Dagli studenti per gli studenti: Placenta, cos’è e a cosa serve

L’intera gestazione spesso viene scambiata da molti per un miracolo. Questa in realtà viene resa possibile, dalla fecondazione al parto, grazie a dei processi chimico-fisici e biologici. In particolare, lo studio della medicina e della scienza divulgativa ci fanno capire l’importanza e la bellezza del corpo umano femminile, in particolare di un organo strettamente correlato alla linea femminile umana: la placenta.

  1. Che cos’è e da cosa deriva?
  2. Da cosa è formata? 
  3. Posizioni della placenta
  4. A cosa serve?
  5. Funzione endocrina della placenta
  6. Secondamento

Che cos’è e da cosa deriva?

La placenta è un organo vascolare temporaneo, nonché uno dei numerosi annessi embrio-fetali (i restanti sono sacco vitellino, amnios, cordone ombelicale, allantoide e corion). Questa dopo il parto, insieme a tutti gli altri annessi, verranno espulsi grazie al fenomeno detto “secondamento”.

Immagine illustrativa del feto con il cordone ombelicale e la placenta, lateralmente. Fonte

La placenta deriva da una struttura embrionale detta blastocisti che prende il nome di sinciziotrofoblasto. Con l’impianto della blastocisti, l’endometrio uterino potrà diventare decidua. Prima di questa fase, che prende il nome di decidualizzazione, noi avremo un altro periodo facente parte strettamente del ciclo uterino che prende il nome di predecidualizzazione, fase in cui lo strato funzionale dell’utero (endometrio) si prepara per divenire decidua. Infatti, in questa fase, l’endometrio assume e trattiene molto glicogeno e lipidi che saranno di fondamentale importanza per la nutrizione embrionale. Il sinciziotrofoblasto, una volta penetrato all’interno della decidua, potrà emettere delle propaggini digitiformi che prendono il nome di villi coriali i quali, evolvendo, daranno vita ad un forte sistema vascolare capace di poter permettere l’afflusso di sangue all’interno di cavità, dette lacune, presenti nella placenta ormai formata.

Da cosa è formata?

La placenta è formata da due facce:

  • La faccia fetale (o corionica): presenta un aspetto traslucido (dato dall’epitelio amniotico), l’inserzione del cordone ombelicale e alcuni vasi placentari;
  • La faccia materna (o basale): qui notiamo un aspetto del tutto diverso. Vediamo che essa appare opaca e ruvida e avrà un aspetto molto particolare dato da strutture “irregolarmente poligonali”, detti cotiledoni.

I cotiledoni saranno divisi tra di loro esternamente da dei solchi intercotiledonali, internamente da dei setti intercotiledonali. Le due facce non si scolleranno tra di loro grazie a dei villi aderenti. L’altra tipologia di villi, presenti nelle lacune tra i villi aderenti, prendono il nome di “villi fluttuanti”. La differenza tra i due sono i punti di partenza e di arrivo: quelli aderenti nascono dalla faccia corionica e si fermano a quella basale, mentre quelli fluttuanti partono dalla corionica senza immettersi nel piatto basale.

Villi immersi nelle lacune della placenta. Fonte

Posizioni della placenta

La posizione dipende dal punto in cui si impianta l’embrione durante la “finestra d’impianto” (ottimale per un concepimento tra la 19esima e la 24esima giornata del ciclo uterino). Fisiologicamente la placenta potrà formarsi adesa alla parete posteriore o anteriore dell’utero, laterale destra o sinistra, fundica (cioè alla porzione apicale dell’utero, il fondo). Se la placenta dovesse coprire parzialmente o completamente l’orifizio uterino interno si chiamerà placenta previa. Questa si forma dopo il corpo dell’utero, all’altezza del collo di questo, ed è presente nel 3% delle gravidanze singole. Questa può indurre mortalità materna, emorragia antepartum, intrapartum o postpartum (prima, durante o dopo il parto), isterectomia e sepsi. La diagnosi viene effettuata grazie ad una ecografia transvaginale dopo la 32esima settimana di gestazione. Visivamente è riconoscibile, se la donna è sintomatica, a causa di un sanguinamento di color rosso acceso e non doloroso.

Immagine illustrativa di una Placenta previa. Fonte

A cosa serve?

Siamo abituati a vedere la madre come uno dei nostri punti di riferimento, e questo possiamo confermarlo già in “vita intrauterina”; la placenta infatti potrà:

  • mediare il passaggio di molte sostanze nutritive presenti nel sangue della madre e di fondamentale importanza energetica per il feto, come: glucosio, trigliceridi, acqua, proteine, ormoni, Sali minerali, vitamine;
  • sostituire alcuni organi che non sono momentaneamente attivi, come il polmone e i reni. Infatti, la placenta potrà favorire uno scambio di gas e quindi avvicinare l’ossigeno e allontanare l’anidride carbonica; inoltre, potrà garantire la depurazione e l’omeostasi, ovvero la tendenza dell’organismo di autoregolare l’ambiente interno nonostante le variazioni di quello esterno, solitamente data dal rene;
  • consentire la formazione di un sistema immunitario con il passaggio di anticorpi; sfortunatamente, però, a causa della stessa placenta potremmo favorire il passaggio anche di strutture dannose per il feto stesso come alcol, droga, nicotina e sostanze cancerogene (presenti nella sigaretta), virus e batteri;
  • fornire una funzione endocrina, di cui parleremo adesso.
La placenta estratta. Fonte

Funzione endocrina della placenta

Tra i vari ruoli svolti dalla placenta, uno dei più affascinanti è la regolazione ormonale che ci viene data da questo formidabile annesso. Infatti, questa sarà capace di secernere ormoni come:

  • hCG (gonadotropina corionica umana), ormone molto simile all’LH (altra gonadotropina secreta dall’ipofisi, in questo caso). Questo ormone serve per non far regredire il corpo luteo, presente a livello ovarico, il quale secernerà progesterone fino alla settima settimana circa. Inoltre, il dosaggio della hCG nel sangue serve per il test di gravidanza;
  • progesterone, secreto dalla settima settimana in poi.; questo ormone serve per evitare la fase mestruale del ciclo uterino con la quale inevitabilmente provocheremmo il rigetto della blastocisti (e del feto, in un secondo momento);
  • hPL (lattogeno placentare umano), il quale incide sul metabolismo materno; infatti, questo diminuisce la sensibilità all’insulina e, di conseguenza, favoriremo un innalzamento della glicemia e quindi garantiremo una maggior apporto energetico per il feto stesso; infine, questo ormone può indurre processi metabolici con i quali poter ottenere più precursori utili per la formazione di glucosio stesso (processi come la lipolisi, chetogenesi ecc.);
  • estrogeni, con i quali si eviterà la formazione di altri follicoli; questi ormoni sono fondamentali per garantire la fase estrogenica, prima fase del ciclo ovarico con la quale appunto si otterrà la maturazione di un follicolo secondario pre-antrale a follicolo pre-ovulatorio.

Secondamento

Questo fenomeno rappresenta l’ultima fase del parto. Circa 15-30 minuti dopo la nascita del bambino, si hanno delle contrazioni uterine fisiologiche che favoriscono l’espulsione della placenta insieme a tutti gli altri annessi embrio-fetali. Qualora il parto dovesse perdurare per più di 1 ora, il medico effettuerà una manovra manuale detta Manovra di Brandt-Andrews o ricorrerà all’utilizzo di farmaci.

Dario Gallo

 

Bibliografia:

https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-salute-delle-donne/travaglio-e-parto-fisiologici/parto

https://www.my-personaltrainer.it/salute/placenta.html

https://www.nurse24.it/ostetrica/placenta-previa-anomalie-posizione-placenta.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Secondamento

https://it.wikipedia.org/wiki/Ormone_lattogeno_placentare

https://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/omeostasi.html

Plastica e natura: un binomio imperfetto

Plastica e natura: tutto ha inizio nel 1861, quando lo studioso inglese Alexander Parkes brevettò il primo materiale semi-sintetico, la xylonite, a partire da ricerche sul nitrato di cellulosa. Da quel momento in poi si sono susseguite una serie di scoperte che hanno rivoluzionato la vita dell’uomo. Chi penserebbe mai oggi di eliminare la plastica? Sarebbe impensabile separarci dalla comodità e dalla resistenza che ci garantisce un imballaggio o un sacchetto di questo materiale. Eppure siamo arrivati ad un punto di non ritorno: l’inquinamento da plastica costituisce un grave problema ambientale e per la salute di tutte le specie animali del pianeta.

  1. La sorpresa delle plastiche nella placenta umana
  2. Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari
  3. Effetti sulle specie marine
  4. L’acqua potabile è sicura?
  5. Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La sorpresa delle plastiche nella placenta umana

È di qualche mese fa la notizia che sono state riscontrate tracce di microplastiche (particelle polimeriche solide di dimensioni inferiori ad 1 mm) nella placenta umana. A rivelare la triste notizia è uno studio osservazionale condotto all’ospedale FateBeneFratelli di Roma, che si è svolto schematicamente in queste 5 fasi:

  1. Strutturazione di un protocollo “plastic free” per evitare qualsiasi contaminazione da materie plastiche durante il parto o l’analisi della placenta.
  2. Reclutamento delle pazienti in base a criteri ferrei: non dovevano ad esempio presentare patologie infiammatorie croniche, fumare o bere alcol, assumere farmaci che alterano l’assorbimento intestinale. Le donne reclutate sono state alla fine 6 e hanno dato il consenso per donare le loro placente.
  3. Passiamo alle fasi di laboratorio: sezione di ogni campione in faccia fetale, materna e porzione delle membrane coriali, conservate a -20°C.
  4. Digestione di ogni campione e filtrazione, seguita dall’analisi in microscopia ottica del filtrato con individuazione delle microplastiche.
  5. Analisi mediante microspettrografia delle microplastiche localizzate per stabilirne la tipologia.

I risultati mostrano il riscontro di 12 frammenti di microplastiche in 4 delle 6 placente analizzate, ma lo studio è veramente molto limitato per poter pensare a delle conseguenze sulla salute dei nascituri.

Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari

Se sicuramente i dati precedenti destano solo preoccupazione, il rapporto nocivo tra plastica e natura viene messo in evidenza dalle immagini degli oceani. Le conseguenze sugli organismi marini, sul loro ecosistema e la loro catena alimentare sono evidenti.

Stando ai dati del WWF il Mar Mediterraneo, pur rappresentando solo l’1% delle acque mondiali, contiene il 7% della microplastica marina. Sui fondali del mare nostrum sono stati rilevati livelli di microplastiche elevatissimi: circa 1,9 milioni di frammenti in un metro quadro.

Ma non finisce qui: sapevate dell’esistenza del Pacific Trash Vortex? Noto anche come Great Pacific Garbage Patch, si tratta di un’area vastissima dell’oceano Pacifico formata da rifiuti plastici galleggianti. Le dimensioni stimate vanno da 700.000 km2 a 10 milioni di km2, potendo rappresentare circa il 6% della superficie del pacifico.

Pacific Trash Vortex: la convivenza forzata di plastica e natura

Effetti sulle specie marine

Date le loro dimensioni ridotte, le microplastiche vengono facilmente ingerite dai pesci, dai molluschi e dagli altri abitanti dei nostri mari e ciò può comportare un danno a vari livelli.

Partiamo dal piccolo: a livello sub-cellulare causano una riduzione dell’attività enzimatica e dell’espressione genica, aumentando lo stress ossidativo: ciò si ripercuoterà a livello cellulare con uno stato di infiammazione ed un aumento dell’attività apoptotica. Infine, favoriscono lo sviluppo di neoplasie, riducono la fertilità e modificano i normali comportamenti all’interno dell’ecosistema marino.

Il danno da microplastiche, inoltre, non è solo diretto da ingestione, bensì anche indiretto legato alla degradazione delle stesse e conseguente liberazione di sostanze inquinanti nell’acqua marina.

L’acqua potabile è sicura?

Diversi studi hanno evidenziato la presenza di microplastiche anche nell’acqua che beviamo normalmente. Facile spiegarlo visto che nella maggior parte dei casi la conserviamo proprio in bottigliette di plastica, anche se si sta diffondendo la buona pratica dell’utilizzo di borracce “plastic free”. Elementi che favoriscono il rilascio di microplastiche sono rappresentanti dagli stress meccanici sulla bottiglia (anche il semplice atto di “girare il tappo” per aprire/chiudere) e dal suo frequente riutilizzo, pratica quindi fortemente sconsigliata.

Una review pubblicata a maggio 2019 sulla rivista Water Research ha analizzato tutti gli studi disponibili sulla presenza di microplastiche in acqua potabile e nelle acque dolci. Così facendo, si sono stabiliti i tipi di polimeri presenti e le loro forme. I polimeri più frequenti, come potete vedere dal grafico, sono: polietilene (PE), polipropilene (PP) e polistirene (PS).

In ogni caso, per dimostrare effetti negativi sulla salute umana servirebbero ulteriori approfondimenti.

Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La risposta alla domanda sarebbe molto ampia e difficile da argomentare in questa sede, però bisogna innanzitutto sapere che ognuno nelle piccole azioni quotidiane può fare qualcosa di buono per l’ambiente, ricordandoci sempre che dell’ecosistema “Pianeta Terra” facciamo parte anche noi.

Pensiamo a quei casi in cui l’uso della plastica potrebbe essere evitato, anche quando potrebbe sembrare banale. Ad esempio cosa ci costa portare una busta da casa per la spesa piuttosto che comprare i sacchetti al supermercato? Evitiamo l’uso di posate, piatti e bicchieri di plastica e cerchiamo di seguire una corretta raccolta differenziata. Plastica e natura non devono diventare un binomio indissolubile e, se lo capiremo, la natura ci ringrazierà.

Antonio Mandolfo

 

Per approfondire:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1382668918303934?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0048969720321781?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0269749116313306?via%3Dihub

https://www.mscbs.gob.es/biblioPublic/publicaciones/recursos_propios/resp/revista_cdrom/VOL93/C_ESPECIALES/RS93C_201908064.pdf

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0043135419301794?via%3Dihub

https://journals.sagepub.com/doi/10.3184/003685018X15294876706211?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori%3Arid%3Acrossref.org&rfr_dat=cr_pub++0pubmed&

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0043135419308565?via%3Dihub

Covid-19: il rischio per bambini e donne in gravidanza

In uno scenario mondiale in cui la pandemia di COVID-19 desta preoccupazioni e miete nuove vittime sono molte le questioni lasciate irrisolte. Tra queste, la convinzione speranzosa che la SARS-CoV2 non colpisca i pazienti di età pediatrica. Ma, è proprio così? 

La malattia da COVID-19 (o malattia respiratoria acuta da SARS-CoV2) è una condizione patologia su base infettiva eziologicamente associata al virus SARS-Cov2, che comporta da un punto di vista clinico:

  1. Un quadro asintomatico;
  2. Un quadro sintomatico con febbre, tosse secca, astenia, mialgie, congestione nasale, vomito, diarrea. Nei casi più severi: polmonite, sindrome respiratoria acuta grave, insufficienza renale.

La COVID-19, che ha reso l’Italia il Paese con il maggior numero di contagi dopo la Cina, colpisce meno frequentemente i pazienti di età pediatrica. Tale caratteristica accomuna il SARS-CoV2 con il SARS-CoV (responsabile della SARS, nel contesto della quale non furono registrati morti tra bambini ed adulti di età posta al di sotto dei 24 anni). Il più grande studio cinese nell’ambito di COVID-19, pubblicato su JAMA l’11 febbraio, riportava determinate cifre significative: dei 44.672 casi confermati all’identificazione del genoma virale sul tampone, solo meno dell’1% era associato a pazienti di età al di sotto dei 10 anni. Attualmente in Italia tra i contagiati:

  • meno dello 0,5% presenta un’età compresa tra 0 e 9 anni;
  • meno dell’1% presenta un’età compresa tra 10 e 19 anni.

Il minor numero di contagi in età pediatrica può essere associato:

  1. A fattori esterni: la popolazione di età pediatrica, rapportata alla popolazione adulta, è meno esposta a luoghi che potrebbero favorire la rapida diffusione del virus quali treni, aerei, stazioni, aeroporti;
  2. A fattori intrinseci al sistema immunitario. Secondo studi recenti la popolazione pediatrica presenta una resistenza intrinseca al SARS-CoV2 per una maggior espressione della risposta immunitaria innata e per una minor espressione dei recettori indicati con l’acronimo di ACE2 (Angiotensin-converting enzyme 2),  evenienza che deriva da uno studio condotto nel 2006 sui topi. Il SARS-CoV2 lega tale recettore per invadere sia gli elementi cellulari polmonari che altri distretti (cuore, mucosa del cavo orale, mucosa del distretto gastrointestinale, distretto epatobiliare).

I bambini rappresentano vettori per la trasmissione dell’infezione?

I pazienti di età pediatrica possono comunque infettarsi, risultando dei vettori per la trasmissione dell’infezione, motivo per il quale uno dei provvedimenti, precocemente messo in atto dal governo cinese e successivamente italiano, comprende la chiusura delle scuole. I pazienti di età pediatrica possono di fatto ammalarsi, anche se meno frequentemente rispetto ai pazienti di età adulta, presentando nella maggior parte dei casi sintomi lievi e/o moderati. 

La COVID-19 si manifesta con gli stessi sintomi nei pazienti adulti e pediatrici?

Secondo i dati raccolti dal Children Hospital di Wuhan, l’infezione sintomatica da COVID-19, comprende:

  1. Tosse (65% dei casi);
  2. Febbre (60% dei casi);
  3. Diarrea (15% dei casi);
  4. Scolo mucoso in retrofaringe (15% dei casi);
  5. Rantoli (15% dei casi);
  6. Distress respiratorio (5% dei casi);
  7.  Linfopenia  (35% dei casi);
  8. La TC del torace mostra immagini simili a quelle rilevabili in età adulta: aree di addensamento a livello subpleurico, con caratteristiche a vetro smerigliato, oppure aree di addensamento caratterizzate da alone infiammatorio circostante; la quasi totalità dei casi presenta, tuttavia, un quadro radiologico lieve.

COVID-19 e gravidanza: che rischio corre il feto?

Nelle scorse settimane un neonato londinese è risultato positivo al virus dopo essere nato da madre con polmonite COVID-19. Sono noti anche altri casi in Cina, tra cui Xiao Xiao, la neonata guarita spontaneamente dopo soli 17 giorni di vita.
Uno studio recentemente pubblicato su The Lancet ha esaminato nove donne incinte tra i 26 e i 40 anni con polmonite da SARS-CoV-2; sono stati analizzati:
–  Campioni di liquido amniotico;
– Sangue cordonale;
– Latte materno;
Successivamente sono stati eseguiti tamponi faringei sui neonati, tutti risultati negativi, concludendo che non c’è evidenza di infezione intrauterina attraverso la placenta, o tramite latte materno. Bisogna aggiungere, tuttavia, che le nove donne hanno subito un parto cesareo al terzo trimestre e che la limitata casistica non ha consentito di effettuare ulteriori studi.
Ad oggi, un’eventuale infezione neonatale da SARS-CoV-2 potrebbe essere acquisita per via respiratoria dalla madre nel post partum, basti pensare alla vicinanza tra il viso della madre e quello del bimbo durante l’allattamento.
Caterina Andaloro
Bibliografia
1.Epidemia COVID-19. Istituto superiore di sanità, Roma.
integrata-COVID-19_09-marzo-2020.pdf [accesso in data 11/03/2020]
2. Lee P-I et al., Are children less susceptible to COVID-19? Journal of Microbiology,
Immunology and Infection. 2020. https://doi.org/10.1016/j.jmii.2020.02.011.
3. Xia W et al. Clinical and CT features in pediatric patients with COVID‐19 infection:
Different points from adults. Pediatric Pulmonology. 2020;1–6.
4. General Office of the National Health Commission of China. Diagnosis and
Treatment Protocol for 2019‐nCoV. 5th ed. Beijing, China: National Health
Commission of China;