Alla scoperta degli Oscar: 1917, la prima guerra mondiale come non l’avete mai vista

Voto UVM: 4/5

1917, locandina del film – Fonte: comingsoon.it

1917, ultimo lavoro cinematografico del noto regista britannico Sam Mendes, è un film all’insegna dell’eccedenza – e dell’eccellenza – sotto vari aspetti.

Distribuito su scala limitata negli USA dalla Universal Pictures a partire dal 25 dicembre e poi a gennaio nelle sale di tutto il mondo, ha già incassato ben 202 milioni di dollari e si è – a buon merito – conquistato 10 candidature all’Oscar (miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, migliore scenografia, migliore colonna sonora, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, migliori effetti speciali, miglior trucco e acconciatura). Ma non solo: ha già vinto 2 Golden Globe come migliore film drammatico e migliore regia e 7 BAFTA ( miglior film, miglior film britannico, miglior regista, migliore fotografia, migliore scenografia, miglior sonoro e migliori effetti speciali).

Cosa ci aspettiamo da una simile tempesta di riconoscimenti per un film di guerra?

Sicuramente un kolossal moderno ricco di scene d’azione, grandi dispiegamenti di truppe, battaglie epiche e trionfali, che si vedono anche in numerose pellicole fantasy. Il nuovo capolavoro di Sam Mendes invece non è niente di tutto questo!

Il regista, che si è ispirato ai racconti del nonno Alfred Hubert Mendes, il quale combattè per due anni sul fronte francese, ci fa invece notare che quando si tratta di guerre, soprattutto guerre di movimento come il primo conflitto mondiale, c’è ben poco da celebrare, ma solo da raccontare con sguardo realista e disincantato, scegliendo un punto di vista “minore”, quello di un semplice soldato.

Il protagonista William Schofield (George MacKay), caporale dell’esercito britannico sul fronte francese, ha una precisa missione: attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio al colonnello Mackenzie del 2° battaglione del Devonshire Regiment ,per impedire l’attacco ai tedeschi previsto per l’indomani ed evitare così la morte quasi certa di 1600 uomini. Nella sua corsa contro il tempo attraverso desolate terre di nessuno, trincee labirintiche e paesi fantasma devastati dalle bombe, è accompagnato dall’amico e commilitone Tom Blake (Dean-Charles Chapman), coinvolto in prima persona perché fratello di Joseph (Richard Madden), combattente nel 2° Devon.

George MacKay e Dean-Charles Chapman vicino a una trincea nemica – Fonte: fortemertein.com

Riusciranno i due ad avvisare il battaglione in tempo e salvare i compagni dal disastro?

Al di là del finale e dell’intreccio, quello che importa di più a Mendes è far piombare lo spettatore dentro un’atmosfera ben precisa: quella di una guerra atroce che, come afferma il colonnello Mackenzie, interpretato da un magistrale Benedict Cumberbacht, “la vince chi sopravvive”. Il suo occhio non risparmia particolari macabri: mosche e avvoltoi che sorvolano cadaveri, resti umani intrappolati nel fango, né esita a raccontare gli stenti dei protagonisti, la voglia di tornare a casa, i loro ricordi, la fame e la sete per cui si baratta volentieri una medaglia che alla fine “è solo un inutile pezzo di latta”. Una narrazione priva di retorica che si avvale di dialoghi ben scritti (e in questo si vedono le radici teatrali di Mendes) e di un realismo sconcertante.

A creare ancor di più quest’atmosfera sono le scenografie di Dennis Gassner che ricostruiscono un paesaggio quasi post-apocalittico e la fotografia di Roger Deakins che strizzano l’occhio all’arte pittorica. I ruderi del paesino illuminati dalla sola luce dei bombardamenti non sembrano usciti direttamente da un dipinto del romantico Friedrich?!

Fonte: screenWEEKblog

Ma la trovata tecnica più azzeccata è sicuramente l’unico piano sequenza che travolge lo spettatore in un crescendo di forte tensione: scena dopo scena sembra di correre accanto al protagonista, sentire gli spari dei nemici, le trappole tese, le bombe, il fiato che manca, il suo cuore che salta in gola in una corsa infinita in cui non c’è tempo di fermarsi e ricucire le ferite del corpo e dell’animo: bisogna correre, lottare per la sopravvivenza. Ci sono solo pochi momenti di pausa in tutto il film e uno di questi è il canto mattutino che raccoglie i soldati prima della battaglia: un canto privo di speranza, una preghiera di chi sa che va in marcia per morire.

Le premesse per trionfare nella notte degli Oscar ci sono tutte!

Se siete militaristi incalliti con qualche nostalgia per le imprese dei nostri nonni, non andate a guardare 1917: vi racconterà una verità sulla guerra che non volete sentire. Anzi, se lo siete, e soprattutto se siete giovani, andate a vederlo perché per conoscere la storia purtroppo non sempre bastano i libri e quello di Mendes è uno dei film bellici più onesti dell’ultimo decennio!

Angelica Rocca

Alla scoperta degli Oscar: Jojo rabbit, il film rivelazione dell’anno

Voto UVM: 4/5

Locandina del film – Fonte: mymovies.it

Jojo Rabbit è il nuovo film diretto dal regista neozelandese Taika Waititi, tratto dal romanzo del 2004 “Come semi d’autunno” della scrittrice Christine Leunens.

Il film ha come protagonista Jojo Betzler, un ragazzino tedesco di 10 anni cresciuto in pieno Terzo Reich e appartenente alla Gioventù Hitleriana, il cui più grande desiderio è quello di diventare un giorno la guardia del corpo del Führer.  Jojo è un bambino acuto e intelligente, che mette a servizio le sue doti a favore della grande Germania. Nonostante il suo fanatico e infantile amore verso il nazismo, non possiede quella freddezza d’animo nel compiere quei gesti che sono propri dei nazisti; viene quindi considerato un codardo e da qui si conquisterà l’appellativo di “rabbit”, ovvero coniglio. Il ragazzino vive insieme alla madre Rosie e ad Elsa, una ragazza ebrea che Rosie tiene nascosta in casa e di cui neanche Jojo era a conoscenza; tra i due nascerà una grande amicizia.

Scarlett Johansson (Rosie) e Roman Griffin Davis (Jojo)  – Fonte: nonsolocinema.com

La pellicola racconta, diversamente da come è stato finora fatto, la dittatura nazista, la guerra e le persecuzioni contro gli ebrei e gli oppositori del regime. Waititi sceglie dunque di partire dalla satira per “smontare” il regime hitleriano e l’ideale nazista davanti agli occhi dello stesso protagonista, che come in un crescendo prende pian piano consapevolezza della grande illusione in cui crede.

Il regista quindi ridicolizza tutto ciò che appartiene ideologicamente e materialmente al Terzo Reich: oggetti, simboli, slogan propagandistici, mimica e gestualità, tutto ciò che noi storicamente colleghiamo alla Germania nazista. Pare dunque difficile non notare con quale enfasi in molte scene viene utilizzato fino alla noia il classico saluto “Heil Hitler” ovvero “Salute Hitler” con tanto di braccio destro in alto.

Senza troppo impressionare Waititi non lascia nulla all’immaginazione dello spettatore, facendo ben vedere cosa significasse vivere nel Terzo Reich per gli oppositori di regime, per un’ebrea come Elsa e per un fanatico nazista quale Jojo. Alla stregua de “La vita è bella” con cui Benigni raccontò l’orrore dei lager, Waititi con una commedia drammatica mostra l’illusione del sogno hitleriano nell’ultimo anno di guerra, che si manifesta in personaggi buffi quali il capitano Klenzendorf.

Sam Rockwell (sinistra) nei panni del capitano Klenzendorf – Fonte: masedomani.com

Oltre la satira verso il regime nazista, il regista mostra un background di altre tematiche quali la solitudine; il protagonista infatti ricorre ad un amico immaginario molto singolare. Non passa di certo inosservato il ruolo di Rosie che apparentemente in un primo momento sembra assecondare la devozione di Jojo per il regime, tanto da rivolgersi al figlio chiamandolo “feld maresciallo Jojo”. Un personaggio carico di tenacia e dolcezza quello di Rosie che lascia intravedere la sensibilità del regista verso il mondo femminile, che ha fatto guadagnare a Scarlett Johansson la nomination come miglior attrice non protagonista.

Originale infine la scelta di brani classic rock che aprono e chiudono la pellicola. Presente all’inizio “Komm, gib mir deine hand” versione tedesca di “I want to hold your hand” dei Beatles e in chiusura “Helden” versione tedesca di “Heroes” di David Bowie. Meritano considerazione i colori vividi della fotografia, diversamente da quanto accade nella filmografia dedicata al nazismo in cui prevalgono colori più cupi.

Il film è ambientato nella Germania del 1945, sebbene sia stato girato interamente a Praga. Taika Waititi firma regia e sceneggiatura, ottenendo la candidatura all’Oscar nella categoria miglior film e migliore sceneggiatura non originale. In lizza per l’ambito premio anche costumi, scenografia e montaggio, caratterizzato dall’assenza di piano sequenza e dunque da numerosi stacchi nelle inquadrature.

Riuscirà il film a portare a casa qualche statuetta?

Di certo la concorrenza è tanta, ma Jojo Rabbit ha saputo sorprendere grazie a un nuovo e originale modo di fare satira sul regime nazista.

                                                                                                                                                                         Ilenia Rocca

Alla scoperta degli Oscar: Joaquin “Joker” Phoenix

Joaquin Phoenix è il protagonista del film Joker diretto da Todd Phillips e candidato a ben 11 premi Oscar.

L’attore 45enne in passato ha già avuto modo di mostrare le sue potenzialità ed il suo grande talento con le interpretazioni del sadico Commodo nel Gladiatore (2000), del problematico Freddie Quell in The Master (2012) e del disagiato Abe Lucas in Irrational man (2015).

Locandina del film – Fonte: Amazon.it

Nascita e sviluppo del personaggio

Joaquin ha dichiarato: ”ho regalato a Joker tutta la mia pazzia” ed è il modo in cui gliel’ha donata a farci innamorare del personaggio. Per adattarsi maggiormente al ruolo ha dovuto perdere circa 23 kg in pochi mesi, nutrendosi con una mela al giorno e saltuariamente con della lattuga o dei fagiolini al vapore. La dieta lo ha portato ad isolarsi, in quanto l’attore si è barricato in casa evitando di uscire con gli amici e di accendere la televisione così da non vedere del cibo, che avrebbe incrementato esponenzialmente la sua fame. Questo lo ha certamente favorito nell’immedesimazione nella parte del sociopatico Arthur Fleck.

Nel corso del film assistiamo ad una lenta ma costante evoluzione del personaggio, che già dall’inizio sappiamo essere destinata a culminare con l’entrata in scena del Joker. Ed è proprio questo viaggio verso la follia ad interessare realmente lo spettatore. L’attore è riuscito a manifestare il disagio di un uomo tramite piccole azioni, probatorie delle profonde problematiche di Arthur Un esempio emblematico è lo sguardo assunto dal protagonista quando ride in maniera incontrollata, che trasmette tutta la disperazione ed il malessere del personaggio semplicemente con gli occhi.

La chimica tra attore e regista

Per creare la sua ormai iconica risata ci sono voluti mesi di prove durante le quali Phoenix invitava il regista Todd Phillips nella propria abitazione mostrandogli i progressi del lavoro svolto.

Todd Phillips e Joaquin Phoenix sul set del film – Fonte: mondofox.it

Il rapporto instauratosi tra i due è il motivo principale del successo di questa pellicola (la quale ha incassato la cifra monstre di 1,068 miliardi di dollari). Al loro primo incontro il regista disse: “Arthur è una di quelle persone che hanno la musica dentro”. L’attore ha colto in pieno le sue parole in quanto nella scena in cui si ritrova dentro un bagno pubblico, dopo aver commesso un crimine terribile, comincia a danzare. Inizialmente il protagonista doveva solo guardarsi allo specchio, ma grazie all’improvvisazione di Joaquin Phoenix – e alla fiducia concessagli dal regista – possiamo assistere a questa sequenza che ci mostra un mutamento radicale della personalità di Arthur.

Divergenze tra star hollywoodiane

Sul set vi sono state delle tensioni tra l’attore protagonista e Robert De Niro (nel ruolo del conduttore Murray Franklin)  che certamente non hanno favorito un clima sereno durante le riprese. In sintesi De Niro voleva effettuare una lettura dell’intero copione con tutti i membri del cast, ma Joaquin si rifiutò di partecipare alla riunione per concentrarsi al meglio sul personaggio. Dopo una serie di botta e risposta fu Phoenix stesso a cedere alle pretese di De Niro, quindi prese parte alla seduta dove si mise in un angolo a fumare non prestando particolare attenzione allo svolgimento della stessa e pronunciando svogliatamente le proprie battute.

Gli attori in seguito hanno dichiarato di aver risolto qualsiasi incomprensione, ma di certo un sottile livore tra i due c’è stato. Le due stelle del cinema sono state molto abili a trasmettere tutto l’astio e le avversità, provate in prima persona l’uno nei confronti dell’altro, in una delle scene più importanti dell’intera pellicola, ovvero quando Joker e Murray discutono animatamente. Durante il dibattito gli interpreti ci incantano creando uno stato di ansia che cresce battuta dopo battuta al punto tale da farci credere di essere presenti tra il pubblico del talk show.

Robert De Niro e Joaquin Phoenix nel film – Fonte: ilgrigio.net

Differenze con gli altri Joker del passato

Molteplici paragoni sono stati effettuati tra i Joker interpretati da Joaquin Phoenix,  Heath Ledger e Jack Nicholson. Stabilire chi tra questi sia stato il migliore, molto semplicemente, non è possibile.  Sono 3 personaggi che hanno conquistato il pubblico grazie alle eccelse interpretazioni dei rispettivi attori, i quali hanno utilizzato metodi differenti per la loro creazione.

Heath Ledger ha donato al proprio Joker tutto il suo istinto e forse un principio di reale follia, vista l’esasperata preparazione che ha dovuto affrontare. A livello introspettivo il personaggio del compianto attore non ha eguali.

Jack Nicholson si è giocato tutto sulla mimica facciale, riuscendo a creare il Joker più carismatico della storia.

Joaquin Phoenix invece è riuscito a trovare il perfetto bilanciamento tra tecnica e sentimenti. Ciò ha permesso di far emergere tutta l’umanità di un personaggio talmente matto e imprevedibile da sembrarne sprovvisto.

La cura per i dettagli e la capacità di rievocare forti emozioni provate durante la propria vita hanno permesso all’attore di creare questo fantastico personaggio e di confermarsi come uno dei migliori interpreti a livello mondiale, aggiudicandosi il Golden Globe come miglior attore drammatico e l’Oscar come miglior attore protagonista, oltre a numerosi altri premi.

Insomma, possiamo dire che la prova attoriale di Joaquin Phoenix sia stata molto apprezzata e che ci sia stato un giudizio unanime della critica e del pubblico a riguardo: un connubio non da poco, visto il grande successo della pellicola sia tra gli addetti ai lavori che come incassi.

Ecco il video della proclamazione e del discordo dell’attore alla cerimonia degli Oscar 2020 (fonte: youtube.com)

Vincenzo Barbera

Alla scoperta degli Oscar: The Irishman

The Irishman – voto UVM: 4/5

Martin Scorsese è tornato, questa volta più agguerrito che mai. Dopo il fiasco al botteghino del film Silence (2016) ha deciso di creare un’opera di 210 minuti in cui ha esaltato il suo passato cinematografico ed ha riproposto tematiche, già precedentemente affrontate, in chiave più matura e riflessiva. Scopriamo insieme perché ha già conquistato il favore della critica e, pertanto, potrà ambire a più di una statuetta.

Locandina del film – Fonte: MYmovies.it

Produzione

Per The Irishman il regista ha affermato: “volevo fare un film con i miei amici“; dunque, ha formato un cast stellare che comprende Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci ed Harvey Keitel, riunendo così le colonne portanti del genere gangster in un unico lungometraggio.

Inizialmente, il progetto di The Irishman fu rifiutato da diverse case di produzione, visto l’elevato budget richiesto per girare in CGI (Computer-generated imagery), finché non è intervenuta Netflix, che ha finanziato la pellicola. Diversi utenti della piattaforma streaming si sono lamentati della lunghezza del film, etichettandolo come “noioso, terribile e confusionario” esclusivamente per la durata, senza porre attenzione alla regia ed alle grandissime interpretazioni degli attori. E non è un caso che il film abbia ottenuto ben 10 candidature agli Oscar.

Regia: tra introspezione ed evoluzione del cinema di Scorsese

La pellicola, candidata nella categoria miglior film, ha riproposto al grande pubblico quegli aspetti della vita criminale già mostrati dal regista in Goodfellas (1990) e Casinò (1995), rimodellandoli con lunghe scene in cui i personaggi riflettono sul loro passato. Di conseguenza, l’intero film diventa un’evoluzione del cinema stesso di Scorsese, il quale ci fa comprendere lo stato d’animo ed i pensieri di un gangster giunto ormai alla fine dei suoi giorni, dopo aver vissuto in maniera frenetica un’esistenza segnata dai peccati più terribili.

The Irishman potrebbe infatti essere considerato il sequel diretto di Quei bravi ragazzi dove la “bella vita” condotta dai criminali a base di alcol, soldi sporchi, donne favolose e voglia di espandere il proprio potere, alla fine viene annichilita e smembrata semplicemente dallo scorrere inevitabile del tempo, che obbliga i protagonisti a guardare dentro sé stessi ed a tirare le somme.

Quei bravi ragazzi (Goodfellas) – Fonte: thecinematograph.it

Il regista, a 79 anni, decide di raccontarsi all’interno della pellicola, mostrandoci le ansie e le paure della vecchiaia che ormai incombe irrimediabilmente. E lo fa su una solida base, poggiata sul suo modo di fare cinema, che lo ha consacrato negli anni ’90 tra i più grandi registi della storia. La maestria di Martin Scorsese nel dirigere i suoi attori , facendoli immedesimare in modo quasi mistico nei vari personaggi, e nello sperimentare innovative tecniche di ripresa è stata riconosciuta dall’Academy, che gli ha riservato la nona nomination della sua carriera al premio come miglior regista.

Il cast

Joe Pesci dopo 24 anni torna a recitare con De Niro in un film di Scorsese. L’ultima volta fu in Casinò, e non a caso si ritrova nel quintetto dei candidati per il miglior attore non protagonista. La prova d’attore di Pesci dovrebbe essere proiettata in tutte le scuole di recitazione per far comprendere cosa sia realmente un attore e cosa debba fare per poter essere considerato tale. Pesci è stato capace di interpretare alla perfezione il capomafia Russell Bufalino, replicando le movenze tipiche di un siciliano in età avanzata e trasmettendo emozioni proprio per mezzo della gestualità.

Robert De Niro ha suggerito al regista di prendere, per il ruolo di Jimmy Hoffa, il collega Al Pacino, con il quale aveva già recitato in Sfida senza regole (2008) ed in Heat-La sfida (1995).  Il protagonista di Scarface, anche a 79 anni, riesce magistralmente a rivestire il ruolo di uno dei più importanti sindacalisti degli anni ’60, donandogli tutto il suo carisma ed esaltando la simpatia e la genialità di un uomo estremamente potente. Anche per Al Pacino è arrivata la candidatura all’Oscar (migliore attore non protagonista).

Robert De Niro, Al Pacino e Ray Romano in una scena del film – Fonte: The Post

Lo sceneggiatore Steven Zaillian ha ottenuto la nomination per la miglior sceneggiatura non originale: nessuna sorpresa, data la fluidità della narrativa e l’abilità di Zaillian nel raccontare storie realmente accadute. Lo scrittore non è nuovo nell’approcciarsi a storie reali ed è riuscito a riproporne gli eventi più emblematici della vicenda, enfatizzando le emozioni che le persone provano vivendoli, come fece anche per Schindler’s List.

Nessuna candidatura -a malincuore- per Robert De Niro ed Harvey Keitel, che quando recitano insieme (come fu in Taxi Driver) danno vita a momenti indimenticabili di vero cinema, grazie all’armonia che scorre tra i due attori (osservabile nel film solo per pochi minuti).

In conclusione, The Irishman è una pellicola degna di far parte della lunga lista di opere d’arte dirette da Martin Scorsese.

Forse non sarà ai livelli di Taxi Driver, Toro scatenato o Quei bravi ragazzi, ma il regista ci presenta un’opera diversa, più matura e ricercata, ricca di innovazioni e sicuramente di altissimo rango. Con le sue 10 candidature ai premi Oscar del 2020 è, obiettivamente, tra i migliori film dell’anno.

 

Vincenzo Barbera

Gli Oscar sotto i riflettori della polemica

L’Academy of Motion Picture Arts and Sciences fa ancora una volta parlare di se.

L’associazione, madrina degli Oscar, ha rivisto la decisione, alquanto inconsueta, di assegnare quattro premi durante le pause pubblicitarie previste nel corso della cerimonia del 24 febbraio, in seguito alle critiche ricevute dai suoi membri.

I premi che sarebbero stati impropriamente oscurati dalle pause pubblicitarie erano quelli per la miglior fotografia, il miglior montaggio, il miglior trucco e il miglior cortometraggio.

La scelta aveva l’obiettivo di accorciare di un’ora la cerimonia, da sempre ritenuta pedante e lunga, ed era stata approvata dagli oltre cinquanta consiglieri dell’associazione, ma fin dall’annuncio tanti altri attori, registi e produttori, tra i quali Alfonso Cuaron, Martin Scorsese e Quentin Tarantino, avevano contestato l’oscuramento dei premi per categorie ritenute fondamentali per il cinema.

Hanno tuonato registi e addetti ai lavori, che ieri hanno inviato una lettera aperta per chiedere di rivedere quanto stabilito.
L’Academy non ha fatto attendere la sua risposta.

Nel comunicato stampa diramato dall’ente dello spettacolo preposto ai Premi Oscar si legge: “Desideriamo assicurare che nessuna categoria sarà presentata in modo da sminuire né i vincitori né i prodotti premiati.

Cambierà solo il tempo dedicato durante la diretta alla premiazione sul palco”. Non solo rassicurazioni, ma per difendersi l’Academy attacca “le informazioni non accurate e i post sui social media” e tutta la “catena di disinformazione che ha sconvolto tutti i membri dell’Academy stessa”.

“ I nostri produttori hanno tenuto in gran considerazione sia la tradizione del Premio Oscar sia il sempre crescente pubblico globale.

Siamo sinceramente convinti che sarete soddisfatti dallo show e non vediamo l’ora di festeggiare un grande anno cinematografico con tutti i nostri membri e con il resto del mondo”.

Quest’anno tra presentatori non pervenuti e varie polemiche interne, pare che la cerimonia dell’Oscar possa essere la più squallida di sempre.

D’altronde quando l’istituzione più autorevole con il compito di proteggere e custodire la bellezza cinematografica, la pone invece alla mercè dello show-business, allora non solo non si sta più rispettando lo spirito dell’Accademy, ma anche la solenne promessa di celebrare il cinema come arte collettiva.

Antonio Mulone

Mostre a Palermo: Vittorio Storaro e Antonello da Messina

A Palermo è stata accolta presso il Palazzo Chiaramonte Steri la mostra dedicata a Vittorio Storaro dal titolo “Scrivere con la luce”. Ha rappresentato un’occasione innovativa per scoprire la maestria di un importante autore della fotografia cinematografica.

Vincitore di numerosi premi tra cui tre premi Oscar per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore, Vittorio Storaro ha lavorato con diversi registi come Bernardo Bertolucci e Francis Ford Coppola, e curato la fotografia di film rimasti nella storia (“Il Conformista”, “Ultimo tango a Parigi”, “Giordano Bruno”, “Novecento”, “Il tè nel deserto”). 

Innanzitutto, un po’ di chiarezza. Chi è l’autore della fotografia cinematografica? Una figura professionale, fondamentale per un set di un film, che ne cura la resa visiva, cioè l’aspetto dell’immagine in movimentoLa mostra è stata distribuita all’interno della Sala delle Armi e la Sala delle Verifiche, ed è stata allestita partendo dalla trilogia di libri scritti dall’artista per poi fare un confronto tra opere pittoriche (dal ‘700 in poi) e la cinematografia dei vari film.

La speranza è quella che in futuro verranno ideate ulteriori esposizioni riguardo alla settima arte, cercando anche di coinvolgere personalità della realtà cinematografica siciliana, in modo da fare sempre meglio e da espanderne la conoscenza con ampia risonanza.

L’Annunciazione, Antonello da Messina

La mostra di Antonello da Messina al Palazzo Abatellis invece è forse la più frequentata dal pubblico, nella quale sono presenti diverse opere provenienti da musei sparsi in molte città italiane e non solo.

Il percorso è suddiviso in diverse sale e presenta una sequenza cronologica della carriera artistica dell’autore. A partire dalla giovane età con dipinti del periodo fiammingo, per poi arrivare al periodo veneziano, che comprende la collaborazione con il figlio Jacobello nell’opera la Madonna col Bambino. Il tragitto viene seguito da grandi pannelli didattici che mostrano la vita e la storia delle opere dell’artista.

Questa monografica è una prova di come sia possibile realizzare mostre di grandi autori che, anche se spesso considerati minori, non hanno nulla da invidiare a quelli europei. L’unica nota negativa di questa mostra è l’assenza di altri lavori altrettanto rilevanti realizzati dal pittore, che rimangono visionabili solo fuori porta.

Avendo assistito nello stesso giorno a due mostre di impostazione e tipologia diverse, ma ugualmente interessanti, ho maturato alcune riflessioni. Sorge dunque spontaneo proporre il seguente confronto: la mostra di Antonello da Messina è organizzata sulla base di un ordinato orientamento spaziale; quella di Storaro, pur rispecchiando parzialmente questi canoni, risulta a tratti dispersiva, aspetto probabilmente attribuibile all’ampiezza delle sale.

“Scrivere con la luce” Vittorio Storaro, Palazzo Steri

Nonostante sia sicuramente una scelta valida confrontare i vari film con opere pittoriche che risalgono a epoche dal ‘700 in poi, questo aspetto rimane poco comprensibile e accessibile a quella parte di pubblico che non ha già visto preventivamente tutti i film.

Se le stampe dei frame fossero state sostituite con l’installazione di pannelli virtuali proiettanti pochi secondi di film, si sarebbe garantita maggiore dignità al maestro della luce Vittorio Storaro, mostrandola in tutta la sua interezza.

“Il cinema non è un’opera singola. Il cinema è un linguaggio di immagini attraverso cui si esprime un concetto, essendo l’immagine rilevata dal conflitto e dall’armonia dell’ombra e della luce e, come li chiamava Leonardo da Vinci, dei loro diretti figli: i colori. Infatti una diversa impostazione della luce, comporta nel film una differente struttura figurativa.”  Vittorio Storaro

 

Marina Fulco

E’ tempo dei Golden Globes 2019

Come ogni anno, i Golden Globes aprono la stagione a stelle e strisce dei premi cinematografici (Awards season) che culminerà in primavera con l’attesissima notte degli Oscar.

Nella 76esima edizione del concorso , vedremo i migliori film, americani e stranieri, attori, registi, serie e miniserie tv, premiati dai 90 giornalisti e critici cinematografici della Hollywood Foreign Press Association.

La cerimonia si è tenuta nell’incantevole location del Beverly Hilton di Beverly Hills, che in occasione della sfilata delle celebrità più luminose, sfoggia orgogliosamente un Red Carpet da sogno.

Non a caso, i Golden Globes sono diventati “the best party in town”, la festa numero uno ad Hollywood, merito anche dello Show, più imprevedibile, politicamente scorretto,spigliato ed irriverente rispetto agli Oscar.

All’elegantissimo party presenti tutte le star piu acclamate, comodamente sedute attorno ai tavoli fra pietanze e champagne costosissimi, possono liberamente muoversi e spostarsi, chiaccherare con i colleghi cineasti, a differenza del contesto impettito e rigido degli Academy Awards.

Questa libertà festaiola, dopo circa un’ora di programma, finisce per coinvolgere gran parte dei presenti brilli e divertiti, e per influire positivamente sullo show, sui discorsi di ringraziamento spesso caratterizzati da gaffe comiche.

Protagonisti della serata, presentata dall’attrice Sandra Oh e dall’attore Adam Samberg, le pellicole pluri-nominate “Vice”, “Green Book”, “A star is born”, “Bohemian Rapsody”, “BlacKkKlansman” e “Roma”.

Il film più premiato è stato Green Book di Peter Farrelly, che si è aggiudicato i premi di miglior commedia, miglior attore non protagonista a Mahershala Ali e miglior sceneggiatura.

Leggera delusione per il sei volte nominato Vice di Adam Mckay che ha vinto solo nella categoria di migliore attore in un film commedia grazie alla solita straordinaria trasformazione fisica di Christian Bale.

A sorpresa A star is Born di Bradley Cooper si è imposto soltanto nella sezione miglior canzone originale con Shallow di Lady Gaga su cinque nomination totali.

Bohemian Rapsody di Bryan Singer domina la scena e si porta a casa le statuette di miglior film drammatico e di miglior attore protagonista a Rami Malek rivelazione attoriale dell’anno merito dell’interpretazione ai limiti della perfezione tecnica del compianto leader dei Queen Freddy Mercury.

Pellicola co-protagonista della serata Roma di Alfonso Cùaron, premiata con il miglior film straniero e la miglior regia che confermano la crescita culturale della scuola messicana ( Innarritu, Del Toro, Rodriguez) che negli ultimi anni si sta mettendo in luce nella scena hollywoodiana.

Da segnalare la vittoria a sorpresa della 72enne Glenn Close in The Wife e di Olivia Colman in The Favourite.

Lo stravagante mondo di Hollywood tra polemiche femministe e d’inclusione, gossip e scandali riesce sempre e comunque a far parlare di se, ad attirare le attenzioni di fan e stampa da tutto il mondo.

Prossimo immancabile appuntamento il Red Carpet dell’Accademy madrina degli Oscar.

Sale l’ansia dei fan che intanto hanno avuto un assaggio, spesso anticipatore in termini di premi, della notte più attesa ed esclusiva del mondo.

Unico imperativo: aspettarsi l’inaspettato.

Antonio Mulone

I 12 anni di Blood Diamond, mai stato così attuale

Si è discusso tanto delle grandi interpretazioni dell’attore di fama internazionale Leonardo Di Caprio ma, tra le tante, questa in Blood Diamond è sicuramente nella classifica delle più meritevoli, accompagnato dalla fantastica messa in scena del beninese Djimon Hounsou.

Blood Diamond, diretto da Edward Zwick, non può non colpire, specie rivedendo i fatti più recenti di cronaca che riguardano tanto il nostro continente tanto quello africano.

Incentrato sull’intreccio delle vite del trafficante di diamanti Danny Archer, di un cittadino della Sierra Leone chiamato Solomon Vandy  e della giornalista Maddy Bowen, il film non fa altro che  sbattere in faccia la nuda e cruda realtà di tematiche dell’Africa del ventunesimo secolo.

Un susseguirsi di tragedie, contraddistinte dalla distruzione del villaggio del nostro co-protagonista e con esso il distaccamento dalla sua terra natia, richiamano quel sapore amaro di verità che il regista cerca di farci provare: non mancano atti di mutilazione, uccisioni e forse l’atto più sgradevole, la separazione dei bambini per mano di ribelli. Questi ultimi non faranno altro che, al soldo di multinazionali, alimentare la guerra, estrarre diamanti e obbligare alle armi migliaia di bambini.

Dall’incontro tra i due in avanti il rapporto non farà altro che migliorare, portandoli anche quasi forzatamente a instaurare una vera e propria amicizia.

Il regista sicuramente ci pone di fronte temi importanti che oggi sembra molti abbiano addirittura dimenticato. I motivi delle grandi migrazioni africane verso il vecchio continente, la sofferenza di interi popoli costretti alla miseria, la corsa allo sfruttamento delle risorse.

L’opera (perché solo cosi può essere definita)  in chiusura ci propone un tratto quasi stupefacente del rapporto di due uomini che nella difficoltà mettono da parte i colori della pelle e le origini per salvare ciò a cui tengono di più e il tutto si racchiude proprio nel momento nel quale Vandy porta sulle spalle Archer, nonostante sia lui una tra le tante cause della distruzione della propria terra.

E’ questo infatti che cerca di trasmetterci il regista: una grossa metafora, dalla quale prendere spunto, che forse è la spiegazione ai problemi della nostra distorta società.

Omar Bonavita

The Shape of Water

È candidato a 13 oscar la visionaria pellicola del maestro Guillermo Del Toro ed ha già vinto il Leone d’oro al miglior film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Nella Baltimora degli anni ’60, in piena guerra fredda, russi e americani si contendono il dominio sul mondo. All’interno di un laboratorio segreto avvengono esperimenti su una strana creatura marina catturata in Amazzonia, dove era venerata come un dio.
Nel laboratorio lavora la giovane Elisa Esposito (Sally Hawkins) orfana, muta e con una vita estremamente solitaria che divide solamente con la collega nera Zelda (Octavia Spencer) e il vicino di casa Giles (Richard Jenkins), omosessuale discriminato.

Sarà proprio Elisa la prima ad avvicinarsi alla creatura, spinta da una forte curiosità che la porterà a scoprire che quel “mostro” è in grado di farsi capire, provare emozioni ed innamorarsi.
La storia si divide quindi tra la dura realtà della guerra e la dolcezza di quell’inverosimile amore subacqueo.
L’interpretazione della Hawkins è impeccabile. La donna può esprimersi solamente attraverso gesti ma riesce benissimo a far comprendere e far arrivare al pubblico le emozioni e la passione che la attraversano.

Lo stesso regista ha definito il film “una fiaba per tempi difficili”.

Ed è proprio così che ci appare: una fiaba, una storia d’amore surreale calata in un’atmosfera onirica e fantastica.Tale atmosfera è ottenuta grazie ad un fotografia e ad ambientazioni eccellenti.
Il sole sembra non sorgere mai, la luce è sempre bassa, tenue, proprio a voler sottolineare come tutto avvenga in maniera nascosta, alle spalle del mondo reale.

È una storia che ha come protagonisti gli ultimi, gli emarginati, dei reietti che spinti da un reciproco senso di solidarietà riescono a riscattarsi.
È un film che resta dentro, che colpisce per la sincerità dei sentimenti e per l’alone di magia che lo circonda.

 

Benedetta Sisinni

La la land. Un inno ai sognatori e al cinema.

CINEMASCOPE la scritta gialla è la prima immagine che ci appare e dopo ci troviamo imbottigliati nel traffico di un raccordo dell’autostrada di Los Angeles ed è subito musica e balli sui tettucci delle macchine e fra queste.

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Questo è l’inizio di La la land l’ultima opera di Damien Chazelle (Whiplash), ha avuto una ricezione positiva immediatamente dopo la prima proiezione che ha anche inaugurato il passato Festival di Venezia.

Ryan Gosling è Sebastian, un pianista che ama il jazz e vorrebbe aprire un locale tutto suo dove “ridare vita al vero jazz” ma non avendo la capacità economica fa il pianobar suonando le canzoni natalizie nel ristorante di un JK Simmons imperturbabile.
Emma Stone è Mia, un’aspirante attrice che lavora come barista in un caffè degli studios della Warner.
I due si incontrano la prima volta nel ristorante dove Mia sente cantare e suonare Sebastian, ma è solo dopo una festa che i due stringeranno un legame forte, appassionato e profondo come il loro amore per l’arte. Momento clou della serata è lo scenografico e ben ballato tip tap fra le colline di LA mentre cantano “What a lovely night”.

La passione per la recitazione e la musica, la infinita gavetta (che tanti di quegli attori che noi ora apprezziamo hanno fatto) accettare la realtà dei fatti e poi rialzarsi per ricominciare.
E’ un film per i sognatori come canta la Stone ad un certo punto : “Here’s to the ones who dream. Foolish, as they may seem”

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Per gli appassionati di musical i riferimenti alle pietre miliari come Cantando sotto la pioggia West Side Story sono molteplici e facilmente riconoscibili. C’è il faccione della Bergman nel posto di Casablanca come carta da parati della camera di Mia, c’è Gioventù bruciataNotorius.
Chazelle gioca tutto il film coi long shots dando continuità alla recitazione e accentuando la fluidità delle parti danzate e coi colori dei vestiti e dei luoghi. Inquadrature in cinemascope con le figure intere testimoniano la performance ballerina degli attori.
Sebastian è un nostalgico e le sue emozioni si specchiano in una riflessione sul presente mondo dello spettacolo.

Le interpretazioni sono ottime Gosling convince completamente e ammalia.
Emma Stone , grazie anche all’esperienza fatta a teatro con “Cabaret” , è perfetta, coinvolgente espressiva e divertente.
In tanti hanno paragonato questa coppia a Fred e Ginger : non ballano come questi ma l’alchimia del duo sullo schermo è magica.

E’ un omaggio al Cinema e a Los Angeles che è la terza protagonista.
Il musical è un genere che non è mai passato rispetto a tanti altri più “forti” ,  come il western che invece hanno subito l’effetto del tempo, e con questo film gode di un rinnovamento. Una nuova fase del musical. E’ una boccata di aria fresca quella che ci permette di avere Damien Chazelle.
Dopo aver fatto incetta di Golden Globes , si è guadagnato 14 nomination agli Oscar (forse un po’ eccessivi ma si sa sono gli Academy) ed è il favoritissimo in categorie come miglior film e miglior attrice e attore protagonista. Non resta che attendere.

Intanto chiudete Netflix/Sky/Amazon alzatevi dal divano, sedetevi in sala e sognate.

Arianna De Arcangelis