Pesca sostenibile, l’Italia contro le novità UE: “Regolamenti privi di logica”

L’Italia fa ancora una volta il campanello tra le campane dell’Ue, tentando un flebile contro-suono sull’acustica comunitaria. La questione contesa, come in altre recenti occasioni, riguarda la sostenibilità di un settore economico, particolarmente: la sostenibilità nella pesca.

Il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea ha approvato una nuova normativa a proposito, ancora più stringente e, secondo alcuni, ancora più dannosa. Vediamo quindi ora cosa prevede, perché l’Italia non si è schierata a suo favore e come questa potrebbe smuovere il mercato ittico.

 Pesca sostenibile, i punti principali del regolamento

Riporta le informazioni Il Sole 24 Ore. Lunedì 26 maggio, in una riunione del Consiglio dei ministri Ue dell’Agricoltura, la maggioranza assoluta dei membri comunitari ha approvato il pacchetto per la pesca sostenibile già proposto dalla Commissione europea. “La maggioranza assoluta” per così scrivere, perché è solo per un’approvazione, quella dell’Italia, che non è stata raggiunto l’accordo unanime.

La misura sicuramente più incisiva prevista dal pacchetto è quella che sancisce lo stop definitivo per la pesca a strascico a partire dal 2030. Seguono, per importanza, la normativa che prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci grandi oltre i 18 metri e l’inasprimento delle regole sul “margine di tolleranza”, che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale.

L’Italia che non ci sta: non chiamateli “no green”

Nell’Italia che non ci sta, ci stanno in molti: a partire dal Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, passando per gli altri componenti della maggioranza di governo e giungendo fino alle associazioni degli imprenditori e i sindacati dei lavoratori.

Tutti soggetti che non si considerano “no green”, ma che sono pronti a essere etichettati così se essere (molto) “green” comporta ingentissimi costi. Ed è su quest’ultimo aspetto che si deve valutare ogni ragione.

In nome della sostenibilità, sostengono gli italiani della categoria: si possono presagire sanzioni e sanzioni pecuniarie, eccedendo più di quanto già si eccede, e poi, soprattutto, “la fine della pesca a strascico porterebbe alla perdita di 7mila posti di lavoro e alla fine del business per il 20% della flotta peschereccia italiana, con un drastico abbattimento dei ricavi del settore del 50%“.

Pesca
Pesce. Fonte: Wikimedia Commons

 

Annalisa Tardino: “Regolamenti privi di logica” 

Annalisa Tardino, eurodeputata della Lega, componente della Commissione Pesca e commissario regionale del partito in Sicilia, ha commentato le scelte dell’Unione con una nota:

Come anticipato all’indomani dell’accordo siglato con il Consiglio dell’Ue, la commissione pesca del PE ha oggi votato il regolamento Controlli, con il voto contrario da parte della Lega. I gruppi di maggioranza a Bruxelles, complici le assenze degli eurodeputati di Pd, M5s e terzo polo, hanno dato il via libera a nuove misure vessatorie nei confronti dei pescatori, categoria sempre nel mirino delle restrizioni dell’Ue, tartassata da regole e norme che invece di sostenere un settore di vitale importanza per l’economia costringono le imprese alla chiusura. Tutto questo grazie ai soliti fanatici delle ideologie green e alle nostre sinistre: le avevamo invitate a schierarsi a favore della nostra pesca e invece hanno disertato la votazione in Commissione. Il provvedimento prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci, per i quali è anche previsto un inasprimento delle regole sul cosiddetto ‘margine di tolleranza’ che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale. Questo vorrà dire ancora più sanzioni. Una nuova vergognosa decisione che, all’inizio, prevedeva nella proposta originale telecamere a bordo di pescherecci a partire dai 12 metri di lunghezza, mentre grazie al lavoro e all’impegno della Lega sarà applicato solo alle imbarcazioni oltre i 18 metri. Una misura che ci consente di escludere gran parte della nostra flotta. Continueremo ad impegnarci per questo settore e lottare contro provvedimenti lontani dalla realtà, scritti da chi, evidentemente, non è mai salito su una barca da pesca, e che tendono solo a impedire ai nostri pescatori di poter lavorare, mentre favoriscono i nostri Paesi competitor dell’area mediterranea non soggetti a questi regolamenti asfissianti e privi di logica.

Gabriele Nostro

Intervista a Giacomo Costa: l’antica arte dei maestri d’ascia

Immaginatevi rilassati sul lago di Ganzirri, seduti su una panchina leggendo un libro. Tutt’a un tratto venite distratti da un paio di turisti intenti a parlare con un anziano signore. I due sono come ipnotizzati dalle sue parole, che narrano segreti, miti e tradizioni di Messina e dello Stretto.

Noi di UniVersoMe abbiamo deciso di condividere la sua storia con voi: ecco il Professor Giacomo Costa, Maestro d’ascia e memoria storica della città di Messina.

©Andrea Rapisarda, Diploma di maestro d’ascia rilasciato al Professor Giacomo Costa nel 1962 – Ganzirri, Messina 2020

Buongiorno Professore, ci spiega il mestiere del maestro d’ascia?

Cari ragazzi, il maestro d’ascia è il lavoro del carpentiere, colui che si occupa di disegnare, intagliare ed assemblare le imbarcazioni. È un antico mestiere, che la mia famiglia svolge da cinque generazioni (in principio c’erano i Calbo, poi i Costa, ora di nuovo i Calbo con mio nipote Giuseppe). Io ottenni il mio diploma nel 1962: molte cose sono cambiate da allora.

Un tempo le barche si costruivano con mezzi primitivi, ad occhio. Io ho continuato la tradizione, usando anche nuove tecniche d’ingegneria. Uno strumento fondamentale era il c.d. mezzo garbo, una sagoma di legno ricurva che permette di tracciare le c.d. linee d’acqua e le ordinate del corpo della barca.

©Andrea Rapisarda, Un modellino di luntro realizzato dal Professor Costa – Ganzirri, Messina 2020

Vedete queste macchine? Io le uso da quarantacinque anni, necessitano di manutenzione, senza la quale rischiano di diventare molto pericolose.

Anche il legno deve essere adatto, per evitare che si spezzi durante la lavorazione. Per questo è meglio scegliere un legno curvo, come quello del gelso (raccolto nel mese di Novembre, quando l’albero “dorme”). Durante la seconda guerra mondiale fu difficile da reperire, poiché era l’ambiente ideale per far riprodurre i bachi da seta, necessari per i paracadute. 

©Andrea Rapisarda, Il Professor Costa nel suo laboratorio circondato dalle sue creazioni – Ganzirri, Messina 2020

La sua vita è sempre stata legata al mare: com’era un tempo la pesca a Messina?

La costa di Messina è divisa in 20 postazioni (c.d. poste). Partendo dalla fontana di Paradiso, ogni posta ha un nome: Fontana, Pricupara, Spina, Fossa, Pettu, Rutta, Grotte, Tarea e così via… Ogni anno i c.d. padroni lanzatori (capi dell’equipaggio per la pesca del pesce spada) devono recarsi in capitaneria e sorteggiarsi le poste. Questa è una tradizione che si ripete da secoli: nessun pescatore poteva sconfinare nella posta vicina. L’unica eccezione era aver avvistato il pesce spada nella propria posta: solo in quel caso era possibile inseguirlo nella posta altrui. Un tempo la caccia al pesce spada si praticava con due imbarcazioni: la feluca (usata per avvistare la preda, con un albero alto 22 metri) e il luntro (un’imbarcazione con 4 rematori ed il padrone lanzatore).

Ricordo quando andavo con mio nonno Iacopo Lisciotto a Palmi: era lì che iniziava la pesca, nel mese di Aprile. “Vasusu, vaiusu, vantera, vafora”: quelle che possono sembrare parole magiche sono invece le quattro direzioni che l’avvistatore (c.d. ntinneri) gridava ai rematori del luntro affinché questi potessero letteralmente inseguire il pesce spada. Il padrone lanzatore, con precisione matematica, puntava la preda calcolandone la velocità:”pigghia puntu! pigghia puntu!” (prendi la mira! prendi la mira!), e dopo pochi stanti l’arpione (c.d. ferro) trafiggeva il pesce spada.

©Andrea Rapisarda, Un esempio di luntro realizzato nel laboratorio del Professor Costa – Ganzirri, Messina 2020

Lei ha tenuto dei corsi sia all’Unime sia al carcere di Gazzi: ci racconta queste sue esperienze?

All’Università ero stato designato per il supporto tecnico alla realizzazione e costruimmo una barca a vela per gareggiare a Porto Santo Stefano (in Toscana). Ricordo che tutti gli studenti dell’allora corso di ingegneria navale – insieme ai docenti – lavorarono come una vera squadra: fu una grande occasione di crescita personale e professionale per tutti.

L’esperienza in carcere è stata eccezionale. In quell’occasione il “fattore umano” è stato determinante per me e per i detenuti, i quali – superati l’imbarazzo e la timidezza iniziali – iniziarono a familiarizzare con il mestiere. Costruimmo un luntro ed una piccola feluca, successivamente esposte alla scuola Minutoli.

Queste iniziative (all’Università, nelle carceri) a scopi rieducativi e di istruzione sono state per me motivo di grande soddisfazione e li conservo con affetto.

Finito il tour nel suo laboratorio, ci avviamo per una passeggiata di pochi minuti verso il lago.

©Andrea Rapisarda, Vista sul lago dalla panchina realizzata dal Professor Costa, con la barca paciota (barca a vela) al centro – Ganzirri, Messina 2020

Anche il Lago di Ganzirri si presta alla pesca. Lei, che vive da anni in questo luogo, ha dei consigli per riqualificare la zona?

Il Lago è un posto molto bello, ma sarebbe ancora più vivibile con pochi interventi mirati. Io ci vado spesso ed ho costruito molte barche per pescarci. Un esempio d’imbarcazione che potete trovarvi dentro è la c.d. barca paciota, una barca a vela e priva di motore con la quale un tempo era possibile arrivare fino alle Isole Eolie o a Taormina. Sarebbe bello poter passeggiare lungo il lago, magari con una passerella ed eliminando questi infestanti cespugli di oleandro (pianta non originaria di questo territorio lacustre).

Conclusa l’intervista abbiamo salutato il Professor Costa, che ha ricambiato il saluto con la stessa gentilezza con cui ci aveva accolto nel suo laboratorio, luogo in cui si apprestava a tornare per continuare la sua arte. In pochi minuti è riuscito a raccontarci gran parte della sua vita e noi speriamo di aver fatto altrettanto con questa intervista. Non ci resta che consigliarvi di recarvi voi stessi sui laghi, ammirarne le sponde e magari fermarvi e rilassarvi sulle panchina in legno – anch’esse costruite dal Professor Costa – alla scoperta di tradizioni e misteri della nostra splendida terra.

Salvatore Nucera

 

Immagine in evidenza:©Andrea Rapisarda, Il Professor Giacomo Costa intento a intagliare un pesciolino ligneo -Ganzirri, Messina 2020

 

 

 

Il mito sepolto dei laghi di Ganzirri. Il tempio, la mitilicoltura e la flora selvatica

In questa nuova tappa di Messina da scoprire vogliamo raccontarvi di come i fili che tessono le trame di leggende remote si intreccino alle vicende storiche di pescatori, regnanti Borboni e altri uomini di mare, in un paesaggio unico che si staglia tra le acque dei laghi di Capo Peloro e il litorale di Torre Faro.

Una palude. L’etimologia più accreditata fa risalire il nome dell’area alla parola ghadir, cioè stagno, zona acquitrinosa. I laghi che scorgiamo una volta attraversata tutta la costa del litorale settentrionale della città sono oggi il Pantano Grande (o Lago di Ganzirri) e il Pantano Piccolo (o Lago di Faro). Questo complesso lagunare venne unito attraverso il canale di Margi fatto costruire nella prima metà del 1800 dagli inglesi. Nello stesso periodo furono anche realizzati altri condotti per mettere in comunicazione i due laghi con i mari Tirreno e Ionio, che ancora vengono occasionalmente aperti, soprattutto in estate, per rifornire di ossigeno le acque salmastre. Ma in origine, e fino a poco più di un secolo fa, i laghi erano quattro: esistevano, come fonti storiografiche, a partire da Diodoro Siculo, riportano, anche il Lago di Margi e il Lago Madonna di Trapani, poi affluito nel Pantano Grande. Originati da progressivi insabbiamenti di un’area delimitata da cordoni litorali e plasmata dal moto ondoso marino e dai venti dello stretto, i bacini d’acqua presentano differenti caratteristiche fisico-chimiche. A detenere il primato di salinità e di varietà di specie è il lago di Faro dove vivono orate e anguille e un tempo oltre alle cozze, erano allevate anche ostriche.

La lingua di sabbia. Capo Peloro, punta nord orientale estrema della Sicilia. Da millenni culla delle divinità della mitologia pagana, antica custode di templi, circondata e protetta dai mostri implacabili di Scilla e Cariddi. Ulisse nel XII canto dell’Odissea per sfuggire a Cariddi (colei che “gloriosamente l’acqua livida assorbe”) e al vortice terribile che imperversava nel punto instabile di congiunzione tra i due mari dello stretto, preferì far naufragare la sua imbarcazione sul versante calabro e finire imprigionato nel giogo di Scilla, tra le cui fauci tuttavia alcuni suoi compagni persero la vita. Altre leggende che circondano questo lembo di terra parlano di Pelorias, una sorta di dea madre che risiedeva nel pantano e che personificava lo spirito della natura. La ninfa compare su monete coniate nell’antica città di Messana almeno dalla fine del V sec. a.C. A Pelorias erano associate nella simbologia mitili e conchiglie come la pinna nobilis, ritenuta preziosa e che venne importata dai fenici. E’ l’origine stessa della parola Peloro che in greco (pèloron) significa infatti mostruoso, fuori dal comune a rievocare la stratificazione di leggende che fin dall’antichità hanno influenzato i naviganti di quelle feroci e prodigiose acque. Più in prossimità di Capo Peloro sorge il lago di Faro che, in base a testimonianze, deve il suo nome alle fortificazioni fatte costruire dagli antichi abitanti di Zancle che lo dotarono di un faro a fiaccole per l’orientamento notturno delle navi.

 

Il tempio di Nettuno. Tra Il Pantano Grande e il Pantano Piccolo esisteva, come abbiamo detto all’inizio, il lago Margi o “Maggi”. Le sue esalazioni pestifere non permettevano di raggiungere l’area paludosa che venne bonificata dai Borboni nell’800. Scavi condotti in seguito portarono alla luce una serie di importanti reperti archeologici: vasi, suppellettili e altri antichi resti che rivelarono i gloriosi fasti sepolti di un misterioso tempio pagano. Oltre a Esiodo, lo scrittore romano Gaio Giulio Solino, vissuto nel III sec. d.C nella sua Raccolta di cose memorabili raccontava che su quello stagno melmoso era sorto un imponente tempio dedicato a Poseidone o Nettuno, il dio del mare, protettore ante litteram di Messina, che, stando al mito, separò la Sicilia dal continente con un colpo di tridente. A farlo erigere sarebbe stato niente meno che Orione, suo figlio, che la tradizione volle essere stato il fondatore della città, in onore del quale Angelo Montorsoli nel 1553 costruì la fontana collocata in piazza Duomo. Le colonne dell’antico tempio vennero quindi trasferite in epoca bizantina per permettere la costruzione delle navate del tempio cristiano.
Visioni e città. Al di là del mito, nelle più aleatorie propaggini della fantasia, un’altra storia lega il lago di Faro al folclore locale. Alcuni giurano ancora di scorgere qualcosa in quel fondale. Abbagliati dall’aria immobile del lago c’è chi afferma di sentire qualche volta il suono delle campane e di vedere i muri di un’antica città sepolta dentro le sue acque; Risa, un fiorente centro preellenico che a causa di un cataclisma sprofondò improvvisamente e lasciò al suo posto un fossato dove l’azione protratta delle piogge diede origine al lago. Le immersioni, se non sono riuscite a trovare conferme a questa curiosa leggenda, hanno comunque permesso di recuperare anfore bizantine e i resti di un antica imbarcazione, arrivata forse dal mare dello stretto. Il mare di Messina del resto da secoli confonde, inebria i suoi viaggiatori, e in certe giornate si può incappare nel bizzarro fenomeno ottico della Fata Morgana, quando da Reggio le due coste, siciliana e calabrese, sembrano toccarsi per effetto del riflesso delle abitazioni sull’acqua.

La pesca. Storici ipotizzano che la zona di Ganzirri fosse abitata fin dai tempi del neolitico. Documenti più sicuri testimoniano la presenza di villaggi e insediamenti di pescatori attorno alla laguna almeno a partire dal XVI secolo. Senz’altro la bonifica promossa dai Borboni intensificò l’urbanizzazione, dovuta anche alla necessità di difendere le coste dalle incursioni piratesche, e lo sfruttamento delle risorse offerte dalla varietà di pesci e di molluschi, detti cocciole. L’attività produttiva legata alla mitilicoltura e tellinicoltura caratterizza indissolubilmente il legame dell’uomo con il territorio. La zona, promossa a riserva naturale dal 2001, riveste un notevole interesse sotto questo profilo, tanto da essere annoverata come bene etno-antropologico sottoposto a divieti e restrizioni. L’habitat naturale in ogni caso in seguito al proliferare urbano sempre più massiccio, risulta  oggi compromesso. Recentemente, dopo le proibizioni degli ultimi anni, è ripresa comunque, seppure in misura minore rispetto agli anni ’60-’70, l’attività di allevamento dei frutti di mare. Molti pescatori di Ganzirri inoltre praticano la pesca del pesce spada a bordo delle feluche.

Specie floreali insolite. Nonostante il litorale di Torre faro sia fortemente alterato a causa dell’azione antropica conserva ancora un valore floristico e vegetazionale rilevante, grazie alle numerose specie molto particolari che continuano ad abitarlo, pressoché assenti nel resto della Sicilia, ad esempio la Centaurea deusta subsp. divaricata che cresce solo in questa zona, Anthemis peregrina, e Hypecoum procumbens della quale rimangono pochi esemplari esclusivamente nell’area di Ganzirri. Il sito è attualmente piuttosto degradato per l’intensa urbanizzazione; il lago Grande di Ganzirri e il Pantano piccolo hanno perso gran parte della loro vegetazione naturale, ma si rinvengono ancora specie rare come Cynanchum acutum.

Eulalia Cambria

Ph: Salvatore Cambria