Làscaris e la rinascita italiana del greco.

Quest’articolo per la rubrica Personaggi, sarà dedicato a Costantino Làscaris, colui che si fece promotore della rinascita dello studio della lingua greca in Italia.

Costantino Lascaris, filologo e umanista bizantino, nacque a Costantinopoli tra il 14 giugno 1433-1434. Avviato agli studi letterari, frequentò le lezioni del maestro Giovanni Argiropulo. Il suo arrivo in Europa è legato a delle precise circostanze storiche: quando i Turchi presero Costantinopoli, il 29 maggio 1453, venne fatto prigioniero; riuscito a fuggire, diede inizio ad una lunga peregrinazione in Grecia passando per la città di Fere e le isole di Rodi e Creta.

Tra il 15 novembre e il 14 dicembre 1458 si stabilì a Milano e vi restò fino al 1465 ricoprendo la carica di insegnante di greco per la figlia di Francesco I Sforza, Ippolita.

Successivamente, Lascaris visse in varie città, sempre insegnando greco, probabilmente a Ferrara, sicuramente a Firenze e a Napoli, dove il re Ferdinando I d’Aragona lo nominò professore di retorica; continuò la sua attività di docente fino al giugno 1466. E’ possibile ipotizzare che tra le ragioni del suo trasferimento a Napoli vi fosse l’intenzione di rimanere al seguito di Ippolita Sforza, sua alunna che aveva sposato il duca di Calabria, Alfonso d’Aragona. Proprio a quest’ultimo dedicò le sue 35 biografie di filosofi calabresi, raccolte nelle Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum. Anche in questo caso non si conoscono le ragioni dell’improvvisa partenza da Napoli e dello scontento nei riguardi della città, comunque la sua presenza a Napoli segnò un risveglio e uno sviluppo notevole degli studi greci nella città.

Con l’intenzione di tornare in Grecia e di abbandonare definitivamente l’Italia, si recò nel 1466 a Messina, e grazie alle insistenze di Ludovico Saccano, si trattenne nella città peloritana. Messina era l’ultima città in Sicilia dove era ancora attivo l’insegnamento del greco, per via della presenza del monastero basiliano del Ss.mo Salvatore in lingua Phari; è lì che l’insegnamento fu affidato a Lascaris nel 1467.

I primi anni a Messina non furono facili, ma lentamente l’umanista si inserì nella vita locale e finì per restare a Messina fino alla sua morte. Non si spostò mai da Messina, se si eccettuano due viaggi a Napoli, nel 1477-78 e nel 1481.

La subita emarginazione dai grandi circuiti culturali umanistici, gli consentì di dedicarsi all’attività filologica e soprattutto sfruttare per le sue ricerche la miriade di codici greci rappresentata dalle raccolte librarie pubbliche e private dell’Italia meridionale e da manoscritti.

La sua fama è legata al ritrovamento della Gigantomachia, opera greca del poeta latino Claudiano. Lascaris ne rintracciò e ne copiò 77 versi, inframmezzati da una lacuna di 68 versi, che si ripromise di colmare grazie al ritrovamento del frammento dell’opera in alcuni manoscritti a lui donati.

La fama di Lascaris come insegnante si estese in tutta la Sicilia. In ringraziamento degli onori concessigli, donò la sua biblioteca al Senato e al popolo messinesi intorno al 1494. Il prestigio della sua scuola si diffuse per tutta la penisola e nel 1488 Ludovico il Moro lo invitò a tornare a Milano per insegnare. Molti giovani si recarono a Messina per seguire le sue lezioni, di cui si ricordano il piacentino Giorgio Valla e il grande poeta e letterato rinascimentale Pietro Bembo.

Nell’agosto 1501 Lascaris contrasse la peste per morire poco dopo, ed essere seppellito nella chiesa carmelitana di Messina.

I codici donati dal Lascaris rimasero nella cattedrale di Messina per quasi due secoli, per essere poi trasferiti a Palermo ed ancora a Madrid a seguito della rivolta antispagnola di Messina. La raccolta, denominata Fondo Uceda, contiene 99 codici, dei quali più di ottanta copiati dal Lascaris ed è attualmente conservata presso la Biblioteca Nacional de España.

Costantino Lascaris fu produttivo copista, come risulta dai molti suoi manoscritti autografi, e appassionato bibliofilo. Un problema a lui molto caro fu la mancanza di copisti esperti: all’epoca in cui Lascaris lavorava, la maggior parte dei copisti non conosceva il greco e si limitava a ricopiare alla cieca i caratteri che leggeva sugli antichi manoscritti, accompagnandoli con la dicitura latina “grecum est; non legitur” (è greco, non si capisce). Solo grazie al prezioso contributo di Lascaris e di diversi altri umanisti di origine greca, la lingua greca antica riuscì ad acquisire il ruolo di spessore nella formazione classica che tutt’oggi conserva. 

La sua opera maggiore è la Grammatica greca, iniziata al tempo del suo soggiorno milanese. La prima edizione è di Milano, 30 gennaio 1476: è il primo libro impresso a stampa in caratteri greci, a parte la prefazione in latino. Conteneva soltanto una prima versione breve dell’opera, la cosiddetta Epitome.

L’opera, grammatica di base per l’apprendimento della lingua greca, ebbe lunga gestazione e perfezionamenti. Divisa in tre libri, l’opera ebbe numerose edizioni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.

Nei secoli XV e XVI il manuale servì da modello alle grammatiche greche. Testimonianza non comune della sua fama è nell’Utopia di Thomas More, dove è elencata insieme con i grandi classici che Raffaele Itlodeo porta agli abitanti di Utopia affinché apprendano il greco.

Poco prima di morire, Lascaris vide uscire una delle sue poche opere a stampa, le citate Vitae illustrium philosophorum Siculorum et Calabrorum, che fu stampata proprio a Messina. L’opera comprendeva 66 biografie di filosofi siciliani e 35 di filosofi calabresi: il significato profondo dell’opera era il tentativo di recupero di una grande tradizione culturale che si andava spegnendo nell’incuria e nell’abbandono.

Erika Santoddì

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Macalda di Scaletta: una dama guerriera nella Messina del Medio Evo

Nella folta schiera di personaggi che la Storia ha cristallizzato nella leggenda, trasformandone la memoria in un tutt’uno fra il mito, la diceria, l’aneddoto, l’epopea e la realtà storiografica, non può non rientrare il nome di Macalda di Scaletta. 

La sua è una storia affascinante, una autentica parabola che portò questa donna bella e ambiziosa, ricca e potente ma di umili origini, alla corte di uno dei più grandi monarchi di Sicilia, Re Pietro il Grande d’Aragona. Una storia fatta di intrighi e di tradimenti, sullo sfondo della caotica Sicilia dell’epoca dei Vespri Siciliani. 

Dalla montagna di scritti su Macalda è difficile capire dove finisce la leggenda e inizia la realtà. Si sa che nacque a Scaletta, vicino Messina, intorno al 1240, e che ereditò dal padre, Giovanni, il castello di Scaletta, solida roccaforte strategica sulla strada fra Catania e Messina, che tutt’ora si erge maestoso a guardia di quel tratto della riviera jonica. A differenza di quel che si potrebbe pensare però, le origini di Macalda erano umilissime: il nonno era un militare di bassa estrazione sociale, tanto da essere soprannominato “Matteo Selvaggio”, che aveva acquisito il castello dietro concessione reale e che aveva avuto la fortuna di arricchirsi grazie al rinvenimento di un tesoro nascosto al suo interno. 

Una famiglia di inarrestabili arrampicatori sociali di cui Macalda è degna discendente: dopo aver sposato in prime nozze un nobile caduto in miseria, Guglielmo Amico, alla morte del primo marito dà già mostra del suo carattere spregiudicato e indipendente, finendo a girovagare per la Sicilia travestita da frate francescano, fra espedienti e avventure amorose. 

“Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo, generosa nel donare e, a tempo e luogo, valorosa nelle armi al par d’un cavaliere”: è questo il ritratto che fa di lei un suo contemporaneo, lo storico catalano Bernat Desclot. Qualche anno dopo, questa giovane dama guerriera viene data in moglie ad Alajmo da Lentini, anziano uomo d’arme e politico navigato alla corte angioina; a questo altrettanto spregiudicato e ambizioso personaggio, che già anni prima non aveva esitato a tradire Manfredi di Svevia per ottenere il favore degli Angioini, si deve parte del suo successo.

Di lì a qualche anno, infatti, Alajmo non esita a tradire anche Carlo d’Angiò schierandosi a favore dei siciliani insorti nella rivolta dei Vespri. Quando re Carlo scende alla testa dei suoi uomini per sedare la rivolta, è Alajmo, nelle vesti di Capitano del Popolo di Messina, a frapporsi fra lui e il suolo siculo e sarà lui il grande regista della difesa cittadina durante l’assedio di Messina del 1282, punto di svolta della prima guerra del Vespro e tappa fondamentale della storia della città, mentre alla moglie, in sua assenza, viene affidato il governo di Catania.

All’arrivo nell’isola di Pietro d’Aragona, acclamato dagli insorti Re di Sicilia, Alajmo da Lentini viene premiato per la sua strenua resistenza col titolo di Gran Giustiziere del Regno: lui e la moglie diventano così fra i più alti dignitari della nuova corte di Sicilia. Ma a Macalda non basta: quando il re entra in trionfo a Randazzo Macalda non si fa sfuggire l’occasione per farsi notare e gli viene incontro a cavallo, in armatura, con in mano una mazza d’argento. Ben presto diventano evidenti le sue intenzioni di sedurre il Re per diventarne la favorita: intenzioni che non sfuggono alla moglie, la regina Costanza di Hohenstaufen, legittima erede di Federico II di Svevia, con cui presto inizia una rivalità spietata, una autentica escalation di provocazioni e continui sfoggi di potere e ricchezza.

Così, quando Alajmo da Lentini, sospettato dell’ennesimo tradimento, cade in disgrazia presso il nuovo Re, anche Macalda ne condivide la sventura. Mentre il marito, dopo essere stato convocato in Spagna, viene fatto giustiziare, Macalda finisce i suoi giorni in prigionia, nel castello messinese di Rocca Guelfonia. Anche da prigioniera, i suoi comportamenti restano assolutamente sopra le righe: si racconta che destasse stupore per la vivacità e l’immodestia dei suoi abiti, mentre trascorreva le giornate intrattenendosi a giocare a scacchi con un altro nobile prigioniero del castello, l’emiro Margam Ibn Sebir.

Sublimato nella leggenda, il personaggio di questa straordinaria siciliana anche a distanza di secoli non esaurisce il suo fascino; nel tempo, la si ritrova come protagonista di diverse leggende e racconti popolari siciliani. Nell’Ottocento Michele Amari, storiografo siciliano, la riscopre come personaggio storico e riferisce con gusto prettamente romantico e dovizia di particolari tutti i particolari più rocamboleschi delle sue avventure; qualche decennio dopo, Macalda diventa addirittura la protagonista di poemi e melodrammi.

Femminista ante litteram o ambiziosa femme fatale? Spregiudicata arrivista o valorosa amazzone guerriera? Eroina romantica o donna del suo tempo? Macalda di Scaletta è stata un po’ di tutto questo e un po’ niente. La sua storia si perde nel mito e ne trasforma il personaggio in un archetipo, enigmatico e complesso, di indomita donna siciliana. 

Gianpaolo Basile

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Storia di un musicista errante: l’avventurosa vita di Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista a Messina

Gerrit van Honthorst, “L’allegro violinista”, 1623.

Da Montepulciano a Venezia, da Venezia a Innsbruck, da Innsbruck alla nostra Messina, e da lì non si sa dove, fino a finire alla corte del Re di Spagna. Aggiungiamoci tanta, tantissima musica, perchè di un musicista stiamo parlando: Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, violinista e compositore. Poi, giusto per aggiungere un pizzico di torbido, la storia misteriosa di un omicidio… Come ambientazione, il Seicento europeo delle corti nobiliari, dei fasti e dei capricci del Barocco, il Seicento dell’epoca d’oro della storia di Messina e del suo crepuscolo.

Ce n’è abbastanza per un romanzo d’appendice, vero? E invece stiamo parlando di una storia vera, faticosamente ricostruita da archivi e fonti bibliografiche e confinata alla polvere e agli scaffali delle biblioteche; e stiamo parlando di alcuni spartiti, anch’essi poco più che muti fogli di carta, che però, nelle sapienti mani degli esperti, possono trasformarsi in musica; musica che ci parla di un’epoca e un mondo che non esiste più.

E’ a Montepulciano, in Toscana, che il nostro protagonista viene alla luce nel 1624, col nome di Domenico Pandolfi: il nome Giovanni Antonio, con cui diverrà noto in futuro, lo prenderà anni dopo, quando si farà prete, mentre il secondo cognome, Mealli, è quello del primo marito della madre, vedova e risposata con Antonio Pandolfi. Nel 1629, cinque anni dopo la sua nascita, il padre muore: è così che la famiglia si trasferisce a Venezia, dove Giovan Battista Mealli, il suo fratellastro, figlio di primo letto, lavora come cantore nella cattedrale di San Marco. Proprio qui il giovane, presumibilmente, apprende i rudimenti della musica.

Passano gli anni e Giovanni Antonio, divenuto sacerdote e valente violinista, si stabilisce a Innsbruck, alla corte dell’Arciduca d’Austria: è lì che vengono pubblicate, nel 1660, due raccolte di musica per violino, pezzi pregevoli scritti in uno stile irruento, capriccioso, espressivo e virtuosistico, nel pieno dei canoni barocchi dello “stylus phantasticus”, lo stile fantastico, in voga all’epoca nel Nord Europa. (qui una registrazione completa: https://www.youtube.com/watch?v=J2HSgxfN_ks )

Evaristo Baschenis, “Natura morta con strumenti musicali”, 1650

Nove anni dopo lo ritroviamo a Messina, violinista nella Cappella Senatoria del Duomo. Non si sa quali vicende lo abbiano portato a spostarsi dall’Austria alla città dello Stretto; ma sappiamo che in quel periodo Messina è una città florida, ricca e culturalmente vivace, il Senato è all’apogeo del suo potere politico, e la Cappella Senatoria, come riflesso di questo periodo di splendore, è una istituzione musicale fiorente e importante nel panorama siciliano e ospita musicisti da tutto il resto d’Italia e da Roma. In questo contesto di variopinta attività culturale possiamo anche inserire l‘Accademia le cui riunioni si tenevano nella residenza del nobile Giovanni La Rocca, principe d’Alcontres e marchese di Roccalumera, mecenate che si dilettava di musica (pare possedesse e suonasse il claviorgano, uno strumento dell’epoca ibrido fra un clavicembalo e un piccolo organo) e della cui cerchia Pandolfi faceva parte come protetto. A lui è infatti dedicata la raccolta di Sonate pubblicata a Roma nel 1669, l’unica opera che ci sia pervenuta dal suo periodo messinese. Una opera che documenta un netto cambio di stile rispetto ai lavori precedenti: scompaiono le capricciose evoluzioni del violino solista, cedendo il passo a danze e variazioni su temi: un genere che doveva essere molto di moda nella Messina del ‘600, dato che anche Bernardo Storace, che della Cappella del Duomo fu vice maestro e organista più o meno negli stessi anni in cui vi lavorò Pandolfi, ne fa largo uso in una raccolta di pezzi per organo e clavicembalo. Spesso sono scritti per più strumenti, chiaramente destinati ad essere suonati in gruppo, da piccole ensemble strumentali: secondo una usanza tipica dell’epoca, che Pandolfi adottò anche nei lavori del 1660, le singole sonate sono intitolate coi nomi dei colleghi ed amici della Cappella Senatoria di Messina, ed erano probabilmente destinate ad essere eseguite con loro, tanto in chiesa quanto nel contesto dell’Accademia.

Bartolomeo Bettera, “Natura morta con strumenti musicali”, XVII sec.

Poi, nel 1675, avviene un fatto misterioso che cambia la vita di questo musicista: un giorno, mentre si trova nel Duomo, ai piedi della scala della cantoria, ha una lite violenta con un cantante, il castrato Giovannino Marquett. Nulla si sa, e forse mai si saprà, di cosa sia successo tra i due, che peraltro dovevano essere stati in ottimi rapporti fino a qualche anno prima, dato che proprio a Marquett è dedicata una delle sonate del 1669, appunto intitolata “il Marquetta” (la trovi qui: https://youtu.be/VtydebLyFyE?t=1761 ). Quel che è certo però è che deve essersi trattato di una lite davvero seria: a un certo punto, dopo essere stato a lungo provocato, Pandolfi perde il controllo, sottrae la spada al cantante e lo colpisce a morte.

Costretto a scappare da Messina in seguito a questo omicidio sacrilego, Pandolfi scompare dalla circolazione, per poi ricomparire, qualche anno dopo, nientemeno che a Madrid, come violinista della Cappella Reale. Da questo momento in poi, le tracce della sua esistenza iniziano a diradarsi fino a perdersi nei meandri della Storia.

Cosa ci resta di questo musicista avventuroso dalla storia piena di punti interrogativi? Senza dubbio la musica: ma perché essa possa continuare a vivere e non tacere per sempre, bisogna che qualcuno la esegua. Se, infatti, dei lavori musicali di Innsbruck abbiamo diverse registrazioni ed esecuzioni, lo stesso non si può dire delle Sonate messinesi, sconosciute tanto al grande pubblico quanto, spesso, agli stessi addetti ai lavori, tanto che ad oggi manca una loro registrazione completa. Un altro frammento dell’enorme (e sottovalutato) patrimonio culturale della città di Messina, destinato forse a rimanere nell’oblio. 

Gianpaolo Basile