Il pacemaker: con o senza fili?

Il pacemaker è un dispositivo medico in grado di stimolare la contrazione di più camere del cuore, affinché possa svolgere correttamente il suo ruolo di pompa. Il primo pacemacker è stato impiantato nel 1957 e il suo ideatore fu Rune Elmqvist, il quale lavorò sotto la direzione di Åke Senning, medico senior e cardiochirurgo presso l’Ospedale Universitario Karolinska di Solna, in Svezia.

Indice dei contenuti

  1. Cos’è il pacemaker?
  2. Differenza tra la tecnica tradizionale e la tecnica leadless, senza fili
  3. Come viene effettuato l’impianto del pacemaker?
  4. Conclusione

Cos’è il pacemaker?

Il pacemaker è un dispositivo transitorio e wireless in grado di generare degli impulsi elettrici che stimolano la contrazione di atri e/o ventricoli in caso di disturbi della genesi o della conduzione dell’impulso elettrico. In questo modo permette al cuore di poter svolgere correttamente il suo lavoro. Infatti, in condizioni di riposo, quando il cuore funziona correttamente, le camere cardiache si contraggono a una frequenza intorno ai 60/80 battiti al minuto. Quindi se tali condizioni non sono verificate, il pacemaker permette di aumentare la frequenza del battito cardiaco in base al fabbisogno del paziente basandosi su dei segnali derivanti da una rete di quattro sensori morbidi, flessibili, indossabili e unità di controllo posizionate attorno alla parte superiore del corpo.

Differenza tra la tecnica tradizionale e la tecnica leadless, senza fili

La tecnica tradizionale consiste nell’applicazione attraverso le vene dello stimolatore cardiaco.
Questa tecnica implica alcuni problemi quali complicazione correlate alla tasca (infezione, ematoma, erosione), complicazione correlate ai cateteri (ad esempio la trombosi venosa) e complicazioni legate alla difficoltà di reperire accesso venoso (ad esempio ostruzione).

Grazie alla nuova tecnica Leadless si è riusciti ad ovviare alle complicanze causate dal metodo tradizionale.  Lo scopo è aumentare l’accettazione del pacemaker da parte del paziente: nessuna cicatrice, tumefazione o elemento esterno visibile.
Inoltre, questa nuova tecnica, consiste nell’impianto di un pacemaker delle dimensioni estremamente ridotte (come quelle del tappo di una penna a sfera) e dei suoi accessori: un programmatore, un induttore, un catetere di posizionamento.
Quindi la principale differenza sta nel fatto che nella tecnica tradizionale dobbiamo estrarre il filo collegato direttamente al cuore mentre nella tecnica senza fili abbiamo un cerotto che si applica sul petto, tale da assicurare la risposta elettrica necessaria senza sensori impiantabili. Quando non serve più viene rimosso come un adesivo che si stacca dalla cute.

Fonte: tecnicaospedaliera.it

Come viene effettuato l’impianto del pacemaker?

L’intervento avviene in anestesia locale e solo in qualche caso può essere necessaria una blanda sedazione.
Il pacemaker viene posizionato grazie ad un sistema di trasporto costituito da un tubicino flessibile inserito attraverso un induttore tubulare  posizionato nella vena cava femorale, da destra. Dopo aver progressivamente dilatato la vena con un sistema di tubicini a diametro crescente, il dispositivo viene fatto avanzare fino al cuore. Per valutare la corretta posizione del dispositivo nel cuore sarà necessaria la somministrazione di piccole quantità di mezzo di contrasto iodato.
Dopo che viene impiantato, la presenza di corretti parametri di stimolazione viene controllata con un programmatore ed eventualmente verrà modificata la programmazione.
L’uso del pacemaker senza fili non richiede la somministrazione di alcun farmaco aggiuntivo durante l’operazione o in qualunque altro momento a seguire. Alla fine della procedura, il pacemaker sarà permanentemente impiantato nel cuore, il catetere di posizionamento viene rimosso e nessun’altra parte del sistema rimane nel corpo. Viene quindi chiusa l’incisione nell’inguine con una compressione manuale o con l’applicazione di un punto di sutura.
Un intervento chirurgico di questo tipo può durare in media dai 45 ai 90 minuti e può essere effettuato su pazienti in attesa di un pacemaker permanente sia in bambini e neonati con anomalie cardiache.

Fonte: www.google.com

Conclusione

Questa nuova tecnica è garante del fatto che, con il progredire della scienza e l’innovazione che portano studio e ricerca, si può sempre migliorare ciò che già è in commercio e che esiste da anni.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

Sofia Musca

Bibliografia
https://www.humanitas.it/cure/impianto-di-dispositivo-antibradicardico-pacemaker/ 
https://www.repubblica.it/salute/dossier/sportello-cuore/2022/06/21/news/in_arrivo_il_pacemaker_senza_fili_che_si_scioglie_quando_non_serve_piu-353745547/
https://www.auxologico.it/pacemaker-tecnica-tradizionale-senza-fili
https://www.humanitas-care.it/cure/impianto-di-dispositivo-antibradicardico-pacemaker/#:~:text=Quanto%20dura%20l’intervento%3F,dai%2045%20ai%2090%20minuti.

Covid-19, quali mascherine per la Fase 2: chirurgiche, FFP2 e “Fai da te”

Indossare delle mascherine può aiutare a proteggere se stessi e gli altri dal contagio da SARS-CoV-2? Quali tipi di mascherine possono essere utili, come vanno indossate, rimosse e sanificate qualora le si voglia riutilizzare?

Il nuovo Coronavirus (denominato SARS-CoV-2) è un virus respiratorio che si diffonde fondamentalmente attraverso il contatto stretto con una persona infetta. I coronavirus hanno dimensioni di 100-150 nanometri di diametro (600 volte più piccoli di un capello), motivo per il quale tra le principali vie di trasmissione bisogna annoverare le goccioline (droplets) delle secrezioni di naso e bocca che vengono emanate durante la normale respirazione, quando si parla, e in grandi quantità in caso di tosse e starnuti (In particolare, lo starnuto può spingere queste goccioline ad una distanza di 4 metri). In casi rari il contagio può avvenire attraverso contaminazione fecale e normalmente le malattie respiratorie non si trasmettono attraverso gli alimenti, rispettando le corrette pratiche igieniche ed evitando il contatto fra alimenti crudi e cotti.

Tra le norme emanate dal Ministero della Salute, per far fronte all’epidemia da SARS-CoV-2 , vi è l’uso delle mascherine, queste ultime si dividono in due categorie:

  1. Mascherine chirurgiche, progettate per proteggere il paziente dalla contaminazione da parte degli operatori sanitari;
  2. FFP1, FFP2 e FFP3 (o N95, N99 e N100 nella normativa americana), progettate per proteggere gli operatori dalla contaminazione esterna e per questo denominate Dpi (Dispositivi di protezione individuale). 

MASCHERINE CHIRURGICHE

Le mascherine chirurgiche presentano due o tre strati di “tessuto non tessuto” (Tnt) costituito da fibre di poliestere o polipropilene:

  1. Lo strato che entra in contatto con l’esterno presenta un materiale di tipo spun bond (un tessuto non tessuto usato nel settore automobilistico e industriale) che, con l’effettuazione di un trattamento idrofobo, ha la funzione di conferire resistenza meccanica alla mascherina e proprietà idrofoba.
  2. Lo strato intermedio è costituito da Tnt prodotto con tecnologia melt blown e costituito da microfibre di diametro 1-3 micron, motivo per il quale svolge la funzione filtrante.
  3. Un eventuale terzo strato, tipicamente in spun bond, è a contatto con il volto e protegge la cute dallo strato filtrante.

Le mascherine chirurgiche sono contraddistinte da una capacità filtrante quasi totale verso l’esterno, superiore al 95% per i batteri, mentre hanno una ridotta capacità filtrante verso l’interno, ovvero verso chi le indossa (circa il 20%) non solo per l’aderenza al volto non particolarmente elevata ma anche per la mancata capacità di trattenere particelle fini o molto fini. Pertanto, se ben indossate, sono molto efficaci nell’impedire a chi le indossa di contagiare altre persone, ma non garantiscono una protezione elevata nei confronti dei virus che provengono dall’esterno.

MASCHERINE FFP1, FFP2 e FFP3

«Sono dispositivi di protezione individuale pensati per un uso industriale per proteggere da polveri, fumi e nebbie» spiega Pierpaolo Zani, General Manager di Bls, azienda italiana specializzata nella produzione di prodotti per la protezione respiratoria. I filtranti facciali vengono impiegati anche in ambito sanitario, nei reparti di malattie infettive per la loro elevatissima capacità di filtraggio dell’aria. Sono realizzati con tessuti-non-tessuti con proprietà e funzionalità differente:

  1. Lo strato esterno della mascherina protegge dalle particelle di dimensioni più grandi;
  2. Lo strato intermedio è solitamente in tessuto melt blown e filtra le particelle più piccole;
  3. Lo strato interno, a contatto con il volto, ha la doppia funzione di mantenere la forma della maschera e di proteggere la maschera dall’umidità prodotta con il respiro, tosse o starnuti.

La loro elevata capacità filtrante è associata agli strati filtranti che agiscono meccanicamente (come un setaccio) per particelle fino a 10 micron di diametro. Sotto queste dimensioni, l’effetto più importante è quello elettrostatico: la fibre cariche elettrostaticamente attirano e catturano le particelle. Tutte aderiscono bene al viso, e tutte sono disponibili in versione con e senza valvola.

 

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP1?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP1 sono adatte per ambienti di lavoro nei quali non si prevedono polveri e aerosol tossici o fibrogeni. Queste filtrano almeno l’80% delle particelle che si trovano nell’aria fino a dimensioni di 0,6 μm e possono essere utilizzate quando il valore limite di esposizione occupazionale non viene superato di oltre 4 volte. Vengono particolarmente utilizzate nel settore edile o nell’industria alimentare.

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP2?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP2 sono adatte per ambienti di lavoro nei quali l’aria respirabile contiene sostanze dannose per la salute e in grado di causare alterazioni genetiche. Queste devono catturare almeno il 94% delle particelle che si trovano nell’aria fino a dimensioni di 0,6 μm e possono essere utilizzate quando il valore limite di esposizione occupazionale raggiunge al massimo una concentrazione 10 volte superiore. Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP2 vengono utilizzate nell’industria metallurgica o nell’industria mineraria in cui i lavoratori entrano in contatto con aerosol, nebbie e fumi.

DA COSA CI PROTEGGONO LE FFP3?

Le maschere respiratorie della classe di protezione FFP3 offrono la massima protezione possibile dall’inquinamento dell’aria respirabile. Con una perdita totale del 5% max. e una protezione necessaria pari almeno al 99% dalle particelle con dimensioni fino a 0,6 μm, sono inoltre in grado di filtrare particelle tossiche, cancerogene e radioattive. Queste maschere respiratorie possono essere utilizzate in ambienti di lavoro nei quali il valore limite di esposizione occupazionale viene superato fino a 30 volte il valore specifico del settore (industria chimica).

Le mascherine si possono utilizzare più di una volta?

Le mascherine chirurgiche sono monouso e non ci sono procedure, scientificamente validate, per la loro «disinfezione» in quanto  disinfettanti o vapori di aria calda potrebbero danneggiarne il tessuto, con successiva perdita dell’ azione di barriera. Considerando la scarsa disponibilità di mascherine chirurgiche, in assenza di una nuova mascherina, si può lasciare la mascherina già utilizzata all’aria aperta per almeno 12 ore prima di riutilizzarla o almeno 4 giorni (per spegnere un’eventuale traccia del virus), facendo attenzione a non toccare la parte interna della mascherina. In caso di riutilizzo bisogna ulteriormente mantenere le distanze di sicurezza con la consapevolezza di una riduzione dell’efficacia della capacità di barriera.

I filtranti facciali FFP1, FFP 2 e FFP 3 possono essere riutilizzati se non vi è usura del materiale. I trattamenti possibili di rigenerazione sono tre:

  1. Esposizione ad alta temperatura (superiore a 60°) in ambiente umido (come indicato dall’istituto statunitense NIOSH per il SARS-CoV-2);
  2. Esposizioni ai raggi ultravioletti;
  3. Trattamento con soluzioni idroalcoliche al 60/70%. Esso è il trattamento più efficace ai fini del mantenimento delle proprietà meccaniche, inclusa la forma.
    Tuttavia, sulla validità di questi metodi non vi è accordo scientifico.

Le mascherine “fai da te” sono davvero utili?

In uno studio, condotto dal Departments of Civil and Environmental Engineering and Marine and Environmental Sciences Northeastern University of Boston, sono state valutate 10 mascherine di stoffa realizzate con tessuti di provenienza locale di diversi design, e 3 mascherine di tipo chirurgico. Le mascherine chirurgiche standard, se indossate con un filo metallico di regolazione sul naso, hanno avuto un’efficienza media del 75%. Le mascherine di stoffa hanno avuto tassi di efficienza filtrante inferiori (tra il 38% e il 96%) rispetto alle mascherine chirurgiche (3M considerate come punto di riferimento e livello base). Nessun modello ha avuto risultati pari a quelli dei respiratori N95 e in genere le mascherine di tessuto fornivano la metà della protezione rispetto alle maschere chirurgiche standard. I ricercatori hanno provato a “migliorare” le mascherine di stoffa sovrapponendo uno strato di calza di nylon per ridurre la perdita di aderenza attorno ai bordi del volto e migliorare l’efficienza filtrante delle particelle. Lo stesso studio ha dimostrato che l’aggiunta della calza in nylon ha migliorato l’efficienza da 15 a 50 punti percentuali.

Caterina Andaloro

Bibliografia:

https://www.uvex-safety.it/it/know-how/norme-e-direttive/respiratori-filtranti/significato-delle-classi-di-protezione-ffp/

http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus?gclid=Cj0KCQjwy6T1BRDXARIsAIqCTXoNTiwj7C120buZEM-vTSvDR5bhw5kWW8boFOmZQlNEWTFW-6-QHXEaAonJEALw_wcB

https://www.suva.ch/it-CH/materiale/Sched-tematiche-factsheet/i-dpi-delle-vie-respiratorie