiamo meno da offrire ogni volta che troviamo una persona nuova. Ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa, che spreco! (Samuel Perlman)

Un altro personaggio che a mio parere spicca soprattutto alla fine del film (non vi preoccupate, nessuno spoiler!) è Samuel Perlman, padre di Elio, interpretato dall’attore Michael Stuhlbarg.

Il libro

Il film di Guadagnino – come abbiamo già detto – è tratto dal romanzo di Aciman; per quanto il regista sia rimasto il più fedele possibile alla storia originale, a mio parere il libro è migliore del film (come spesso accade per molti adattamenti cinematografici).

La vera differenza sta nel fatto che nell’opera di Aciman la storia viene raccontata tutta in prima persona da Elio, in questo modo si riesce a conoscere meglio il personaggio e il suo punto di vista; invece nel film si ha una narrazione pressoché impersonale e questo, a mio avviso, rende la narrazione più lenta e meno avvincente del libro. Inoltre il linguaggio molto descrittivo del romanzo rende possibile al lettore immergersi al meglio nella storia.

Cercami

Lo scrittore André Aciman e la copertina di “Cercami”- Fonte: ilLibraio.it

Nel 2019 esce il sequel del libro Chiamami col tuo nome, Cercami: questo si concentra molto anche sul personaggio del padre di Elio, che (come abbiamo già detto sopra) inizia ad emergere nel finale del primo romanzo, continuando comunque anche a narrare le vicende di Elio e di Oliver.

Ad ogni modo non si avrà un secondo film: per via delle varie accuse mosse all’attore Armie Hammer per stupro e cannibalismo e poiché impegnato in altri progetti, il regista Luca Guadagnino ha affermato in un’intervista che almeno per il momento non si impegnerà in un adattamento cinematografico.

La storia di Chiamami col tuo nome, a differenza di molte altre, non tratta direttamente la lotta per i diritti della comunità LGBT+. Qui si racconta solamente dell’amore che lega per sempre due ragazzi apparentemente molto diversi, perché, in fin dei conti è questo ciò che conta veramente: love is love.

Ilaria Denaro

Amor Vincit Omnia: 51 anni di bandiere arcobaleno

Quando si pensa al mondo LGBTQ+, si pensa subito alle bandiere arcobaleno e alle proteste ma, dai Moti di Stonewall del 1969 all’attuale genitore 1 – genitore 2 , ne è passato di tempo.

Oggi come allora, si festeggia il Pride Month: evento affascinante ma ricco di valori che, con le sue parate in giro per il mondo, vernicia di mille colori le critiche e i pregiudizi rispettando la regola del “ridere di ogni problema, mentre chi odia trema”.

Fonte: Wired

Ed è a modo nostro che vogliamo ricordare e celebrare questo giorno e per farlo abbiamo selezionato tre tra documentari, serie tv e film più significativi – in una marea di possibilità –  e fidatevi, ce n’è per tutti i gusti!

The Death and Life of Marsha P. Johnson

Marsha P. Johnson è stata un’attivista per i diritti LGBTQ+ la cui storia è parte fondamentale dello sviluppo della comunità, a tal punto da essere vista come un’icona dei Moti di Stonewall.

Ci verrà raccontata in un documentario, diretto da David France e disponibile su Netflix.

Fonte: serial-escape.com – locandina ufficiale

La sua storia è esposta in modo originale, raccontata tramite la figura dell’investigatrice Victoria Cruz, un’ attivista transgender che ha dedicato tutta la sua vita alla comunità LGBTQ+, applicandosi alla prevenzione della violenza. Nel documentario, Victoria, ormai prossima alla pensione si propone di risolvere un ultimo caso: l’enigmatica morte di Marsha il cui corpo venne trovato nel fiume Hudson nel 1992.

La stessa Cruz, la definì come «la Rosa Parks della nostra comunità» volendo sottolinearne la forza e l’importanza delle sue azioni per il mondo LGBTQ+. In un’ora e quarantacinque minuti pieni di storia e di realtà, non potevano mancare la denuncia alla violenza e ai soprusi nei confronti delle persone di colore e dei “diversi” in generale, condizioni molto in voga nell’America degli anni sessanta (e di adesso).

Con l’obiettivo di mantenere viva la memoria di Marsha, France ci propone uno spunto di riflessione e al contempo una forma di intrattenimento diversa dal solito.

Pride, Matthew Warchus (2014)

Il film Pride, diretto da Matthew Warchus (e disponibile su Amazon Prime Video) è basato su un’ incredibile storia vera.

Fonte: cinema.everyeye.it – rivolta

Ambientato nel 1984, racconta di un gruppo di giovani attivisti londinesi, capitanati da Mark Ashton, che decidono di impegnarsi a raccogliere fondi per sostenere uno sciopero indetto dai minatori Gallesi. Questi, infatti, si stavano ribellando al governo di Margaret Tatcher, che aveva imposto la chiusura dei loro posti di lavoro.

Sebbene – apparentemente la causa dei minatori non trovi punti di incontro con la comunità LGBTQ+, ben presto risulterà evidente come la battaglia dei due gruppi fosse una rivolta all’intolleranza della società di quegli anni.

Questo film mostra come possa nascere un inaspettato rapporto di amicizia e di stima reciproca anche tra persone che hanno idee diverse e che sembrano combattere per obiettivi diametralmente opposti ai nostri;  ci pone davanti a delle tematiche importanti: dai diritti civili alla paura dell’AIDS, fino alla ricerca della rivoluzione.

È così ricco di momenti suggestivi e di significati che stenterete a credere che sia una storia vera!

Sense8

Sense8, uno dei gioielli della grande N, è una serie tv che ha riscosso un successo clamoroso e che nei suoi ventiquattro episodi (più un extra) esaspera il concetto di empatia, introducendo i sensate. Gli otto protagonisti infatti, avranno la possibilità di una connessione interumana e vivranno esperienze ed emozioni oltre i confini (anche geograficamente parlando), senza pregiudizi e con un pizzico – o forse più – di fantascienza.

Ma nel contesto dei mille colori della sceneggiatura, spicca Nomi: sensate che mostra sin da subito il suo essere forte e brillante; è una donna transgender che si trova a vivere in un contesto familiare e sociale non pronto a lei e al suo amore.

Fonte: telefilmaddicted.com – Nomi e Amanita

La tenacia del personaggio è così coinvolgente da realizzare una connessione con gli spettatori (di qualsiasi orientamento e ideologia), e questa verrà espressa in dei monologhi che mostrano come combattere la sofferenza e i giudizi altrui : anche se ti reputano come  «qualcosa da evitare, forse anche da compatire, qualcosa che non si deve amare»  non vale la pena pensare che sia la verità, nemmeno per un momento.

È questo che Nomi ci insegna e se quello che vuole sarà un lieto fine, lo avrà.

Ma perché ci siamo innamorati di lei? Perchè l’interprete, la bellissima Jamie Clayton, donna transgender e attivista per i diritti LGBTQ+ mette se stessa nel personaggio.

Sapete qual è la cosa migliore? Che noi siamo li a guardarla vincere.

 

Quella tra il 27 e il 28 giugno è stata la notte del primo pride della storia. E se al giorno d’oggi, ogni mese di giugno, celebriamo il mese dell’orgoglio, lo dobbiamo a quella notte, alla prima rivolta. Come disse il maestro De Andrè:

Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale

Barbara Granata e Valentina Tripepi