Parkinson: la Dnl201 sarà la molecola decollo?

Dopo l’Alzheimer, il Parkinson è la malattia neurodegenerativa più diffusa.
Si tratta di una malattia che coinvolge funzioni quali il controllo dei movimenti e dell’equilibrio, ad evoluzione lenta e progressiva, che rientra tra un gruppo di patologie note come “Disordini del Movimento”.

  1. Cenni storici
  2. Dove è possibile riscontrarla?
  3. Zone del cervello coinvolte
  4. Cause scatenanti
  5. Sintomi 
  6. Come effettuare la diagnosi di Parkinson
  7. Ricerca sperimentale: è possibile guarire dal Morbo di Parkinson?
  8. Conclusioni

 

Cenni storici

Una prima descrizione di questa lenta ma inesorabile malattia fa riferimento ad un periodo intorno al 5.000 A.C in uno scritto di medicina indiana; il nome è legato però a James Parkinson, farmacista chirurgo londinese del XIX secolo che, per primo, descrisse e racchiuse tutti i sintomi in un famoso libretto, il “Trattato sulla paralisi agitante”.

Dove è possibile riscontrarla?

E’ possibile vederla in entrambi i sessi con una leggera prevalenza maschile. Il Parkinson solitamente ha il suo esordio intorno ai 58-60 anni, mentre nel 5% dei pazienti questa farà la sua comparsa nella fase adulta, tra i 21 e i 40 anni. Prima dei 20 anni è particolarmente rara.

Zone del cervello coinvolte

La malattia di Parkinson consiste in una riduzione costante della produzione di dopamina (molecola organica che svolge l’importantissimo ruolo di neurotrasmettitore). Il calo di dopamina è dovuto ad una continua degenerazione di neuroni in una regione del mesencefalo chiamata Substantia Nigra. Si stima che la perdita cellulare sia di oltre il 60% all’esordio dei sintomi e per tale motivo non è attualmente possibile ritornare del tutto alla normalità. Si pensa che l’α-sinucleina, una proteina, sia il motivo di questa ampia diffusione.

Fonte: www.bing.com

Cause scatenanti

Non sono ancora del tutto note le cause della malattia, ma sembra ci sia una moltitudine di elementi che mediano il suo sviluppo. Tra questi abbiamo quelli genetici. Si stima che il 20% dei pazienti abbia familiari con riscontro positivo alla malattia di Parkinson. I geni che concorrono nella sua evoluzione sono α-sinucleina (PARK 1/PARK 4), PINK1 (PARK-6), DJ-1 (PARK7), Parkina (PARK-2), la glucocerebrosidasi GBA e LRRK2 (PARK-8).
Altre cause sono l’esposizione ad alcuni pesticidi, idrocarburi solventi o a metalli pesanti (quali ferro, zinco e rame). Paradossalmente, nonostante le numerose controindicazioni al fumo di sigaretta, questo potrebbe svolgere un ruolo di fattore protettivo nei confronti della malattia.

Sintomi

I sintomi dei pazienti spesso non vengono riconosciuti nell’immediato per via della sua progressione lenta e quasi “mascherata”. Questa viene fuori in punta di piedi, con una manifestazione asimmetrica, quindi solo un lato del corpo è maggiormente interessato. Inoltre i sintomi sono facilmente trascurabili dal paziente inconscio. Tra gli indici di insorgenza ritroviamo: il tremore a riposo, il “tremore interno” – cioè una sensazione avvertita solo dal paziente -, rigidità, lentezza dei movimenti (fenomeno noto come “bracidinesia”) e instabilità posturale.

Possono quindi svilupparsi sviluppi di tipo motorio e non motorio.
Tra i disturbi motori emergono episodi di ”Freezing Gait” cioè un blocco motorio improvviso; postura curva con braccia flesse e tenute vicine al tronco, il quale è flesso in avanti. Il tronco potrebbe anche pendere da un lato, manifestazione della cosiddetta ”Sindrome di Pisa”; Disfagia, cioè problemi legati alla deglutizione. Possono essere pericolosi, poiché solidi e liquidi potrebbero essere aspirati causando polmoniti. Possono anche incombere fenomeni di Balbuzie, che rendono difficile la comprensione del paziente (in questo aiuta la logoterapia).
Tra i disturbi non motori invece, ne figurano alcuni anche molti anni prima rispetto a quelli motori. Questi possono essere legati alle alterazioni delle funzioni viscerali (disturbi vegetativi), dell’olfatto e dell’umore, ma possiamo avere anche disturbi cognitivi, dolori e fatica. Tra i disturbi viscerali ricordiamo la stipsi, cioè un rallentamento delle funzioni gastro-intestinali, disturbi urinari, disfunzioni sessuali, problemi cutanei e sudorazione. Infine, possiamo notare nei soggetti colpiti anche disturbi comportamentali ossessivi compulsivi, apatia e sintomi psicotici (tra cui deliri e allucinazioni).

Fonte: www.bing.com

Come effettuare la diagnosi di Parkinson

Il neurologo risale al morbo di Parkinson attraverso la storia clinica e dopo un’attenta valutazione dei sintomi. Tra gli esami strumentali si ricorre alla SPECT DATscan, scintigrafia del miocardio e PET cerebrale. L’aiuto strumentale è di fondamentale importanza per allontanarci da una diagnosi sbagliata evitando di inciampare nei cosiddetti “Parkinsonismi”, cioè patologie simili al Parkinson.

Ricerca sperimentale: è possibile guarire dal Morbo di Parkinson?

Su “Scienze Translational Medicine” sono stati pubblicati i risultati riguardanti uno studio terapeutico.
Negli Stati Uniti è stata conclusa la prima fase di sperimentazione su una molecola capace di inibire l’enzima prodotto da LRRK2 (gene tra i più importanti presente nella lista delle possibili cause scatenanti), il quale potrebbe rallentare l’evoluzione della malattia. La terapia a base della molecola Dnl201 potrebbe migliorare la funzione del lisosoma evitando che questo possa accumulare proteine tossiche che portano alla neurodegenerazione.

Conclusioni

Gli studi si occupano del controllo dei sintomi della malattia, ma non ne arrestano lo sviluppo. Questi si concentrano maggiormente sul miglioramento delle terapie e sulla prevenzione, ma ancora non è possibile poter ricorrere ad una vera e propria cura che possa bloccarla definitivamente. Fortunatamente esistono numerosi trattamenti capaci di regalare una vita quasi normale, per guadagnare tempo in modo tale da poter scavalcare l’ostacolo finale: annientare questa malattia.

 

La soluzione si trova attraverso la sperimentazione. Soltanto se si esce dalle vecchie abitudini si possono trovare nuove strade.

Andrew S. Grove

 

Dario Gallo

Per approfondire:

Cos’è il Parkinson

Malattia di Parkinson – Wikipedia

Malattia Parkinson, sintomi, diagnosi, cause, fattori ambientali, fattori genetici, trattamenti (iss.it)

A step forward for LRRK2 inhibitors in Parkinson’s disease (science.org)

Dopamina (my-personaltrainer.it)

Alzheimer: approvato il primo farmaco specifico per la malattia

È di ieri, 7 Giugno 2021,  la fantastica notizia dell’approvazione, da parte dell’FDA (Food and Drug Admininistration), dell’Aducanumab (nome commerciale Aduhelm), il primo farmaco specifico contro l’Alzheimer.

Cos’è l’Alzheimer?

L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che causa demenza progressiva ed inarrestabile. Essa porta, a lungo andare, ad un’auto-insufficienza, determinando dopo 4-8 anni di malattia la morte per le precarie condizioni igienico-alimentari dovute all’allettamento.

Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia, il numero dei pazienti con demenza è di oltre 1 milione (circa 600.000 a causa dell’Alzheimer) e 3 milioni sono le persone coinvolte nella loro assistenza, con enormi conseguenze economiche e sociali.
Ma il problema non è solo italiano. Nel 2010, in tutto il mondo 35,6 milioni di persone erano affette da demenza.
Si stima inoltre un aumento del doppio nel 2030, del triplo nel 2050, con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno e con una sopravvivenza media, dopo la diagnosi, di 4-8-anni.

Crediti immagine: truenumbers.it

Quali sono le cause della malattia?

L’eziologia della malattia non è ancora ben compresa. Si crede contribuiscano fattori ambientali, come evidenziato dal Global Burden of Disease (nello specifico, il particolato PM 2.5), fattori genetici come i geni presenilina-1 (PSEN1), presenilina-2 (PSEN2) e proteina precursore di beta-amiloide (APP), l’elevato stress ossidativo (ROS) causato da un eccessivo stato infiammatorio.

Il meccanismo attraverso il quale la malattia causa demenza consiste nella formazione di placche nel cervello, dette placche amiloidi, ed ammassi neurofibrillari. Essi si accumulano via via nel cervello, “intasandolo” ed impedendone il corretto funzionamento, conducendo infine a morte i neuroni.

Crediti immagine: Brainer.it

Le placche di beta-amiloide e gli ammassi neurofibrillari (costituiti da proteina Tau) sono dovuti ad un errato ripiegamento delle proteine, che normalmente hanno una conformazione ad alfa elica o a foglietto beta. Non essendo ripiegate bene, a causa di tutti i fattori di cui sopra, saranno difficili da smaltire per la microglia (insieme di cellule deputate alla “pulizia” del tessuto nervoso) e si accumuleranno sempre di più.

Come veniva curato?

Fino a ieri, la terapia della malattia si è basata su un approccio farmacologico ed uno psicosociale-cognitivo.

L’approccio psicosociale-cognitivo consiste in programmi di training cognitivo, basati sulla stimolazione cognitiva e comportamentale attraverso “esercizi mentali”. Effetti positivi sono dati pure dalla musico-terapia e arte-terapia, che influiscono positivamente sull’umore dei malati.

Crediti immagine: tieniamente.it

L’approccio farmacologico consiste nell’uso di farmaci non specifici per il morbo di Alzheimer, ma in grado in generale di potenziare le rimanenti funzioni cognitive, ormai deficitarie. Si tratta di molecole come l’acetilcolina e gli inibitori dell’acetilcolina colinesterasi (che ne aumentano la concentrazione cerebrale), come la fisostigmina, la neostigmina ecc.
Altri farmaci utilizzati comprendono i glutammatergici, come la memantina.

Questi farmaci, seppur in grado di rallentare il declino della malattia, non ne modificano il decorso, purtroppo infausto.

Aducanumab, il nuovo farmaco

L’Aducanumab, (nome commerciale Aduhelm) è un anticorpo monoclonale diretto contro le placche di beta-amiloide che si accumulano nel cervello. Si somministra una volta al mese per via endovenosa.

Crediti immagine: nursetimes.org

Rappresenta una svolta epocale, in quanto prima di ieri nessun farmaco era diretto a contrastare il meccanismo patogenetico della malattia. I farmaci precedentemente usati, infatti, avevano solamente un effetto non specifico, in grado di potenziare le funzioni  cognitive rimaste, ma non influenzavano il decorso finale dell’Alzheimer.

Vista lefficacia del farmaco, valutato in 3 studi che hanno coinvolto 3482 pazienti, l’FDA ha approvato con un protocollo di approvazione accelerato, usato quando si scopre un farmaco efficace per una malattia grave e pericolosa per la vita.

I pazienti infatti, tramite studi in doppio cieco e randomizzati, hanno mostrato una significativa riduzione dose e tempo-dipendente delle placche di beta-amiloide nei pazienti che ricevevano il farmaco, rispetto a quelli che assumevano il placebo.

Per tali ragioni ieri, 7 Giugno 2021, l’FDA ha autorizzato la vendita di questo prodigioso farmaco, prodotto dalla Biogen, che ha iniziato a svilupparlo nel lontano 2003.

Prospettive future

Grazie all’Aducanumab, probabilmente la storia naturale dell’Alzheimer potrà cambiare.

La speranza è che, grazie ad esso e a successivi farmaci, si riuscirà a far diventare l’Alzheimer una malattia cronica un po’ come il diabete.
C’è da considerare, infatti, che sebbene sia il primo farmaco diretto contro il meccanismo patogenetico, adesso si ha la prova che questo tipo di farmaci, ovvero gli anticorpi monoclonali, funzionano.

Crediti immagine: infomedics.it

Questo farà sì che altre aziende farmaceutiche spenderanno in ricerca per realizzare nuovi farmaci contro questa ed altre malattie neurodegenerative caratterizzate da meccanismi simili.

Si prospetta dunque un’epoca d’oro per la medicina odierna e futura. Grazie infatti ai calcoli dei super computer è ormai facile realizzare farmaci ad hoc contro un particolare bersaglio molecolare.

L’epoca della target-therapy è iniziata da pochi anni, ma già mostra le sue incredibili potenzialità. Presto molte malattie, finora incurabili, potranno avere nuove terapie.

Crediti immagine: nuvola.corriere.it

Un sincero grazie ai ricercatori che nel silenzio, ogni giorno, lavorano per noi e che, ormai spesso, ci omaggiano di queste fantastiche notizie.

Roberto Palazzolo

Vuoi essere mio amico? Processi neurali ci suggeriscono se saremo mai amici

Non esiste uomo che non abbia, almeno una volta nella vita, provato il sentimento dell’amicizia, né qualcuno che non abbia provato o desiderato amore. Sfido chiunque a dire il contrario. Un’introduzione un po’ sdolcinata, vero, ma pur sempre realistica. La complessità e la necessità delle reti sociali testimoniano quanto la specie umana sia incline a relazionarsi con chi gli è simile in termini di caratteristiche fisiche (età, sesso), di interessi (studi, tempo libero, idee) e di cultura. Ormai numerose evidenze antropologiche suggeriscono come, la tendenza all’aggregazione, sia, nella specie umana, un primordiale principio organizzatore della società che conosciamo oggi. Vari ormoni e strutture anatomiche regolano, seppur ancora in maniera non del tutto chiara, le emozioni provate durante l’esperienza della relazione interumana, e per quanto l’amicizia e l’amore siano sperimentati da tutti gli umani, resta ancora da capire il perché vengano a formarsi certi legami.

A suggerire l’esistenza di una sorta di “firma neurale” dell’amicizia è un gruppo di ricercatori dell’Università della California a Los Angeles e del Dartmouth College ad Hanover, nel New Hampshire, coordinati dalla Dott.ssa Carolyn Parkinson. Il gruppo ha infatti voluto indagare se tali similitudini possono derivare da altre più nascoste, connessioni neuronali che codificano il modo in cui percepiamo, interpretiamo e interagiamo con il mondo che ci circonda.

Per il loro studio, pubblicato su “Nature communications” lo scorso mese dal titolo “Similar neural responses predict friendship” –Risposte neurali simili predicono l’amicizia-, sono stati reclutati 279 studenti da un corso di laurea della stessa Università, a cui poi è stato sottoposto un questionario online in cui gli veniva chiesto di indicare i ragazzi, partecipanti allo stesso studio, cui erano legati da un sentimento di amicizia. Si è così costruita una mappa matematica a partire da una rete sociale reale, qui sotto illustrata.

Un campione di 42 studenti è stato poi selezionato casualmente per partecipare allo studio mediante risonanza magnetica funzionale. Tale esame valuta l’attività della corteccia cerebrale in una determinata zona, quindi se il soggetto è stimolato da un’immagine, la fMRI noterà un segnale proveniente dalla corteccia visiva, un’altra immagine provocherà un segnale proveniente dalla stessa zona, ma leggermente diverso. Durante l’esame ogni soggetto ha guardato la stessa selezione di videoclip, che comprendevano un ampio range di argomenti, dagli sketch comici ai documentari, fino ai dibattiti politici, tutti scelti secondo un unico criterio: i soggetti non dovevano averli già visti. In questo modo, i ricercatori hanno indotto uno sforzo mentale di attenzione, interpretazione ed evocazione di risposte neuronali nuove.

Analizzando i dati raccolti, Parkinson e colleghi hanno dimostrato che durante la visione di uno stesso video, il profilo dei livelli di attività nelle aree del cervello implicate nell’interpretazione dell’ambiente sensoriale e nelle risposte emotive era molto simile tra coloro che si definivano amici. La somiglianza della risposta neurale diminuiva invece con l’aumentare della distanza tra gli individui nella stessa rete sociale. Le regioni corticali più interessate nella discriminazione dell’amicizia sono quelle coinvolte nell’allocazione dell’attenzione, nell’interpretazione narrativa e nella risposta affettiva, suggerendo che gli amici possono essere eccezionalmente simili nel modo in cui si occupano, interpretano ed emotivamente reagiscono a ciò che li circonda. Era inoltre possibile prevedere, con un esercizio speculare, la stessa mappa dell’immagine precedente partendo dalla sola acquisizione in fMRI. Oltre alle regioni corticali sopracitate, sono state notate associazioni con zone sub-corticali implicate nella motivazione, apprendimento e formazione di nuovi ricordi, come l’amigdala, e parte dei nuclei della base.

L’immagine mostra aree corticali ad alta associazione (rosso) tra amici, che risultano ad associazione minore (rosa/azzurro) tra individui legati da una distanza sociale maggiore.

I profili ottenuti con la risonanza, concludono gli autori, “forniscono quindi firme ricche di informazioni sulle risposte di questi individui agli stimoli, che presumibilmente sono modellati dalle caratteristiche delle loro disposizioni, conoscenze preesistenti, opinioni, interessi e valori. Queste firme possono essere utilizzate per identificare le persone che possono diventare amiche e quelle che possono essere collegate indirettamente tramite amici comuni.”

Lo studio in questione è stato ispirato da un’altra scoperta fatta precedentemente dallo stesso team di scienziati: non appena vediamo qualcuno che conosciamo, il nostro cervello ci dice immediatamente quanto è importante o influente quella persona e la posizione che occupa nella nostra rete sociale. La prossima sfida per il gruppo dii ricercatori sarà quella di “comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda”.

Antonio Nuccio