Paradiso, Contemplazione e Pace

Il declivio della catena montagnosa, dolcemente digradante verso il Faro, è popolato da villini deliziosi, mentre occhieggiano, tra il verde smeraldino dei vigneti e quello cupo degli agrumeti, le piccole case coloniche. E si traversa una serie di villaggetti, poveri ma gai e pittoreschi, dai nomi curiosi, taluno d’origine germanica che rimonta ad un’età cavalleresca come il Ringo, altri che riportano le tracce della dominazione araba come Ganzirri, alcuni di origine greca come Rodia e tanti altri di carattere soavemente religioso come Paradiso, Pace, Contemplazione…             

La Civiltà Cattolica, Volume 63, Edizione 1

È questo il panorama che si apre agli occhi degli osservatori, una volta superato il confine immaginario fra la parte più urbana di Messina e la riviera.

Collocate esattamente dopo le “colonne d’Ercole” ed estese fino al torrente Sant’Agata, si susseguono lungo tutta la costa, fra spiagge, barche di pescatori e i luoghi che accolgono la movida estiva messinese, le frazioni “ultraterrene” di Paradiso, Contemplazione e Pace.

Ma cosa si cela dietro questa artistica e particolare scelta di toponomastica?

Paradiso

 

Villaggio Paradiso
Villaggio Paradiso negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/73oDjmx

 

Ebbene, la questione è molto più semplice di ciò che ci viene suggerito. Nessun intervento dantesco, né tantomeno divino, ha collaborato nell’attribuzione di queste denominazioni. L’edenica Paradiso, secondo un’ipotesi dell’erudito gesuita Placido Samperi, deve il suo nome a Villa Paradiso.

Una villa sontuosa, con tanta dovizia di copiose fontane, artificiose spalliere di mortine, gelsomini, limoni, arance e per l’abbondanza di ottimi frutti da meritare un tale nome.

Il cavaliere Raimondo Marquett fece edificare la magione su di un podere che aveva acquistato alle pendici dei monti Peloritani, nella contrada di Belviso.

Qui, dal 1648 fino alla sua morte, ne fu il duca per volere del re Filippo IV di Spagna. La residenza godette di un notevole prestigio: i viceré e altri ospiti illustri vi si recavano e vi soggiornavano con piacere prima dell’ingresso in città.

Al suo interno, Villa Paradiso nascondeva diverse meraviglie storiche, naturalistiche e artistiche: oggetti rari e bizzarri, come fossili, strumenti astronomici e apparati liturgici

Himera, romanzo dello scrittore locale Nando Romano, prende proprio spunto da questa sorta di wunderkammer, ruotando intorno alla figura del Signor Paradiso, ispirato al proprietario Raimondo Marquett.

Un’altra interpretazione, invece, attribuisce l’origine del nome ad un oratorio esistente nella zona e dedicato alla Madonna del Paradiso, di cui oggi, sfortunatamente, non resta traccia.

Il Paradiso ai giorni nostri

Il villaggio ha perso da tempo la sua maestosità e le sontuose ville padronali affacciate sulla riviera che sono state sostituite e affogate da un mare di cemento.

La cementificazione iniziò poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando Villa Costarelli, detta anche Villa Luce, venne rasa al suolo per lasciar posto ad un esclusivo complesso residenziale.

Villa Costarelli ad inizio '900.Fonte: https://i.pinimg.com/736x/78/80/05/788005c92f4d1d8e81f1cef7584ee266.jpg
Villa Costarelli ad inizio ‘900.Fonte: https://i.pinimg.com/736x/78/80/05/788005c92f4d1d8e81f1cef7584ee266.jpg

 

Seguirono, poi, le costruzioni realizzate fra gli anni ’70 e gli anni ’80, e le lottizzazioni previste dalla variante al piano regolatore generale del 2002.

 

Il Paradis Hotel
Il Paradis Hotel negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/4Zvd7Tb

 

Della vera Paradiso, oggi, non resta che il quartiere delle cosiddette “Case Basse”, anch’esso minacciato dagli appetiti dei privati.

Contemplazione: ieri e oggi

Continuando lungo la via Consolare Pompea, un tempo attraversata da un tram a vapore che giungeva sino a Villafranca, incontriamo l’altrettanto celestiale Contemplazione.

Questa prende il nome dalla chiesa dedicata alla Madonna della Contemplazione.

 

Il Paradis Hotel
Chiesa della Madonna della Contemplazione  Fonte: https://www.ganzirri.it/IMG/arton63.jpg?1189606428

 

L’antica costruzione sorgeva nella salita di Fondelli e sorse nel secolo XVII, per volere di una famiglia privata che la mise a disposizione per l’esercizio del culto.

Nel 1908, venne danneggiata dal terremoto e successivamente restaurata dai Frati Minori di Portosalvo che, nei giorni festivi, continuarono ad officiarla.  Svolse le funzioni parrocchiali fino al 13 maggio 1960, quando la Chiesa Cuore Immacolato di Maria venne inaugurata.

Dopo la sua apertura, l’edificio venne abbandonato a se stesso e lasciato al degrado. Anche Contemplazione, come Paradiso, può vantare di un suntuoso trascorso.

Ne è testimonianza Villa Florio, attribuita a Ernesto Basile e rappresentante uno dei pochi esempi di liberty puro in città. Il villaggio è oggi meta di molti turisti e, con le sue spiagge dorate e un mare trasparente, rende giustizia al suo nome.

Riviera Contemplazione
La Riviera di Contemplazione vista dal terrazzino sulla spiaggia del Bar Gravino negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/6p9hKzP

Pace

 

Pace
Uno scorcio di Pace e della Chiesa Santa Maria della Grotta
Fonte: https://www.parrocchiadipace.it/wp-content/uploads/2019/04/cropped-11985418294_24fe7bb5b2_k.jpg

 

Il lieto borgo è così denominato, proprio come la vicina Contemplazione, per la chiesa, ormai scomparsa, intitolata alla Madonna della Pace. Ancora presente, invece, è la simbolica Chiesa Santa Maria della Grotta o Santa Maria delle Grazie. Verosimilmente edificata sul tempio di Diana, sito sulla strada verso capo Peloro, la chiesa nacque come oratorio nel 1500.

Da qui, l’Ordine dei Frati Predicatori divulgò la devozione verso il dipinto miracoloso della Vergine, invocata con il titolo Madonna della grotta proprio in virtù della grotta in cui venne lasciato arenare per sua stessa volontàTrasformata in un tempio nella prima metà del 1600, con il trascorrere dei secoli, i vari proprietari la arricchirono e impreziosirono oltre lo sfarzo.

 

Chiesa di Santa Maria della Grotta
La Chiesa di Santa Maria delle Grazie alla Grotta in una fotografia di Ledru Mauro del 1890 circa
Fonte: https://www.pinterest.it/pin/782711610216687197/

 

L’edificio resistette al terremoto del 1783, ma non ebbe la stessa fortuna con quello del 1908. Venne, in seguito, fatto riedificare, ma solo nel 1931, sullo stesso modello del tempio originario.

 

Villa Pace
Villa Pace. Fonte: https://www.messinamedica.it/wpcontent/uploads/2019/11/VILLA-PACE-1024×547.png

Una preziosa eredità

La dimensione surreale della frazione di Pace è alimentata dalla maestosità dell’omonima villa. Villa Pace è stata, in passato, sede degli eventi e dei ricevimenti della facoltosa borghesia cittadina.

Si rese celebre per l’ospitalità offerta a illustri personaggi, legati alla storia sociopolitica della città, come il Kaiser Guglielmo II e diversi esponenti di Casa Savoia. Acquistata e rivenduta da vari proprietari, nel 1922, l’Università, al fine di proteggere i beni custoditi e adibirla a centro convegni e mostre, ottenne la residenza a “costo 0”, direttamente dal Tribunale di Messina.

Il 28 giugno 2003, la famiglia Imbesi, l’Università e l’Ordine dei Farmacisti inaugurano a Villa Pace il Museo storico della Farmacia del Mediterraneo che, grazie ai numerosi cimeli e documenti donati dal luminare docente Antonio Imbesi, aumenta il suo valore storico-culturale.

Durante il suo soggiorno, un diplomatico tedesco descrisse Villa Pace come il luogo dell’anima. D’altronde, come poterlo contraddire?

Paradiso, Contemplazione e Pace in poesia

Paradiso, Contemplazione e Pace, con il loro ricco patrimonio paesaggistico, artistico e culturale, hanno influenzato non poche menti.

Qui di seguito, è riportato un estratto della poesia Fra contemplazione e paradiso, dello scrittore Vincenzo Consolo, che ne è la perfetta rappresentazione.

Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che fuga infine l’ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.

Valeria Vella

Fonti:

https://www.letteraemme.it/perche-i-luoghi-di-messina-si-chiamano-cosi-paradiso-contemplazione-e-pace/

https://www.messinamedica.it/2019/11/messina-nascosta-villa-pace/

https://www.wikiwand.com/it/Pace_(Messina)

https://www.wikiwand.com/it/Paradiso_(Messina)

“Zombie” e “Bella Ciao”: i canti della resistenza a Putin

Sono passati vari giorni da quando il presidente Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina: in quel momento si è spezzato un altro filo nella “tela dell’umanità”, in quell’istante il tempo si è fermato, migliaia di persone si sono ritrovate senza cibo, acqua, le loro vite sono cambiate per sempre e la loro innocenza è stata distrutta.

Una parte del popolo russo si è rivoltato contro il proprio Presidente (o per meglio dire dittatore), scendendo in piazza, protestando con cartelloni, fiori e simboli di pace. Per dire a Putin, ma specialmente al mondo, che loro non stanno dalla parte della disumanità, mettendo spesso a rischio la loro stessa libertà, la loro vita. Qualche giorno fa un gruppo di russi è stato arrestato dalla polizia, proprio mentre manifestava il proprio dissenso verso la guerra.

Incatenati e portati sopra il furgone come bestie dalle forze armate, armati di coraggio e di sorrisi anziché di bombe, i manifestanti hanno iniziato a cantare a squarciagola la canzone Zombie, dando esempio di disobbedienza civile.

 Chi non conosce la melodia di Zombie? O almeno una volta l’ha sentita passare in radio o mentre faceva zapping da un canale all’altro? Appena i manifestanti russi hanno iniziato a cantare, siamo quasi stati riportati indietro nel tempo, a quando ancora questa guerra non c’era. Guardando sui nostri cellulari quel video ormai diventato virale, ci siamo sentiti cittadini del mondo, il patriottismo per un attimo ha lasciato il posto all’empatia e ci siamo trovati a condividere la resistenza del popolo russo al suo dittatore.

La storia dietro Zombie

“Nella tua testa stanno ancora combattendo
Con i loro carri armati e le loro bombe
E le loro bombe e i loro fucili
Nella tua testa
Nella tua testa stanno morendo”

Zombie, è una canzone del gruppo rock Irlandese The Cranberries, pubblicata il 12 Settembre del 1994 (28 anni fa). Considerato il maggior successo del gruppo irlandese, ha vinto durante gli  MTV Europe Music Awards del lontano 1995 il prestigioso premio di  “Canzone dell’anno”.

Dolores O’Riordan,cantautrice e frontman del gruppo, ha affermato che la canzone è stata scritta in seguito all’attentato di Warringotn del 1993 da parte dell’IRA, in cui avvenne la morte di un bambino. Il testo contiene dei riferimenti alla Rivolta di Pasqua (una sommossa scoppiata durante la settimana di Pasqua in Irlanda) avvenuta nel 1916.  

Erroneamente si associa Zombie alla denuncia della situazione nordirlandese, ma in realtà è più una canzone che si schiera contro la violenza in generale.

Per quale motivo infatti è diventata anche il simbolo dei “partigiani” russi?  Cosa la rende adatta a raccontare anche questa guerra?

Come ci indica già il titolo, coloro che portano la guerra sono zombie che eseguono ordini, smettono di pensare e camminano lasciandosi dietro terrore e e distruzione. Gli stessi Cranberries affermarono di aver scritto Zombie come simbolo di pace per il proprio Paese, per far capire come la violenza travestita di ideali politici e religiosi possa portare alla perdita di vite innocenti.

“Un’altra testa ciondola umilmente
Il bambino viene lentamente preso e
La violenza ha causato un tale silenzio
Chi stiamo fraintendendo?”

Bella Ciao: la canzone di ogni resistenza

Bella Ciao è un’altra canzone simbolo della resistenza, ma quella ucraina stavolta.  E’ stata riadattata infatti dalla cantante ucraina Khrystyna Solovij, con il testo nella sua lingua madre e con due soli strumenti: chitarra e voce.

Che storia nasconde dietro di sé Bella Ciao? Per noi italiani è simbolo di libertà assoluta, è la canzone che ha accompagnato la liberazione dal morbo fascista. Ancora oggi la cantiamo per affermare quei diritti che ancora non hanno una legge a loro tutela; con essa invochiamo la ribellione per riportare l’ordine ( si, sembra quasi un paradosso).

Gli storici non conoscono le sue origini, molti la associano addirittura al ‘500 francese o ai canti di lavoro delle mondine. Non si conosce né la penna né la data di composizione: il mistero rende questa canzone ancor più affascinante. Anche se associata alla lotta partigiana, dietro di sé non ha precisi riferimenti religiosi e politici: è libera da qualsiasi vincolo, è pura.

“E se muoio da partigiano
Tu mi devi seppellir”

Oggi Bella Ciao è stata riscoperta a livello internazionale anche per via della serie tv La Casa Di Carta, o di migliaia di cover che girano su Youtube. Possiamo considerarla una canzone universale, che fa nascere nell’essere umano la voglia di apportare qualche cambiamento.

La musica è l’unica lingua (se così possiamo definirla) che unisce e mai divide, l’eccezione alla regola: con essa, come con la scrittura e con le azioni, diamo il via a moti rivoluzionari. Ogni evento, ricorrenza, ma soprattutto ogni ideale è rappresentato da una melodia capace di accomunare popoli con lingue e tratti diversi, abbattendo non solo le differenze ma anche i poteri forti.

 

Vignetta satirica di Mauro Biani. Fonte: LaRepubblica

Di Putin si può dire solo una cosa: con i suoi interessi e il proprio potere, ha perso ogni tipo di senso morale, è diventato piccolo come i coriandoli, mentre il “suo” popolo – che non è più suo – si sta dimostrando più forte di lui. Le urla e le azioni dei dissidenti, ma soprattutto i loro canti sono più assordanti delle bombe. 

Alessia Orsa

 

 

 

UniMe tra gli sviluppatori di PACE, tool software per la lotta alla Covid-19

PACE: è questo il nome del tool software sviluppato dalle Università di Messina e Catania in sinergia con l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia per contrastare l’epidemia da Covid-19.

PACE è stato pensato per essere uno strumento di supporto ai radiologi nella lotta al COVID-19.

Per l’Università di Messina hanno preso parte alla ricerca il prof. Giovanni Finocchio del Dipartimento di Scienze Matematiche e Informatiche, Scienze Fisiche e della Terra (MIFT), il prof. Michele Gaeta e il dr. Giuseppe Cicero del Dipartimento di Scienze biomediche, odontoiatriche e delle immagini morfologiche e funzionali.

Per l’Università di Catania il lavoro di ricerca è stato svolto dal prof. Aurelio La Corte del Dipartimento di Ingegneria Elettrica Elettronica e Informatica e l‘ing. Giulio Siracusano, assegnista di ricerca presso lo stesso Dipartimento.

In pazienti Covid-19, la valutazione radiologica di lesioni polmonari è necessaria per il monitoraggio dell’evoluzione della malattia e fornisce risposte per specifiche terapie.

  • Il software aiuta a rendere meno complicata la valutazione radiologica in pazienti che, nella fase acuta della malattia, sono non collaborativi e\o in terapia intensiva.
  • La capacità di PACE di supportare il monitoraggio dell’immagine dello stato di salute dei pazienti COVID-19 è stata testata in 79 pazienti.
  • Da un punto di vista clinico, il miglioramento dell’immagine indotto dal metodo implementato in questo lavoro ha dato origine ha una più rapida rilevazione delle lesioni polmonari.

PACE ottimizza il contrasto delle immagini radiografiche del torace.

Attualmente, è stato applicato a immagini di pazienti Covid-19 del Policlinico Universitario “G. Martino”, mostrando la capacità di migliorare significativamente la lettura del radiogramma da parte del radiologo.

AOU “G. Martino” – Fonte: unime.it

Il prof. Giovanni Finocchio, dal punto di vista tecnico, ha spiegato come una delle difficoltà maggiori nello sviluppo del tool software sia stata la riduzione dei tempi di calcolo. La prima versione impiegava 30-40 minuti di tempo per l’elaborazione delle immagini, attualmente, il software fornisce la risposta in circa 3-4 minuti.

L’algoritmo combina lo stato dell’arte di tool numerici di elaborazione delle immagini, quali la decomposizione empirica bi-dimensionale, il filtro omomorfico e l’equalizzazione adattiva dell’istogramma in modo opportuno.

Dal punto di vista clinico, è stato importante trovare un modo per verificare che le informazioni aggiuntive osservate nelle immagini post-processate fossero reali. A tal proposito, ha sottolineato il prof. Michele Gaeta, l’elaborazione delle immagini sono state effettuate di pari passo alle radiografie del torace ed alle TAC, metodiche ampiamente in uso.

La mia sorpresa principale è stata quella di vedere come le lesioni aggiuntive osservate nelle immagini elaborate con PACE fossero confermate dalle TAC.

I risultati della ricerca sono a disposizione liberamente della comunità medica e non, liberamente, sulla rivista scientifica Sustainability 2020, 12(20), 8573.

PACE ha un impatto significativo sulle applicazioni mediche e, poiché la qualità dell’assistenza sanitaria incide direttamente sulla qualità della vita di un paziente, l’utilizzo dell’imaging per migliorare le prestazioni degli specialisti medici è una questione prioritaria.

Maria Cotugno

 

 

Io, pacifista in trincea: viaggio nella mente di un soldato italoamericano

Nell’approcciarmi al libro Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra (Donzelli Editore, 2019) ho avuto le stesse perplessità che molti nutrono nei confronti della letteratura storiografica: spesso i lettori sono preoccupati di trovare una sorta di lezione, un’insieme di nozioni magari trascurate nel corso degli studi scolastici.

Niente di tutto ciò: l’autobiografia dell’italoamericano Vincenzo D’Aquila (Palermo 1892- New York 1975) si presenta come un vero e proprio viaggio nella mente – come vedremo – “instabile” di un volontario che, dalla lontana America, decide di arruolarsi nella speranza di servire la sua terra natia, per poi accorgersi che non sempre le idee corrispondono alla realtà dei fatti. Ed è proprio questo scontro che ci trasporta negli anni della Grande Guerra, grazie all’interesse del curatore messinese Claudio Staiti (dottore di ricerca in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche presso l’UniMe) nel riportare alla luce Bodyguard Unseen. A True Autobiography (1931), tradotto ed arricchito di puntuali note ed appendice documentaria.

Copertina dell’autobiografia originale (1931)

Alla prefazione dello storico dell’emigrazione Emilio Franzina, che consiglio di leggere anche ai non addetti ai lavori, segue un’introduzione di Staiti, che in gergo potremmo definire un quasispoiler. Ma, in realtà, ci prepara ad affrontare un racconto crudo, convincente, ad ampi tratti misticheggiante, se vogliamo anche teatrale, che per troppo tempo è rimasto, con rare eccezioni, nell’oblio della letteratura del primo dopoguerra. Quegli anni hanno visto nascere capolavori come Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque) e Addio alle armi (Hemingway) sicuramente ben presenti nella mente di D’Aquila-scrittore.

Ma la sua autobiografia ne sarà all’altezza?

L’unicità del racconto

Osserviamo progressivamente crollare i presupposti che portarono il protagonista ad offrirsi come volontario: dall’ideale di patriottismo, alla convinzione di un conflitto breve e vittorioso; del concetto stesso di guerra non restano altro che macerie nella mente di chi scrive e di chi legge. D’Aquila, come notiamo dal titolo originale dell’autobiografia, è convinto di essere protetto da una guardia del corpo invisibile, che gli permette di sfuggire dal fronte italo-austriaco senza sparare mai un colpo ad anima viva e senza essere – allo stesso tempo – perseguito come disertore.

La sua «chimerica promessa» di non uccidere, racchiude il manifesto di un uomo che da soldato diventa obiettore di coscienza e decide di «raccontare la verità». Se credere o meno alle bizzarre vicende e coincidenze della sua esperienza, nei punti in cui la ricostruzione storica – seppur puntuale – è impossibile, sta a noi: ma, di certo, il messaggio arriva chiaro alle coscienze dei lettori e lo stile personale rende avvincente la narrazione.

Ritratto di Vincenzo D’Aquila tratto dall’autobiografia originale

La sua “conversione” è intrisa di un linguaggio fortemente religioso, che si intreccia spesso con idee deliranti (per le quali fu internato in due ospedali psichiatrici): ma, del resto, si può dire che un profeta – come lui stesso si definisce – di pace fosse un vero matto? Non lo sono forse i generali ipocriti, di cui parla, che mandando i soldati a morire per un vuoto nazionalismo (e non dunque patriottismo) mentre sorseggiano comodamente uno sherry dall’alto della loro comoda posizione?

Questi sono i dubbi e le contraddizioni che si insinuano nella mente del lettore e che il protagonista risolve con continui riferimenti al cristianesimo, i quali supportano le sue azioni e comportamenti da predestinato. Ma il processo di rinascita non è né semplice né scontato. Né possiamo affermare che la vicenda non abbia degli aspetti di tipo psichiatrico: tuttavia fa riflettere come, anche dopo essere stato dichiarato ufficialmente sano, D’Aquila affermi di continuare ad avere le stesse “idee deliranti e assurde” che lo avevano reso “pericoloso per sé e per gli altri”. Forse, ironia della sorte, anche per questo non fu mai richiamato al fronte, dopo vari permessi: avrebbe potuto contagiare con le sue idee di pace gli altri commilitoni, minando la stabilità di una guerra che di stabile aveva molto poco; a tal punto che anche la notizia di una vittoria tedesca sarebbe stata accolta come una buona notizia (da lui e suoi compagni stessi), purché ponesse fine al conflitto.

Scena tratta dalla docufiction “14-Diaries of the Great War” ©, che descrive 14 storie di guerra: tra queste troviamo anche l’esperienza di Vincenzo D’Aquila.

Sicilia e guerra

Sebbene tornare nella sua città natale fosse uno dei motivi che lo spinsero ad arruolarsi, D’Aquila pone nettamente in contrapposizione la bellezza dei paesaggi rurali siciliani alla devastazione della guerra, la purezza contadina all’ipocrisia di chi la guerra l’ha voluta. Nel suo viaggio attraverso l’Italia passa anche dalla nostra città: trova una Messina ancora segnata dal terremoto del 1908, che «si stava ricostruendo senza fretta, o […] con massima cura» e che ricorda più per l’ottimo pranzo a base di pesce, rispetto alla sua bellezza cadente. Viene anche esaltato l’esemplare “modello di pace” palermitano, città nella quale da sempre convivono pacificamente musulmani, ebrei e cristiani. Troviamo l’intima connessione con la sicilianità anche nell’intento del curatore di radunare lettere, memorie e diari di siciliani durante la Grande Guerra (oggetto, questo, della sua tesi di dottorato) per descriverla da un punto di vista a noi caro, nonché, storiograficamente parlando, interessante.

Fonte: Reparto fotocinematografico dell’Esercito -Postazioni in trincea, (Museo Centrale del Risorgimento – Roma)

L’attualità del racconto

Mentre il falso mito della guerra nobile ed efficiente si sgretola, D’Aquila lascia il suo testamento spirituale: mette in guardia su alcuni piantagrane che da lì a poco – come puntualmente accadde – avrebbero potuto dare adito ad un nuovo conflitto (velato, ma non troppo, riferimento a Mussolini a detta dello stesso curatore) e risveglia la coscienza dei credenti, che purtroppo hanno avallato, così come gran parte delle gerarchie ecclesiastiche, le giustificazioni alla carneficina in corso.

Se nel libro leggiamo che “essere folle paga”, altrettanto non possiamo dire della scelta di pubblicare l’autobiografia, presto dimenticata dal pubblico: a Staiti il grande merito di cogliere l’opportunità, in occasione di un periodo di studio per il dottorato negli USA, di riproporre una testimonianza di un uomo e della sua discesa negli inferi di una folle guerra, che, oltre a spegnere tantissime vite, ha reso “folli” tanti soldati che forse – almeno alcuni – folli non erano.

Persino i pazzi speravano di leggere presto della fine della guerra, così da poter tornare ad essere normali

La guerra è rappresentata come il più grande fallimento della civiltà: D’Aquila vuole riportare l’umanità in un «mondo folle» , rigorosamente con mezzi pacifici. Dare nuova linfa vitale all’opera dell’italoamericano è il compito che si è proposto Staiti, assolto alla perfezione e con meticolosa precisione, contribuendo ad aggiungere un ulteriore tassello al concetto di pace. Non possiamo ignorare le troppe guerre che ancora oggi avvelenano la nostra terra, né i sempre più incalzanti “nuovi nazionalismi” che si affacciano all’orizzonte geopolitico odierno. E Io, pacifista in trincea risveglia in noi il desiderio di «camminare allo scoperto, come se il mondo fosse in pace».

Emanuele Chiara

Per approfondire:

Saggio “L’«odissea di guerra e pazzia» di Vincenzo D’Aquila. Un pacifista in trincea”, Claudio Staiti

Estratto della docufiction “14-Diaries of the Great War”, realizzato da Claudio Staiti

Sito web della docufiction 

Pagina Facebook del libro “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra”

Tra cielo e mare, un tuffo con la Storia: Santa Maria della Grotta a Pace.

La primavera è ormai arrivata, l’estate si avvicina, ed anche noi di Messina da Scoprire ogni tanto ci spostiamo dall’afa e dal traffico del centro cittadino verso le note zone balneari della riviera nord della città, in quella che una volta era denominata “Lingua Phari”, la Lingua del Faro di Messina, cioè dello Stretto. Non dimentichiamo, però, la passione dei nostri lettori per la storia e la cultura messinese, ed è per questo che ai celebri laghetti di Ganzirri, al villaggio Sant’Agata o al gettonatissimo “Piluni” preferiamo una spiaggia speciale, diversa dalle solite mete: un luogo in cui l’arte e la bellezza del paesaggio si incontrano e si fondono dando vita ad un connubio unico e suggestivo. Stiamo parlando della spiaggia del Villaggio Pace, su cui da secoli veglia, sospesa tra il cielo e le acque dello Stretto, l’elegante cupola del tempio di Santa Maria della Grotta.

 

Per scoprire le origini di questo monumentale edificio, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo di diversi secoli, fino a quando Pace era poco più che una piccola comunità di pescatori e gente di mare, distante circa tre miglia dalle mura della città di Messina. In questa piccola comunità è documentata fin dal Cinquecento la presenza di un piccolo oratorio, gestito dai Padri Predicatori, nei quali si venerava una icona di origine probabilmente greco-bizantina. Secondo una leggenda, che ci tramanda lo storico gesuita Placido Samperi in un testo devozionale del 1644, l’icona proveniva da una nave levantina che l’aveva lasciata in quel luogo, all’interno di una grotta naturale, dopo essere rimasta bloccata per diverso tempo dalle correnti, che i marinai avrebbero interpretato come un segno della volontà dell’icona di rimanere lì. Da notare che il tema dell’immagine sacra dotata di volontà propria che “sceglie” il luogo in cui restare è tipico delle leggende sacre messinesi e siciliane in generale: trae forse il suo prototipo dalla leggenda della Madonna di Trapani, il cui culto è presente anche a Messina, ed una storia simile riguarda l’origine di una altra nota chiesa messinese, quella di Santa Maria della Valle, oggi nota come la Badiazza

 

 

Molto più probabilmente, invece, il nome della chiesa deriva dalla grande pala seicentesca che tutt’oggi è custodita al suo interno, opera del pittore messinese Domenico Marolì, raffigurante la Natività (da cui il nome di Madonna della Grotta); essa fu probabilmente dipinta nella metà del XVII secolo, ad ornamento del nuovo tempio che proprio in quel periodo, nel 1622, era stato fatto ricostruire per ordine del Vicerè di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia.

Il progetto venne affidato a un importante esponente del barocco seicentesco messinese: l’architetto Simone Gullì, che proprio in quegli anni si era occupato del monumentale progetto della Palazzata, il Teatro del Mare, monumentale cortina di palazzi destinata ad ornare, con un unico respiro stilistico, la banchina del porto della Città. Per questa piccola ma monumentale chiesa, Gullì ideò un tempietto a pianta circolare con la caratteristica cupola circondata dall’ampio porticato, che, per la sua pittoresca posizione lungo la spiaggia, diventerà nei secoli successivi un soggetto d’elezione per stampe, dipinti e in seguito fotografie d’epoca.

La chiesa seicentesca, purtroppo, già danneggiata dal terremoto del 1783, a seguito del quale fu restaurata, non resse al drammatico sisma del dicembre 1908 che la rase al suolo. Nel 1928, su interessamento dell’arcivescovo Angelo Pajno, di cui si ricorda la fervente attività di costruttore e ricostruttore di chiese sul territorio messinese, fu progettato il suo recupero. La nuova chiesa, ricostruita dagli architetti Viola, Basile e Fichera, è il frutto di un compromesso storico fra la volontà della Sovrintendenza, che intendeva ricostruire la chiesa nella maniera più fedele possibile all’originale barocco , e quella dell’allora parroco Gentile, che desiderava una chiesa più grande in linea con le esigenze della comunità parrocchiale, decisamente aumentata di numero rispetto ai tempi passati. Oggi quindi ciò che vediamo sono in realtà due chiese in una: il tempietto circolare fedelmente ricostruito a partire dal progetto del Gullì, benchè con tecniche moderne, e la nuova chiesa, a pianta rettangolare, che comunica con esso. Perduti sono, purtroppo, i sontuosi interni seicenteschi e settecenteschi in stile barocco, mentre resta, come già accennato, la pregevole pala del Marolì, sotto la grande cupola.

Con la sua silhouette da cartolina, la chiesa della Madonna della Grotta domina ancora, come 400 anni fa, il lungomare nord di Messina, e guarda la Calabria dalla bella spiaggia di Pace: che aspettate quindi a farvi anche voi un bel tuffo, nelle acque dello Stretto, assieme alla Storia e alla bellezza?  

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco