Collateral Beauty: 90 minuti di bellezza (non) collaterale

collateral_beauty_posterC’è stato l’anno di Eddie RedMayne, poi di Leo Di Caprio. Che questo sia, finalmente, l’anno di Will Smith?

Collateral Beauty, candidato all’Oscar insieme al suo attore protagonista, è un film che presenta diverse realtà di dolore e confronto con la vita.

Lo si può descrivere come una re-interpretazione in chiave contemporanea di ‘’Il canto di Natale’’ di Charles Dickens. I fantasmi, però, non rappresentano il passato il presente e il futuro ma l’amore, il tempo e la morte. E Scrooge non è cattivo, non lo è mai stato, è solo stato irrimediabilmente (?) investito dal lato peggiore della vita.

Curato nei minimi particolari è un film che, dal primo minuto all’ultimo, trascina nella trama con un finale a sorpresa che solo chi aguzza l’intelletto riesce a intuire e lascia assolutamente di stucco. Il gusto tragicomico non lo rende un film ‘’pesante’’, anzi, è un film drammatico che lascia il giusto spazio alle risate spontanee.

Il cast? Stellare: accanto Will Smith troviamo Kate Winslet, Keira Knightley, Helen Mirren, Edward Norton, Naomie Harris e tanti altri.

Le capacità interpretative di ognuno di loro sono all’altezza delle aspettative. Il protagonista, Will Smith, come sempre, fa trasparire attraverso lo schermo il dolore del protagonista in maniera sublime. Feticista delle lacrime, ti fa chiedere come possa riuscire a raccontare il dolore così bene attraverso un personaggio che, per la maggior parte del tempo, sta in silenzio.

Anche la colonna sonora merita di essere nominata: Let’s Hurt Tonight dei OneRepubblic, canzone che, si suppone, diventi disco d’oro, d’argento e di qualsiasi altro materiale esistente. O, magari, venga premiata agli Oscar.

Collateral beauty. La bellezza collaterale del film è il fine segno che lascia nei pensieri dello spettatore, che continua a rimuginarci su anche a luci accese, cercando la propria bellezza collaterale.

Elena Anna Andronico

Essere un samurai: una storia fra onore e dovere

 

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Tasogare Seibei (The Twilight Samurai), è un film del 2002 diretto da Yoji Yamada.

Seibei Iguchi (Hiroyuki Sanada) è un samurai al quale la vita ha proposto una grande sfida. La morte della moglie per tubercolosi lo lascia inerme e da solo a dover badare alla sua famiglia, composta da due figlie e la madre anziana con evidenti segni di demenza senile.

Il film si apre sul letto di morte della moglie del nostro samurai, accompagnata da una narratrice esterna che ne descrive la vicenda e la situazione circostante, senza alcuna presentazione di norma. Viene introdotto Seibei e la sua routine, che si basa sull’alternanza fra lo studio propedeutico per la sua “professione” di samurai e la sua attività domestica, accudendo le figlie, la madre e lavorando i campi, trovandosi spesso costretto a dover rifiutare inviti dei suoi amici per poter adempiere ai suoi compiti. Questa situazione lo porterà a trascurare sé stesso a tal punto da vestirsi di una tunica vecchia e sgualcita e perfino a non curare la propria igiene, con grande disappunto dei suoi colleghi il quale lo porterà ad avere problemi sul posto di lavoro.

La situazione sembra sfuggirgli di mano quando, in suo soccorso, arriva la giovane e bella Tomoe Linuma (Rie Miyazawa), sua amica d’infanzia, che si propone come aiuto in casa con le faccende domestiche e inizia a intrapendere anche un rapporto, quasi materno, con le figlie. Seibei scopre, dal fratello di Tomoe, che la ragazza è sposata ma è riuscita ad ottenere il divorzio poiché il marito alcolizzato non aveva riguardi nei suoi confronti e spesso la maltrattava. Sarà proprio l’incontro di Saibei con il marito di Tomoe, anch’egli samurai, a cambiare le sorti della sua vita.

Candidato agli Oscar 2002 come Miglior Film Straniero, “Tasogare Seibei” è un film costituito da pregi e da difetti. Benché agli occidentali non sia usuale essere a contatto con film dall’estremo oriente, quest’ultimo riesce, almeno nell’ambito della regia, a compiere un buon lavoro. E’ sicuramente diverso da ciò che ci si possa aspettare, con miseri combattimenti fra samurai (sostanzialmente due), che più sul lato fisico, si concentrano sul lato psicologico e le diverse difficoltà che un uomo solo, indipendentemente che sia un samurai o meno, deve affrontare.

Tuttavia in diversi momenti la pellicola si presenta piuttosto lenta, portando lo spettatore a pensare se determinate scene o alcuni momenti fossero davvero necessari. Nel complesso, il film si presenta bene, non eccessivamente emozionante, ma neppure eccessivamente sottotono. E’ molto utile per comprendere una dimensione lontana dalla nostra che, nonostante nell’era moderna sia stata molto avvicinata al mondo occidentale, è comunque difficile percepire, riconoscendo limiti e analogie di due culture necessariamente diverse.
                           Giuseppe Maimone

“Carol”

Quando si entra in sala , per quelle due ore ci allontaniamo dalla nostra quotidianità e viviamo altre vite, epoche e mondi. cate-blachett
Capita però qualche volta che il mondo e la storia con cui entriamo in contatto lascino qualcosa dentro di noi, una sensazione, difficile da descrivere e spesso fonte di riflessione.

Ed è per questo che oggi mi prenderò la briga di darvi un consiglio cinematografico che potrà essere utile non solo per apprezzare un bel film ma anche per compiere questa riflessione e, forse, ampliare il nostro punto di vista. Mi permetterò di parlarvi di questo film che si chiama “Carol” del regista Todd Haynes.

Presentato a maggio a Cannes, apprezzatissimo dal pubblico di tutti i festival da Roma a Londra. Ha fatto conquistare a Rooney Mara la palma d’oro a Cannes. Candidato a 5 Golden Globes e 6 Oscar fra cui miglior attrice protagonista e miglior attrice non protagonista.

La storia è tratta dal libro di Patricia Highsmith “The Price of Salt” nel quale si narra l’incontro e l’amore che nasce fra due donne nell’America degli anni 50. Potrei essere più specifica ma vi rovinerei, la sensazione che durante tutto il film si prova. I motivi per cui andare al cinema sono molteplici, non mi soffermerò molto sul fatto che l’interpretazione di Cate Blanchett (Carol) è sublime e coinvolgente , come sempre, e che Rooney Mara (Therese) non sbaglia nessuna delle sue scelte lavorative.

La sintonia fra le due attrici è tangibile, traspare dallo schermo. I soliti malpensanti hanno additato questo a passate e possibili preferenze sessuali delle due, a cui la Blanchett a Cannes , con la tua solita schiettezza che tanto ci piace, ha tagliato corto dicendo “La domanda che mi fu posta , da quel che ricordo, era “ ha mai avuto relazioni con donne?” e io dissi “certo, ma se lei si riferisce a relazioni sessuali la risposta è no.” Ma ovviamente ciò non è stato trascritto. Ma la vera domanda , nel 2015, dovrebbe essere “a chi importa?”.

Todd Haynes , il quale per la prima volta non ha scritto la sceneggiatura del film, con una delicatezza disarmante racconta questo amore, le difficoltà e i tabù degli anni ’50, un’epoca che gli è cara (v. Lontano dal paradiso) , e riconferma di essere uno dei migliori registi del nostro tempo e di avere quella empatia che pochi registi riescono a trasmettere al pubblico.

La bellezza pervade il film: la fotografia e i costumi , compiti assegnati a due “pezzi da 90” come Edward Lachman (Io non sono qui, Erin Brockovich, Il giardino delle vergini suicide,Radio America) che gioca con la luce e sfrutta l’effetto della pellicola in super 16mm con cui è girato il film e Sandy Powell (The Wolf of Wall Street, Cenerentola, The Aviator, Gangs of New York) che trasmette i sentimenti di ogni personaggio con i vestiti e i loro colori.

Un film giocato sui piccoli gesti, i più veri. Sulle mani, mani che sfiorano, che stringono, che danno conforto, in una società rigida, ancorata a tanti preconcetti ed al silenzio, per vergogna per paura di perdere tutto. Il silenzio a cui ci si ribella perchè non si vuole più negare se stessi , per quel sentimento identico per tutta l’umanità che è l’amore.

Tempo storico lontano dal nostro, ma in realtà i punti di contatto purtroppo sono ancora gli stessi. Todd Haynes e le sue due muse narrano con semplicità dell’amore, i sentimenti , i tremori, la passione delle due donne , gli stessi che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Ed è proprio questa disarmante chiarezza che ci fa uscire dalla sala soddisfatti, contenti e pensare che l’amore è amore per tutti e dire , forse anche a chi è restio riguardo a questi rapporti, “Who cares?”.

Arianna De Arcangelis