Milazzo Film Fest 2025: Familia

Familia è un film del 2024 diretto da Francesco Costabile, tratto dall’autobiografia di Luigi Celeste  Non sarà sempre così.  La pellicola si propone di raccontare una storia realmente accaduta.

I cerotti non servono

Familia è la storia di una famiglia che parla di violenza, non solo domestica, ma soprattutto psicologica. Luigi Celeste (Francesco Gheghi) e Alessandro (Marco Cicalese) sono fratelli e, da tempo, insieme alla madre Licia Licino (Barbara Ronchi), subiscono gli abusi del padre, Franco (Francesco Di Leva). Il film non si limita alle tematiche disfunzionali, ma esplora nel complesso il trauma psicologico dei personaggi. La brutalità è sempre presente, trattata come un dato di fatto, una realtà con cui i protagonisti devono convivere. Un aspetto interessante, che riguarda il modo in cui le cicatrici non sono solo personali, ma anche familiari. La famiglia stessa diventa simbolo di prigionia emotiva. La continua ricerca di una riconciliazione, spesso impossibile, simboleggia il conflitto tra la necessità di perdonare e quella di proteggersi dal dolore.

familia
fonte: cinetecadibologna.it

Tormento angosciante di un ombra

Francesco Gheghi, giovanissimo vincitore del Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile, nel ruolo di Luigi Celeste, offre una performance notevole, riuscendo a interpretare un personaggio complesso e tormentato grazie alla sua capacità di passare da momenti di fragilità a momenti di forza. A mano a mano che la trama si sviluppa, l’inevitabilità di sentirsi parte integrante della narrazione diventa progressivamente più evidente. La regia di Francesco Costabile è sobria e incisiva: le inquadrature sono infatti strette, e i primi piani, silenziosi ma efficaci, tanto da smascherare quanto la figura di Luigi sia destinata a essere tormentata da quell’ombra buia rappresentata dal padre. Un circolo vizioso che segue solo un obiettivo irraggiungibile, giustificato dalla manipolazione e dalla dipendenza emotiva, il perdono.

frame trailer. Fonte: youtube.com

Scolpiti dalla violenza

L’amore è paradossale in un contesto del genere: inconcepibile e masochista, ma c’è. Compare a starnuti per tutta una serie di meccanismi di negazione e distorsione della realtà. Punto centrale è la lotta interiore della persona abusata, che spesso oscilla tra l’amore e la paura, tra il desiderio di cambiare la situazione e l’incapacità di farlo, bloccata dalla manipolazione emotiva e dalla dipendenza psicologica. Licia (Barbara Ronchi) cede alle fasi di ‘’luna di miele’’, sperando quasi in un cambiamento che, chiaramente, non arriva. La bravura di Barbara Ronchi nelle vesti di Licia mostra quanto lei rappresenti un territorio ferito, segnato da cicatrici che non raccontano solo colpi fisici, ma anche l’erosione silenziosa della dignità. Una critica alla giustizia che arriva sempre troppo tardi e talvolta complice, accetta, tollera e rallenta il processo che si alterna.

Fonte: framedmagazine.it

Dentro le mura, oltre il silenzio

Una famiglia tormentata dal fatto di non riuscire a diventare tale, ogni tentativo di pacificazione è vano. Francesco Costabile lo sa bene e, evitando infatti moralismi e semplificazioni, il film diventa quasi claustrofobico, trattiene ed esplode solo alla fine. Questi legami asfissianti, che non sanno sfuggire alla prigione emotiva, diventano frutto di ulteriore violenza.

Una storia che sviscera i meccanismi dell’abuso, ma anche a esplorare come la società, la famiglia e la comunità tendano a fare finta di nulla o a giustificare comportamenti violenti. La regia cattura la bellezza struggente della solitudine delle vittime, in cui la violenza si insinua lentamente, come un veleno silenzioso che consuma tutto dall’interno. La macchina da presa si fa sempre più piccola, più intima, come se ogni inquadratura fosse un atto di comprensione o denuncia.

In un’epoca in cui si parla molto di diritti e di giustizia, Familia apre uno spazio di riflessione su quanto sia fondamentale non solo riconoscere l’abuso, ma anche prevenirlo, educare e intervenire tempestivamente. Una piaga sociale che spesso rimane nascosta e che, in un film del genere, viene trattata senza cadere nei sensazionalismi o nella banalità dei cliché. Un’opera dallo sguardo sincero, che porta alla luce una realtà cruda e invita a riconoscere come alcune dinamiche siano così radicate da sembrare normali.

 

Asia Origlia

Il patriarcato nel codice penale: gli articoli del codice dimenticati

Nei drammi che caratterizzano l’esperienza umana sembra inscindibile la presenza di due ruoli dominanti che ne caratterizzano la trama, sia dei popoli che dei singoli individui. Trascorrono i millenni, ma è sempre chiara la persistente presenza di un oppresso e un oppressore. Un parallelo in simbiosi al dualismo archetipo tra bene e male.

Nella stessa umanità nel suo intero vi è una metà che da sempre è oppressa. Fisicamente, psicologicamente e moralmente. Quella metà sono le donne, da sempre prigioniere delle catene del patriarcato.

La realtà si fonda sui fatti non sulle opinioni

Negli ultimi anni, l’opinione pubblica si è spaccata sempre di più nella quasi patologica tradizione italiana che raffigura il suo popolo diviso, nella secolare lotta tra guelfi e ghibellini.

Il dibattito pubblico sul patriarcato ha affrontato e affronta una guerra d’informazione, di numeri, statistiche, testimonianze e opinioni. Con una sola costante, la realtà in cui viviamo è agghiacciante. I casi di Giulia Tramontano, Giulia Cecchettin, dello stupro di gruppo di una giovane ragazza a Palermo o lo stupro di due bambine a Caivano, vittime del branco, sono stati tra i casi più dibattuti che, tra il 2023 e il 2024, hanno infiammato l’arena mediatica della ”civilissima” Italia.

Oggi, chi nega il patriarcato vanta una tradizione cristiana e ancor di più l’ascendenza romana, che si esaltano come qualcosa di ”nobile”, di estremamente superiore alle altre culture.

Come fosse la civiltà cristiana, derivata a sua volta da quella romana, una civiltà estranea alle pratiche patriarcali con le quali oggi si accusano di ”inferiorità culturale e morale” i popoli non occidentali.

Gli stessi dimenticano che, tra i miti fondativi di Roma, vi sia proprio ” il ratto delle sabine”. 

 

La negazione della tradizione patriarcale e dei suoi valori.

Le figlie, le sorelle e le madri d’Italia chiedono aiuto. Pretendono la fine del patriarcato e di ogni sua conseguenza diretta o indiretta. Esauste dal subire violenza che si perpetua nel tempo, sia sul piano concreto che su quello morale e culturale.

Passano i decenni, il patriarcato cambia pelle, muta, si trasforma, ma, nella sua essenza, rimane saldamente presente nell’identità e nei caratteri comportamentali e sociali degli uomini Italiani.

Come una lotteria della sventura, il ”patriarcato ombra” premia con la morte chi ne è vittima.

Le varie associazioni e collettivi per la difesa e i diritti delle donne parlano di una cultura dello stupro radicata non solo nella società italiana, ma in tutte le società del mondo.

Possiamo affermare senza errori che non esiste una società nel mondo dove non vi sia una supremazia del sesso maschile su quello femminile.

Il patriarcato nelle sue infinite sfaccettature e sfumature resta persistente, palese o nascosto che sia alla nostra percezione. Eppure, nonostante le cronache della nostra quotidianità siano infestate da questi crimini di genere quasi con cadenza giornaliera, una parte della nostra società lo nega.

Suscitano angoscia gli indizi di malafede insiti nelle parole di negazione per l’evidenza manifesta dei fatti. La negazione del patriarcato come carattere distintivo della nostra società, ipocritamente mascherato in tutti i modi, cerca di rivolgere l’attenzione verso un capro espiatorio all’esterno della comunità maschile nazionale.

vignetta xenofoba come manifesto elettorale della Lega Nord
Progaganda xenofoba della Lega

Un cortocircuito logico: si accusa di visione ideologica, propagandando l’ideologia xenofoba

Si nega la violenza di genere, manifesta come malattia endemica nella nostra progredita civiltà occidentale. Si taccia di dogmatismo ideologico chi espone la classificazione dei femminicidi come conseguenza della cultura patriarcale. Tentano di confutare la realtà, che rimane forte dell’empiricità dei fatti, esponendo come contro tesi teorie xenofobe e islamofobe. Teorie che non si basano sui fatti, ma su una propaganda di partito chiaramente frutto di un’impostazione prettamente ideologica.

Così è accaduto che, nel giorno dell’inaugurazione dell’associazione ”Giulia Cecchettin”, a un anno dalla sua morte, durante la cerimonia tenutasi in sede istituzionale, si è assistito all’intervento surreale del Ministro dell’Istruzione. Un intervento che avrebbe dovuto mandare un messaggio agli studenti e alle studentesse, per sensibilizzare e far riflettere sulla piaga che affligge le nostre strade e le nostre case. Una presa di posizione dogmatica, trasformatasi in una negazione del problema nazionale, minimizzandolo e deviando la colpa di tali crimini sulle minoranze.

 Ancora una volta, si sono strumentalizzate le vittime per fini ideologici. 

Il ministro ha rivestito il ruolo di portavoce di una certa narrazione. Ha esposto le sue convinzioni ideologiche, tacciando allo stesso tempo di visione ideologica un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti.

Sembra quasi irrilevante che i quattro casi tra violenze sessuali e femminicidi sopracitati siano stati commessi tutti da giovani maschi bianchi italiani.

Errori e orrori storici

In questo controverso audio-messaggio per l’inaugurazione dell’associazione ”Giulia Cecchetin”, si è chiusa la questione del patriarcato derubricandolo come un fenomeno anacronistico e non più esistente nella società e nell’ordinamento italiano.

Si è affermato che le torsioni patriarcali siano terminate con le modifiche del diritto di famiglia, nel 1975 .

È stata citata la Costituzione, rivolgendosi alle minoranze e ammonendole, e si è sottolineato che la nostra carta costituzionale non ammette disparità tra i sessi.

Eppure le disparità vigenti sono evidenti. Come ”il gap salariale”, giusto per citarne una platealmente evidente. Tuttavia, affermare che il patriarcato sia finito nel 1975 è un grave errore storico per un Ministro dell’Istruzione. 

Nel codice penale italiano, risalente al 1930 e frutto del regime fascista, tutt’ora vigente anche se con numerose modifiche, sono sopravvissute norme  che chiamarle patriarcali è riduttivo.

Sarebbe più corretto definirle norme barbariche, interpretate in processi degni dei tribunali della Santa Inquisizione.

Nel dibattito pubblico è assente il ricordo del “delitto d’onore” e del “matrimonio riparatore” oltre ad altre disparità di genere previste dal codice penale e civile rimaste in vigore ben oltre il 1975.

 

Il reato di stupro è stato un reato contro la morale e non contro la persona fino al 1996

Sembra quasi che venga omesso, per favorire la narrazione del patriarcato ormai abolito. Colti da amnesia collettiva, o forse da una malafede selettiva, si omette che lo stupro non è stato considerato reato contro la persona, ma solo contro la morale fino al 1996.

Sebbene nel sistema dell’Istruzione italiano, l’insegnamento della disciplina storica venga ridotto di legislatura in legislatura, è bene fare un piccolo focus su cosa è stata la società italiana per le donne fino al 1981

Comprendere le dinamiche storiche, sociali e culturali dell’Italia resta fondamentale per comprendere perché dopo quarantaquattro anni riemergano correnti di pensiero che negano la persistenza del problema.  

Vi sono forze politiche, oggi ”rivalutate” grazie al revisionismo storico, che strumentalizzano la questione femminile e issano bandiere morali, al fine di condurre battaglie ideologiche, dove si inneggia alla difesa della donna, per legittimare politiche razziste.

Non si può dimenticare che la conquista del diritto al divorzio e la norma che lo regolava fu votata dal parlamento nel 1970 e ha visto il voto a favore di tutti i partiti politici ad eccezione del partito democristiano (ormai sciolto) e del movimento sociale italiano, chiamato oggi Fratelli d’Italia e dal 2022 partito alla guida del governo.

 

manifesto per il referendum per abrogare la legge sul divorzio
Manifesto del movimento sociale italiano sul referendum del 1974 per abrogare il diritto al divorzio

 

Cosa è stato il delitto d’onore ?  

Codice Penale, art. 587
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’Onore suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.  

 

Fino al 1981, lo Stato italiano prevedeva nel suo codice penale delle attenuanti per i femminicidi commessi da fratelli, da padri o mariti, nel caso in cui avessero visto l’onore della propria famiglia compromesso. Nello specifico, si trattava di un onore leso ”scoprendo” la propria figlia o sorella o moglie intente a consumare rapporti carnali illegittimi. Onore che sarebbe stato ripristinato con la morte della disonorata.

In Italia, il delitto d’onore prevedeva una pena di appena tre anni, con un massimo di sette anni.

A compromettere l’onore della famiglia erano solo le figlie

Iconica è la particolarità del delitto d’onore commesso dal padre nei confronti della figlia. Il delitto d’onore era classificato tale solo se a essere sorpresa a far sesso fuori dal matrimonio fosse la figlia. Il delitto d’onore non era tale, infatti, se a essere sorpreso in atti extraconiugali fosse stato il figlio.

A disonorare la famiglia con il sesso extraconiugale, per la legge, erano solo le donne.

Queste norme pongono una pietra tombale su ogni dubbio inerente all’intensità dell’oppressione maschile sulle donne. 

 

Il divorzio all’italiana

Paradossale ed estremamente tragica quanto reale fu l’impossibilità, fino al 1970, nell’ordinamento giuridico italiano, di divorziare. Tanto che, alle volte, alcuni uomini uccidevano la ”propria” moglie, rassicurati dalle le pene ridicole previste quando si fosse dimostrata l’infedeltà della donna.

Nell’impossibilità di divorziare, gli uomini, immersi in una società loro complice, alle volte ricorrevano a tali crimini. Iconico resta il celebre film del 1961 Divorzio all’italiana.

manifesto cinematografico film divorzio all'italiana 1961
Manifesto cinematografico del film Divorzio all’italiana, 1961

 

 Il reato di stupro e il matrimonio riparatore

Articolo 544 – “Matrimonio riparatore”
Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. 

 

Spesso accadeva che le donne, sorprese in atti carnali extraconiugali, fossero vittime di stupro. Lo stupro non rendeva, però, la famiglia immune dallo stigma dell’onore violato.

La donna veniva considerata comunque colpevole.

La visione medievale della ”donna meretrice” era radicato nella società, fino alle sue più profonde radici. Inoltre, l’ordinamento giuridico offriva un condono per il carnefice. Se lo stupratore, una volta scoperto l’atto carnale compiuto, contraeva matrimonio con la sua vittima, il suo reato veniva estinto.

 

Il condono previsto dalla legge per gli stupratori

Possiamo affermare che i legislatori avevano previsto una sorta di ”incentivo” al matrimonio, proponendolo come salvacondotto per gli autori di reati sessuali.

Sconvolgente che nell’Italia cattolica, se lo stupro commesso era di gruppo e un membro del branco contraeva matrimonio con la vittima, automaticamente tutti gli autori dello stupro di gruppo erano assolti.

In questa storia degli orrori, che ha rappresentato la storia d’Italia fino al 1981, amaramente si constata che le vittime di stupro regolarmente accettavano questi matrimoni.

Ragazze, spesso anche bambine, sono state costrette ad accettare. Non era sufficiente la possibilità di venire ammazzate dai propri familiari, colpevoli di un atto che spesso gli veniva imposto contro la loro volontà.

Analizzando la società dell’epoca, si giunge alla conclusione che non avevano  scelta.

Opporsi al matrimonio riparatore, anche in caso di stupro, significava condannarsi allo stigma sociale.

Una società, quella italiana, che rifletteva secoli di cattolicesimo oscurantista, poi evolutasi nella società fascista del ventennio e, infine, tramutatasi nella Repubblica dominata dalla democrazia cristiana. Faceva sì che le famiglie italiane che componevano tale società le avrebbero diseredate, mandandole via di casa.

 

Vittime, sia del carnefice che della società. In ogni caso, la condanna era a vita

Non accettare il matrimonio riparatore comportava che non avrebbero trovato lavoro, che fossero diseredate dalle famiglie e spinte ai margini, con la consapevolezza che nessuno le avrebbe sposate, avendo loro colpevolmente perso la loro “verginità”.

Tale coercizione imposta dalla realtà sociale imponeva il ricatto. Se non avessero accettato il matrimonio col proprio carnefice per sopravvivere, non sarebbe rimasta che la via della prostituzione.

Le vittime, intrappolate dalla certezza del diritto dell’epoca, non erano vittime una volta sola: divenivano vittime a vita, condannate a sposarsi e a vivere col proprio violentatore per sempre.

Senza dimenticare la perenne minaccia di poter essere ammazzate, quasi impunemente, dal loro carnefice se mai si fossero innamorate di qualcuno nel corso della loro vita, cercando, per sfuggire all’incubo della loro vita, solo un po’ d’evasione nell’amore clandestino.

Queste leggi hanno reso possibili pratiche medievali, perché rendevano possibili i matrimoni forzosi. Non pochi furono i casi di uomini che costringevano le donne a sposarli. Era pratica comune: era sufficiente stuprarle e, poi, comunicarlo alla famiglia, e il gioco era fatto. Non vi era bisogno di corteggiarle.

Analizzare la storia della società italiana, della sua morale e delle sue leggi, ci mostra senza equivoci che non siamo culturalmente così lontani da paesi come l’Afganistan o il Pakistan, con il quale gli italiani di oggi si misurano per celebrare la superiorità morale della civiltà occidentale di tradizione cristiana.
 

 Il caso di Franca Viola

Molteplici sono i casi che, nel corso degli anni ’50, ’60 e ’70 i quali hanno scandalizzato la società piccolo borghese di discendenza fascista, quale è ed è stata l’Italia.

Casi che hanno smosso l’opinione pubblica, portando con grandi difficoltà alla conquista di diritti basilari che, sembra assurdo, fino al 1981 sono stati negati.

Il più importante, tra tutti, è stato il caso di Franca Viola, giovane ragazza siciliana che, rapita a stuprata dal branco, fu la prima a rifiutare il matrimonio riparatore.

Il suo rifiuto ha scandalizzato l’opinione pubblica. Denunciando i suoi carnefici, affrontando il processo e subendo la gogna pubblica, riuscì a mettere in dubbio le consuetudini patriarcali.

foto dell'articolo del giornale la stampa
“Mia figlia non sposerà mai l’uomo che l’ha rapita e disonorata”, La Stampa

Il documentario Rai: ”processo per stupro”

A far comprendere all’opinione pubblica italiana quanto fosse arretrato e patriarcale l’ordinamento giuridico, spogliandolo delle attenuanti e ponendo in risalto la necessità di riformarlo, fu fondamentale la messa in onda, nel 1979, di un documentario della Rai, girato in tribunale e intitolato “processo per stupro”.

Tuttavia solo nel 1981, questi due barbari articoli del codice penale italiano furono abrogati.

Estratto documentario Rai ”Processo per stupro”

Abrogare una norma giuridica non basta a cancellare una norma culturale

Purtroppo, si è abolito un articolo, non un costume. Non si è abolito il senso di superiorità del genere maschile sul genere femminile, né è stato eliminato quell’istinto animale di prevaricazione del più forte sul più debole.

Non basta abolire una norma per far sì che la consuetudine oppressiva, insita nella nostra società e di ascendenza millenaria, scompaia come se non fosse mai esistita. Né è sufficiente far finta che certe barbarie non siano mai esistite in Italia. Barbarie, ricordiamo, così diffuse e comuni tanto da essere state previste dal nostro codice penale.  

 

Il legame tra antifascismo e antisessismo

In Italia, assistiamo a esercizi di retorica, da parte di chi riveste ruoli istituzionali, in favore delle donne. Veri e propri sofismi sull’importanza della parità di genere, vuoti del significato dell’atto concreto di cambiare le cose.

Spesso, chi riveste tali ruoli non riesce, anzi, si rifiuta categoricamente di dichiararsi antifascista.

Il grado di civiltà e il carattere di determinate correnti politiche lo si misura dalle leggi che le stesse hanno proposto.

Tra le colpe ingiustificabili, imputabili alla canaglia fascista, non vi sono solo le leggi razziali, ma anche le leggi di genere, come le sopra citate. Leggi che prevedevano il dominio e il possesso della donna come un mero oggetto alla mercè del maschio italico.

Dichiararsi antifascisti significa dichiararsi automaticamente antipatriarcali, antisessisti e femministi. Non si può essere antisessisti e non essere antifascisti.

Non parliamo di errori in corso d’opera commessi dal fascismo: parliamo del suo codice penale. Un codice sapientemente studiato e programmato. Né dimentichiamo il codice civile fascista, divulgato nel 1942  anch’esso tuttora vigente nell’ordinamento giuridico italiano.

Non basta aver apportato modifiche e continuare ad apportarle, mantenendo il telaio repressivo che il nostro ordinamento prevede. L’Italia, per fare i conti col proprio passato, dovrebbe adottare un nuovo codice civile e penale. Proprio per ristabilire quell’onore nazionale, violato da quel regime che ha permesso e agevolato tali crimini contro le sue figlie.

 

Fonti:

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:regio.decreto:1930-10-19;1398 

https://www.gazzettaufficiale.it/sommario/codici/codicePenale

 https://it.wikipedia.org/wiki/Codice_penale_(Italia)

https://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_d’onore

https://www.thewom.it/culture/wompower/fondazione-giulia-cecchettin

https://www.robadadonne.it/225349/matrimonio-riparatore-storia-abolizione/

“Il mostruoso femminile”: la paura delle donne tra mito e cinematografia di massa

“La donna è sempre stata un mostro.
La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto.”

Si apre così Il mostruoso femminile, saggio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in Italia nel marzo del 2021 ed edito da Tlon. Al suo interno, l’autrice si avvale di molteplici fonti – in primis casi di cronaca nera, letteratura gotica e cinematografia horror – per ricercare i timori alla base delle storie terrificanti che da sempre il patriarcato perpetra sul femminile. La narrazione è suddivisa in tre parti: figlie, mogli, madri – gli unici ruoli che la nostra società legittima per una donna – e pone come fondamento della sua analisi miti e leggende popolari che hanno costituito la materia prima di tutte le opere moderne successive.

La copertina del saggio. Foto di Rita Gaia Asti

Fin dai primi capitoli l’autrice dimostra che le figure femminili demoniache, o in generale sovrannaturali, sono ritratte con connotati mostruosi perché paradossalmente forniscono un ritratto realistico di come sarebbero le donne se lasciate libere di comportarsi da esseri umani indipendenti.
Il primo passo con cui il patriarcato se ne assicura la sottomissione, e dunque la de-umanizzazione, è la repressione della loro rabbia fin dall’adolescenza. Non a caso il nostro contesto socio-culturale alimenta narrazioni nelle quali la rabbia provata durante la pubertà femminile è così disumana da evocare potenze infernali.
E’ il caso de L’esorcista, l’iconico film del 1973 diretto da William Friedkin. Nella pellicola, la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demonio e manifesta comportamenti che, a ben vedere, più che una “possessione” sembrano una spettacolarizzazione orrorifica della pubertà femminile:

“Esplode di rabbia, insulta le figure autoritarie e vi si oppone, si fa beffe di Dio e dell’uomo, lanciando inutili provocazioni. Parla ossessivamente di sesso, soprattutto per scandalizzare gli altri. Impreca, urla, odia tutti, e il minuto dopo è l’adorabile bambina che vuole la mamma.”

Regan MacNeil in una scena de L’esorcista. Fonte: Warner Bros Entertainment, Inc

Quando l’autodeterminazione rende la donna disumana

Per il patriarcato è cruciale assicurarsi che fin dalla prima adolescenza la donna percepisca la propria rabbia come anomala e dunque se stessa come un mostro da addomesticare, da controllare dall’esterno, piuttosto che come un essere umano con sentimenti umani, anche negativi. Così può condurla più facilmente verso gli unici due ruoli che ha in serbo per lei: sposa mansueta e madre amorevole.

Tuttavia, anche in epoche remote, poteva capitare che donne sposate, soprattutto se troppo padrone di sé e provviste di una rendita personale più consistente di quella del marito, potessero apparire così anomale da non essere considerate affatto umane, ma creature di un altro mondo. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le fate del folklore irlandese. Queste, scrive Doyle, non solo pretendevano rispetto nell’ambito di una relazione coniugale, ma avevano diritto a lasciare il marito umano se le percuoteva:

“In una delle storie raccolte da Evans-Wentz, l’uomo impara che non deve percuotere più di due volte la moglie senza ragione, e per percossa si intende anche un leggero colpetto sulla spalla.”

Fate dal folklore irlandese. Fonte: amazon.it

Purtroppo un marito violento è solo il prodotto più evidente di una gerarchia patriarcale. Le sue manifestazioni più distruttive gravano invece nel profondo del nostro inconscio ed assumono la forma di modelli inarrivabili.

E’ il caso di Carolyn Perron, la cui vicenda reale dei primi anni settanta ispirò il film L’evocazione – The Conjuring, uscito nel 2013. Carolyn, liberale giovane poetessa atea, costretta di peso a diventare una casalinga conservatrice e cristiana, si convinse di essere perseguitata da una strega di nome Bathsheba.

In realtà, le azioni violente che immaginava compiute dalla strega erano compiute da lei stessa, ridotta in uno stato di disperata prostrazione. Bathsheba altri non era che la rappresentazione di sentimenti a lungo repressi: il rancore per l’abbandono delle sue aspirazioni, sacrificate ai bisogni delle figlie, ed il senso di colpa per non riuscire a rispecchiare quell’ideale di amore incondizionato, da sempre richiesto alle madri, avevano creato il mostro.

La locandina del film L’evocazione – The Conjuring. Fonte: sentieridelcinema.it

Perché leggerlo?

La penna dell’autrice, cruda ed a tratti tagliente, sviscera con cura ogni risorsa a cui attinge. Traccia un quadro meticoloso di ogni forma di violenza che l’uomo ha adoperato nei secoli per assoggettare il femminile. Ne derivano pagine indimenticabili, che risucchiano il lettore nella loro infinita ed illimitata oscurità con lo scopo di guidarlo verso una progressiva quanto necessaria presa di coscienza. Inoltre la bibliografia è arricchita con preziose considerazioni personali dell’autrice su ciascuna fonte menzionata, con l’aggiunta di validi consigli per chi volesse approfondirne il contenuto.

Rita Gaia Asti

 

Mira Rai: correre ed indipendenza.

Ci sono storie che sembrano trame di film e invece sono realtà.
Ci sono storie che vanno raccontate perché, in tempi così, possono trasmettere fiducia nelle proprie capacità e nel seguire i sogni.

Sono incappata nella storia di Mira Rai per caso, è una fra le trail runner più forti al mondo, quest’anno National Geographic l’ha nominata Adventurer of the Year”.
Nasce a Bhojpur una cittadina della parte orientale del Nepal, a dodici anni smette di frequentare la scuola per occuparsi della casa, del bestiame e percorre chilometri e chilometri fra le montagne, come racconta lei in un’intervista Ho sempre camminato a lungo, per ore, spesso a stomaco vuoto, a piedi nudi e sola, anche soltanto per andare a prendere l’acqua o il riso al mercato”.

Non vuole piegarsi alla società fortemente patriarcale nepalese così a quattordici anni si unisce ai ribelli maoisti, impara il karate (è cintura nera) e il suo maestro la spinge verso la corsa.
L’accordo fra governo nepalese e maoisti era stato firmato nel 2006, Mira vive l’esperienza dei ribelli lontano dalla guerra civile, vive la parte degli addestramenti fisici e mentali.
Fino ad allora non aveva idea di cosa fosse lo sport: è instillata in lei la determinazione di superare qualsiasi ostacolo.

Due anni dopo tornata nel suo villaggio e partecipa alla sua prima gara la “Kathmandu West Valley Rim 50”. È l’unica donna, nevica e non ha equipaggiamento tecnico: si impone su tutti.

Caso volle che giunga in Italia tramite un’altra runner italiana, inizia ad allenarsi sulle Dolomiti e partecipa sia alla “Sellaronda Trail Race” che al “Trail degli eroi” arrivando sempre prima.
Il passo, o la falcata, è breve e si qualifica per le World Series dell’International Skyrunning Federation” in Australia, ad Hong Kong e in Norvegia e se avete capito l’andazzo: arriva sempre sul podio.

Il corridore, il maratoneta è una figura intrigante, più di ogni altro sportivo, si spinge al limite delle proprie capacità e sente come propria necessità quella di correre.
Murakami descrive finemente l’intreccio fra corsa e le emozioni che si provano. La necessità.
Mira Rai ha iniziato a correre per necessità, per sopravvivenza, la causalità degli eventi l’ha portata ad essere una corridora “con i piedi al sicuro in scarpe comode” per citarla.

Nel 2016 si è infortunata al legamento crociato anteriore e ciò l’ha portata a prendersi una pausa dalla corsa, in questo periodo ha deciso di organizzare la prima gara di trail nel suo paese di origine.
Mira ha 27 anni e un viso luminoso e uno sguardo profondo, tramite lo sport vuole liberare le nepalesi dalla prigionia della società patriarcale, insegnare che esiste un mondo diverso di vivere, stracciare il tendone che copre gli animi delle bambine.

Lo fa, con la determinazione (permettetemi il gioco di parole) di “mirare sempre più in alto”.

 

Arianna De Arcangelis

 

nda: ripresasi dall’infortunio ha partecipato alla Ben Nevis Ultra in Scozia lo scorso settembre, è arrivata prima stabilendo il nuovo record di percorso. E che ve lo dico a fa.