Sylvia Plath: la voce nella tormenta

Sono passati sessant’anni dalla tragica morte della poetessa dall’anima di cristallo, Sylvia Plath, divenuta simbolo di ribellione femminista e pilastro della cultura letteraria americana.

Addentriamoci e ripercorriamo la vita, la poetica e l’arte del genio Plath, rendendo omaggio alla bell’anima senza tempo che continuerà a farci riflettere ed emozionare con i suoi scritti.

Io sono, io sono, io sono…

La poetessa di Boston nasce in un distretto della città da genitori immigrati tedeschi il 27 ottobre 1932. Dal talento precoce, pubblica la sua prima poesia a soli 8 anni, anno in cui perde il padre a causa delle complicazioni dovute al diabete diagnosticato tardi. Questo lutto segnerà l’anima della piccola Sylvia, che in futuro scriverà proprio una poesia dedicata al padre, caricandola di tutto l’odio e dolore che questa perdita comportò per lei.

Papà, ammazzarti avrei dovuto, Tirasti le cuoia prima che ci riuscissi.

Continuò a cercare di far pubblicare le sue poesie, riuscendo ad ottenere un successo marginale, in questo periodo cominciano i suoi gravi disturbi depressivi che l’accompagneranno per tutta la sua vita. Nel 1950, entra a studiare allo Smith College ma, al penultimo anno della sua carriera universitaria, tenta per la prima volta il suicidio. Questa esperienza verrà raccontata nel suo romanzo semi-autobiografico, La campana di Vetro (1963).

Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice ma trainata passivamente

Dopo il tentato suicidio venne ricoverata presso l’istituto psichiatrico Mclean Hospital, dove incontrò la psichiatra che la seguirà per tutta la vita, la dott.ssa Beuscher. Successivamente ottenne una borsa di studio Fullbright per l’università di Cambridge (Inghilterra).

Ogni donna adora un fascista

Fu proprio a Cambridge che conobbe il suo futuro marito, il poeta inglese Ted Hughes, la cui burrascosa storia venne raccontata nei Diari. Dopo gli studi, la giovane coppia visse per due anni negli Stati Uniti, dove la Plath insegnò allo Smith College. Fare l’insegnante le assorbiva tempo ed energie, tanto da non lasciarle il tempo per scrivere, che era la vera ed unica aspirazione di Sylvia.

Voglio scrivere perché sento il bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione ed espressione della vita

Abbandonato il posto da insegnante, optò per un lavoro part-time come receptionist nel reparto psichiatrico del Massachusetts General Hospital. Questa esperienza la portò a scrivere uno dei suoi racconti più famosi, “Johnny Panic and The Bible of Dreams” Ritornati a Boston, la Plath partecipò ai seminari di scrittura creativa di Robert Lowell, che ebbe una profonda influenza sul suo stile e conobbe quella che fu la sua più grande eterna amica/rivale Anne Sexton.

 

Sylvia Plath e il marito Ted Hughes. Fonte: pangea.news

Io sono nevrotica all’ennesima potenza

Alla fine degli anni ’50, visse per un breve periodo alla famosa colonia per artisti Yaddo, in cui Sylvia iniziò a far uscire la sua vera voce poetica, scrivendo molte poesie che verranno contenute nella sua prima raccolta, Il Colosso (1960). Rimasta incinta, tornarono a Londra, luogo dove nacque la prima figlia Frieda Rebecca.

Altra data che comincia a segnare il definitivo declino della Plath, è il febbraio 1961. In seguito all’ennesimo episodio di violenza da parte del marito, subisce un aborto spontaneo, come la stessa Sylvia scrisse in una lettera al suo terapista e come verrà raccontato in più poesie. I coniugi si trasferiscono in campagna ma dopo la fine della relazione con Hughes, la Plath torna a Londra. In queste breve felice periodo, scrive innumerevoli poesie e completa la sua seconda raccolta, Ariel, pubblicata postuma e alterata dal marito nel 1965.

Solo nel 2004, la figlia diede alle stampe la versione originale.

Morire è un’arte, come ogni altra cosa… Ammetterete che ho la vocazione

La mancanza di soldi, la solitudine e la salute cagionevole dei figli spesso malati, segnarono la sua veloce ricaduta nell’oblio della depressione. Si consumò l’ultimo ed estremo gesto della tragica vita di Sylvia Plath. Dopo aver sigillato porte e finestre della cucina, inserì la testa nel forno a gas, lasciandosi morire.

Sylvia aveva lasciato pronta la colazione per i suoi bambini, aveva lasciato la loro finestra aperta, aveva lasciato un  biglietto con scritto il numero di telefono del medico e le parole: “Per favore chiamate il dottor Horder”. Questi segni portarono molti studiosi ad affermare che la Plath non aveva intenzione di uccidersi, ma era solo un’estrema richiesta di aiuto, purtroppo mal riuscita.

 

Sylvia Plath: la voce nella tormenta
Sylvia Plath sorridente al lago. Fonte: eroicafenice.com

Cosa ci resta di Sylvia Plath?

Ridurre Sylvia Plath a mero simbolo di angoscia femminile e leggere le sue opere solo nell’ottica della sofferenza, significa relegarla ancora una volta a tutti quei canoni che ella tentava di fuggire.

I suoi scritti parlano forte e chiaro, di lei e di chiunque riesca ad immedesimarsi nei suoi personaggi, creandosi e  ricreandosi infinite volte. La sua grande capacità di raccontarsi attraverso alter-ego mitici capaci di trascendere il tempo e lo spazio, portando il suo immaginario letterario in moltissime direzioni. Scriveva e sapeva scrivere, a prescindere dalla sua biografia, dall’esperienza dei disturbi mentali e dal suo vissuto di donna.

Sylvia Plath, ancora oggi, viene spesso semplificata sotto la lente ottica della disinformazione e della discriminazione sui temi sociali della malattia mentale e di genere. Eppure, ella è una figura ambivalente, simbolo di ribellione femminile dalla potente scrittura immaginifica, che la rende impossibile da definire in un solo senso. Sylvia Plath era insieme rabbia e rassegnazione, impossibilità e movimento, morte e  sopravvivenza. Nonostante le numerose limitazioni che dovette subire durante tutta la sua vita, in quanto donna affetta da disturbi mentali, non l’hanno fermata da raccontarci svariati mondi i cui limiti non esistono.

Forse è proprio questa la sua più grande eredità che ci ha lasciato e che non siamo pronti ad accogliere.

 

Gaetano Aspa

Maria Costa – ‘a Puitissa di Missina

«In Maria Costa la poesia nasce come bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune, come modo di rivivere con sofferenza il dolore degli uomini. Una scrittura poetica la sua come apertura al dialogo, come fiducia nella forza della parola che scava in profondità senza infingimenti o compiacimenti. Ciò fa sì che nella poetessa di Case Basse la parola poetica si faccia di volta in volta senso ritrovato di un’umanità che non conosce limiti, partecipazione sofferta e silenziosa alle ragioni degli altri».

Giuseppe Cavarra

 

Maria Costa è ‘a Puitissa di Missina, simbolo, emblema e “faro” della cultura peloritana.

Sin da giovane si dedica alla poesia, facendosi portavoce della memoria collettiva di quella che era una Messina distrutta nel profondo dal terremoto.

Vita

Un’attività di famiglia

«Nascia on ribba o mari, in ta na spiaggia ricca»

racconta Maria, in un’intervista condotta da Mario Sergio Tedesco,

«unni me maci e me paci un facianu autru chi varari e tirari barchi».

Maria viene infatti al mondo nel borgo marinaro di Case Basse, nel villaggio Paradiso, il 15 dicembre 1926. La sua è una famiglia di pescatori e il padre possiede un barcone, con il quale tutti i giorni trasporta materiali da costruzione.

Maria trascorre la sua intera vita in riva al mare, con lo sguardo rivolto allo Stretto e alla costa calabra e qui trova il nutrimento della sua anima e, con la crescita, la sua musa.

La poetessa è la penultima di otto fratelli e l’unica figlia femmina. Cresce di fatto in un ambiente prettamente maschile e nella sua famiglia non si è mai parlato di uncinetto, di punto Norvegia, di punto palestrina, ma di monachette, bombressi, pappafichi e griselli.

Il padre, conosciuto come Don Placido, duranti i crudi inverni, raduna i figli davanti al braciere e racconta loro storie e storie: “è una fonte inesauribile” nonché suo maestro e ispirazione.

Maria è accorata, enfatica; la passione le arde negli occhi e vibra nella sua voce. D’altronde,

 

«Si vede che lo avevo nel DNA il pallino della poesia».

Gli esordi

Durante la Seconda Guerra Mondiale, tre dei suoi fratelli vengono chiamati alle armi e uno di questi, mobilitato a Taranto, non manca mai di spedirle il corriere: “Giornali che parlano di poesia”, a detta sua.

Maria, però, capisce ben presto che quello che legge non sono affatto le poesie che ricercava.

Quei giornali raccontano, in realtà, di imprese spacciate per vittorie, che, per Maria, non sono altro che sonore tumpulate e, soprattutto, non un qualcosa che il suo animo da picciridda possa sopportare.

In pena, è proprio qui che inizia a scrivere e non cesserà mai di farlo per il resto della sua vita.

 

Maria Costa
Maria Costa
Fonte: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2019/02/maria-costa-copertina.jpg

 

La poesia

L’eredità linguistica a cui attingere

Maria Costa scrive in dialetto e canta delle tradizioni, degli usi e dei costumi della sua terra.

Sviluppa, infatti, una duplice attitudine di poetessa popolare e di portatrice attiva di uno sterminato patrimonio di memorie orali.

La poetessa dello Stretto risulta inoltre essere l’ultima depositaria del messinese pre-terremoto, appreso da lei direttamente e mai abbandonato fino alla sua scomparsa.

Il suo lessico, di fatto, è diventato negli anni, oggetto di studio di linguisti, antropologi, studiosi di tradizioni marinare, dialettologi e storici della letteratura popolare. Ad esso si è attinto anche per la redazione del Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto e diretto da Giovanni Tropea, edito a cura del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani.

 

Le opere

Duranti i suoi quasi novant’anni di vita e di attività letteraria, Maria Costa pubblica vari volumi di poesie. Fra questi ricordiamo Farfalle serali, Mosaico, A prova ‘ill’ovu, Cavaddu ‘i coppi, Scinnenti e muntanti, Ventu cavalèri, Mari e maretta e Àbbiru maistru.

In essi, l’autrice si fa sirena e, con aria mistica, rievoca i miti e le leggende del Mediterraneo, come Fata Morgana e Colapesce.

 

Colapisci

Colapisci è uno dei componimenti più conosciuti e belli della produzione di Maria Costa. Anch’esso in dialetto, contiene espressioni idiomatiche che difficilmente possono essere tradotte. Con la sua interpretazione avvincente, viene sostenuta, durante un convegno svoltosi a Castelmola, la tesi contraria alla costruzione del ponte sullo Stretto.

Qui di seguito un estratto:

‘U Re ‘llampau e ‘n ‘coppu i maretta
‘i sgarru ci sfilau la vigghetta.

Giovi, Nettunu, dissi a vuci china,
quantu fu latra sta ributtatina.
Oh Colapisci, scinni lupu ‘i mari
e vidi si mi la poi tu truvari!
Era cumprimentu dà rigina,
l’haiu a malaggurio e ruina.

E Colapisci, nuncenti, figghiu miu,
‘a facci sa fici ianca dù spirìu
dicennu: Maistà gran dignitari
mi raccumannu sulu ‘o Diu dù mari.
e tempu nenti fici a gira e vota
scutuliau a cuta e a lena sciota
tagghiau ‘i centru e centru a testa sutta
e si ‘ndirizzau pà culonna rutta.

Ciccava Colapisci ‘i tutti i lati
cu di mani russi Lazzariati,
ciccau comu potti ‘ntò funnali
ma i boddira ‘nchianavanu ‘ncanali.
‘U mari avia ‘a facci ‘i viddi ramu
e allura ‘u Re ci fici ‘stu richiamu:
Colapisci chi fai, dimurasti?
e a vint’una i cavaddi foru all’asti.

E Cola cecca e cecca ‘ntà lu strittu
‘st ‘aneddu fattu, ‘ntà l’anticu Agittu.
Sò matri, mischinedda ancora ‘u chiama
cà mani a janga e ‘ncori ‘na lama.
Ma Colapisci cecca e cicchirà
st’aneddu d’oru pi l’atennità.

 

I riconoscimenti

Negli anni, Maria Costa ottiene numerosi riconoscimenti, nazionali e internazionali: i premi Vann’Antò, Lisicon, Bizzeffi, Tindari, Colapesce, Poesia da contatto, Montalbano, Maria Messina e ultimo, ma non per importanza, il prestigioso Ignazio Buttitta.

Inoltre, il suo nome è iscritto nel registro dei Tesori Umani Viventi dell’Unesco e la sua abitazione, dopo il 7 settembre 2016, data della sua morte, è una Casa Museo e sede del Centro Studi Maria Costa.

 

Case Basse, Maria Costa
Centro Studi Maria Costa a Case Basse. Fonte: https://www.mestyle.it/wp-content/uploads/2021/09/foto-copertina-1-1160×655.jpeg

 

Su di lei sono stati realizzati innumerevoli documentari, da parte di registi italiani, giapponesi, tedeschi, e francesi e altrettanti sono gli articoli, studi, tesi universitarie e iniziative editoriali a lei dedicati.

 

Valeria Vella

 

* articolo pubblicato all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud il 02/02/2023

 

Fonti:

Maria Costa – Wikipedia

Maria Costa – YouTube

 

Poesie dai confini del mondo. Il soggiorno a Messina di Friedrich Nietzsche

“Alla fine del mese vado alla fine del mondo: se lei sapesse dov’è!”.

Sono queste le parole del filosofo e scrittore Friedrich Nietzsche nella sua missiva dell’ 11 marzo 1882 indirizzata all’amico musicista Paul Gast, in cui annunciava il suo prossimo viaggio verso la terra alla “fine del mondo”, in Sicilia, nella nostra bellissima città di Messina.

Il filoso di Röcken, tormentato dal Föhn (l’afoso vento tedesco), aveva dall’anno precedente intrapreso un viaggio in Italia, alla ricerca di un clima più favorevole alle sue condizioni di salute.

Dopo un lungo soggiorno della durata di sei mesi sulla costa ligure, partì alla volta della città dello Stretto. Un arrivo in sordina quello di Nietzsche: salpato da Genova a bordo di un veliero, toccò le sponde messinesi il 31 marzo 1882 e, battuto dal mal di mare, venne portato in barella fino al suo albergo, nei pressi di Piazza Duomo.

Ma cosa spinse il filoso del “Superuomo” ad andare a Messina?

La citta dello Stretto in un’antica rappresentazione – Fonte: letteraemme.it

Teorie sulle motivazioni del viaggio a Messina

Sappiamo per certo che non si trattò di un colpo di testa, ma di un progetto che lo portò fino in Sicilia, insieme alla possibilità di restarci per qualche anno. Un insieme di eventi conducono a diverse ipotesi.

Ad esempio Koelher nel suo “Nietzsche. Il segreto di Zarathustra” ipotizza una possibile motivazione nella presenza a Taormina del barone Von Gloeden (fotografo tedesco), che in quegli anni stava attuando una propaganda artistica attraverso il concetto di bellezza, espressa dai giovinetti siciliani in pose antico-greche.

Un’altra valida motivazione è che Nietzsche fu spinto dall’amore per Goethe, che nella sua visita a Messina e a Taormina trovò l’ispirazione per la sua “Nausicaa”. Nietzsche aveva di certo letto il “Viaggio in Italia” del suo connazionale, al punto da rimanerne colpito. Qualche tempo prima aveva scritto all’amico Gast:

“Sempre mi aleggia intorno la Nausicaa”.

Un altro avvenimento non meno rilevante fu la presenza in Sicilia dell’ormai ex amico Richard Wagner, che aveva passato l’inverno a Palermo a comporre il Parsifal; il suo arrivo a Messina fu annunciato in pompa magna. È quindi del tutto improbabile che il filosofo non sapesse della visita del Wagner; di un eventuale incontro tra i due, però, non si sa nulla.

Wagner e Nietzsche – Fonte: messina.gazzettadelsud.it

Il mistero messinese

La permanenza in incognito di Nietzsche a Messina fu contornata da un alone di mistero talmente fitto da far arrossire gli stessi biografi del filosofo.

Una cosa è certa: Nietzsche ha amato Messina tanto quanto Messina ha amato il suo illustre ospite, come egli stesso ha raccontato agli amici Gast e Overbeck:

“I miei nuovi concittadini mi viziano e mi corrompono nel più amabile dei modi”.

In particolare, a Overbeck scrive che i messinesi sono amabili e premurosi al punto che gli sfiora l’idea che qualcuno possa averlo preceduto in Sicilia allo scopo di “comprarmi i favori di questa gente”.

Un soggiorno breve ma altamente proficuo, perché proprio nella città dello Stretto il filosofo completò gli “Idilli di Messina” e iniziò la stesura de “La Gaia Scienza”.

Solo dopo poco più di due settimane, il 20 aprile 1882, il filosofo fece rotta verso la “città eterna”, dove ad attenderlo c’erano l’amico Paul Rée e l’affascinante femme fatale Lou von Salomé (l’eterno amore di Nietzsche).

Friedrich Nietzsche – Fonte: gazzettadelsud.it

Gli “Idilli di Messina

Gli “Idilli di Messina” rappresentano un unicum all’interno della molteplice produzione filosofico-letteraria di Friedrich Nietzsche, in quanto unica opera prettamente poetica, pubblicata nel maggio 1882 sulla rivista «Internationale Monatsschrift» qualche mese dopo la sua composizione.

Una forma modificata e composta da sei di questi componimenti farà successivamente da appendice per la seconda edizione de “La Gaia Scienza” (1887).

Gli idilli nascono dall’impossibilità di rappresentare una singola immagine e al suo interno fissare gli stadi dell’incessante accadere.

“Ho la meta e il porto obliato,

Di tema e lode e pena sono immemore:

Ora io seguo ogni uccello nel volo.”

(da “Principe Vogelfrei”)

 

Le poesie seguono un percorso crescente ricco di continui rimandi alla differenza tra essere e divenire, tematiche che il filosofo affronterà in seguito. L’essere che ha la funzione di stato sincronico che può essere colto, si scontra con il divenire che non ha le sembianze di un flusso di coscienza distruttivo (tipico della filosofia nietzscheana), ma di un progetto, scelto e portato avanti, quello dell’oziosa incoerenza del divenire stesso.

Un progetto tale da portare la stabilità dell’essere nel divenire, quello stesso essere staccato da ogni continuazione della personalità. Da qui nasce l’espediente poetico, dove, tolta la devastante e prepotente filosofia nichilista, non resta che un puro gioco letterario piacevole e spensierato che traspare limpidamente nella lirica.

“E le sillabe, in questo verseggiare,

Saltellavano, oplà, l’una sull’altra,

Così che scoppiai a ridere d’un tratto

E risi per un quarto d’ora.”

(da “Giudizio d’uccello”)

 

In particolare, nel “Canto del capraio”, il testo viene modellato da versi ironici e indolenti, da cui traspaiono tutte le impressioni del soggiorno nell’estremo Meridione.

Copertina de “La Gaia Scienza” e gli “Idilli di Messina” – Fonte: maremagnum.com

 

Gaetano Aspa

 

Articolo pubblicato sull’inserto “Noi Magazine” della “Gazzetta del Sud” in data 17/02/2022

Al via la Nona Edizione del concorso di poesia “Liceo Galileo Galilei”

È stato nuovamente bandito il concorso di poesia “Liceo Galileo Galilei” che, dopo un anno di stop, torna con la nona edizione.

Il concorso

Il progetto, nato nell’omonimo Liceo, ormai vanta una storia pluridecennale e coinvolge, oltre che gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, anche gli studenti iscritti all’Università degli studi di Messina e a chi, diplomatosi in un Istituto di Istruzione Superiore di Messina e Provincia, adesso studia in uno degli atenei nazionali.

Le parole della Referente

La referente, Prof.ssa Aricò, entusiasta della “ripartenza” del progetto, ha così commentato:

Il Concorso, se in senso spaziale risulta limitato alla provincia di Messina (con la sola eccezione per i partecipanti della sez. Università), in senso verticale è aperto alla quasi totalità delle Istituzioni scolastiche e della formazione universitaria. Ritengo che sia questo il motivo del suo successo, perché ogni anno pervengono al Liceo molti componimenti che, oltre ad attestare l’interesse diffuso tra i giovani per la poesia come forma di comunicazione di pensieri ed emozioni, fanno apprezzare le diverse qualità espressive dei loro autori, che spaziano dalla candida spontaneità dei preadolescenti alla sapiente e spesso raffinata liricità degli studenti universitari.

Il tema: Il sorriso della vita è intorno a noi

La commissione, composta da docenti di Materie Letterarie del Liceo Scientifico/Linguistico “Galileo Galilei”, da quattro ex docenti e da tre ex studenti dello stesso Liceo (due dei quali frequentanti l’ateneo messinese), in risposta alle esigenze dei giovani e al periodo storico che tutti stiamo vivendo, ha proposto come tema del concorso: “Il sorriso della vita è intorno a noi”.

Come partecipare

La modalità di partecipazione, da quest’anno esclusivamente online, prevede l’invio di due files in formato pdf, tramite il seguente link https://forms.gle/zLc7FP7TbNVComLj6.

  • il primo dovrà essere nominato esclusivamente col titolo della poesia e dovrà recare in calce al contenuto, al posto della firma, solo l’indicazione della scuola o dell’ateneo di appartenenza;
  • il secondo file dovrà essere nominato in modo identico al primo e dovrà recare in calce al contenutole generalità dell’autore(nome e cognome, numero di telefono, e-mail) e l’Istituzione di appartenenza.

La commissione selezionerà i componimenti più lodevoli, chiaramente divisi nelle varie sezioni, e premierà i più meritevoli con un premio in denaro di € 200,00.

Scadenze da ricordare

La data ultima per l’invio dei testi è fissata per il 12 Febbraio 2022.

Ulteriori informazioni

Qui il Bando concorso di poesia 2021-2022

Per ulteriori chiarimenti, è possibile contattare la rubrica #helpME tramite i social di UniVersoMe o mandare una email all’indirizzo: rubricahelpme@gmail.com.

Giovanni Alizzi

NextGenerationMe: gli artisti di “Apollo&Arte”

In occasione della mostra temporanea “Apollo&Arte, che ridona vita alla via San Filippo Bianchi, torna la rubricaNextGenerationMe”. 

I protagonisti di oggi sono i giovani messinesi che hanno esposto le loro opere, ai quali abbiamo chiesto di raccontarci la storia del loro rapporto con l’arte e delle loro esposizioni.

Anna Viscuso

Classe ’99, ha iniziato ad avvicinarsi all’arte all’età di 15 anni grazie ad una professoressa del suo liceo linguistico. 

La cosa che ho imparato in questi anni è come qualsiasi forma d’arte non si limiti alla tecnica, anzi come inglobi totalmente la personalità di chi si avvicina”. Così Anna ci parla del suo vivere l’arte.

Il suo dipinto, dal titolo “E ti senti un po’ un fallito se ripensi alla tua età e cammini per la strada e provi a perderti”, riprende nel titolo una citazione di Cosmo, noto cantante pop italiano che riflette lo stato d’animo di quel Pierrot: “un po’ malinconico per non essersi riuscito a vivere a pieno i suoi vent’anni.”

©Cristina Geraci  – “E ti senti un po’ un fallito se ripensi alla tua età e cammini per la strada e provi a perderti” di Anna Viscuso, Messina 2021

Sofia Bernava 

Classe ’98, disegna fin da bambina, ma con l’inizio del liceo ha iniziato a volersi specializzare nei ritratti e da qui è “cominciata la ricerca di uno stile sempre più personale, ricerca infinita perché non si smette mai di evolversi insieme alla propria arte”. 

Il dipinto, già stato esposto in altri allestimenti, è un mix perfetto di molte forme d’arte ed è per questo che Sofia ha deciso di renderlo parte di questo progetto: “non desidero che chi lo guardi provi una determinata sensazione; il mio scopo è spingere l’osservatore a sentire qualcosa, qualsiasi sentimento esso sia.”

©Cristina Geraci  – “La poesia rende sempre giovani” di Sofia Bernava, Messina 2021

Lucia Foti

Classe ’92, l’arte è sempre stata la sua “seconda vita”, grazie al nonno che l’ha iniziata a questo mondo e a quello dei tarocchi, mondo dal quale proviene la sua opera . “La mia sensibilità all’arte non si riduce solo al disegno: ho avuto vari amori tra cui la street art e la fotografia perché a mio parere la sensibilità all’immagine è unica, se si è sensibili al disegno lo si è anche alla fotografia. Poi alla fine le mie radici mi hanno riportata a disegnare e a ottenere molte soddisfazioni”.

Ha scelto di esporre il suo disegno dell’arcano XXI, il mondo“, in cui una dea sorregge tutte le energie del mondo, “per esprimere il compimento del ciclo della vita, si impara una lezione e quindi si può  ricominciare da capo con la carta del matto.

©Cristina Geraci – “Arcano XXI, il Mondo” di Lucia Foti, Messina 2021

Grazia d’Arrigo

Classe ’86, ci dimostra come una passione può nascere per caso. Da poco tempo ha iniziato a “scarabocchiare per sfogare le sue emozioni” come piace dire a lei, nonostante fosse sempre stata affascinata dall’arte in generale. Il suo dipinto nasce durante i due mesi in cui è stata positiva al Covid-19: “l’isolamento mi ha provocato la necessità di un qualcosa di cui non ho mai sentito la mancanza, ho sognato un contatto con persone che non fossero i miei familiari. Ho deciso di rappresentare con questo bacio astratto ciò che prima ci teneva in vita e che adesso può addirittura metterla in pericolo.

©Cristina Geraci –”Tenuta astratta” di Grazia d’Arrigo, Messina 2021

Ylenia Bottari

Classe ’94, la sua sensibilità all’arte è sfociata in una “sensibilità a ciò che visivamente mi colpisce”. La fotografia esposta è stata scattata al teatro greco di Siracusa: “ho deciso di scattare questa fotografia e in generale tutte le altre perché sentivo il bisogno di immortalare quel momento, quel sentimento che provava chi ho fotografato”.

©Cristina Geraci – “Compianto” di Ylenia Bottari, Messina 2021

Daniele Commito

Classe ’96, ha iniziato a disegnare per “uscire fuori dagli schemi imposti dalla routine”. Non ama spiegare i suoi quadri: “perché posso manifestare al pubblico ciò che ho provato io nel realizzarlo, ma chiunque può avere una reazione diversa e sono contento sia così”. 

Il disegno che ha esposto “è nato dal bisogno di raffigurare la sensazione che ha il genere umano di limitare le sue emozioni contrapposta all’istintività del mondo animale, mondo dal quale dovremmo imparare la spontaneità”.

©Cristina Geraci – “Vorremmo essere animali”  di Daniele Commito, Messina 2021

Alessia Borgia

Classe ’86, ha sempre scattato fotografie, ma “molto inconsapevolmente”. 

“È diventata una passione nel momento in cui ho capito che mi piace osservare le persone e provare a capire quali siano le loro emozioni in quel momento.”

La foto esposta è stata scattata durante l’erasmus in Spagna: “vedevo questa bambina agitarsi continuamente, ma a colpirmi è stato il momento in cui si è calmata. Aveva un espressione che non riuscivo a decifrare e quindi ho deciso di fotografarla”.

©Cristina Geraci – “Sakura” di Alessia Borgia, Messina 2021

 

Sofia Ruello

 

Immagine in evidenza:

©Cristina Geraci – Gli artisti di “Apollo&Arte”, Messina 2021

Alla (ri)scoperta delle scuole superiori di Messina: Basile e Bisazza

In attesa del rientro a scuola dopo le vacanze di Pasqua, torna la nostra rubrica dedicata agli istituti superiori messinesi. Oggi parleremo dei personaggi a cui sono intitolate le due scuole del quartiere Annunziata: il Liceo Artistico “E. Basile” e l’Istituto Superiore Statale “F. Bisazza”.

Liceo Artistico “E. Basile”

Isituito nel 1956 come sezione staccata dell’ Istituto Statale d’Arte di Palermo, dopo essere stato ospitato per anni nei locali del Real Convitto “Dante Alighieri”, attualmente il liceo si trova nel quartiere Annunziata  in via U. Fiore e fa parte dell’ ’I.I.S. “La Farina – Basile”, in seguito all’accorpamento con lo storico liceo classico – di cui abbiamo parlato precedentemente in un nostro articolo -. Nel 1982 è intitolato ad Ernesto Basile, autorevole esponente del liberty siciliano.

Facciata del Liceo “E. Basile” – Fonte: messinaweb.Eu

Nato a Palermo il 31 gennaio 1857, studia presso l’università del capoluogo sotto la guida del padre, professore di Architettura.

Successivamente al conseguimento della laurea si dedica allo studio dei monumenti architettonici siciliani, in particolare, di epoca normanna e rinascimentale contribuendo con il padre alla stesura del volume “Curvatura delle linee dell’architettura antica “ ( Palermo 1884). Grazie a questo lavoro, Basile, si educa ad uno storicismo che se pur acriticamente accolto, sarà la caratteristica preponderante delle sue prime esperienze.

Nel 1890 ottiene la cattedra che era stata del padre e sette anni dopo viene nominato anche direttore della Reale accademia di belle arti di Palermo.

Nel 1981 gli viene commissionata la realizzazione degli edifici per L’esposizione nazionale di Palermo. I disegni ottengono immediatamente un grande successo grazie alla perfetta aderenza del suo linguaggio all’ambiente sociale e culturale siciliano.

Ernesto Basile – fonte: comune.palermo.it

Nel 1898 costruisce le ville Paternò ed Igea a Palermo, che segnano un’importante svolta artistica per il Basile: all’impostazione ancora arabo-normanna si unisce una rigorosa semplificazione formale e una libertà volumetrica del tutto innovativa. Il problema di Basile era quello di inserire il linguaggio liberty all’interno di una società, quella siciliana, che ne aveva ignorato premesse e sviluppi.

L’inserimento di elementi decorativi floreali, tipici del’ 400 siciliano, si spiega con il tentativo di trovare una giustificazione al nuovo linguaggio, fondandolo su una tradizione storica e fortemente legata al territorio. Tipico a tal riguardo il palazzo di Montecitorio  in Roma che sancisce definitivamente la scissione delle esperienza del Basile in architettura ” minore ” e ” maggiore”.

Le successive opere sono fortemente caratterizzate da questa contraddizione stilistica; tra le tante  ricordiamo il municipio di Reggio Calabria, ma anche la Cassa di Risparmio di Messina.

L’ultima opera del Basile è la chiesa di S. Rosalia in Palermo, iniziata nel 1928 e non ancora terminata nel 1932, anno della morte dell’eclettico architetto siciliano.

Istituto Superiore Statale “F. Bisazza”

L’altro istituto del quartiere Annunziata è uno dei più recenti della città di Messina ed incoropora vari licei: il Liceo Scientifico (con le vari sperimentazioni), il Liceo Linguistico, il Liceo dell Scienze Umane e – dal prossimo anno scolastico – il Liceo Musicale. La scuola è intitolata al poeta e letterato Felice Bisazza.

L’Istituto “F.Bisazza” – fonte: messinaora.it

Nato a Messina il 29 gennaio 1809, Felice Bisazza frequenta il Regio Collegio Carolino di Messina, riservato ai figli delle famiglie messinesi più nobili e, appena quindicenne inizia, da autodidatta, gli studi letterari.

Bisazza acquisisce la fama a livello nazionale attraverso la collaborazione – sia prosa che in versi – con numerosi giornali, prima cittadini e poi regionali.

Nel 1831 pubblica la sua prima raccolta di saggi e di liriche originali, i Saggi poetici; nel 1833 redige Il Discorso sul Romanticismo, molto importante dal punto di vista storico, più che stilistico, poiché provoca fermento nell’ambiente culturale dell’Isola, che non ha accolto favorevolmente il romanticismo. Infatti, Bisazza è uno dei pochi – e impavidi – romantici siciliani e spesso deve difendersi dagli attacchi di altri letterati.

Nel 1835 si reca a Napoli per collaborare con importanti testate della città partenopea, ma, dopo quasi un anno, lascia la città per delle allusioni sul dispotismo borbonico e sulla situazione della patria.

L’anno successivo decide, dedicando l’edizione napoletana della Morte di Abele (1836) a Re Ferdinando II, di ritrarsi da qualsiasi manifestazione di liberalismo, per potersi dedicare completamente – e senza ostacoli – all’insegnamento e agli studi; così, dopo il biennio rivoluzionario siciliano del 1848, ottiene la cattedra di lingua e letteratura italiana presso l’Università di Messina.

Nel 1858, presso l’Ateneo Peloritano pronuncia un discorso Della letteratura poetica, sotto il doppio aspetto della rappresentazione e della purificazione, da cui si evince il suo moderato romanticismo religioso e moralistico.

Dopo la costituzione del Regno d’Italia, Bisazza omaggia le vicende dell’unificazione – auspicata sin dalla giovinezza – e suoi protagonisti. Nel 1865 partecipa alle celebrazioni dedicate al sommo poeta Dante.

Felice Bisazza muore a Messina il 30 agosto 1867. Nel 1872 il municipio di Messina colloca le sue ossa nel cimitero monumentale, accanto alle tombe degli amici La Farina e Natoli.

Felice Bisazza e il timbro postale a lui dedicato – Fonte: sikilynews.it

Alla prossima!

Concludiamo dandovi appuntamento al prossimo articolo, in cui conosceremo la storia del personaggio a cui è intitolato un importante istituto situato a Provinciale: il Liceo “E. Ainis“.

 

Emanuele Paleologo, Mario Antonio Spiritosanto

Fonti:

treccani.it/enciclopedia/felice-bisazza

treccani.it/enciclopedia/ernesto-basile

iislafarinabasile.edu.it/basile

liceobisazza.edu.it

L’OSPE, il precursore delle moderne coworking?

Come avrete intuito dal titolo, questo articolo non si vuole limitare a raccontare una parentesi della storia messinese. Ci sono infatti delle pillole di conoscenza che andrebbero rinfrescate per fornire spunti di riflessione, guardando al presente ed al futuro della città dello Stretto.

La nascita dell’OSPE

Una di queste pillole riguarda la storia dell’OSPE, una piccola libreria del centro messinese esistita tra gli anni ’50 e gli anni ’80. Quel luogo, nella sua semplicità, è stato testimone del passaggio di numerosi artisti e scrittori, attratti da un ignoto centro gravitazionale che rendeva quelle quattro mura un luogo sicuro in cui dare libero sfogo alla creatività.

La libreria, sita in origine in via Tommaso Cannizzaro n.100, prendeva il nome dall’acronimo O.S.P.E., Organizzazione Siciliana Propaganda Editoriale (un’agenzia di distribuzione di giornali operante nel ventennio fascista). L’agenzia fu rilevata e trasformata da Antonio Saitta, gentiluomo d’altri tempi, libraio e poeta messinese. Intorno a lui sono nati numerosi movimenti ed iniziative culturali, come la galleria del Fondaco e l’Accademia della Scocca.

L’OSPE, liberatosi dell’acronimo, pochi anni dopo trovò la sua collocazione definitiva a Piazza Cairoli, in posizione attigua all’attuale Bar Santoro.

Gli accademici della Scocca. Fonte: Villaroel G., Messina anni 50′

La galleria del Fondaco

Il Fondaco è stato un punto di ritrovo in cui pittori emergenti e di ogni età potevano mostrare i propri quadri, i quali venivano tenuti esposti nel retrobottega dell’OSPE, frequentato dai curiosi che volessero immergervisi, ma anche dagli affezionati amici del libraio Saitta. Tra questi, in particolare il Professor Salvatore Pugliatti era stimato con affetto dai molti artisti e poeti di passaggio a Messina, che non mancavano di fare tappa all’OSPE.

Lo ricorda lo stesso Salvatore Quasimodo nella sua lirica Vento a Tindari : “Tindari mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque […]/ E la brigata che lieve m’accompagna / s’allontana nell’aria […]/ Soave amico (ecco Pugliatti, n.d.r.) mi desta“.

Nell’attività del Fondaco si annoverano anche numerosi premi, come la Tavolozza d’Oro, riconosciuto ad artisti siciliani che non avessero esposto in altre mostre nazionali.

Salvatore Quasimodo fotografato dentro l’OSPE. Fonte: D’Arrigo C., Antonio Saitta, OSPE: la scocca della cultura.

L’Accademia della Scocca

La libreria dell’OSPE non fu solo un luogo d’incontro tra intellettuali ed artisti, bensì un’occasione per stringere nuovi legami, vere e proprie amicizie per la vita. È così che tra una poesia ed un quadro, tra uno scaffale impolverato e la contabilità del negozio, nacque nel piano interrato dell’OSPE, un vero e proprio convivium, in cui gli assidui frequentatori della libreria si recavano per banchettare, ma anche per organizzare le iniziative future, viaggi di gruppo, in un’atmosfera di totale leggerezza e fraternità.

È in quest’ambiente che nacque una vera e propria “accademia”. Una scocca di amici, come si sarebbero definiti di lì a poco, tanto bastava a far rivivere lo spirito goliardico che animava quegli anni. Ai membri dell’accademia (tra i quali comparivano Vann’Antò, Pugliatti, Quasimodo, Saitta e molti altri) venivano conferite delle onorificenze ad personam con i quali i commensali si appellavano con scherno (come Gran Collare dell’Ordine dei Fichi d’India, Cavaliere dell’Abbacchio, Cigno della Scocca, Cocca della Scocca e così via).

La fine dell’OSPE (?)

Come il Sole d’estate, di cui si desidera rimandare il tramonto, così la felice esperienza dell’OSPE dovette pian piano volgere al termine. La scomparsa di alcuni compagni della Scocca, in particolare del Prof. Pugliatti, determinò il venir meno di quella magica atmosfera che si veniva a creare nel retrobottega della libreria. Il poeta libraio Antonino Saitta, ormai anziano, era riuscito a costruire un ambiente culturale e di confronto che difficilmente sarebbe sopravvissuto senza qualcuno che ne rifondesse la linfa vitale.

Eppure, da quella piccola bottega di Piazza Cairoli, sommersa dai corsi di gestione, l’essenza dell’OSPE ha lasciato i confini materiali della libreria per trascendere in qualcosa di più ampio, nel pieno spirito del suo fondatore. Se infatti la libreria non esiste più (i locali sono stati acquistati dal vicino bar), a permanere è una forte voglia di rivalsa e di rilancio. In un mondo che oggi va ad una velocità ben diversa da quegli anni, la cultura non è più qualcosa di elitario, ma è libera di spostarsi dai confini del passato grazie alle moderne tecnologie ed ai nuovi lavori, sempre più trasversali e creativi.

Una moderna coworking in cui i content creator si trovano per lavorare, studiare o prendere una piccola pausa.- Fonte: www.sharedspace.work

La voglia di mettersi in gioco, incontrandosi e creando nuovi legami, sono tutti aspetti che erano incarnati dalle sagge menti che vollero creare – dopo il buio del secondo dopoguerra – un mondo migliore di quello che si lasciavano alle spalle. Questo spirito si spiega bene con la parola inglese serendipity, che indica “l’occasione di fare felici scoperte per puro caso” e anche “il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra”.

Forse la vecchia libreria dell’OSPE oggi non esiste più, se non nei ricordi di chi ha avuto la fortuna di viverla ormai tanti anni fa. Tuttavia, quel luogo di fortunato incontro continua a rivivere tutte le volte in cui persone così diverse avranno modo d’incontrarsi, dialogare, in qualche modo unendosi in una sinfonia di scienze e di arti, dettata dalla seducente imprevedibilità del caso.

 

Salvatore Nucera

Fonti:

D’Arrigo C., Antonio Saitta. OSPE: la scocca della cultura, 2016, Messina. 

Grasso S., La libreria inghiottita dal bar, in Corriere della Sera, 21.12.1988

 

Jolanda Insana: la poetessa con la voglia di “sciarriarsi”

Pupara sono

e faccio teatrino con due soli pupi

lei e lei

lei si chiama vita

e lei si chiama morte

la prima lei percosìdire ha i coglioni

la seconda è una fessicella

e quando avviene che compenetrazione succede

la vita muore addirittura di piacere

 

Comincia così la fortunata storia della poesia di Jolanda Insana, l’ eccentrica poetessa messinese che nel 1977 pubblicò la sua prima raccolta, dal titolo Sciarra amara. In questa prima poesia la poetessa è la pupara, “mastra di trame e telai”, che inscena e orchestra la perpetua “sciarra” tra la vita e la morte.

Già da queste poche righe si evince il carattere solenne e allo stesso tempo divertente della poesia di Jolanda, in cui si mescolano il dramma della vita e temi esistenziali, raccontati con elementi ironici e popolari, tipici appunto del “teatrino” dei pupi. Basti pensare al termine sciarra (litigio), tanto caro alla tradizione dialettale messinese, che in questo contesto assume un’importanza fondamentale, dietro alla quale si nasconde il senso della poesia di Jolanda.

Noi di UniVersoMe abbiamo avuto modo di “conoscerla” in occasione della presentazione del libro «Pupara sono». Per la poesia di Jolanda Insana, nuova collezione di inediti, disegni, scritti rari e interventi critici sulla poetessa, della quale purtroppo oggi poco o nulla si ritrova nelle librerie.

©Giulia Greco – Libreria Colapesce, Messina 2020

La raccolta, presentata presso la libreria Colapesce (Messina), ci ha fatti avvicinare a un mondo – quello della poesia contemporanea – che oggi difficilmente viene riscoperto. Ma, soprattutto, ci siamo profondamente e inaspettatamente divertiti.

Chi era dunque Jolanda Insana?

Breve biografia

Nata a Messina nel 1937, Jolanda si trasferì con la famiglia a Monforte San Giorgio nel 1941 per sfuggire alle macerie in cui riversava la città dello Stretto a causa dei bombardamenti della guerra, tema che ritroviamo nelle sue opere.

Sin dalla giovane età, la poetessa ha mostrato uno spiccato interesse per il corpo della parola, attraverso la scoperta di vocaboli meno utilizzati e la ricerca di parole nuove. Questa passione l’ha condotta a intraprendere gli studi in filologia classica, continuati anche la dopo la laurea conseguita nel 1960 presso l’Università di Messina, con una tesi su un testo in dialetto dorico (IV-V secolo a. C.).

Jolanda Insana – Fonte: scenario

Nel 1968 si è trasferita a Roma, città nella quale morì nel 2016, dove ha insegnato lettere alle scuole superiori. Oltre all’insegnamento e alla poesia, Jolanda si è dedicata ache alla traduzione di autori classici, sia greci che latini, e alla prosa.

Il linguaggio e l’importanza della parola

Il linguaggio poetico di Jolanda è un intarsio di elementi di ogni genere: le forme arcaiche si mischiano con quelle popolari della filastrocca e della litania; il tono solenne dell’epigramma e dell’oratoria è accompagnato dallo sberleffo o addirittura anche dall’offesa verbale.

La contaminazione di diversi generi è il frutto più maturo della sua formazione e della ricerca di una sperimentazione espressiva che smonta e ricompone i versi e le parole. La poetessa gioca con la parola, attraverso la deformazione aggettivi e verbi e l’utilizzo di figure retoriche, assonanze e allitterazioni, per mettere in risalto la musicalità, poiché affermava che «le parole sono prima di tutto suono».

©Giulia Greco – Piccola raccolta di poesie donata ai presenti durante la presentazione, Messina 2020

Pertanto, amava recitare le sue poesie: la dimensione orale si contrappone a quella scritta, libresca, “morta“.

Solo attraverso le parole, che lei “curava e raccoglieva come l’erba di muro”, si può dare nuova vita ai luoghi, alle persone e al tempo: ogni tempo vive la sua morte, ma il poeta ha il compito di scuotere la collettività, di suscitare emozioni in chi ascolta.

Non a caso, per leggere alcuni inediti durante la presentazione, sono state scelte un’attrice e una fan di Jolanda di nome Venera, personaggio che – in una sua poesia sul terremoto del 1908 – rappresenta la città di Messina morente.

Non a caso il libro nasce dallo sforzo di non spegnere la voce della poetessa e di riappropriarci di un “linguaggio dello Stretto”, a metà tra una promessa e uno scongiuro.

Il tema della “sciarra” e la sensibilità politica

Entrambi sono temi centrali della sua collezione di esordio (Sciarra amara, pubblicata all’età di 40 anni) .

In questo caso, la sciarra non ha un significato negativo: anzi, è vista come una forza sia umana che naturale, in grado di contrapporsi all’immobilità della morte.

La lite inscenata tra la vita e la morte è perpetua e “nessun compare ci metterà la parola per farla tacere”. La vita è in continua lotta non solo con la morte ma con tutto ciò che sa di morte, come la malattia fisica e l’ancora più permeante malattia del potere.

La “sciarra” inscenata da Jolanda è dunque un atto di resistenza, una continua rivoluzione contro la macchina che perpetua il male, le ingiustizie e le diseguaglianze.

©Giulia Greco – Il giornalista Tonino Cafeo (destra) e l’autore Giuseppe Lo Castro (sinistra), con il quale abbiamo avuto una piacevole chiacchierata al termine della presentazione, Messina 2020

Da qui si evince il carattere anticonformista della poetessa messinese, donna eccentrica e provocatrice, fortemente sensibile alle tematiche politiche del nostro tempo. Ne La stortura (che le valse il premio Viareggio per la poesia nel 2002) e in Cronologia delle lesioni, la poetessa parla infatti di argomenti come i migranti e il femminicidio.

All’incessante lotta esterna si accompagna il conflitto interno con sé stessi, per respingere la tentazione di lasciarsi andare e cedere al cinismo e al nichilismo, da lei rifiutati con forza.

Molto suggestiva è infine la sciarra tra la Terra e Luna, recitata al Festival delle letterature di Roma del 2009.

La Luna, stanca della scelleratezza degli esseri umani, scaglia un’ invettiva contro l’ “immonda Terra” che si sfoga e piange per banalità, non avendo cura dei “morti di fame, gli appestati, gli scheletri ambulanti, i barconi dei migranti”.

Il testo di questa poesia è stato pubblicato in un libro che Jolanda ha consegnato una settimana prima di morire di un male inguaribile. Dunque, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, Jolanda non ha ceduto all’impotenza della morte: fino all’ultimo, ha avuto la forza e la voglia di sbraitar contando.

“la vita ha profumo di vita

così dolce

che scolla i santi

dalla croce”

Emanuele Chiara, Mario Antonio Spiritosanto

 

Bibliografia:

«Pupara sono». Per la poesia di Jolanda Insana, a cura di Giuseppe Lo Castro e Gianfranco Ferraro

http://ww2.unime.it/mantichora/wp-content/uploads/2019/04/BROCCIO-128-141.pdf

https://www.elle.com/it/magazine/storie-di-donne/a28349897/jolanda-insana-poetessa/

http://www.progettoblio.com/files/d9-10.pdf

http://www.italian-poetry.org/jolanda-insana/

Biemmi Elisabetta, «Corpo a corpo con leparole». La poesia di Jolanda Insana. , su tesi.cab.unipd.it

Siamo soldati

 

A chi, ogni giorno, continua ad alzare la testa per scrutare il cielo.                                                                          Nonostante tutto.

 

Siamo soldati

Siamo soldati,

quando scacciamo la paura che fa tremare le nostre gambe;

quando abbiamo la forza necessaria per andare consapevolmente incontro al terrore;

quando resistiamo al silenzio assordante della realtà.

Siamo soldati,

quando il nostro cuore pulsa di ideali che abbiamo giurato di rendere concreti;

quando, sporchi di sangue, ci rialziamo dal suolo;

quando nulla riuscirebbe a farci cambiare idea.

Siamo soldati,

quando conviviamo con l’orribile dubbio che in fondo sia solo colpa nostra;

quando le lacrime smettono di avere la forza di fuoriuscire;

quando le nostre spalle sono affaticate dal tempo.

Siamo soldati,

quando, davanti al pericolo, l’adrenalina e la paura squarciano in due il nostro corpo;

quando combattiamo una guerra sul suolo e su di noi;

quando diventiamo lo scudo di ciò che vogliamo difendere.

Siamo soldati.

Siamo soldati in tutto questo.
Non cerchiamo la gloria, non è il nostro traguardo.
Decidiamo di combattere per essere scrittori dell’imminente futuro.

Non siamo eroi, siamo soldati che hanno offerto il proprio cuore alle cause che renderanno migliori le vite degli altri, e le nostre.

Angela Cucinotta

Tempi brutti per la poesia – di ALTERA

Sabato 20 aprile 2019. Ore 18.00. Messina. Viale Giuseppe Garibaldi, 56. La Gilda dei Narratori. Reading poetico, con accompagnamento musicale, organizzato dal collettivo ALTERA.

Poesia: veicolo spontaneo di una comunicazione oggi più che mai desiderosa di espressione e di emozioni, di conoscenza e di parole. È un bisogno emotivo. Una necessità fisica. Anche quando fa male, la poesia serve, sì. Come uno spintone che nell’assenza di amore e contatto e abbracci, è pur sempre qualcosa. Nella poesia si trova senso e si riconoscono i propri simili, ci si sente vivi nelle parole di altri. È la ricerca della parola esatta. La prosa può anche essere approssimativa, ma la poesia no, deve trovare la parola esatta, per poter esprimere il sentimento più profondo e più giusto dell’uomo. È connaturata nell’uomo.

La poesia è “bastarda”, figlia di tante madri, diretta verso una sensibilità in cui è la parola in tutte le sue componenti – significato, lettere, fonetica, immagini, tipografia, senso – fa emozionare. La poesia, oggi relegata in un angolino per pochi volenterosi, ogni tanto riesce a fare capolino in iniziative come questa, trovando una nuova direzione che, mettendo nuova linfa nel vecchio tronco, la riporta in piazza, in strada, nei microfoni, in mezzo alle persone. Nella nostra epoca, più che mai, c’è la necessità di sdoganare di più le pagine poetiche, di fare in modo che facciano meno paura e più compagnia, che diventino di tutti.

Il programma dell’evento ha previsto l’essenziale partecipazione viva ed attiva di tutti i presenti soprattutto nel momento finale di libera lettura dei versi.

Gabriella Parasiliti Collazzo