L’Erasmus ai tempi del Coronavirus

Due settimane. Sono appena trascorse le mie prime due settimane di esperienza Erasmus. Mi sento in un vortice di emozioni, sensazioni. È tutto nuovo, e allo stesso tempo conosciuto, come se avessi dato conferma alle “fantasticherie” che hanno preceduto la partenza. Si, è inevitabile riempirsi di domande, e di paure. Diceva mia nonna <<quando lasci la strada vecchia per la nuova, sai quello che lasci e non sai quello che trovi>>.
Eh beh, per l’Erasmus è proprio vero: tutti coloro che l’hanno vissuto possono dispensare consigli e pareri, ma fino a quando non ci si è dentro non esiste un vero termine di paragone. È un’esperienza personale, faccia a faccia con se stessi ed il mondo. Poi, aggiungiamoci un’epidemia che minaccia l’intera popolazione globale ed il quadretto di “Erasmus unico nel suo genere” si completa. Il Coronavirus non lascia indietro nessuno, ed anche l’Agenzia Erasmus+ INDIRE ha comunicato che per le mobilità degli alunni, degli studenti e dello staff, che operano negli ambiti dell’istruzione scolastica, dell’istruzione superiore e dell’educazione degli adulti, nell’ambito del programma Erasmus+ potrà applicarsi il principio di “causa di forza maggiore”. Sarà possibile richiedere all’Agenzia Nazionale, nelle forme e con le modalità che saranno successivamente comunicate, di applicare la clausola di “forza maggiore”, relativamente alle attività e ai costi per tutte quelle mobilità che vengano annullate in ragione della situazione di emergenza e dei provvedimenti delle competenti autorità. Qui presente il Vademecum per la gestione di_progetti_Ereasmus+:Gioventu_e Corpo europeo di solidarietà – Emergenza COVID_19 

Sono partita per la mia esperienza il 23 febbraio verso la Nazione che mi avrebbe ospitato. Attualmente, infatti, mi trovo a Maribor, in Slovenia, in cui, se tutto va bene, dovrò trascorrere i prossimi quasi 5 mesi prima delle vacanze estive. Facendo due calcoli, noterete che sono “fuggita” giusto in tempo, quando il focolaio era distante da me ma la sua forza espansiva era più forte del previsto, tanto che nel giro di pochissimi giorni integralmente il Bel Paese si è bloccato. Coloro che sono partiti dopo di me sono stati messi in quarantena, soprattutto i provenienti dall’Italia. Una quarantena un po’ sui generis comunque, non dovuta né ad una negligenza del Paese Sloveno – il quale si è mobilitato immediatamente ad installare in ogni dove, senza nemmeno accorgersene, disinfettanti ed igienizzanti – ma forse dovuta alle caratteristiche del virus che principalmente attacca anziani e adulti, quindi gli under 25 sono stati poco salvaguardati senza ricorrere al tampone. È vero anche che ancora i casi presenti nel territorio sloveno, nonostante la stretta vicinanza con il nord Italia, si limitano a due anch’essi isolati e tenuti sotto controllo.

Ironica è la situazione creatasi per le condizioni meteorologiche che hanno attaccato gli studenti di ogni nazionalità con raffreddori, tossi, lievi stati febbrili e mal di gola. Il panico è dilagato in un secondo. Tra qualche risata volta a camuffare la preoccupazione interiore, abbiamo svaligiato le farmacie ed iniziato a scambiarci farmaci con costanti aggiornamenti dei nostri medici che in Italia non hanno più gli occhi per piangere. Fortunatamente, come anticipato, lo stato influenzale generale è stato principalmente dovuto ai costanti sbalzi termici che abbiamo incontrato (15 gradi, il giorno dopo neve con -2 gradi, pioggia, di nuovo sole) solo chi abituato a queste temperature si è fatto una grossa risata per smorzare l’occhio sinistro che naturalmente si faceva ad ogni colpo di tosse

I luoghi comuni vengono sfruttati per rompere il ghiaccio il più delle volte: se prima all’estero Italia = Mafia, oggi è Italia = Coronavirus. E se Erasmus è l’acronimo di EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Student dal 1987 ha definito la parola “globalizzazione” anche per gli under 30, il 2020 vorrebbe tutto tranne che ulteriori spostamenti. L’università ospitante, infatti, seguendo le direttive europee ed internazionali, ha inviato una mail a tutti gli studenti in mobilità indicando i luoghi più critici (italiani e non) consigliando di non spostarsi dalla propria abitazione se non si sentono bene, di informare immediatamente i propri coordinatori, mettere al corrente della propria condizione il proprio medico e di contattare immediatamente il numero di emergenza evitando trasporti pubblici. Nota più importante a fine mail: se si ha la necessità di ritornare nelle zone critiche, non è permesso rientrare per continuare la propria mobilità.

 

Veduta della Piramida innevata, Maribor, Slovenia – Febbraio 2020

Come per chi è bloccato in Lombardia, anche io non posso “né scendere né salire”. Il gruppo italiano si sente un po’ in esilio dalla patria, quasi il desiderio di rientrare si è intensificato: tutti i propri cari si trovano in una situazione di estrema emergenza e noi che, per coincidenze, ci troviamo in questo momento lontani, abbiamo un enorme punto interrogativo sopra la testa. C’è chi già programmava l’arrivo di genitori e fidanzat*, chi voleva visitare anche qualche zona del nord italia più vicina adesso che quando si sta nell’isola sicula. Certo, non possiamo né dobbiamo lamentarci, al contrario, forse, dovremmo sentirci fortunati di avere scampato per poco il pericolo, ma come per tutti non sappiamo come continuerà questa matassa che si aggroviglia sempre più.

Per ulteriori aggiornamenti il servizio informativo Viaggiare Sicuri del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale fornisce informazioni online costantemente aggiornate sui singoli Paesi. All’indirizzo http://www.viaggiaresicuri.it/find-country sono disponibili una Scheda Informativa e un Avviso in evidenza aggiornati sulla situazione corrente in ogni Paese nel mondo. È consigliato controllare il sito anche poco prima della partenza, all’indirizzo http://www.viaggiaresicuri.it/aggiornamenti. È inoltre utile, prima di partire, che i cittadini italiani registrino il proprio viaggio sul sito www.dovesiamonelmondo.it .

 

 

Giulia Greco

Se rimani non giudichi, se te ne vai non giudichi

Una delle poche certezze che ha Messina è la retorica di fine estate. C’è sempre il poeta polemico di turno, la scrittrice nostalgica, lo zio d’America che sentenzia, sul finir di Agosto. Molte testate dello Stretto hanno preso questa abitudine – noi forse l’abbiamo addirittura iniziata questa tradizione – di pubblicare le lettere “rendiconto” delle condizioni e delle sensazioni che si provano quando si ritorna e si parte da Messina. 
Quando si supera la soglia dei 30 giorni di permanenza in quel di Zancle, scatta l’impellente necessità delle parole di farsi spazio tra le dita.

Premetto che questo filo narrante di analisi di critica costruttiva riguardo i movimenti migratori dal Sud non era stato deciso ma si è creato da solo: già da Settembre avevo in mente di affrontare tale argomento dal punto di vista “interno”, mentre il mio collega Alessio Gugliotta, penna dell’editoriale precedente, ha riportato nero su bianco dati rilevanti e critici della nostra attuale comunità, senza esserci messi d’accordo.

Che il mio discorso non venga travisato perché riconosco esserci tanti, troppi punti di vista: chi voglio affrontare sono quei cittadini che rimangono ma puntano il dito senza fare distinzione, sostenendo che tutti coloro che se ne sono andati siano deboli. Le ragioni dell’emigrazione sono diverse e personali, chi si permette di giudicare chi rimane sbaglia, sopratutto se ha avuto l’opportunità di andarsene senza la necessità di farlo, e viceversa chi rimane pur avendo la possibilità di andarsene ma preferisce giudicare come moralmente scorretto chi riempie la valigia. Questa forma di bullismo antiquata e sempre più ancorata nel dilagante malcontento generale che sconvolge i rapporti sociali, alimenta l’aggressiva reazione di una parte di nazione che viene illusa continuamente come se fosse drogata. Ed il primo punto di riflessione che sorge spontaneo è: quanto noi giovani meridionali subiamo e soffriamo le condizioni precarie offerte dalla nostra terra? I punti di vista sono infiniti, e più che opinioni sono critiche elevate a giudizi supremi che vanno in netto contrasto tra loro.

Partendo da chi sceglie di rimanere: mi chiedo perché chi rimane è meglio di chi se ne va? L’assunto incontestabile che ognuno è artefice del proprio destino nel momento in cui prende una decisione deve essere il sottofondo di lettura di questa opinione, cari lettori.

Ho notato che chi continua a vivere al Sud è sinonimo di chi crede nel territorio, di chi non abbandona le radici, di chi lotta, di chi ha sani principi. Sono quelli del “nonostante tutto”, del “il problema non è la mia città ma i cittadini, le istituzioni”, del “io amo la mia cittàslogan che ormai hanno perso identità. Come in questa lettera l’autrice sente la necessità di dire la sua che lievemente sfocia nell’accento sulla mancata valorizzazione del territorio. Io stessa mi sono ritrovata a scrivere qualcosa su quello che di buono c’è, che può aiutarci a vivere armoniosamente un luogo indipendente e selvaggio, ma la dura verità che noi non accetteremo mai è che viviamo una terra che sta implodendo e continuerà  fino a quando non si inizierà a fare fronte comune.

Non è giusto che io mi debba sentire in colpa perché sono figlio del mondo e come tale voglio conoscerlo. Se la mia colpa è quella di scegliere di essere chi non posso essere dove sono nato, devo obbligarmi ad essere chi non sono perché altrimenti sono un disertore delle radici?

Perché deve essere visto come una sconfitta andarsene? Siamo figli di questa terra, cittadini del mondo e come tali abbiamo l’obbligo morale di conoscerlo, visitarlo, esprimere il meglio di noi stessi attraverso la conoscenza del nostro ecosistema, un luogo che stiamo pian piano distruggendo a causa di una radicalizzazione controproducente. Tutte le buone intenzioni si trasformano in ipocrisia. É una croce per tutti il prendere una valigia e partire senza sapere come andrà, con la consapevolezza che quel biglietto di andata non avrà un ritorno. 

La più grande paura dei “terroni” è il cambiamento, un cambiamento che perde di significato nel momento il cui viene bloccato in tutti i modi. Si ne sono consapevole, subiamo ingiustizie e vessazioni solo per il fatto di essere nati in un punto geograficamente troppo ricco per poter essere appieno sfruttato, è un territorio scomodo per il Mangiafuoco di turno. 

Forse c’è troppa carne sulla brace, ma ciò che vorrei “mangiaste” è solo l’atteggiamento supponente e presuntuoso che ognuno di noi ha nei confronti di novità che vediamo solo dall’esterno o che, peggio, influenziamo con le nostre esperienze elevandoli a concetti supremi. 

Il confronto è le fondamenta di una comunità che vuole crescere, migliorarsi e cambiare ciò che di male c’è. 

Proprio ieri su Repubblica di Bari è stata pubblicata questa pillola 

https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/11/02/foto/murales-240066470/1/#1 

L’opera artistica dello street artist Daniele Geniale è stata realizzata e dedicata a chi è costretto a lasciare la propria terra per ragioni di lavoro, e solo loro riconoscono il motivo della coraggiosa decisione. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte La Repubblica, Bari

 

Giulia Greco

l’Italia è un museo a cielo aperto. Ma i musei in Italia?

Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea – Roma ©GiuliaGreco, 2017

Ogni volta che organizzo l’itinerario di un viaggio, una delle prime ricerche che faccio su internet  riguarda i musei che posso visitare nella meta da me scelta. Fino ad adesso ho avuto modo di visitare buona parte dell’Europa ed alcune città oltre oceano, ed ognuna di esse aveva un’attrattiva culturale ed artistica che meritava di essere visitata.

Ciò che mi ha sempre stupito e rincuorato, è stata la veloce possibilità di controllare immediatamente i siti web dei rispettivi musei, con le relative informazioni generali necessarie. Anche l’impostazione del sito è sempre piacevole da guardare, come la soddisfacente facilità di poter prenotare preventivamente il biglietto. E poi vogliamo mettere l’assoggettazione capitalista che i negozi dei musei esercitano? Vuoi o non vuoi qualcosa la devi comprare!! Accidenti… Peccato che tutte le volte in cui mi ritrovo a visitare una città italiana, ed ogni città ha un museo, tutta questa situazione idilliaca scompare miseramente.

Pergamon Museum – Berlino ©GiuliaGreco, 2018

Secondo un recente studio di Oxford Economics l’Italia è uno dei Paesi con il più alto numero di musei in base al numero di abitanti – più precisamente uno ogni 12 mila abitanti – disponendo, ad esempio una quantità di aree archeologiche, monumenti e musei triplicati rispetto alla Francia ma solo il museo del Louvre di Parigi incassa quanto tutti i nostri musei. Nel nostro Bel Paese abbiamo 4976 musei, lo sapevate?

La ricerca di Oltre Manica ha analizzato le strutture ed il loro rapporto con la tecnologia che caratterizza il 21esimo secolo: solo 57% dei nostri musei dispone di un sito internet o di account social. Rispettivamente un museo su due non ha un indirizzo web, e solo 1 su 4 redige una newsletter. Ancora più “divertente” è la situazione con le biglietterie online: solo uno su cinque ne ha una.

 

Museo di Roma in Trastevere – Roma ©GiuliaGreco, 2017

Ovviamente le circostanze diventano critiche riguardo l’internazionalizzazione e la comunicazione in lingua inglese: solo il 40% ha personale che parla in inglese e solo il 54% di quelli che detiene un sito web con traduzioni in lingua straniera. Ora, io capisco la nostra reticenza nella conservazione di una nostra cultura “elitaria” e di “nicchia” ma, signori miei, è tempo di imparare! Un po’ di furbizia!

In Italia l’80% dei musei non ha un negozio, e appena quattro sono attrezzati con un ristorante. Soltanto al Castello di Schonbrunn , a Vienna, tra caffè e ristoranti si contano 8 strutture (una ha perfino due stelle Michelin)  e British Museum e Louvre incassano ogni anno circa 22 milioni di euro con i servizi aggiuntivi, mentre al Metropolitan di New York il commercial trading vale oltre 50 milioni di dollari.

Metropolitan Museum of Modern Art – New York ©GiuliaGreco, 2018

Conseguentemente, il sistema museale italiano si regge su una contraddizione di fondo: è il più ricco del mondo per quantità di collezioni e per presenza sul territorio, ma il meno efficiente dal punto di vista del funzionamento e delle tante occasioni sprecate.

Intorno agli anni  ’50  e  ’60, si è sviluppata la cosiddetta “didattica dell’arte” che consiste nell’insieme degli strumenti e metodologie finalizzati al trasmettere un valore educativo fruibile per tutti, rendendo le opere esposte comprensibili ai più. La formulazione di nuovi programmi che coinvolgessero maggiormente la popolazione, ha potenziato la strategia museale rendendo le principali gallerie vere e proprie chicche del nostro patrimonio. Solo che… solo che, il problema odierno è che tutti i più importanti musei dispongono, sì, di validi dipartimenti di educazione, però le condizioni precarie e la mancanza di fondi non danno l’opportunità di offrire servizi ottimali.

MuME – Messina ©GiuliaGreco 2017

Considerati tutti questi dati, ci rendiamo conto che riassumiamo il detto “pane a chi non ha i denti”. Sarà che siamo pigri, che lasciamo che facciano gli altri al posto nostro, e chi porta avanti la “baracca” si spezza la schiena con risultati minimi. A tal proposito vi consiglio la lettura di un vecchio articolo di UVM riguardo il MuME (Museo Interdisciplinare Regionale di Messina -https://universome.unime.it/2017/06/19/museo-messina-litalia-fatta-adesso-bisogna-gli-italiani/), quante opere abbiamo ancora nascoste, quanta cultura dovrebbe essere conosciuta per creare una coscienza collettiva più ricca e consapevole? E soprattutto, puntando sui musei: quanti posti di lavoro riusciremmo a creare? Secondo la ricerca dell’Università di Oxford circa 250.000…

 

 

Giulia Greco

Alla ricerca dell’aggravante perduta (?)

Nei giorni appena passati ho potuto notare che in molti durante il dì svolgono la propria vita in tranquillità ed in totale anonimato, mentre di notte si trasformano in impavidi difensori della giustizia, un po’ come Batman e Superman. Li definirei i “giuristi 2.0”. Si, si, avete idea di quanti “laureati” in giurisprudenza vagano per le strade del nostro bel Paese? Anche se lo scherzo sarcastico si presta divinamente per tutta la faccenda che vi racconterò, premetto che il mio scopo è principalmente di informare in maniera più oggettiva possibile, tenendo parziale la mia opinione – nonostante il tipo di articolo la richieda -, al fine di chiarire perché la giustizia italiana è giunta a tale decisione.

Si sa, il diritto non è certo un mondo facilmente comprensibile, due filoni sono in eterno conflitto tra loro (rari i casi in cui dottrina e giurisprudenza sono concordi) ed il lavoro interpretativo è sempre più oscuro ed articolato. Il caso che ha creato polveroni e fioccanti opinioni è la recente sentenza della terza sezione di giurisdizione penale della Corte di Cassazione: con il numero 32462 depositata il 16 Luglio scorso, i giudici hanno ordinato un nuovo processo per rivedere al ribasso le condanne stabilite in appello contro due uomini di cinquant’anni, accusati di stupro di gruppo contro una ragazza. I giudici hanno stabilito che la vittima era ubriaca e gli stupratori hanno approfittato delle infermità della vittima per avere un rapporto forzato privo di consenso della parte lesa. Se queste sono le parole che avete letto su molte testate nell’ultima settimana, è giustificato (e facile) attaccare la scelta dei giudici.

Ma, si è giunti fino al grado di Cassazione, perché la donna aveva assunto volontariamente l’alcol, e nel fare ricorso si è notato che per legge, alla pena dei due stupratori, non può essere aggiunta alcuna aggravante.

Procedendo con ordine: i fatti risalgono al lontano 2009. I protagonisti sono due uomini ed una ragazza, i quali avevano banchettato insieme con qualche bottiglia in più. La sfortunata fanciulla, al posto di essere aiutata viste le condizioni psicofisiche alterate, è stata condotta in camera da letto per subire una violenza da parte dei due uomini. Dopo qualche ora la giovane si è diretta al pronto soccorso descrivendo quanto appena accaduto. Nel 2011 i due uomini erano stati assolti in primo grado da un giudice di Brescia, perché la donna non era stata riconosciuta attendibile (si evince infatti dalla sentenza e dalla testimonianza, che la giovane confondeva gli avvenimenti, omettendo ed aggiungendo svariate volte i fatti). Successivamente, nel gennaio del 2017, la corte di Appello di Torino aveva considerato in modo diverso il referto del pronto soccorso, che parlava di segni di resistenza, e aveva condannato i due uomini a tre anni applicando anche l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». La difesa dei due imputati aveva presentato ricorso sostenendo che non c’era stata violenza da parte loro né riduzione a uno stato di inferiorità, dato che la ragazza aveva bevuto volontariamente. La Cassazione ha ora confermato la responsabilità dei due uomini nello stupro, ma ha annullato con rinvio la sentenza dei giudici di secondo grado sul punto dell’aggravante.

“Ragioni letterali, ovvero l’utilizzo della locuzione “con l’uso”, e sistematiche, essendo previste uguali circostanze soltanto in relazione ad altre fattispecie di reato che contemplano tra i loro elementi costitutivi la violenza o minaccia (artt. 339, 395, 393, 629 e 585 c.p.), impongono, infatti, di ritenere che il mezzo descritto debba essere imposto contro la volontà della persona offesa e, dunque, che la sostanza deve essere assunta a seguito di un comportamento violento o minaccioso dell’agente. Non integra quindi gli estremi dell’aggravante l’assunzione volontaria di sostanze alcoliche da parte della vittima.” – Sentenza della Corte

Perché si parla di aggravante e della sua mancata sussistenza?

Innanzitutto l’aggravante nel diritto penale la ritroviamo nell’art. 61 del codice penale, in cui sono elencate le circostanze aggravanti comuni, circostanze che – appunto – aggravano il reato commesso dal colpevole. Vi sono anche le aggravanti speciali, che si applicano caso per caso. Ed è questo il punto sul quale si sono soffermati molti critici, poiché ogni caso va valutato nelle sue circostanze specifiche, che non sempre sono uguali tra di loro. In ogni caso, la corte non ha stabilito che l’ubriachezza volontaria fosse stata un’attenuante, ma che se una donna che ha bevuto subisce una violenza, l’aggravante sussiste quando lo stato di invalidità è stato provocato dal colpevole del reato. La Cassazione non ha teorizzato che lo stupro non si è verificato: la violenza sessuale è stata riconosciuta, non è stato riconosciuto l’aggravante che modifica la pena dei colpevoli.

Chiariti tutti i dubbi, le opinioni possono essere presentate, sicuramente con la consapevolezza dell’argomento. La paura che può sorgere, nell’ipotesi in cui dovesse ripresentarsi un caso simile, è che la sentenza della Cassazione possa valere come precedente – il che non significa che la pronuncia fa legge, ma ha un peso rilevante, e può essere citata davanti ad un giudice – e che quindi l’aggravante come non sussiste adesso, potrebbe non farlo successivamente. Ma questo non significa che il dito va puntato alla Corte perché è stata “ingiusta” e l’indignazione deve dilagare come una fake news su Facebook.

Al Corriere della Sera, la penalista Caterina Malavenda non ha messo in discussione la legittimità della decisione della Cassazione, ed ha spiegato: «Certo, ora la Corte di Appello dovrà rivalutare tutto e, in particolare, capire chi ha fatto bere la vittima e perché. Tu puoi bere senza rendertene conto se c’è qualcuno che ti riempie continuamente il bicchiere. Ma perché lo sta facendo?». Infatti, a prescindere dalla giurisdizione e dalle scelte prese secondo procedimenti ben precisi e nel rispetto delle norme, la questione va spostata su un altro piano, in un ambito che ancora non è diventato concreto e sostanziale. La violenza ed il consenso sono discussioni fortemente avanzate in questo periodo, non solo a livello nazionale ma anche europeo, in cui il fulcro è il consenso esplicito, per cui dire “sì” significa “sì”, e che tutto il resto, compreso il silenzio, significa “no”. Il consenso esplicito offre infatti, secondo molte, più protezione, soprattutto a quelle donne che non sono in grado di esprimere chiaramente il proprio consenso (per paura, per alterazione del proprio stato psicofisico, le circostanze sono tante).

Che questo possa essere uno spunto per rivedere o migliorare tutte quelle norme volte a condannare la violenza sessuale? Che la nostra burocrazia sia famosa in tutto il globo per la sua particolare lentezza e minuziosa ricerca, è assodato, ma forse dovremmo valutare molti più casi e le rispettive conseguenze per poter assicurare una tutela completa dell’individuo (sempre nel rispetto del nostro diritto). Come recentemente in Spagna (che segue il modello tedesco e svedese), in cui è stata approvata la proposta che vede la vittima esprimere il proprio consenso esplicito affinchè il rapporto sessuale venga considerato tale, altrimenti è una violenza a tutti gli effetti.

Prescindendo dal genere, la violenza sessuale è un atto vile che deve essere concretizzato nell’immaginario comune: cioè, bisogna avere consapevolezza del reato infimo che rappresenta, tanto da non volerci nemmeno scherzare, per esempio. Non è piacevole quando dite “era troppo bon*, l’avrei stuprat*” o “vieni, vieni ti faccio divertire io”, non siete simpatici, non è divertente, non si dicono certe espressioni per scherzare. Sarò troppo rigida, ma è così di cattivo gusto, che riuscite a trasmettere amarezza e sconforto in chi vi ascolta, e peggio è quando vi si regge la battuta. Ridere è bello, ma c’è così tanto su cui scherzare, perché proprio così?

 

 

Giulia Greco

 

Quando la vita virtuale sovrasta la vita reale

Quando una scommessa, un gioco, si trasformano in una tragedia mortale, l’animo umano come realmente reagisce? Sicuramente una parola frulla nelle menti di tutti: perchè? O siamo troppo grandi per comprenderlo, o troppo cinici per dispiacerci. L’8 marzo scorso si è consumata una tragedia a cui ancora difficilmente si riesce a dare una risposta razionale. È successo in Calabria, tre ragazzini di 13 anni hanno ben deciso di attraversare la linea ferroviaria del treno, intorno alle 18.30, per raggiungere più velocemente via spiaggia il centro cittadino del comune limitrofo; lì ad uno dei tre è balenata la fantastica ed ammirevole idea di voler scommettere su chi riuscisse a fare un “selfie” il più possibile vicino al treno che proseguiva la sua corsa. Si può ben dedurre che qualcosa andò storto: due si sono salvati scansandosi in tempo dalle rotaie, mentre uno di loro è morto sul colpo.

Il gruppetto dei tre adolescenti è un clichè: ci sono il capo banda (l’ideatore della prova), il suo “tirapiedi” e la vittima che è sempre il bravo ragazzo, con qualche problema in famiglia che cerca di affrontare, ma viene trascinato per, azzarderei a dire, spirito di sopravvivenza. Tutti direte “un classico”. E perché è proprio un classico? Le dinamiche di questa vicenda si sarebbero potute riproporre anche 100 anni fa, un po’ come nella fiaba di Pinocchio. Peccato che le fiabe hanno il loro “e vissero felici e contenti”.

Si sa che è indole dell’uomo voler appartenere ad un gruppo, per sentirsi accettato, essere utile a qualcosa, per trovare il proprio posto nel mondo. Poi c’è chi per carattere lo crea il “gruppo” e chi invece deve superare delle prove per poterne far parte. I riti di iniziazione a gruppi sociali erano già presenti nell’antica Grecia, e nel corso della storia ogni cultura, ogni popolo, ha adottato i propri, rendendoli parte integrante ognuno della propria identità. Questo atteggiamento non è cambiato fino ad adesso: in ogni piccola formazione che si viene a creare in un contesto (ad esempio il nucleo della classe nel contesto scolastico), affinchè si possa far parte di esso, bisogna superare delle prove, bisogna dimostrare qualcosa a qualcuno che non ha la facoltà di poter giudicare e decidere. “E si la scuola è una giungla, però non si scorda, comunque a 16 anni è una merda” cantavano gli Articolo 31 anni or sono. Che siano 16, 13, 9, o 20 anni per sopravvivere e crearsi dei bei ricordi bisogna sacrificare se stessi. Certamente, ogni età ha i propri parametri di valutazione, a 13 anni non si pensa come quando si hanno 20 anni, e per questo motivo bisogna valutare ogni aspetto della vicenda.

Kiev, Ukraine – October 17, 2012 – A logotype collection of well-known social media brand’s printed on paper. Include Facebook, YouTube, Twitter, Google Plus, Instagram, Vimeo, Flickr, Myspace, Tumblr, Livejournal, Foursquare and more other logos.

Raccogliendo qualche opinione ho notato che molti mi hanno risposto “ben gli sta”, “è una tragedia, ma è stato stupido”. Rispetto il pensiero di tutti, e combatto affinchè tutti possano esprimere la propria opinione, ma ammetto che certi commenti mi hanno infastidita, perché, parlando, mi sono resa conto che nessuno si è soffermato sul reale problema che ha caratterizzato questa vicenda: lo scopo di mostrare qualcosa ad un gruppo che è molto più grande di noi, il social network. Ormai con le varie piattaforme le notizie, le informazioni, girano alla velocità della luce, qualsiasi cosa diventa virale acquisendo notorietà e vana gloria. Tutto ciò porta ad una brodaglia di opinioni che influenzano notevolmente la crescita di ogni essere umano: dalle 2000 che sembrano ragazze degli anni ’90, agli over 40 con i loro “buongiornissimo!1!! kaffè?”. Il fenomeno social invade la sfera umana di ognuno di noi, e tende ad azzerare il singolo pensiero, la fonte basilare per cui siamo diversi da ogni altro essere vivente, massificandoci per agire nello stesso modo, per raggiungere gli stessi scopi, legandoci con catene invisibili.

Nella prima fase adolescenziale è difficile non sentirsi dipendenti dai giudizi altrui, dal volere altrui, anche e soprattutto contro la propria volontà e contro i principi che sono stati (o dovrebbero essere stati) insegnati ed impartiti dai genitori. In questa triste vicenda la colpa è di tutti e di nessuno. Siamo tutti colpevoli tirando la pietra e nascondendo la mano; tutti noi che sfruttiamo in modo errato l’immenso potere della comunicazione, tanto da spingerci a non valutare il reale pericolo. Il rischio più grande che corriamo è mettere da parte noi stessi.

 

Giulia Greco

Immagine in evidenza: Giulia Greco

Referendum: perchè detesto parlare di politica

Dicono che il primo editoriale, un po’ come il primo amore, non si scordi mai. E devo ammettere che a me è andata davvero di lusso, come si suol dire, dato che i turni concordati col resto della redazione hanno fatto si che mi toccasse come primo editoriale questo di oggi, 6 dicembre 2016, un periodo denso di avvenimenti importanti, dopo che l’esito di un importante referendum costituzionale e le successive dimissioni del premier Renzi hanno aperto le porte a una quanto mai caotica crisi di governo.

E quindi l’angioletto sulla mia spalla, con tanto di aureola e cetra dorata (chi di voi ha visto Le Follie dell’Imperatore capirà e si commuoverà con me ricordando quei tempi spensierati) proprio adesso che scrivo mi dice “Gianpaolo, ora prendi, ti informi, ti spulci le opinioni di cui i giornali sono pieni, ti improvvisi analista politico e ti spari un bel pezzo in cui fai il punto della situazione; ci piazzi un bel po’ di frasi fatte, del tipo ‘una vittoria per la democraziaoppure ‘il Paese è nel caos!’, così ti senti in pace con te stesso e col mondo e aggiungi un altro inutile mattone alla interminabile catasta di stupidaggini che sono state dette e verranno dette, in questi giorni e in quelli a venire“. E controvoglia potrei anche dargli ragione, solo che la cosa mi scoccia da morire e preferisco, per oggi, stare a sentire il mio diavoletto custode (ovviamente con tutina rossa, corna e forcone) che mi intima di farmi i fatti miei, promettendo in cambio la prospettiva di una vita ultracentenaria, come garantisce il ben noto proverbio. Ma qualcosa dovrò pur scriverla in questo editoriale: pertanto decido, per una volta, di fare la voce fuori dal coro e di incentrare il mio editoriale sul perché non voglio parlare di politica.

Prima che una delle tante voci del coro se la prenda con me e inizi a tormentarmi con i classici e triti slogan della cittadinanza impegnata (“ah, ma così passi un messaggio sbagliato! Ah, ma il voto è un diritto e dovere del cittadino e va esercitato sempre e comunque! Ah, ma allora sei anche tu un qualunquista!“) premetto doverosamente che a votare ci sono andato. Il punto è che l’ho fatto, come ormai spesso mi succede quando leggo notizie di attualità, con una sensazione come di dolore gravante in zona epigastrica (insomma, un peso sullo stomaco, anche se forse è colpa del reflusso). Che poi, guarda caso, alla gente interessi che tu vada a votare solo perché potenzialmente potresti votare quello che votano loro, è forse uno dei tanti motivi di questa sensazione di peso, ma non l’unico. Aggiungerei anche che ho votato non tanto per questioni di appartenenza politica o pregiudizi ma perché criticamente convinto della validità della mia scelta avendo esaminato attentamente le possibili alternative. Mi guardo bene dal farlo, però, perché so fin troppo bene che 1) a nessuno interessa delle mie capacità di analisi critica e 2) se andassi a chiedere a chiunque in base a cosa ha votato, chiunque mi risponderebbe così, e non c’è bisogno di essere esperti in psicologia cognitiva per sapere che, per uno dei tanti tiri mancini che il nostro cervello bastardo ci gioca, la nostra scelta ci appare, tendenzialmente, sempre come la più giusta e la più logica, solo per il fatto precipuo che essa è la nostra.

Arriviamo (finalmente) al dunque, alle ragioni del mio peso sullo stomaco. Tutte queste interminabili filippiche sono dovute al fatto che il recente referendum si è dimostrato, nei toni e nelle posizioni delle varie parti politiche tanto del fronte del Si quanto di quello del No, l’ennesimo trionfo del paradosso, della contraddizione e della fallacia logica. A cominciare dal PD di Renzi, che fino a qualche anno fa si atteggiava a difensore supremo dell’integrità della Costituzione tanto da porre la questione persino nel proprio statuto (quando la Costituzione voleva cambiarla il nemico Berlusconi…!) e che adesso ne ha proposto quella che sarebbe stata una delle modifiche più estensive della storia della Repubblica. Per poi arrivare al fronte del No e ai suoi controversi supporti da parte delle estreme destre, che fino a ieri inneggiavano al Duce e oggi si fanno vanto di aver difeso la Costituzione (si, proprio la Costituzione, avete presente quella cosa brutta voluta dai socialisti dopo la Liberazione?) dalla “svolta autoritaria” voluta dal premier Renzi: segno che le dittature e i regimi autoritari piacciono, purché a comandare ci sia chi piace a noi. Una battaglia politica condita di retorica populista da entrambe le parti, col fronte del Si a tappezzarci le città di specchietti per allodole facendo leva sul di desiderio di cambiamento (“Vuoi fare qualcosa per cambiare le cose? Vota SI”: avrete ragione voi, ma cambiare in meglio o in peggio?) e quello del No a fomentare i più bassi sentimenti di risentimento e insoddisfazione verso la classe dirigente, ovviamente con una inevitabile spolverata di complottismi d’annata (“Vota NO contro il sistema, contro i politici corrotti, contro le banche internazionali, la massoneria, i rettiliani che ci vogliono pecorelle inermi ai loro oscuri disegni di dominio”), passando ovviamente per promesse inattuabili (alcune francamente ai limiti del ridicolo) e prospettive apocalittiche nel caso di vittoria dell’avversario. Una campagna referendaria condotta insomma puramente sull’onda del sentimento, “di pancia”, senza che i media dedicassero spazio (salvo rare lodevoli eccezioni) alla sola cosa che potesse orientare un voto corretto e consapevole: il dibattito critico, razionale, sui pro e i contro del voto, in una parola l’informazione.

Unica nota di speranza, l’affluenza ai seggi: altissima, quasi del 70%. Evidentemente un briciolo di passione politica, nel popolo italiano, è rimasto. Ma la domanda inquietante a questo punto è: dopo un simile sovracitato sfoggio di slogan insignificanti, demagogia sfacciata e fallacie logiche assortite abbondantemente profuse da ambo i lati, durante questa campagna referendaria, di quale politica possiamo fidarci, di quale politica possiamo tornare ad appassionarci?

 

Gianpaolo Basile 

immagine in evidenza: Giuseppe Lami/ANSA

L’ascesa di Trump e l’ombra del populismo mondiale

Chi mi conosce sa della mia passione per la politica e in particolare del mio grande interesse per quella anglosassone ed americana. Nazioni che fino ad oggi hanno sempre combattuto per gli ideali di partito, i quali erano nettamente differenziati.
L’evoluzione storico politico degli USA nell’ultimo decennio è palese anche agli “atei” di politica, dalla presidenza Bush a quella Obama le differenze sono enormi.
A questo punto mi si direbbe “Ma com’è possibile che siano passati a Trump dopo l’amministrazione Obama?”. Vi rispondo che l’America era e rimane un paese contraddittorio, dove da un lato, i diritti LGBT e delle adozioni sono estesi come in nessun altro paese, e dall’altro un ragazzo di 16 anni può comprare con più facilità una pistola che un pacchetto di sigarette.

Premetto dicendo che ero una sostenitrice di Bernie Sanders e in questo mio flusso di coscienza cercherò di essere il più razionale possibile.

E’ da 18 mesi che seguo attentamente queste elezioni, con i suoi discorsi bellissimi (Michelle Obama si è dimostrata una delle migliori oratrici dei nostri tempi, superiore anche al marito, a mio modesto parere) e grandi mancanze di rispetto per l’avversario e il popolo americano.
Entrambi i candidati non hanno fatto che attaccarsi, o meglio, uno attaccava nel 95% dei casi, l’altra parava e cercava di parlare del programma.
La sconfitta di Hillary Rodham Clinton ci arriva come un pugno dritto in faccia. In buona parte del mondo ci si auspicava una sua vittoria, anzi, si era certi. Siamo stati tutti offuscati dalla speranza che il popolo americano seguisse il buonsenso piuttosto che la vendetta.
Sì, credo che ci si è voluti tutti coprire in parte gli occhi sul movimento che sta segnando il mondo e ha avuto la meglio anche in USA. Si è così mossi da un desiderio di cambiamento radicale che si preferisce scegliere una persona totalmente fuori dal contesto politico piuttosto che una preparata e di lunga esperienza.
E’ un movimento globale, guardiamoci attorno in Europa: la LePen in Francia, i movimenti nazi in Germania, la Slovenia sono solo quelli più sentiti. Non dimentichiamoci la Brexit.
Lo si può chiamare populismo, come fanno in tanti, ma credo che vada ancora più in profondità come movimento, è una insoddisfazione del mondo che abbiamo costruito unita all’egoismo ed indifferenza. Alcuni l’hanno definita “crisi del modello democratico”.
La sconfitta della Clinton è figlia di un sentimento simile , un voto “contro” il sistema, contro il continuum della politica di Obama, contro una persona dell’establishment politico storico degli USA.
C’è una caratteristica genetica degli americani: non perdonano chi mente. Non hanno perdonato Hillary né per questo né per essere stata sempre una donna fuori dal comune.

L'abbraccio tra Barack Obama e Hillary Clinton, candidata ufficialmente dal partito Democratico alla presidenza sul palco della convention del partito a Philadelphia, 27 luglio 2016 (AP Photo/Carolyn Kaster)
L’abbraccio tra Barack Obama e Hillary Clinton, candidata ufficialmente dal partito Democratico alla presidenza sul palco della convention del partito a Philadelphia, 27 luglio 2016
(AP Photo/Carolyn Kaster)

Perché questo è la Clinton, una donna cresciuta nel pieno del movimento femminista, indipendente nelle scelte e concreta nell’agire. La sua esperienza politica risale alla commissione di inchiesta del Watergate in cui era l’unica donna, insomma possiamo dire che la “cosa comune” è il suo pane quotidiano da sempre.
E’ vero in politica estera è stata spietata, probabilmente lo sarebbe stata anche nel caso in cui avesse vinto.
Molto meglio una donna così che un uomo che di politica conosce ben poco (vorrei segnalarvi il secondo dibattito tv di ottobre dove la Clinton ha dovuto ricordare a Trump che il presidente degli Stati Uniti ha il potere di veto) ed è stato appoggiato pubblicamente dalla maggioranza dei dittatori che ci sono ora al mondo.
Il fenomeno Trump avrebbe dovuto mettere tutti sull’attenti già da molto prima, il limite doveva essere la sua vittoria schiacciante come candidato repubblicano. L’episodio di “grab by the pussy”. La quantità di donne che lo hanno appoggiato nonostante il suo sessismo. Nessun candidato della storia sarebbe sopravvissuto agli scandali che hanno travolto Trump durante questa corsa alla Casa Bianca: insulti ai genitori di un soldato morto per la patria, l’evasione fiscale.
L’appeal di Donald è che parla alla pancia, alla metà dell’elettorato statunitense: scarsa educazione, età media e bianchi. Mettici insieme coloro che provano risentimento nei confronti della Clinton e il gioco è fatto.
Tutti gli elementi con i quali, fino ad ora, si erano analizzate le candidature da anni a questa parte si sono dimostrati inutili ed inesatti.

L’America, nel bene e nel male, aveva l’opportunità di eleggere una persona iper qualificata, che chiunque avrebbe invidiato. Un personaggio storico (perché questo sarà Hillary negli anni a venire) di quelli una volta ogni cent’anni.

Le conseguenze di questa elezione si fa sentire dalla prima mattina con la borsa asiatica che perde il 5,37%. L’economista e premio Nobel Paul Kraugman scrive sul NYT che non ci sarà mai un recupero dell’economia dopo questa elezione.

Per concludere cosa si palesa davanti a noi come conseguenza di queste votazioni? Che la popolazione è stata mossa dal rancore, soprattutto i bianchi degli stati centrali, che hanno fatto la vera differenza. L’Ohio storico swing state è stato addirittura un “flip state” cioè c’è stata una schiacciante vittoria di Trump.

Oggi è il 9 novembre, esattamente 27 anni fa un muro veniva abbattuto e ciò segnava un momento storico per l’Europa, dimostrando che la voglia di unità popolare era più forte di tutto.
La Clinton ha usato come slogan della sua campagna “Stronger together” , Trump nel suo discorso dopo la vittoria ha affermato che sarà il presidente di tutti (scelta astuta, ma la gente non ha memoria breve soprattutto per le offese) e ha aperto alla collaborazione internazionale con qualunque nazione.
Il mio auspicio, perché sono una instancabile speranzosa, è che creerà un governo misto, improbabile visto il personaggio che è il suo Vice (uno che vuole curare gli omosessuali con l’elettroshock, insomma torniamo all’USA degli anni 50/60) ma ci spererò fino al 20 gennaio.
Speriamo anche che la profezia dei Simpsons non si avveri (http://video.repubblica.it/dossier/elezioni-usa-2016/elezioni-usa-quando-i-simpson-predissero-nel-2000-l-elezione-di-trump/258567/258860 )

Da tutta questa storia ho riflettuto anche sulla nostra situazione nazionale, e mi sono quasi rinfrancata della presenza di Matteo Renzi in Italia.
Il mio auspicio è di non fare errori simili il 4 dicembre perché la differenza fra leader che parlano alla “pancia del popolo” è veramente labile e le conseguenze sono disastrose.
Accettiamo l’andamento della storia e guardiamo avanti. Oggi siamo tutti uniti da un unico sentimento di timore per il futuro ma la bellissima caratteristica dell’umanità è la capacità di rialzarsi dai momenti bui e porre un rimedio agli errori.

Con l’auspicio di non essere sembrata saccente.

Buona giornata a tutti.

Arianna De Arcangelis

UniMe e la Notte Bianca: eravamo veramente connessi?

Giorno 14 ottobre c.m., si è svolto l’evento ‘’Notte Bianca dello Sport Universitario’’ presso la Cittadella Universitaria di Messina. L’evento è stato organizzato dal Cus Unime, con l’aiuto di molti studenti volontari che hanno aderito all’iniziativa. Quest’ultimo è stato creato dagli studenti per gli studenti, con il supporto da parte della nostra Università.

La manifestazione ha ricevuto molte adesioni, in quanto era caratterizzata da varie attività alle quali poteva partecipare chiunque. Infatti, oltre ai tornei sportivi ai quali aderivano i vari studenti, sono state tenute diverse discipline che tutti potevano provare. A sera inoltrata si è concluso il mega-evento con la partecipazione straordinaria di Luca Dirisio in concerto.
Ovviamente, essendo noi la Voce dell’Università, abbiamo partecipato con grande entusiasmo. Radio UniVersoMe si è presentata presso la Cittadella alle 16:30, pronta per trasmettere in diretta la radiocronaca dell’evento. Però (c’è sempre un però), non tutto fila sempre liscio come l’olio. Quali disavventure hanno dovuto affrontare questa volta i nostri piccoli grandi eroi?

Il cuore del problema sta nel fatto che spesso diamo le cose per scontate. Come l’acqua, il fuoco, l’elettricità e, nel nostro secolo, il Wi-Fi o, comunque, la rete internet. Cosa è questa grande invenzione dell’uomo? La possibilità di essere sempre connessi tra noi, ma, a quanto si è visto, a volte ci si ritrova isolati.

Cosa c’entrano gli speakers di Radio UniVersoMe in tutto questo? Che, loro malgrado, per quanto dovevano iniziare il loro lavoro alle ore 17:30 e finirlo alle 22:30, questo, purtroppo, non è potuto avvenire. Infatti, come molti di voi avranno potuto notare, il programma è potuto partire solamente alle 19:30 ed è, inoltre, finito all’incirca alle 21:30. Questo a causa del fatto che la grande risorsa del World Wide Web è venuta a mancare (e ci uniamo in cordoglio, porgendo le nostre condoglianze) senza che noi ne fossimo al corrente.
L’antico vaso andava portato in salvo, cita una famosa pubblicità. Nel nostro caso, la contemporanea trasmissione andava portata in salvo. C’è stato un momento in cui tutti ci guardavamo con l’espressione da pesci rossi, abbastanza perplessi, senza sapere cosa dire o fare. E, di certo, l’uragano di contorno non aiutava gli animi.

14708100_1193265657415322_5006445178957147403_nAd un certo punto la scena era questa: noi che guardavamo i ragazzi dell’organizzazione e loro che guardavano noi. Dopo i primi momenti di disperazione, i prodi guerrieri, hanno cercato le più svariate soluzioni: sono stati chiamati vari gestori telefonici, l’Università stessa, vari negozi di informatica, il Papa, Barack Obama e, infine, anche il cavallo che trottava nei dintorni (per la dimostrazione dell’attività equestre), ma niente. Nessuno che ci avesse forniti di una gioia. Un classico.

I nostri soldati non si sono arresi, o meglio, hanno ricevuto la grazia divina. Dio, Homer Simpson, Spongebob o chi per lui, ha inviato un angelo dal cielo che ci ha forniti di un telefono privato provvisto di Gb in grado di sostenere la diretta radio. Ore 19:30: siamo, finalmente, in onda!

Tale angelo, non sappiamo chi fosse, purtroppo, nella confusione e nello sconforto, il suo nome non è stato pervenuto. Comunque, ci teniamo a ringraziarla pubblicamente.
Ancora oggi, non riusciamo a dare una spiegazione a quanto avvenuto. L’Università ci ha creati, sostenuti e voluti come voce di sé stessa e noi abbiamo fin da subito accolto con entusiasmo l’incarico assegnatoci. Il problema è proprio questo: come possiamo assolvere questo compito senza i mezzi base necessari? Di certo gli studenti che hanno partecipato all’organizzazione dell’evento, o tanto meno noi, hanno i poteri magici.

Se l’Università è gli studenti, gli stessi studenti devono avere i mezzi validi per rendere valido l’Ateneo.
Certi che è stato un caso isolato e facilmente, alla fine, marginato e risolto, non possiamo non riportarlo. Essendo la ‘’famosa’’ Voce dell’Università, è corretto riportare non solo quanto di bello c’è ma anche i disagi che a volte si presentano.

Ci teniamo a sottolineare che il nostro rammarico non deve essere interpretato come una diffamazione nei confronti dell’Ateneo ma perché, al contrario, tanto è l’amore nei suoi confronti quanto è ampio, appunto, il nostro dispiacere. Dispiacere dato dal fatto che l’Unime, purtroppo si perde in un bicchier d’acqua. Fermo restando che, se deve esserci questo bicchiere, almeno che sia di Vodka.

Il nostro auspicio è che, dal momento che ‘’l’unione fa la forza’’, tutti insieme cercheremo di puntare più sulla qualità che sulla quantità.

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Elena Anna Andronico
Giulia Greco

Dietro le quinte: vi racconto di Radio UniVersoMe

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Se ci mettiamo a parlare in una stanza buia, le parole assumono improvvisamente nuovi significati.

Marshall McLuhan

 

Era il 5 maggio 2015, quando ci siamo ritrovati tutti nell’ufficio stampa del rettorato dell’Università di Messina per iniziare questo coinvolgente percorso che ha portato alla creazione del progetto UniVersoMe.

È passato quasi un anno da quel giorno e tra ostacoli, tempi che si sono allungati all’infinito e problemi di ogni genere, siamo riusciti a diventare qualcosa di concreto, di visibile: una testata multiforme di cui ogni studente può fare parte e può usufruire. Informazione, cultura, eventi, comicità: abbiamo tutto.

Quando mi sono trovata catapultata in questo mondo mi sentivo un po’ zoppa, un po’ spaesata. Un pesce fuor d’acqua, per così dire. La mia esperienza nell’ambito della scrittura, del giornalismo, si riduceva ad un puro hobby, un passatempo amatoriale giusto per scaricare lo stress. Circondata dai miei colleghi che stanno seguendo un corso di studi per diventare Giornalisti con la G maiuscola, ho pensato: ‘’ ma che ci faccio qua?’’. La risposta è arrivata da sé, è proprio questo il bello della scrittura, tutti possono scrivere. Basta farlo con piacere. C’è chi diventerà qualcuno, chi invece, come me, ne trarrà sempre solo sensazioni piacevoli e soddisfazione personale.

E così eravamo noi 9 che costruivamo, mattoncino su mattoncino, tutto questo. Poi un giorno, a Dicembre, Alessio mi chiama e dice: ‘’Ele, te lo ricordi che hai dato la tua disponibilità anche per il canale Radio? Deve partire a breve’’. Tatatan. Ho iniziato a sudare freddo. Per la voglia di fare, e fare il più possibile, avevo dato la mia disponibilità sia per il giornale che per la radio. Non potevo tirarmi indietro, per orgoglio, per sfida, per fare da spola tra i due canali. E così, rimbocchiamoci le maniche, facciamo partire il canale radio.

Siamo partiti in tre e ci siamo ritrovati in otto, otto persone che a malapena si conoscevano e che buttarono giù un programma con la consapevolezza che tutto, all’inizio, sarebbe stata la simulazione di sapere cosa stavamo facendo, andando a braccio nella speranza di essere assistiti da una sana botta di culo. Sai, ti ritrovi a dover fingere di conoscere la persona con la quale intrattieni il pubblico, devi trovare quella scintilla di affinità che vi faccia andare d’accordo o litigare, che mantenga viva l’attenzione.

Senza darlo a vedere, ero abbastanza preoccupata. Avevo fatto Radio, ma una cosa è farla guidata dal tuo maestro e insegnate del mestiere, un colosso con un’esperienza incommensurabile alle spalle, una cosa è farla con altri pulcini imbranati come te. Poi quando mi hanno comunicato che mi sarei occupata di sport con Panebianco ho stilato un elenco con centinaia di possibili scuse per lavarmene le mani, ma questa è un’altra storia.

La radio è un mondo a sé stante. Qualsiasi cosa che sia scritta, pure se si ha una finestra limitata di tempo per scriverla, la si può correggere, rivedere, aggiustare, rendere il più corretta possibile, sfiorando la perfezione. La radio Logo_radiono.

La radio è una botta e risposta continuo, sei tu e un’altra persona, due microfoni e una stanza. Si ha davanti un pc e una consolle e tu devi essere così attento e coordinato da saper fare partire e fermare al momento giusto le canzoni, ricordare di spegnere e accendere i microfoni, far sparire qualsiasi tipo di rumore esterno.

In tutto ciò devi pure essere spigliato, non farti bloccare dalla paura del microfono. Sembra banale, ma ci si sente da una parte quasi stupidi a parlare da soli, dall’altra lo sai che ci sono persone che ti ascoltano, togliendosi del tempo per farlo, e quindi sale l’ansia da prestazione, non puoi commettere errori.

Parli. Parli per dare informazione, per distrarre le persone, per comunicare qualcosa. Deve essere una conversazione normale con un amico, ma non è normale: i tempi verbali devono essere precisi, non puoi dire corbellerie riguardo all’argomento che stai trattando, devi cercare di tenere un ritmo scorrevole. Non puoi parlare sopra al tuo co-conduttore. Questo è particolarmente difficile: io e le mie amiche riusciamo a parlare tutte contemporaneamente di cose diverse capendoci, succedesse durante la trasmissione sarebbe solo un gran caos. Da quando indossi le cuffie e clicchi play sei fregato: o la va o la spacca.

Radio UniVersoMe oggi compie 3 settimane. Considerando che la fase embrionale dura 4 settimane, siamo ancora molto piccoli ed immaturi ma non troppo. Devo dire che non me l’aspettavo proprio il calore che si è creato, all’interno e all’esterno della bolla radiofonica. Noi come gruppo siamo diventati solidi, tutti sulla stessa linea d’onda, amici. E da voi, pubblico che ci leggete e ascoltate, arriva qualcosa, quel qualcosa che ci spinge a migliorarci di settimana in settimana, che ci sprona a fare sempre meglio. Con un perfetto equilibrio tra teste calde e razionalità, battibecchi, prese in giro, serietà e serenità stiamo concretamente facendo qualcosa che rimanga nelle mani della nostra università e degli studenti che arriveranno dopo di noi.13016758_10209141176276161_599495794_o

Questa è la nostra storia, la storia di alcuni ragazzi che vogliono dare voce all’università e che vi aspettano tutti i Lunedì e i Mercoledì (alle 15:00 e alle 17:00) eccitati come bambini di poter parlare con voi.

Elena Anna Andronico