Catena di lana

Viaggia
Coperto dal vento il tuo ricordo,
Ed io non so
Se mi è compagno
Se mi è nemico
Perché mi sorregge
E al contempo mi intrappola,
Mi fa vivere il presente
Ma mi àncora al passato.
Ed io non so
Se ciò che mi avvolge
È una coperta di lana
O una catena d’acciaio.

Francesco Pullella

*Immagine in evidenza: illustrazione di Giovanni Pullella

Frammenti di quotidianità

I miei occhi, nomadi, ingoiano raggi di luna,
andati di traverso per la gola
e si incastrano nella pupilla dell’infinito.

Un uomo, trascinandosi il cielo in spalla,
si nasconde dietro il sole in silenzio,
inventa passi di luna e mi strizza l’anima dal pianto.

Vene rotte mi cadono a terra, brontolano le mani,
strappo le viscere del cielo e me le infilo in tasca,
mi brucia la pelle, sento le stelle battermi nelle vene.

Sbircio dentro: ho lo stomaco pallido e l’universo in subbuglio.

Domenico Leonello

Il Silenzio

Ogni brivido sulla pelle, ogni
goccia di vento che cade senza perdono
e mai scuserò quegli occhi rossi di rabbia,
poche volte l’indifferenza ha regnato,
in mezzo al nulla.
Una volta attraversato il fiume rosso,
più ha cambiato il suo sguardo.

Geme un canto disordinato
e nella confusione del suo desiderio
non agisce più per ragione
ma per spavento,
e il mio lamento, che soffoca il respiro…

Non voglio più capire
e solo sentire le sue parole
sembra inebriare l’anima di nero,
cieco ma sento ancora
ogni tuo verbo di disprezzo,
stringi a te il silenzio che manca.

Lardo Benedetto

 

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Benedetto Lardo

Tacito accordo

Arte.
Travolgente,
arriva lenta, resta sopita per un po’,
non urla, non è un vulcano in eruzione.

Arte.
Arriva silenziosa, si infiltra dove trova una porta rimasta socchiusa.
Smonta certezze,
crea domande.
Riempie un vuoto per crearne un altro subito dopo.

Guardando tra le pennellate
si scorge qualcuno che ha vissuto come me,
qualcuno che è stato me prima di me.

Io, immobile, davanti a un Picasso,
che urla in silenzio senza colori
la pece nera della guerra.

Io, immobile, davanti a un Kandinskij,
che scardina l’ordine imposto dal mondo
nel momento stesso in cui è nato.

Io, immobile, davanti a Bernini,
che dona il soffio al marmo,
corpi vivi intrecciati più autentici degli uomini.

Semplici artisti?
Forse qualcosa di più.
Si sentono urla anche se tutti stanno in silenzio.

Diventa un gioco di fiducia,
un tacito accordo,
un patto mai davvero siglato:
accetto di ritrovarmi in te
perchè so che conservi qualcosa per me
tra le veloci pennellate,
tra le pieghe del marmo.

Un delicato urlo,
un gioco di scacchi.
A ogni quadro il suo spettatore,
a ogni spettatore il suo artista.

Pur restando in un museo deserto,
non potrebbe mai esserci solo silenzio.
Mille voci si accavallano,
attendono solo un orecchio attento.

 

Giulia Cavallaro

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Istinto e ragione


Ci pensi mai
a quante avventure
avresti vissuto
se solo non ti fossi fatto
frenare dalla paura?

Quanti luoghi
avresti visitato
se solo
ti fossi lasciato andare.

 

Quanti mari
avresti solcato.
Quanti tramonti
avresti visto.

Quanti sogni
hai lasciato
nel cassetto
per paura?
Quanti ‘’no’’
hai detto?

Quante volte
la razionalità
ha avuto la meglio
sull’istinto?

Segui il tuo cuore,
buttati a capofitto
nella vita.
Perché essa è solo una,
la giovinezza scorre veloce.

Non avere paura.

 

 

 

 

 

 

Chiara Fedele

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Lucio Piccolo, il poeta dell’ancestrale

 Nel vasto panorama letterario italiano, sono tantissime le figure di letterati che sfuggono al canone o che, per considerazione della critica, rientrano nella definizione di “poeti minori”

Tra questi, troviamo Lucio Piccolo, poeta, esoterista e musicologo italiano.  

Biografia

Lucio Piccolo nacque il 27 ottobre 1901 a Palermo, ultimo dei tre figli del barone Giuseppe Piccolo di Calanovella e della duchessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò (di antica discendenza principesca, risalente ai Normanni), imparentati con l’alta nobiltà siciliana

Il poeta trascorse la sua giovinezza a Palermo, dove frequentò il liceo classico, dimostrando una grande curiosità e una straordinaria capacità di apprendimento. In seguito, non andrà all’università, approfondendo da autodidatta le conoscenze linguistiche, di musica, poesia, filosofia ed esoterismo, insieme ai fratelli Casimiro e Giovanna.

«Pertugi, sgabuzzini, ambienti / nascosti tra le quinte / dove monomania / di specchi in ombra / accolse i sedimenti / d’epoche smorte, di fasi sbiadite / che il riflusso dei giorni in un torpore / lasciò fuori del sole»

(“Gioco a nascondere”, in Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, Mondadori, Milano, 1960).

 

Due eventi inaspettati, quale la morte del padre avvenuta nel 1928 e la grave crisi economica del ’29, scombussolarono la famiglia Piccolo, che fu costretta a vendere la villa a Palermo per trasferirsi a Capo d’Orlando, in una villa di campagna (che attualmente ospita la casa-museo di Villa Piccolo). 

«Il palazzo di Capo d’Orlando più che una casa sembrava una favola campata in aria. Onde marine, nubi, folate di vento, gabbiani, corvi, gatti neri, spiriti, anime di crociati, anime in pena e santi vagabondi stanchi di paradosi dividevano con il nostro poeta quella solitudine dorata»

(Gonzalo Alvarez Garcia, Le zie di Leonardo, Scheiwiller, Milano, 1985).

 

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Importante per la crescita culturale del giovane Lucio, fu il rapporto con il cugino primo di parte materna e futuro fortunato autore de Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tra i due vi sarà un sodalizio che durerà tutta la vita. Sulla natura del loro rapporto, basta leggere le parole rilasciate dallo stesso Lucio Piccolo nell’intervista a Ronsisvalle:

«C’era fra di noi una sorta di gara, a chi fosse più abile scopritore di interessanti novità. Ricordo che fu così a proposito del grande poeta Yeats, il grande poeta d’Irlanda che fui io il primo a leggerlo prima ancora di Lampedusa […] E così ci siamo accaparrati tutta la letteratura contemporanea europea, tedesca, francese. Ricordo anzi che fu proprio Lampedusa a introdurre a Palermo, nella Palermo colta, Rilke […] Poi passarono Joyce, Proust. Di Proust mi ricordo che una volta mi disse “Sai, c’è uno scrittore francese il quale per fare due passi da lì a qui ci impiega dieci pagine”. La prima immagine che io ho avuto di Proust è stata questa».

Lucio Piccolo e Giuseppe Tomasi di Lampedusa su una panca nella stradella di accesso a Villa Piccolo, Capo d’Orlando. Fonte: wikimedia.org

La consacrazione letteraria

Nel 1954, Lucio Piccolo, alla soglia dei 53 anni, pubblica una silloge di 9 liriche che invia ad Eugenio Montale, il quale rimane colpito dalla perfezione stilistica dei versi, al punto da presentare Piccolo nel prestigioso convegno letterario di San Pellegrino Terme

Al convegno, accompagnato dal cugino principe Lampedusa, Lucio diventa centro dell’attenzione di tutti, passando da sconosciuto barone siciliano a famoso poeta consacrato da Montale e dagli altri “marescialli di Francia”, così definiti da Tomasi.  

«Quella coppia stranissima di titolati siciliani, goffi e un po’ traballanti, suscitò immediatamente la curiosità di ognuno: quasi un’apparizione carnevalesca di piena estate, un intermezzo in costume con due personaggi di fine secolo in cerca di autore».

 

Il Piccolo, ottenuto il successo della critica, pubblica nel 1956 i Canti Barocchi, editi da Mondadori; successivamente, nel 1960, Gioco a Nascondere. In seguito pubblicherà altre due raccolte, Plumelia (1966) e l’opera in prosa poetica Le Esequie della Luna

Lucio Piccolo muore improvvisamente il 26 maggio 1969, lasciando diverse opere inedite, tra cui una composizione musicale del Magnificat, d’ispirazione wagneriana, ancora oggi inedita. 

 

Lucio Piccolo
Lucio Piccolo a Villa Piccolo. Fonte: fondazionepiccolo.it

La poetica

Nella poetica di Piccolo s’intrecciano cristianità, paganesimo e religioni orientali, al punto da creare il contatto con un’altra realtà.  Nella stesura dei versi che riempivano il bianco delle pagine, avveniva un trasferimento ancestrale, si passava da una percezione del reale al mondo surreale, solamente attraverso l’unicità di quell’atto creativo attuato da Lucio. 

«Scrivevo versi come altri passeggia o sta alla finestra: era un fatto naturale».

Nelle liriche di Lucio Piccolo, caratteristiche sono la musicalità, il fine gioco letterario delle assonanze e delle dissonanze, oltre il frequente uso degli interrogativi che l’uomo si pone. Come, ad esempio, le domande poste davanti alle ombre fisiche e concrete, ricavate dal gioco di luci, così come quelle ombre provenienti dall’ignoto, espletate in Gioco a nascondere: 

«Hai visto come al varcare la soglia / il lume ch’era nella mano manca / mentre l’altra fa schermo, ha dato uno svampo / leggero dal vetro s’è spento. / Tardo il passo né fu colpo di vento, / forse ha soffiato qualcuno, un volto / subito svaporato nell’aria? […] Ma non c’è nessuno / e sai che non bisogna tentare / il buio: rimemora, ha nostalgie, imprevisti, / l’ombra e le ombre, meglio pregare / a quest’ora, quel che gioco / sembra di giorno fa vero / di notte la notte che sogna – […] I morti / non hanno cifre per i nostri tesori, / singulti hanno in noi, / veglie / di fiamme basse, aneliti, / d’angoscia verso un nodo di vita / incompreso, e a volte una sera / che scende dall’alto a candori infiniti»

Questo esempio, esplicita i poli cardine dell’indagine metafisica di Lucio Piccolo, racchiusa nei suoi versi: da una parte l’esteriorità attraverso la natura ammaliatrice e seduttrice, dall’altra l’interiorità, la coscienza che si materializza attraverso i richiami simbolici. 

 

«Ci sono uomini che in determinate epoche arrivano alla perfezione, sciogliendosi dall’ambiente in cui vivono e dalle cose del loro tempo, assumendo coscienza della fine e salvandosene nel distacco, nella superiorità, nell’autosufficienza. E in questo senso, Piccolo partecipa di una tale perfezione, nella sua vita come nella sua poesia»

(Leonardo Sciascia, “Le soledades di Lucio Piccolo”in La corda pazza, Einaudi, Torino, 1976).

 

Gaetano Aspa

Fonti:

www.fondazionepiccolo.it 

http://www.flaneri.com/2013/01/12/lucio_piccolo_poeta_tra_le_ombre/

 

Sylvia Plath: la voce nella tormenta

Sono passati sessant’anni dalla tragica morte della poetessa dall’anima di cristallo, Sylvia Plath, divenuta simbolo di ribellione femminista e pilastro della cultura letteraria americana.

Addentriamoci e ripercorriamo la vita, la poetica e l’arte del genio Plath, rendendo omaggio alla bell’anima senza tempo che continuerà a farci riflettere ed emozionare con i suoi scritti.

Io sono, io sono, io sono…

La poetessa di Boston nasce in un distretto della città da genitori immigrati tedeschi il 27 ottobre 1932. Dal talento precoce, pubblica la sua prima poesia a soli 8 anni, anno in cui perde il padre a causa delle complicazioni dovute al diabete diagnosticato tardi. Questo lutto segnerà l’anima della piccola Sylvia, che in futuro scriverà proprio una poesia dedicata al padre, caricandola di tutto l’odio e dolore che questa perdita comportò per lei.

Papà, ammazzarti avrei dovuto, Tirasti le cuoia prima che ci riuscissi.

Continuò a cercare di far pubblicare le sue poesie, riuscendo ad ottenere un successo marginale, in questo periodo cominciano i suoi gravi disturbi depressivi che l’accompagneranno per tutta la sua vita. Nel 1950, entra a studiare allo Smith College ma, al penultimo anno della sua carriera universitaria, tenta per la prima volta il suicidio. Questa esperienza verrà raccontata nel suo romanzo semi-autobiografico, La campana di Vetro (1963).

Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l’occhio del ciclone: in mezzo al vortice ma trainata passivamente

Dopo il tentato suicidio venne ricoverata presso l’istituto psichiatrico Mclean Hospital, dove incontrò la psichiatra che la seguirà per tutta la vita, la dott.ssa Beuscher. Successivamente ottenne una borsa di studio Fullbright per l’università di Cambridge (Inghilterra).

Ogni donna adora un fascista

Fu proprio a Cambridge che conobbe il suo futuro marito, il poeta inglese Ted Hughes, la cui burrascosa storia venne raccontata nei Diari. Dopo gli studi, la giovane coppia visse per due anni negli Stati Uniti, dove la Plath insegnò allo Smith College. Fare l’insegnante le assorbiva tempo ed energie, tanto da non lasciarle il tempo per scrivere, che era la vera ed unica aspirazione di Sylvia.

Voglio scrivere perché sento il bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione ed espressione della vita

Abbandonato il posto da insegnante, optò per un lavoro part-time come receptionist nel reparto psichiatrico del Massachusetts General Hospital. Questa esperienza la portò a scrivere uno dei suoi racconti più famosi, “Johnny Panic and The Bible of Dreams” Ritornati a Boston, la Plath partecipò ai seminari di scrittura creativa di Robert Lowell, che ebbe una profonda influenza sul suo stile e conobbe quella che fu la sua più grande eterna amica/rivale Anne Sexton.

 

Sylvia Plath e il marito Ted Hughes. Fonte: pangea.news

Io sono nevrotica all’ennesima potenza

Alla fine degli anni ’50, visse per un breve periodo alla famosa colonia per artisti Yaddo, in cui Sylvia iniziò a far uscire la sua vera voce poetica, scrivendo molte poesie che verranno contenute nella sua prima raccolta, Il Colosso (1960). Rimasta incinta, tornarono a Londra, luogo dove nacque la prima figlia Frieda Rebecca.

Altra data che comincia a segnare il definitivo declino della Plath, è il febbraio 1961. In seguito all’ennesimo episodio di violenza da parte del marito, subisce un aborto spontaneo, come la stessa Sylvia scrisse in una lettera al suo terapista e come verrà raccontato in più poesie. I coniugi si trasferiscono in campagna ma dopo la fine della relazione con Hughes, la Plath torna a Londra. In queste breve felice periodo, scrive innumerevoli poesie e completa la sua seconda raccolta, Ariel, pubblicata postuma e alterata dal marito nel 1965.

Solo nel 2004, la figlia diede alle stampe la versione originale.

Morire è un’arte, come ogni altra cosa… Ammetterete che ho la vocazione

La mancanza di soldi, la solitudine e la salute cagionevole dei figli spesso malati, segnarono la sua veloce ricaduta nell’oblio della depressione. Si consumò l’ultimo ed estremo gesto della tragica vita di Sylvia Plath. Dopo aver sigillato porte e finestre della cucina, inserì la testa nel forno a gas, lasciandosi morire.

Sylvia aveva lasciato pronta la colazione per i suoi bambini, aveva lasciato la loro finestra aperta, aveva lasciato un  biglietto con scritto il numero di telefono del medico e le parole: “Per favore chiamate il dottor Horder”. Questi segni portarono molti studiosi ad affermare che la Plath non aveva intenzione di uccidersi, ma era solo un’estrema richiesta di aiuto, purtroppo mal riuscita.

 

Sylvia Plath: la voce nella tormenta
Sylvia Plath sorridente al lago. Fonte: eroicafenice.com

Cosa ci resta di Sylvia Plath?

Ridurre Sylvia Plath a mero simbolo di angoscia femminile e leggere le sue opere solo nell’ottica della sofferenza, significa relegarla ancora una volta a tutti quei canoni che ella tentava di fuggire.

I suoi scritti parlano forte e chiaro, di lei e di chiunque riesca ad immedesimarsi nei suoi personaggi, creandosi e  ricreandosi infinite volte. La sua grande capacità di raccontarsi attraverso alter-ego mitici capaci di trascendere il tempo e lo spazio, portando il suo immaginario letterario in moltissime direzioni. Scriveva e sapeva scrivere, a prescindere dalla sua biografia, dall’esperienza dei disturbi mentali e dal suo vissuto di donna.

Sylvia Plath, ancora oggi, viene spesso semplificata sotto la lente ottica della disinformazione e della discriminazione sui temi sociali della malattia mentale e di genere. Eppure, ella è una figura ambivalente, simbolo di ribellione femminile dalla potente scrittura immaginifica, che la rende impossibile da definire in un solo senso. Sylvia Plath era insieme rabbia e rassegnazione, impossibilità e movimento, morte e  sopravvivenza. Nonostante le numerose limitazioni che dovette subire durante tutta la sua vita, in quanto donna affetta da disturbi mentali, non l’hanno fermata da raccontarci svariati mondi i cui limiti non esistono.

Forse è proprio questa la sua più grande eredità che ci ha lasciato e che non siamo pronti ad accogliere.

 

Gaetano Aspa

Maria Costa – ‘a Puitissa di Missina

«In Maria Costa la poesia nasce come bisogno di estrinsecare la propria esperienza, perché sia di giovamento a tutti lungo la strada comune, come modo di rivivere con sofferenza il dolore degli uomini. Una scrittura poetica la sua come apertura al dialogo, come fiducia nella forza della parola che scava in profondità senza infingimenti o compiacimenti. Ciò fa sì che nella poetessa di Case Basse la parola poetica si faccia di volta in volta senso ritrovato di un’umanità che non conosce limiti, partecipazione sofferta e silenziosa alle ragioni degli altri».

Giuseppe Cavarra

 

Maria Costa è ‘a Puitissa di Missina, simbolo, emblema e “faro” della cultura peloritana.

Sin da giovane si dedica alla poesia, facendosi portavoce della memoria collettiva di quella che era una Messina distrutta nel profondo dal terremoto.

Vita

Un’attività di famiglia

«Nascia on ribba o mari, in ta na spiaggia ricca»

racconta Maria, in un’intervista condotta da Mario Sergio Tedesco,

«unni me maci e me paci un facianu autru chi varari e tirari barchi».

Maria viene infatti al mondo nel borgo marinaro di Case Basse, nel villaggio Paradiso, il 15 dicembre 1926. La sua è una famiglia di pescatori e il padre possiede un barcone, con il quale tutti i giorni trasporta materiali da costruzione.

Maria trascorre la sua intera vita in riva al mare, con lo sguardo rivolto allo Stretto e alla costa calabra e qui trova il nutrimento della sua anima e, con la crescita, la sua musa.

La poetessa è la penultima di otto fratelli e l’unica figlia femmina. Cresce di fatto in un ambiente prettamente maschile e nella sua famiglia non si è mai parlato di uncinetto, di punto Norvegia, di punto palestrina, ma di monachette, bombressi, pappafichi e griselli.

Il padre, conosciuto come Don Placido, duranti i crudi inverni, raduna i figli davanti al braciere e racconta loro storie e storie: “è una fonte inesauribile” nonché suo maestro e ispirazione.

Maria è accorata, enfatica; la passione le arde negli occhi e vibra nella sua voce. D’altronde,

 

«Si vede che lo avevo nel DNA il pallino della poesia».

Gli esordi

Durante la Seconda Guerra Mondiale, tre dei suoi fratelli vengono chiamati alle armi e uno di questi, mobilitato a Taranto, non manca mai di spedirle il corriere: “Giornali che parlano di poesia”, a detta sua.

Maria, però, capisce ben presto che quello che legge non sono affatto le poesie che ricercava.

Quei giornali raccontano, in realtà, di imprese spacciate per vittorie, che, per Maria, non sono altro che sonore tumpulate e, soprattutto, non un qualcosa che il suo animo da picciridda possa sopportare.

In pena, è proprio qui che inizia a scrivere e non cesserà mai di farlo per il resto della sua vita.

 

Maria Costa
Maria Costa
Fonte: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/wp-content/uploads/2019/02/maria-costa-copertina.jpg

 

La poesia

L’eredità linguistica a cui attingere

Maria Costa scrive in dialetto e canta delle tradizioni, degli usi e dei costumi della sua terra.

Sviluppa, infatti, una duplice attitudine di poetessa popolare e di portatrice attiva di uno sterminato patrimonio di memorie orali.

La poetessa dello Stretto risulta inoltre essere l’ultima depositaria del messinese pre-terremoto, appreso da lei direttamente e mai abbandonato fino alla sua scomparsa.

Il suo lessico, di fatto, è diventato negli anni, oggetto di studio di linguisti, antropologi, studiosi di tradizioni marinare, dialettologi e storici della letteratura popolare. Ad esso si è attinto anche per la redazione del Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto e diretto da Giovanni Tropea, edito a cura del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani.

 

Le opere

Duranti i suoi quasi novant’anni di vita e di attività letteraria, Maria Costa pubblica vari volumi di poesie. Fra questi ricordiamo Farfalle serali, Mosaico, A prova ‘ill’ovu, Cavaddu ‘i coppi, Scinnenti e muntanti, Ventu cavalèri, Mari e maretta e Àbbiru maistru.

In essi, l’autrice si fa sirena e, con aria mistica, rievoca i miti e le leggende del Mediterraneo, come Fata Morgana e Colapesce.

 

Colapisci

Colapisci è uno dei componimenti più conosciuti e belli della produzione di Maria Costa. Anch’esso in dialetto, contiene espressioni idiomatiche che difficilmente possono essere tradotte. Con la sua interpretazione avvincente, viene sostenuta, durante un convegno svoltosi a Castelmola, la tesi contraria alla costruzione del ponte sullo Stretto.

Qui di seguito un estratto:

‘U Re ‘llampau e ‘n ‘coppu i maretta
‘i sgarru ci sfilau la vigghetta.

Giovi, Nettunu, dissi a vuci china,
quantu fu latra sta ributtatina.
Oh Colapisci, scinni lupu ‘i mari
e vidi si mi la poi tu truvari!
Era cumprimentu dà rigina,
l’haiu a malaggurio e ruina.

E Colapisci, nuncenti, figghiu miu,
‘a facci sa fici ianca dù spirìu
dicennu: Maistà gran dignitari
mi raccumannu sulu ‘o Diu dù mari.
e tempu nenti fici a gira e vota
scutuliau a cuta e a lena sciota
tagghiau ‘i centru e centru a testa sutta
e si ‘ndirizzau pà culonna rutta.

Ciccava Colapisci ‘i tutti i lati
cu di mani russi Lazzariati,
ciccau comu potti ‘ntò funnali
ma i boddira ‘nchianavanu ‘ncanali.
‘U mari avia ‘a facci ‘i viddi ramu
e allura ‘u Re ci fici ‘stu richiamu:
Colapisci chi fai, dimurasti?
e a vint’una i cavaddi foru all’asti.

E Cola cecca e cecca ‘ntà lu strittu
‘st ‘aneddu fattu, ‘ntà l’anticu Agittu.
Sò matri, mischinedda ancora ‘u chiama
cà mani a janga e ‘ncori ‘na lama.
Ma Colapisci cecca e cicchirà
st’aneddu d’oru pi l’atennità.

 

I riconoscimenti

Negli anni, Maria Costa ottiene numerosi riconoscimenti, nazionali e internazionali: i premi Vann’Antò, Lisicon, Bizzeffi, Tindari, Colapesce, Poesia da contatto, Montalbano, Maria Messina e ultimo, ma non per importanza, il prestigioso Ignazio Buttitta.

Inoltre, il suo nome è iscritto nel registro dei Tesori Umani Viventi dell’Unesco e la sua abitazione, dopo il 7 settembre 2016, data della sua morte, è una Casa Museo e sede del Centro Studi Maria Costa.

 

Case Basse, Maria Costa
Centro Studi Maria Costa a Case Basse. Fonte: https://www.mestyle.it/wp-content/uploads/2021/09/foto-copertina-1-1160×655.jpeg

 

Su di lei sono stati realizzati innumerevoli documentari, da parte di registi italiani, giapponesi, tedeschi, e francesi e altrettanti sono gli articoli, studi, tesi universitarie e iniziative editoriali a lei dedicati.

 

Valeria Vella

 

* articolo pubblicato all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud il 02/02/2023

 

Fonti:

Maria Costa – Wikipedia

Maria Costa – YouTube

 

Poesie dai confini del mondo. Il soggiorno a Messina di Friedrich Nietzsche

“Alla fine del mese vado alla fine del mondo: se lei sapesse dov’è!”.

Sono queste le parole del filosofo e scrittore Friedrich Nietzsche nella sua missiva dell’ 11 marzo 1882 indirizzata all’amico musicista Paul Gast, in cui annunciava il suo prossimo viaggio verso la terra alla “fine del mondo”, in Sicilia, nella nostra bellissima città di Messina.

Il filoso di Röcken, tormentato dal Föhn (l’afoso vento tedesco), aveva dall’anno precedente intrapreso un viaggio in Italia, alla ricerca di un clima più favorevole alle sue condizioni di salute.

Dopo un lungo soggiorno della durata di sei mesi sulla costa ligure, partì alla volta della città dello Stretto. Un arrivo in sordina quello di Nietzsche: salpato da Genova a bordo di un veliero, toccò le sponde messinesi il 31 marzo 1882 e, battuto dal mal di mare, venne portato in barella fino al suo albergo, nei pressi di Piazza Duomo.

Ma cosa spinse il filoso del “Superuomo” ad andare a Messina?

La citta dello Stretto in un’antica rappresentazione – Fonte: letteraemme.it

Teorie sulle motivazioni del viaggio a Messina

Sappiamo per certo che non si trattò di un colpo di testa, ma di un progetto che lo portò fino in Sicilia, insieme alla possibilità di restarci per qualche anno. Un insieme di eventi conducono a diverse ipotesi.

Ad esempio Koelher nel suo “Nietzsche. Il segreto di Zarathustra” ipotizza una possibile motivazione nella presenza a Taormina del barone Von Gloeden (fotografo tedesco), che in quegli anni stava attuando una propaganda artistica attraverso il concetto di bellezza, espressa dai giovinetti siciliani in pose antico-greche.

Un’altra valida motivazione è che Nietzsche fu spinto dall’amore per Goethe, che nella sua visita a Messina e a Taormina trovò l’ispirazione per la sua “Nausicaa”. Nietzsche aveva di certo letto il “Viaggio in Italia” del suo connazionale, al punto da rimanerne colpito. Qualche tempo prima aveva scritto all’amico Gast:

“Sempre mi aleggia intorno la Nausicaa”.

Un altro avvenimento non meno rilevante fu la presenza in Sicilia dell’ormai ex amico Richard Wagner, che aveva passato l’inverno a Palermo a comporre il Parsifal; il suo arrivo a Messina fu annunciato in pompa magna. È quindi del tutto improbabile che il filosofo non sapesse della visita del Wagner; di un eventuale incontro tra i due, però, non si sa nulla.

Wagner e Nietzsche – Fonte: messina.gazzettadelsud.it

Il mistero messinese

La permanenza in incognito di Nietzsche a Messina fu contornata da un alone di mistero talmente fitto da far arrossire gli stessi biografi del filosofo.

Una cosa è certa: Nietzsche ha amato Messina tanto quanto Messina ha amato il suo illustre ospite, come egli stesso ha raccontato agli amici Gast e Overbeck:

“I miei nuovi concittadini mi viziano e mi corrompono nel più amabile dei modi”.

In particolare, a Overbeck scrive che i messinesi sono amabili e premurosi al punto che gli sfiora l’idea che qualcuno possa averlo preceduto in Sicilia allo scopo di “comprarmi i favori di questa gente”.

Un soggiorno breve ma altamente proficuo, perché proprio nella città dello Stretto il filosofo completò gli “Idilli di Messina” e iniziò la stesura de “La Gaia Scienza”.

Solo dopo poco più di due settimane, il 20 aprile 1882, il filosofo fece rotta verso la “città eterna”, dove ad attenderlo c’erano l’amico Paul Rée e l’affascinante femme fatale Lou von Salomé (l’eterno amore di Nietzsche).

Friedrich Nietzsche – Fonte: gazzettadelsud.it

Gli “Idilli di Messina

Gli “Idilli di Messina” rappresentano un unicum all’interno della molteplice produzione filosofico-letteraria di Friedrich Nietzsche, in quanto unica opera prettamente poetica, pubblicata nel maggio 1882 sulla rivista «Internationale Monatsschrift» qualche mese dopo la sua composizione.

Una forma modificata e composta da sei di questi componimenti farà successivamente da appendice per la seconda edizione de “La Gaia Scienza” (1887).

Gli idilli nascono dall’impossibilità di rappresentare una singola immagine e al suo interno fissare gli stadi dell’incessante accadere.

“Ho la meta e il porto obliato,

Di tema e lode e pena sono immemore:

Ora io seguo ogni uccello nel volo.”

(da “Principe Vogelfrei”)

 

Le poesie seguono un percorso crescente ricco di continui rimandi alla differenza tra essere e divenire, tematiche che il filosofo affronterà in seguito. L’essere che ha la funzione di stato sincronico che può essere colto, si scontra con il divenire che non ha le sembianze di un flusso di coscienza distruttivo (tipico della filosofia nietzscheana), ma di un progetto, scelto e portato avanti, quello dell’oziosa incoerenza del divenire stesso.

Un progetto tale da portare la stabilità dell’essere nel divenire, quello stesso essere staccato da ogni continuazione della personalità. Da qui nasce l’espediente poetico, dove, tolta la devastante e prepotente filosofia nichilista, non resta che un puro gioco letterario piacevole e spensierato che traspare limpidamente nella lirica.

“E le sillabe, in questo verseggiare,

Saltellavano, oplà, l’una sull’altra,

Così che scoppiai a ridere d’un tratto

E risi per un quarto d’ora.”

(da “Giudizio d’uccello”)

 

In particolare, nel “Canto del capraio”, il testo viene modellato da versi ironici e indolenti, da cui traspaiono tutte le impressioni del soggiorno nell’estremo Meridione.

Copertina de “La Gaia Scienza” e gli “Idilli di Messina” – Fonte: maremagnum.com

 

Gaetano Aspa

 

Articolo pubblicato sull’inserto “Noi Magazine” della “Gazzetta del Sud” in data 17/02/2022

Al via la Nona Edizione del concorso di poesia “Liceo Galileo Galilei”

È stato nuovamente bandito il concorso di poesia “Liceo Galileo Galilei” che, dopo un anno di stop, torna con la nona edizione.

Il concorso

Il progetto, nato nell’omonimo Liceo, ormai vanta una storia pluridecennale e coinvolge, oltre che gli studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado, anche gli studenti iscritti all’Università degli studi di Messina e a chi, diplomatosi in un Istituto di Istruzione Superiore di Messina e Provincia, adesso studia in uno degli atenei nazionali.

Le parole della Referente

La referente, Prof.ssa Aricò, entusiasta della “ripartenza” del progetto, ha così commentato:

Il Concorso, se in senso spaziale risulta limitato alla provincia di Messina (con la sola eccezione per i partecipanti della sez. Università), in senso verticale è aperto alla quasi totalità delle Istituzioni scolastiche e della formazione universitaria. Ritengo che sia questo il motivo del suo successo, perché ogni anno pervengono al Liceo molti componimenti che, oltre ad attestare l’interesse diffuso tra i giovani per la poesia come forma di comunicazione di pensieri ed emozioni, fanno apprezzare le diverse qualità espressive dei loro autori, che spaziano dalla candida spontaneità dei preadolescenti alla sapiente e spesso raffinata liricità degli studenti universitari.

Il tema: Il sorriso della vita è intorno a noi

La commissione, composta da docenti di Materie Letterarie del Liceo Scientifico/Linguistico “Galileo Galilei”, da quattro ex docenti e da tre ex studenti dello stesso Liceo (due dei quali frequentanti l’ateneo messinese), in risposta alle esigenze dei giovani e al periodo storico che tutti stiamo vivendo, ha proposto come tema del concorso: “Il sorriso della vita è intorno a noi”.

Come partecipare

La modalità di partecipazione, da quest’anno esclusivamente online, prevede l’invio di due files in formato pdf, tramite il seguente link https://forms.gle/zLc7FP7TbNVComLj6.

  • il primo dovrà essere nominato esclusivamente col titolo della poesia e dovrà recare in calce al contenuto, al posto della firma, solo l’indicazione della scuola o dell’ateneo di appartenenza;
  • il secondo file dovrà essere nominato in modo identico al primo e dovrà recare in calce al contenutole generalità dell’autore(nome e cognome, numero di telefono, e-mail) e l’Istituzione di appartenenza.

La commissione selezionerà i componimenti più lodevoli, chiaramente divisi nelle varie sezioni, e premierà i più meritevoli con un premio in denaro di € 200,00.

Scadenze da ricordare

La data ultima per l’invio dei testi è fissata per il 12 Febbraio 2022.

Ulteriori informazioni

Qui il Bando concorso di poesia 2021-2022

Per ulteriori chiarimenti, è possibile contattare la rubrica #helpME tramite i social di UniVersoMe o mandare una email all’indirizzo: rubricahelpme@gmail.com.

Giovanni Alizzi