Da Galileo a Rømer: la storia della velocità della luce

La velocità della luce è una delle grandezze più importanti in fisica, ad esempio tramite essa è possibile convertire la massa in energia e viceversa. A lungo si è ritenuto che fosse infinita a causa dell’apparente istantaneità con la quale si propaga. Basti pensare alla luce del Sole che per raggiungere la Terra impiega circa 8 minuti, mentre ai nostri occhi il processo appare immediato. Ma com’è stato misurato il suo valore?

I primi raggi del sole esplodono sull’orizzonte terrestre durante un’alba orbitale mentre la Stazione Spaziale Internazionale orbita sopra l’Oceano Indiano a sud-ovest dell’Australia – Fonte: Nasa.gov

La questione se la luce richieda tempo per propagarsi è stata più volte affrontata. Sulla base di semplici esperienze, legate per lo più al senso comune, è prevalsa l’idea che la luce dovesse propagarsi istantaneamente. Questa convinzione è stata rafforzata da alcune considerazioni legate alla fisica aristotelica; poiché la propagazione della luce non rappresentava un moto materiale, non dovendo essa subire resistenza nel mezzo, doveva propagarsi in un istante. A questa concezione aderirono per secoli quasi tutti gli studiosi di ottica, tra i quali Keplero e Cartesio, con qualche eccezione costituita ad esempio da Alhazen e dai suoi sostenitori.

L’esperimento di Galileo Galilei

Il primo a cimentarsi nella misura della velocità della luce fu Galileo Galilei. Nel 1638, egli pubblicò il trattato Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali dove proponeva che la velocità della luce potesse essere misurata tramite delle lanterne.

Il suo esperimento prevedeva di porre due lanterne a circa 2 chilometri di distanza e di calcolare il tempo che la luce impiegava ad arrivare da un punto all’altro. Quando Galileo scopriva la sua lanterna, il suo assistente doveva scoprire la propria non appena vedeva la luce. Misurando il tempo necessario per vedere la luce proveniente dalla lanterna del suo assistente, Galileo avrebbe potuto ricavare la velocità della luce.

Esperimento di Galileo Galilei – Fonte: INFN Sezione di Ferrara

L’esperienza però non portò a nessun risultato. La luce per percorrere 2 chilometri impiega circa 0,000005 secondi, un valore impossibile da misurare con gli strumenti a disposizione di Galileo.

Ole Rømer e l’orbita di Io

Tuttavia, per distanze maggiori e possibile ricavare una stima della velocità anche con strumenti meno sofisticati. Nel 1676 l’astronomo danese Ole Rømer riuscì a determinare un valore veritiero osservando l’orbita di Io, il più interno dei quattro grandi satelliti di Giove, scoperti da Galileo nel 1610.

Il periodo orbitale di Io è ora noto per essere 1,769 giorni terrestri (42 ore). Il satellite è eclissato da Giove una volta ogni orbita, visto dalla Terra. Osservando queste eclissi per molti anni, Rømer notò qualcosa di particolare: l’intervallo di tempo tra le eclissi successive divenne costantemente più breve man mano che la Terra si avvicinava a Giove e divenne costantemente più lungo man mano che il nostro pianeta si allontanava.

Dai suoi dati, Rømer ha stimato che quando la Terra era più vicina a Giove, le eclissi di Io si sarebbero verificate circa undici minuti prima di quanto previsto sulla base del periodo orbitale medio. Mentre 6 mesi e mezzo dopo, quando la Terra era più lontana, le eclissi si sarebbero verificate circa undici minuti più tardi del previsto.

Rømer capì che il periodo orbitale di Io non aveva nulla a che fare con le posizioni relative della Terra e di Giove. In un’intuizione brillante, si rese conto che la differenza di tempo doveva essere dovuta alla velocità finita della luce.

L’Eclissi

L’ipotesi di Rømer lasciò perplesso il direttore dell’osservatorio, Gian Domenico Cassini. Allora per convincere quest’ultimo, annunciò che l’eclissi di Io, prevista per il 9 novembre 1676, sarebbe avvenuta 10 minuti prima dell’orario che tutti gli altri astronomi avevano dedotto dai precedenti transiti della luna.

La previsione si verificò e Cassini dovette ricredersi. Rømer spiegò che la velocità della luce era tale che aveva impiegato 22 minuti per percorrere il diametro dell’orbita terrestre. Purtroppo, avendo un valore impreciso del diametro dell’orbita terrestre, il valore ottenuto fu 210.800.000 m/s.

Rømer comunicò la sua scoperta alla Accademia delle Scienze e la notizia venne poi pubblicata il 7 dicembre 1676, data che oggi viene ricordata come quella della prima determinazione della velocità della luce.

Eclissi di Io – Fonte: Focus.it

Altri studi

Lo scienziato olandese Christiaan Huygens, nel 1790, riuscì a trovare un valore per la velocità della luce equivalente a 210.824.061,37 m/s. La differenza era dovuta agli errori nella stima di Rømer per il ritardo massimo (il valore corretto è 16,7, non 22 minuti), e anche ad una conoscenza imprecisa del diametro orbitale della Terra. Più importante della risposta esatta, tuttavia, era il fatto che i dati di Rømer fornivano la prima stima quantitativa per la velocità della luce.

In seguito, la velocità della luce è stata misurata dai fisici con precisione assoluta: un raggio luminoso viaggia nel vuoto a 299.792.458 m/s. In un secondo potrebbe compiere sette giri e mezzo della Terra seguendo la linea dell’equatore.

Serena Muscarà

 

Bibliografia

https://www.focus.it/scienza/scienze/velocita-della-luce-news

http://galileo.phys.virginia.edu/classes/109N/lectures/spedlite.html

https://www.amnh.org/learn-teach/curriculum-collections/cosmic-horizons-book/ole-roemer-speed-of-light#:~:text=The%20speed%20of%20light%20could,is%20186%2C000%20miles%20per%20second.

In viaggio verso Proxima Centauri: il progetto Breakthrough Starshot

Nei film di fantascienza i viaggi interstellari avvengono in tempi molto brevi. Gli esempi più famosi sono il salto nell’iperspazio del Millennium Falcon in Star Wars oppure il wormhole di Interstellar. Con la tecnologia di oggi, invece, raggiungere un’altra stella richiederebbe un viaggio di migliaia di anni, anche per la più vicina. Per questo motivo nasce il progetto Breakthrough Starshot che potrebbe permettere di arrivare a Proxima Centauri in ‘’appena’’ 20 anni.

Immagine ottica di Alpha Centauri nella quale si vedono le coppia AB e Proxima Centauri.
Fonte: Eso/B. Tafreshi (twanight.org)/Digitized Sky Survey 2; Acknowledgement: Davide De Martin/Mahdi Zamani

La stella più vicina al Sole: Proxima Centauri

Proxima Centauri è una stella nana rossa che fa parte di Alpha Centauri, un sistema stellare triplo situato a 4,37 anni luce di distanza (circa 41 mila miliardi di chilometri) dalla Terra. Le altre due stelle che appartengono al sistema sono Alpha Cen A e Alpha Cen B, entrambe molto simili al nostro Sole. Proxima Centauri si trova a 0,21 anni luce (meno di 2 mila miliardi di chilometri) dalla coppia AB e dunque a 4,22 anni luce dalla Terra. Ciò le ha conferito il titolo di stella più vicina al nostro Sistema Solare.

La stella sicuramente rappresenta la candidata perfetta per inviare una sonda, ma a renderla ancora più interessante è l’esopianeta che orbita intorno ad essa: Proxima b.
Il pianeta è stato scoperto il 24 agosto 2016 dal team guidato dallo scienziato Guillem Anglada-Escudé della Queen Mary University di Londra. Proxima b orbita all’interno della zona abitabile della sua stella madre, ovvero quella regione dove è teoricamente possibile per un pianeta mantenere acqua liquida sulla sua superficie. Ciò renderebbe possibile la presenza di vita.

Il pianeta è stato rilevato misurando le variazioni della velocità radiale di Proxima Centauri tramite lo spettrografo HARPS, montato sul telescopio di 3,6 metri di diametro presso l’Osservatorio di La Silla dello European Southern Observatory (ESO). La scoperta è stata possibile grazie all’utilizzo del metodo delle velocità radiali, che consiste nel misurare le variazioni prodotte dall’effetto Doppler nello spettro della stella madre.

Funzionamento del metodo di rilevazione d’un pianeta basato sulla misura della variazione della velocità radiale.
Fonte: ESO

L’idea di raggiungere Proxima Centauri ha iniziato a farsi strada pochi mesi dopo la scoperta dell’esopianeta, dando vita al progetto Breakthrough Starshot.

Il progetto Breakthrough Starshot

Il 20 luglio 2015, l’imprenditore russo Yuri Milner e il fisico Stephen Hawking hanno annunciato le Breakthrough Initiatives. Il programma è dedicato alla ricerca di vita al di fuori del Sistema Solare. Tra le varie iniziative, il 12 aprile 2016 è stato annunciato il progetto Breakthrough Starshot. Il suo obiettivo è quello di inviare una sonda, o una flotta di sonde, che raggiunga Proxima Centauri in circa 20 anni.

La sonda più veloce in nostro possesso raggiungerebbe il nostro vicino stellare in 30 mila anni. Inoltre, non è possibile utilizzare i convenzionali razzi a propulsione chimica, in quanto non possono immagazzinare abbastanza energia sotto forma di carburante. Per questo motivo, Starshot si impegna a utilizzare un metodo di propulsione alternativo: le vele solari.

Le vele solari sono un mezzo di propulsione che sfrutta la pressione di radiazione della luce solare. I fotoni, ovvero le particelle che compongono la luce, nonostante non abbiano massa riescono a trasportare energia e quantità di moto. Quando questi colpiscono una superficie, esercitano una pressione. Nella vita di tutti i giorni non riusciamo ad avvertirla. Nello spazio, invece, dal momento che non vi è quasi attrito, se esercitata in modo continuo è possibile misurarla. Ad esempio, se trascurata nei calcoli, potrebbe deviare la rotta di una sonda di migliaia di chilometri.

Modello della sonda giapponese IKAROS, la prima ad usare le vele solari come propulsione, lanciata nel 2010.
Fonte: Di Pavel Hrdlička, Wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11722452

La prima sonda ad avere utilizzato le vele solari come sistema di propulsione è stata IKAROS dell’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA), lanciata nel 2010 per raggiungere Venere.

Nonostante il successo della missione giapponese, la luce del Sole è troppo debole per accelerare una sonda verso Alpha Centauri. Ciò richiederebbe una vela molto ampia, leggera, estremamente sottile e molto riflettente. Mentre la sonda in sé dovrebbe avere le dimensioni di un microchip, in quanto il carico dev’essere molto leggero. Per questo motivo, gli scienziati hanno optato per ciò che ha proposto Philip Lubin in A Roadmap to Interstellar Flight, ovvero l’utilizzo dei laser.

Il viaggio verso Alpha Centauri

L’idea di Starshot è quella di costruire dei laser distribuiti su un’area di circa un chilometro quadrato, con una potenza complessiva pari a 100 GigaWatt. Questa potenza permetterebbe di accelerare una sonda di appena un centimetro trasportata da una vela circolare larga 4 metri, il tutto con un peso complessivo di un grammo.

Una volta in orbita, la vela verrebbe aperta e colpita dai laser. Per massimizzare la velocità e minimizzare i danni da parte dei laser, la vela dovrà riflettere quasi tutta la luce in arrivo. Esistono già materiali idonei che possono riflettere fino al 99,999% della luce in ingresso. I ricercatori avranno bisogno di studiare come questi risponderanno agli intensi livelli di luce richiesti, che potrebbero produrre effetti ottici imprevedibili. Nella fase di accelerazione, la vela dovrà mantenersi estremamente piatta ed essere in grado di compensare le imperfezioni dei laser, in modo tale da restare in rotta, poiché anche la più piccola deviazione potrebbe cambiare drasticamente la traiettoria. Un metodo per prevenire questo problema è fare in modo che la vela giri, poiché la forza centrifuga generata permetterebbe al materiale di non piegarsi.

I laser si spegneranno dopo diversi minuti, una volta che la sonda avrà raggiunto un quinto della velocità della luce e viaggiato per un paio di milioni di chilometri, circa cinque volte la distanza tra la Terra e la Luna. Inizierà così il suo viaggio verso Proxima Centauri. Quando la sonda arriverà a destinazione, non ci sarà modo di rallentarla e attraverserà il sistema stellare in circa due ore. Questo creerà sfide per la progettazione dei suoi strumenti di misura, in quanto nessuna foto è mai stata scattata da una macchina fotografica che si muove a un quinto della velocità della luce. Le telecamere del velivolo dovranno ruotare per mantenere il pianeta in vista e i computer terrestri dovranno correggere le immagini dalle distorsioni causate dagli effetti della relatività, dal cambiamento dell’angolo e dalla distanza della telecamera dal pianeta.

Rappresentazione artistica di Proxima b.
Fonte: ESO/M. Kornmesser

Lo studio continua

Rimangono da risolvere una serie di difficili sfide ingegneristiche prima che queste missioni possano diventare realtà. Tutti i dati possono essere scaricati sul sito del progetto, insieme ai nomi dei ricercatori impegnati nello studio.

”Il mio obiettivo è semplice. È una comprensione completa dell’universo, perché è così com’è e perché esiste.”

Serena Muscarà

 

Bibliografia
https://www.media.inaf.it/2018/06/07/alpha-cen-radiazioni/

https://www.media.inaf.it/2016/08/24/proxima-centauri-pianeta-vicino/

https://www.nature.com/news/what-it-would-take-to-reach-the-stars-1.21402?utm_source=TWT_NatureNews&sf176788623=1

https://breakthroughinitiatives.org/initiative/3

https://www.nature.com/news/billionaire-backs-plan-to-send-pint-sized-starships-beyond-the-solar-system-1.19750

https://www.osa-opn.org/home/articles/volume_28/may_2017/features/breakthrough_starshot/

 

“Planet vs Plastic. Un pianeta straordinario tra bellezza e abusi” di Randy Olson National Geographic

Venerdì 12 aprile 2019. Ore 18.00. Palacultura “Antonello da Messina“. Si è aperto un Talk dal titolo “Sostenibilità e innovazione, sfide dovute tra costume, economia e architettura” a introduzione della mostra internazionale “Planet vs Plastic” al quale hanno partecipato: il Presidente della Conferenza permanente interregionale per l’Area dello Stretto On. Mimmo Battaglia, l’Architetto Claudio Lucchesi – studio UFO, l’architetto Renato Laganà – UniRC e il Dott. Francesco Scarpino Amm. Unico e curatore della mostra. L’incontro ha registrato la presenza di numerosi professionisti e appassionati di fotografia.

La mostra, di forte impatto emotivo, è frutto della partnership tra Bluocean e National Geographic di cui Randy Olson è tra i più importanti e storici collaboratori nonché docente del Bluocean’s Workshop percorso di Alta formazione fotografica giunto alla 10 edizione e patrocinato in esclusiva da NatGeo.

Le immagini di Planet vs Plastic mirano a rappresentare il racconto di una sfida sempre più attuale: la straordinaria bellezza del nostro Pianeta mentre è impegnato nella più ardua delle battaglie, ovvero, la resistenza contro l’inquinamento. Il rispetto dell’ambiente e delle sue risorse naturali sono un tema centrale sempre più collegato alle grandi emergenze che colpiscono il pianeta, da quelle idrogeologiche all’inquinamento, in particolare della plastica la quale ha compiuto una vera e propria rivoluzione.

Tema attualissimo per cui l’ONU promuove numerose campagne di sensibilizzazione e l’UE si impegna a ridurre notevolmente, entro il 2030, l’uso di questi materiali.

Anima così tanto le coscienze della popolazione che basti pensare alla piccola Greta Thunberg, la ragazzina di 12 anni, che fa scioperare il mondo contro il riscaldamento globale, famosa ormai in tutto il web per la propria lotta.

La mostra propone un percorso volto all’educazione degli animi del visitatore attraverso opere di grandi dimensioni. Ca 35*50 cm. Una sorta di manifesto a protezione della vita della Terra. Ogni fotografia, uno strumento di persuasione, affinché si possa prendere coscienza che ogni nostro piccolo gesto è finalizzato a mutare in maniera indelebile il volto del pianeta.

La mostra sarà fruibile lunedì, dalle ore 9.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 19.00; martedì e giovedì dalle 9.00 alle 17.00; mercoledì e venerdì dalle 9.00 alle 13.00.

Gabriella Parasiliti Collazzo

 

La Terra chiede aiuto

Uno studio dell’autorevole “Lancet” dice che per impedire il collasso del pianeta dovremo cambiare radicalmente dieta e sistemi di produzione alimentari, riducendo drasticamente i consumi di carne.

Salvare il pianeta si può.

Il consumo globale di frutta, verdura, noci e legumi dovrà raddoppiare, mentre il consumo di prodotti alimentari come la carne rossa e lo zucchero dovrà essere ridotto di oltre il 50 per cento.

Ad affermarlo è uno dei più corposi studi scientifici mai realizzati e pubblicato dalla commissione Eat-Lancet su cibo, pianeta e salute.

La commissione, che riunisce 37 esperti provenienti da 16 paesi con competenze in materia di salute, nutrizione e sostenibilità ambientale, ha pubblicato la “Planetary Health Diet”, ovvero una dieta che, se applicata, porterebbe a ridurre le emissioni di gas serra a livelli compatibili con l’accordo di Parigi e a migliorare la salute dei 10 miliardi di persone che popoleranno il pianeta nel 2050.

Il rapporto per la prima volta fornisce i target scientifici da perseguire per giungere ad un sistema di produzione alimentare sostenibile e ad una dieta sana per noi e per il nostro pianeta.

In questo senso lo studio fornisce quello che dovrebbe essere il regime alimentare giornaliero: il 35 per cento delle calorie dovrebbe provenire da cereali e tuberi; per quanto riguarda le fonti proteiche, queste dovrebbero essere principalmente vegetali, riscoprendo per esempio il consumo dei legumi.

“Questo rapporto non fa altro che confermare ciò che avevamo già indicato con l’Oms.

Questa commissione ha rianalizzato i dati disponibili sul rapporto tra dieta e salute e conferma che una dieta a base di carboidrati, legumi, grassi insaturi è associata ad una minore mortalità, causata da malattie cardiovascolari e tumori”, afferma il dottor Francesco Branca, direttore del dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo dell’Oms.

“Anzi si conferma che, se questa dieta venisse adottata a livello globale, si potrebbero salvare oltre 10 milioni di vite l’anno”.

Una dieta equilibrata, molto simile a quella dei nostri nonni e genitori e praticata oggi in paesi come India, Indonesia o Centro America.

“La novità di questo rapporto è indubbiamente il legame tra questo schema alimentare e l’impatto sull’ambiente. Le attuali tendenze di consumo non sono più sostenibili. Bisogna cambiarle”, continua Branca.

“Solo con un cambiamento dei nostri stili di vita potremmo affrontare il cambiamento climatico e le sfide ad esso legate”.

Lo studio non evoca un vegetarianesimo estremo.

Piuttosto “richiama all’importanza di un riequilibrio dei consumi animali.

Lo scopo di questo rapporto è proprio di aprire un dibattito pubblico su questioni fondamentali”, conclude Branca.

L’uomo ha oggi il dovere di ascoltare le grida della “Terra”.

Se così non facciamo correremo il rischio di rimanere senza casa.

La natura, madre della vita, merita rispetto.

Antonio Mulone

Un bruco mangia-plastica per salvare il pianeta

Chi lo doveva dire che un bruco comunemente usato come esca dai pescatori fosse in grado di biodegradare il polietilene, o PE, una delle plastiche più resistenti e più diffuse al mondo?

Il bruco in questione è la larva della farfalla Galleria mellonella, meglio nota a pescatori con il nome di camola del miele o tarma maggiore della cera. A fare questa importante scoperta è stata una biologa italiana, Federica Bertocchini dello Csic, l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria. L’italiana avrebbe condotto l’esperimento , dopo una intuizione casuale lavorando su tutt’altro, insieme a  Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge.

Durante l’esperimento, un centinaio di larve dono state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di 40 minuti, sono comparsi i primi buchi. Dopo 12 ore la massa della busta si era ridotta di 92 milligrammi: un tasso di degradazione estremamente rapido, rispetto a quello finora osservato in altri microrganismi capaci di digerire la plastica (alcune specie di batteri nell’arco di una giornata riescono a degradare 0,13 mg).

“Se alla base di questo processo chimico ci fosse un unico enzima, la sua riproduzione su larga scala utilizzando le biotecnologie sarebbe possibile” ha osservato Bombelli. “La scoperta potrebbe essere uno strumento importante per liberare acque e suoli dalla grandissima quantità di buste di plastica finora accumulata”.

Alessio Gugliotta

Giove e le sue Lune: tra Mito e Astronomia

Arrivate dalla sonda Juno le prime immagini di GioveIl 5 agosto 2011, a bordo di un razzo Atlas V alla Cape Canaveral Air Force Station, è stata lanciata Juno, una sonda della NASA, il cui compito è quello di studiare il campo elettromagnetico di Giove.

Il 4 luglio di questo anno, finalmente, questa piccola sonda è arrivata a destinazione e il 10 luglio ha inviato le prime foto del grande pianeta con le sue 3 lune (la quarta è rimasta nascosta, Callisto): Io, Europa e Ganimede.

Il pianeta si riesce a vedere molto bene, per quanto non si hanno ancora documenti in alta risoluzione, con le sue bande orizzontali e la famosa Grande Macchia Rossa.

Finalmente quindi, Zeus e le sue amanti, possono essere visti da tutti noi. I nomi delle lune, infatti, derivano proprio dalla storia greca, dove Io, Europa e Callisto erano le amanti di Zeus (il corrispettivo greco di Giove), mentre Ganimede era il suo cocchiere (e amante).

satelliti-di-giove

Con altre missioni spaziali si sono potute constatare le caratteristiche delle lune: Callisto è il più grande oggetto solare conosciuto, Ganimede è l’unico con un campo magnetico proprio e formato da ghiacci crateri e distesa oceanica salata, Io è l’oggetto solare più geologicamente attivo con colate laviche che gli danno il caratteristico colore giallo e, infine, Europa avente la superficie più liscia di qualsiasi altro oggetto solare. Quest’ultima, inoltre, sembrerebbe essere giovane e provvista di acqua: la qual cosa ha fatto ipotizzare agli scienziati che potrebbe esserci vita su essa.

Dunque, adesso, tocca al Grande Pianeta Rosso, Giove, svelarci i suoi segreti.

Juno ha compiuto un lungo viaggio di quasi 3 miliardi di chilometri e resterà a ruotare sull’orbita gioviana per avvicinarsi gradualmente all’atmosfera del pianeta, impiegando un totale di 53 giorni: intorno al 27 agosto dovrebbe, dunque, attivare la fotocamera ad alta risoluzione per poter inviare sulla terra altre incredibili foto di Giove.

La sonda, al momento, trasporta 9 strumenti scientifici di cui 3 firmati dalla nostra nazione: l’italia, infatti, ha partecipato al progetto con lo spettrometro Jiram (realizzato da Leonardo-Finmeccanica a Capi Bisenzio ) per lo studio delle aurore polari che si sviluppano dall’incontro delle particelle solari con il campo magnetico del pianeta; il KaT (progettato dall’Università della Sapienza di Roma ), che servirà per la mappatura interna del pianeta e, infine, l’AST (realizzato da Leonardo-Finmeccanica), sensore che dovrà cercare di mantenere la sonda sulla giusta rotta dell’orbita del pianeta.Giove

Ma non sono gli unici ‘’passeggeri’’ italiani sulla sonda Juno: a bordo anche la targa con il ritratto di Galileo Galilei, con la sua firma e il testo in cui, il medesimo scrittore nel 1610, descriveva proprio Giove e le sue 4 lune. Inoltre ci sono anche 3 statuine Lego che raffigurano sempre Galileo e, a fargli compagnia, Giove e Giunone.

Non manca nessuno, quindi, in questa avventura nello spazio. Ora bisogna solo avere la pazienza di aspettare i dati che verranno raccolti, durante questi 20 mesi, dalla sonda Juno e conoscere, finalmente, i segreti del pianeta ‘’Gigante’’ già, appunto, descritto da Galileo ma rimasto, fino ad ora, un vero e proprio mistero.

Elena Anna Andronico