Plastica e natura: un binomio imperfetto

Plastica e natura: tutto ha inizio nel 1861, quando lo studioso inglese Alexander Parkes brevettò il primo materiale semi-sintetico, la xylonite, a partire da ricerche sul nitrato di cellulosa. Da quel momento in poi si sono susseguite una serie di scoperte che hanno rivoluzionato la vita dell’uomo. Chi penserebbe mai oggi di eliminare la plastica? Sarebbe impensabile separarci dalla comodità e dalla resistenza che ci garantisce un imballaggio o un sacchetto di questo materiale. Eppure siamo arrivati ad un punto di non ritorno: l’inquinamento da plastica costituisce un grave problema ambientale e per la salute di tutte le specie animali del pianeta.

  1. La sorpresa delle plastiche nella placenta umana
  2. Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari
  3. Effetti sulle specie marine
  4. L’acqua potabile è sicura?
  5. Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La sorpresa delle plastiche nella placenta umana

È di qualche mese fa la notizia che sono state riscontrate tracce di microplastiche (particelle polimeriche solide di dimensioni inferiori ad 1 mm) nella placenta umana. A rivelare la triste notizia è uno studio osservazionale condotto all’ospedale FateBeneFratelli di Roma, che si è svolto schematicamente in queste 5 fasi:

  1. Strutturazione di un protocollo “plastic free” per evitare qualsiasi contaminazione da materie plastiche durante il parto o l’analisi della placenta.
  2. Reclutamento delle pazienti in base a criteri ferrei: non dovevano ad esempio presentare patologie infiammatorie croniche, fumare o bere alcol, assumere farmaci che alterano l’assorbimento intestinale. Le donne reclutate sono state alla fine 6 e hanno dato il consenso per donare le loro placente.
  3. Passiamo alle fasi di laboratorio: sezione di ogni campione in faccia fetale, materna e porzione delle membrane coriali, conservate a -20°C.
  4. Digestione di ogni campione e filtrazione, seguita dall’analisi in microscopia ottica del filtrato con individuazione delle microplastiche.
  5. Analisi mediante microspettrografia delle microplastiche localizzate per stabilirne la tipologia.

I risultati mostrano il riscontro di 12 frammenti di microplastiche in 4 delle 6 placente analizzate, ma lo studio è veramente molto limitato per poter pensare a delle conseguenze sulla salute dei nascituri.

Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari

Se sicuramente i dati precedenti destano solo preoccupazione, il rapporto nocivo tra plastica e natura viene messo in evidenza dalle immagini degli oceani. Le conseguenze sugli organismi marini, sul loro ecosistema e la loro catena alimentare sono evidenti.

Stando ai dati del WWF il Mar Mediterraneo, pur rappresentando solo l’1% delle acque mondiali, contiene il 7% della microplastica marina. Sui fondali del mare nostrum sono stati rilevati livelli di microplastiche elevatissimi: circa 1,9 milioni di frammenti in un metro quadro.

Ma non finisce qui: sapevate dell’esistenza del Pacific Trash Vortex? Noto anche come Great Pacific Garbage Patch, si tratta di un’area vastissima dell’oceano Pacifico formata da rifiuti plastici galleggianti. Le dimensioni stimate vanno da 700.000 km2 a 10 milioni di km2, potendo rappresentare circa il 6% della superficie del pacifico.

Pacific Trash Vortex: la convivenza forzata di plastica e natura

Effetti sulle specie marine

Date le loro dimensioni ridotte, le microplastiche vengono facilmente ingerite dai pesci, dai molluschi e dagli altri abitanti dei nostri mari e ciò può comportare un danno a vari livelli.

Partiamo dal piccolo: a livello sub-cellulare causano una riduzione dell’attività enzimatica e dell’espressione genica, aumentando lo stress ossidativo: ciò si ripercuoterà a livello cellulare con uno stato di infiammazione ed un aumento dell’attività apoptotica. Infine, favoriscono lo sviluppo di neoplasie, riducono la fertilità e modificano i normali comportamenti all’interno dell’ecosistema marino.

Il danno da microplastiche, inoltre, non è solo diretto da ingestione, bensì anche indiretto legato alla degradazione delle stesse e conseguente liberazione di sostanze inquinanti nell’acqua marina.

L’acqua potabile è sicura?

Diversi studi hanno evidenziato la presenza di microplastiche anche nell’acqua che beviamo normalmente. Facile spiegarlo visto che nella maggior parte dei casi la conserviamo proprio in bottigliette di plastica, anche se si sta diffondendo la buona pratica dell’utilizzo di borracce “plastic free”. Elementi che favoriscono il rilascio di microplastiche sono rappresentanti dagli stress meccanici sulla bottiglia (anche il semplice atto di “girare il tappo” per aprire/chiudere) e dal suo frequente riutilizzo, pratica quindi fortemente sconsigliata.

Una review pubblicata a maggio 2019 sulla rivista Water Research ha analizzato tutti gli studi disponibili sulla presenza di microplastiche in acqua potabile e nelle acque dolci. Così facendo, si sono stabiliti i tipi di polimeri presenti e le loro forme. I polimeri più frequenti, come potete vedere dal grafico, sono: polietilene (PE), polipropilene (PP) e polistirene (PS).

In ogni caso, per dimostrare effetti negativi sulla salute umana servirebbero ulteriori approfondimenti.

Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La risposta alla domanda sarebbe molto ampia e difficile da argomentare in questa sede, però bisogna innanzitutto sapere che ognuno nelle piccole azioni quotidiane può fare qualcosa di buono per l’ambiente, ricordandoci sempre che dell’ecosistema “Pianeta Terra” facciamo parte anche noi.

Pensiamo a quei casi in cui l’uso della plastica potrebbe essere evitato, anche quando potrebbe sembrare banale. Ad esempio cosa ci costa portare una busta da casa per la spesa piuttosto che comprare i sacchetti al supermercato? Evitiamo l’uso di posate, piatti e bicchieri di plastica e cerchiamo di seguire una corretta raccolta differenziata. Plastica e natura non devono diventare un binomio indissolubile e, se lo capiremo, la natura ci ringrazierà.

Antonio Mandolfo

 

Per approfondire:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1382668918303934?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0048969720321781?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0269749116313306?via%3Dihub

https://www.mscbs.gob.es/biblioPublic/publicaciones/recursos_propios/resp/revista_cdrom/VOL93/C_ESPECIALES/RS93C_201908064.pdf

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0043135419301794?via%3Dihub

https://journals.sagepub.com/doi/10.3184/003685018X15294876706211?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori%3Arid%3Acrossref.org&rfr_dat=cr_pub++0pubmed&

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0043135419308565?via%3Dihub

I batteri che salvano il pianeta

Nell’immaginario collettivo i batteri sono indissolubilmente legati alle infezioni e quindi al concetto di malattia. In pochi sanno che in realtà solo una minima parte dei microrganismi appartenenti a questo regno sono dannosi per l’uomo.

Ma cosa c’entrano i batteri con la salvaguardia dell’ambiente?

Da diversi anni sono ormai note le grandi potenzialità di questi microrganismi, che si sono rivelati un ausilio fondamentale in diverse branche della scienza: dalla medicina alla biologia, dalla ricerca fino alle applicazioni pratiche innumerevoli.

Recentemente due diversi studi hanno dimostrato come alcune specie di batteri siano in grado di aiutarci nella risoluzione di due problematiche che da anni affliggono l’ecosistema terrestre: l’inquinamento causato dalla plastica e il riscaldamento globale.

Il problema ambientale inerente alla plastica è ormai noto a tutti: gli oggetti in plastica impiegano un tempo più o meno lungo a degradarsi nell’ambiente, causando danni consistenti a tutti gli ecosistemi.

Risale al 2016 la scoperta da parte di Shosuke Yoshida del Kyoto Institute of Technology del batterio Ideonella sakaiensis 201-F6, pubblicata sulla rivista Nature. Questo microrganismo produce due enzimi in particolare: PETase e MHETase, in grado di digerire il PET (polietilene tereftalato).

Questa molecola fa parte della categoria dei materiali plastici ed è usato in particolare per la produzione di bottiglie; si stima che una bottiglia di dimensioni medie impieghi circa 450 anni a degradarsi grazie a fenomeni naturali spontanei. Provate a moltiplicare questo tempo per la quantità enorme di bottiglie di plastica che produciamo ogni giorno: soltanto una parte di esse sarà riciclata, senza contare tutte quelle che sono state inadeguatamente smaltite in passato.

Tuttavia, servirebbe una quantità notevolmente elevata di batteri per degradare anche una sola bottiglia in PET. Far proliferare una mole così grande di batteri sarebbe un approccio svantaggioso in quanto troppo dispendioso.

Come possono dunque aiutarci questi microrganismi?

A questa domanda hanno provato a dare una risposta i ricercatori dell’Università di Greifswald e del Centro Helmholtz di Berlino; il loro studio si inserisce in un quadro più ampio di lavori britannici e statunitensi volti a identificare la struttura tridimensionale degli enzimi PETase e MHETase (figura in basso).

Conoscere la struttura 3D di queste due proteine è fondamentale, in quanto permette di capire esattamente come esse svolgano la loro funzione e di riprodurle in laboratorio con tecniche di biologia molecolare in quantità virtualmente illimitate.

Come se non bastasse, la conoscenza dettagliata delle reazioni biochimiche, che permettono la degradazione del PET, renderà possibile modificare la struttura degli enzimi per renderli ancora più efficienti.

Le implicazioni per il futuro sono estremamente interessanti: una volta “migliorati” in laboratorio, PETase e MHETase potranno essere impiegati per smaltire grandi quantità di PET nei suoi costituenti elementari (glicole etilenico e acido tereftalico). Questi, a loro volta, potranno essere riutilizzati per la sintesi di nuove molecole di PET in un ciclo virtualmente chiuso, senza danni per l’ambiente e più efficiente degli attuali sistemi di riciclaggio.

Il secondo argomento che affronteremo richiede un breve ripasso dei meccanismi alla base del riscaldamento globale.

L’effetto serra è un fenomeno naturale essenziale per lo sviluppo della vita sulla terra: i cosiddetti gas serra non sono altro che sostanze presenti nell’atmosfera che intrappolano parte delle radiazioni solari mantenendole all’interno dell’atmosfera stessa. In poche parole, questi gas permettono alle radiazioni di entrare nell’atmosfera, ma non di uscirne. Questo non è altro che un meccanismo di regolazione della temperatura della superficie terrestre.

Infatti, le radiazioni solari trasportano energia (dunque calore) attraversando i vari strati atmosferici per essere poi riflessi sulla superficie terrestre, come una pallina lanciata contro il muro che torna indietro.

Se non fossero presenti i gas serra, i raggi solari e la loro energia tornerebbero nuovamente nello spazio dopo aver “colpito” la superficie terrestre: la temperatura del globo sarebbe così bassa da non permettere lo sviluppo della vita.

Tuttavia, se la concentrazione di gas serra aumenta eccessivamente si osserva il fenomeno inverso: la temperatura della superficie terrestre si innalza, con tutte le conseguenze dannose che ne derivano. Esempi di gas serra sono il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il protossido di azoto (N2O) e il metano (CH4). Questi gas sono sia di origine naturale, sia antropica, termine che indica la loro produzione in una serie di processi dei quali è responsabile l’uomo.

Ma come fa un organismo piccolo come un batterio a ridurre l’effetto serra?

Semplicemente metabolizzando i gas sopracitati, ovvero sottraendoli dall’ambiente per trasformarli in sostanze innocue.

Lo studio pubblicato da Boran Kartal e colleghi del Max-Planck Institut su Nature si focalizza sul batterio Kuenenia stuttgartiensis. Questo microrganismo è in grado di fare reagire il monossido di azoto (NO) con l’ammoniaca producendo azoto (N2), normale costituente dell’atmosfera.

Il NO ha un potenziale dannoso: viene convertito a protossido di azoto (N2O), annoverato tra i gas serra.

Le principali fonti di NO di origine umana sono vari processi di combustione, come quelli dovuti al funzionamento di motori dei mezzi di trasporto (sia diesel che benzina e GPL) e alla produzione di calore ed elettricità.

Un’idea interessante potrebbe essere l’impiego di questi batteri negli impianti di trattamento delle acque reflue, che permetterebbe di sottrarre gran parte del NO prodotto da processi industriali.

Se degli organismi così piccoli possono fare così tanto per il pianeta, possiamo noi umani essere da meno?

A giudicare dagli ultimi dati sul riscaldamento globale e sulla plastica negli oceani, sembrerebbe di sì.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Structure of the plastic-degrading Ideonella sakaiensis MHETase bound to a substrate, Uwe T. Bornscheuer et al.

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09326-3)

Nitric oxide-dependent anaerobic ammonium oxidation, Boran Kartal et al. 

(https://www.nature.com/articles/s41467-019-09268-w)

“Planet vs Plastic. Un pianeta straordinario tra bellezza e abusi” di Randy Olson National Geographic

Venerdì 12 aprile 2019. Ore 18.00. Palacultura “Antonello da Messina“. Si è aperto un Talk dal titolo “Sostenibilità e innovazione, sfide dovute tra costume, economia e architettura” a introduzione della mostra internazionale “Planet vs Plastic” al quale hanno partecipato: il Presidente della Conferenza permanente interregionale per l’Area dello Stretto On. Mimmo Battaglia, l’Architetto Claudio Lucchesi – studio UFO, l’architetto Renato Laganà – UniRC e il Dott. Francesco Scarpino Amm. Unico e curatore della mostra. L’incontro ha registrato la presenza di numerosi professionisti e appassionati di fotografia.

La mostra, di forte impatto emotivo, è frutto della partnership tra Bluocean e National Geographic di cui Randy Olson è tra i più importanti e storici collaboratori nonché docente del Bluocean’s Workshop percorso di Alta formazione fotografica giunto alla 10 edizione e patrocinato in esclusiva da NatGeo.

Le immagini di Planet vs Plastic mirano a rappresentare il racconto di una sfida sempre più attuale: la straordinaria bellezza del nostro Pianeta mentre è impegnato nella più ardua delle battaglie, ovvero, la resistenza contro l’inquinamento. Il rispetto dell’ambiente e delle sue risorse naturali sono un tema centrale sempre più collegato alle grandi emergenze che colpiscono il pianeta, da quelle idrogeologiche all’inquinamento, in particolare della plastica la quale ha compiuto una vera e propria rivoluzione.

Tema attualissimo per cui l’ONU promuove numerose campagne di sensibilizzazione e l’UE si impegna a ridurre notevolmente, entro il 2030, l’uso di questi materiali.

Anima così tanto le coscienze della popolazione che basti pensare alla piccola Greta Thunberg, la ragazzina di 12 anni, che fa scioperare il mondo contro il riscaldamento globale, famosa ormai in tutto il web per la propria lotta.

La mostra propone un percorso volto all’educazione degli animi del visitatore attraverso opere di grandi dimensioni. Ca 35*50 cm. Una sorta di manifesto a protezione della vita della Terra. Ogni fotografia, uno strumento di persuasione, affinché si possa prendere coscienza che ogni nostro piccolo gesto è finalizzato a mutare in maniera indelebile il volto del pianeta.

La mostra sarà fruibile lunedì, dalle ore 9.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 19.00; martedì e giovedì dalle 9.00 alle 17.00; mercoledì e venerdì dalle 9.00 alle 13.00.

Gabriella Parasiliti Collazzo

 

I Nostri Mari invasi dalla plastica

Il 5 Giugno si è celebrata la Giornata Mondiale dell’Ambiente, l’8 Giugno la Giornata Mondiale degli Oceani; pochi giorni di distanza l’uno dall’altro per questi due importantissimi eventi, vicini quest’anno anche per il tema affrontato. La lotta all’inquinamento da plastica.

Sono 8 milioni, secondo quanto riportato dall’Unep, i rifiuti plastici riversati negli oceani.

“L’80% dell’inquinamento marino proviene dalla terra, compresi otto milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che ogni anno finiscono in mare”. La plastica soffoca corsi d’acqua, danneggia le comunità che dipendono dalla pesca e dal turismo, uccide tartarughe e uccelli, balene e delfini, si fa strada nelle zone più remote del pianeta e lungo tutta la catena alimentare”, questo è cio che ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite.

Questo dovrebbe bastare a sensibilizzare le coscienze di tutti a riguardo, eppure il consumo di plastica non diminuisce, le precauzioni che sono state adottate, ad esempio quella della Bioplastica, sono poca cosa a fronte ad un problema tanto grande.

 

Siamo tutti coinvolti, vittime e carnefici del degrado ambientale che dilaga. Ci tocca molto, troppo da vicino.

E’ il caso del Mare Nostrum, ospitante il 7% delle microplastiche presenti sul pianeta, forse un dato non esageratamente alto se non fosse che il Mediterraneo rappresenta solamente l’1% delle acque internazionali. I pesci che vivono lì (e che poi ritroviamo sulla nostra tavola) presentano rifiuti di plastica nello stomaco. Danneggiamo l’ambiente e noi stessi. E si avvertono ripercussioni in qualunque ambito, da quello già detto della salute, della biodiversità a quello economico, nel settore della pesca e del turismo ad esempio.

Ma come è possibile venire a capo di tale problema? Inutile dire solamente “bisogna agire nel nostro piccolo”, purtroppo non basta; sono le grandi industrie, le grandi aziende a doversi occupare del corretto recupero e smaltimento dei rifiuti, a dover applicare politiche a rifiuti zero, il cambiamento più grande deve partire da loro, il nostro contributo è necessario, serve, ma da solo non basterà mai.

 

Un grande esempio ci viene da Roma, dove l’artista Maria Cristina Finucci, ai Fori Imperiali ha realizzato l’installazione luminosa “HELP the Ocean”, costituita da un insieme di gabbioni in rete metallica rivestiti da un ricamo di sei milioni di tappini di plastica colorati. L’intento è quello di lanciare un grido di sensibilizzazione sulla condizione del mare e di tutto il pianeta. Renderci consapevoli di un problema di fronte al quale non possiamo chiudere gli occhi.

 

Benedetta Sisinni

Un bruco mangia-plastica per salvare il pianeta

Chi lo doveva dire che un bruco comunemente usato come esca dai pescatori fosse in grado di biodegradare il polietilene, o PE, una delle plastiche più resistenti e più diffuse al mondo?

Il bruco in questione è la larva della farfalla Galleria mellonella, meglio nota a pescatori con il nome di camola del miele o tarma maggiore della cera. A fare questa importante scoperta è stata una biologa italiana, Federica Bertocchini dello Csic, l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria. L’italiana avrebbe condotto l’esperimento , dopo una intuizione casuale lavorando su tutt’altro, insieme a  Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge.

Durante l’esperimento, un centinaio di larve dono state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di 40 minuti, sono comparsi i primi buchi. Dopo 12 ore la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione estremamente rapido, rispetto a quello finora osservato in altri microrganismi capaci di digerire la plastica (alcune specie di batteri nell’arco di una giornata riescono a degradare 0,13 mg).

“Se alla base di questo processo chimico ci fosse un unico enzima, la sua riproduzione su larga scala utilizzando le biotecnologie sarebbe possibile” ha osservato Bombelli. “La scoperta potrebbe essere uno strumento importante per liberare acque e suoli dalla grandissima quantità di buste di plastica finora accumulata”.

Alessio Gugliotta