Farmaci agnostici: il futuro dell’oncologia

Recentemente nel campo dell’oncologia sono stati introdotti dei nuovi promettenti farmaci detti “agnostici“. Come funzionano? Qual è la differenza rispetto agli altri farmaci attualmente in uso?

Per poter capire come funzionano, iniziamo col parlare del perché ci si ammala di cancro.

Perché ci si ammala di cancro?

Il cancro è ad oggi una patologia assai diffusa e l’incidenza dei tumori nei decenni è andata aumentando. Ma da cosa nasce un tumore?
I tumori sostanzialmente possono essere definiti come una crescita incontrollata di cellule “impazzite”.
Normalmente, infatti, tutti i nostri tessuti si rinnovano, le cellule vecchie vengono sostituite da cellule nuove. In questo modo il nostro organismo riesce a riparare i vari danni che subisce.

Tuttavia, quando una cellula non riesce più a percepire i segnali di “stop”, continua a dividersi e moltiplicarsi, invadendo i tessuti vicini e lontani. Per quale motivo accade?
Perché ha subito delle mutazioni tali da farle perdere i freni inibitori o potenziarne l’attività moltiplicativa.

Perché avvengono le mutazioni?

Le mutazioni che causano il cancro hanno molteplice origine.

Possono essere congenite, come in varie sindromi caratterizzate da aumentata incidenza di tumori (dovute a mutazioni nelle cellule germinali dei genitori).

Possono essere provocate da cattivi stili di vita, includendo fumo, alcolismo, obesità, sedentarietà, ecc. Tutte condizioni che fanno sì che vengano rilasciate sostanze “velenose” o pro- infiammatorie. Nel tempo, esse danneggeranno le cellule, spingendole a replicarsi di più, con più probabilità di mutare.

Fonte: medimagazine

Possono essere causate da agenti esterni come virus (epatite, HIV, HPV e altri), radiazioni ionizzanti, veleni, pesticidi ecc., che attraverso particolari meccanismi possono danneggiare il DNA della cellula.

Ancora, possono essere casuali, in quanto la massima parte delle nostre cellule si moltiplica ripetutamente nell’arco della nostra vita. Ad ogni moltiplicazione c’è un certo tasso di errore nel copiare il DNA della cellula progenitrice. Questo, moltiplicazione dopo moltiplicazione, può portare ad un accumulo di errori che prima o poi può esitare in cancro.

Aggiungiamo poi che, grazie ai progressi della medicina, la vita media ha subito un’enorme allungamento rispetto al passato (si è passati da un’aspettativa di vita media di 50 anni negli anni ’20, agli attuali 81-85 anni). Più viviamo, più è probabile subire mutazioni per i fattori sopra elencati.

L’oncologia come cura attualmente il cancro?

Il razionale della terapia in oncologia sta nell’eliminare tutta la massa tumorale. Questo lo si può fare con interventi chirurgici, in genere quando il tumore è agli stadi iniziali (per questo è importante la prevenzione, per “prendere un tumore in tempo”), oppure usando radioterapia, chemioterapia e farmaci biologici, insieme alla chirurgia o qualora il tumore sia inoperabile in quanto ha dato metastasi in zone del corpo difficili o impossibili da raggiungere.

Con la chemioterapia si vanno ad usare farmaci che colpiscono tutte le cellule che si moltiplicano velocemente.
Ecco perché si hanno degli effetti collaterali ai capelli, alla pelle, all’intestino e in altre sedi. Infatti, i tumori sono costituiti da cellule impazzite che si moltiplicano in fretta, per cui con questi farmaci si riesce a colpire abbastanza bene un tumore, seppur con i numerosi effetti collaterali.

Fonte immagine: medicina online

L’avvento della genetica, dei supercomputer e l’avanzamento della tecnologia hanno poi portato a creare dei farmaci chiamati “biologici”, in quanto costituiti da molecole in grado di interagire in modo mirato con i recettori e gli enzimi delle cellule tumorali.

Studiando per esempio i tumori del seno, si è visto che molti presentano la mutazione del recettore HER2, per cui per questi tumori si può usare un farmaco specifico che blocchi tale recettore (Trastuzumab), facendo sì che si abbiano meno effetti collaterali al resto del corpo.

Per ogni tumore, inoltre, l’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) redige delle linee guida da seguire (una per ognuno, che sia seno, colon, polmone, prostata, cervice, ovaio ecc.). Sono stilate seguendo le più moderne evidenze scientifiche in ambito internazionale (American Joint Committee on Cancer, PubMed ecc.).

Fonte immagine: AIOM

Se per esempio viene scoperto che per il tumore al colon ad un certo stadio è più efficace la combinazione chemio + farmaco molecolare + intervento, verrà raccomandato di seguire questo protocollo piuttosto che il precedente.

Cosa cambia con i farmaci agnostici?

Finora si è seguito il “modello istologico” nella cura dei tumori, ovvero dopo aver analizzato il tumore al microscopio, si identifica a che tipo di tessuto appartiene e si tratta di conseguenza.
Ma oggi in oncologia sta iniziando a prendere piede il “modello genetico”.

Analizzando infatti dei marker specifici, per ogni mutazione, come ad esempio il deficit di riparazione del mis-match repair DNA (dMMR), l’instabilità dei microsatelliti (MSI-H), l’espressione di molecole come PD-L1, si può capire quale categoria di pazienti risponderà o meno ad esempio all’immunoterapia, indipendentemente dalla sede del tumore.

Ancora, fusioni di geni NTRK1/NTRK2/NTRK3 sono dei grandi esempi di mutazione genetica “driver” (ovvero che dà inizio alla trasformazione tumorale della cellula). Inibendo questi geni, si hanno importanti risposte terapeutiche, indipendentemente dall’età del paziente e dal tumore di origine.

Tra i tanti nuovi farmaci disponibili troviamo ad esempio il Pembrolizumab. È un anticorpo monoclonale capace di bloccare l’azione di PD-L1, molecola attraverso cui i tumori riescono a sfuggire al sistema immunitario.
Questo farmaco si può usare nel tumore del polmone, nei tumori della testa e del collo, nei linfomi di Hodgkin, nel cancro dello stomaco e della cervice. Non importa la sede, ma solo la sovra-espressione del PD-L1, per poter iniziare la terapia.

Fonte immagine: alcase Italia

Ancora, il Larotrectinib, un inibitore delle tropomiosina chinasi TrkA, TrkB e TrkC. Viene usato in tutti i tumori con la fusione dei geni NTRK, tra cui polmone, melanoma, tumori gastrointestinali stromali, colon, sarcomi dei tessuti molli, tumori delle ghiandole salivari, ecc.
Non importa dove sia il tumore: se tra le sue mutazioni c’è la fusione dei geni NTRK, questa molecola funzionerà.

Conclusioni

I progressi della ricerca hanno portato la medicina a non dare più semplicemente cure uguali per certe malattie. Oggi si parla infatti di “Tailor made medicine” ovvero “medicina cucita sulla persona”.

Sia dal punto di vista biologico che psicologico, le persone, come le loro malattie, per quanto simili, hanno delle piccole differenze. Per curare al meglio ogni individuo è bene andarle a ricercare. In questo modo, si capirà quale sia la terapia migliore per quella malattia, ma soprattutto per quella singola persona.

Roberto Palazzolo

#Ottobrerosa: la realtà del Policlinico attraverso le parole del Prof. Altavilla

A conclusione del mese della prevenzione e della campagna #Ottobrerosa, abbiamo avuto il piacere di intervistare il professore Giuseppe Altavilla, docente di Oncologia Medica e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia Medica con Hospice del Policlinico Universitario “G. Martino”.

Partiamo proprio dal concept di #Ottobrerosa inteso come mese di prevenzione e screening per il tumore al seno. Quante donne si sottopongono autonomamente a test di screening e giungono poi alla sua osservazione?

Facciamo una premessa di massima: per screening intendiamo uno strumento che lo Stato offre ad una popolazione a rischio per una determinata malattia ad alto impatto sociale ed è effettuato con metodologie che devono essere efficaci e diffuse. Il cancro della mammella rientra sicuramente tra queste patologie. Tenete presente che nel 2020, secondo “I Numeri del Cancro”  si aspettano circa 56 mila nuove diagnosi con 123000 decessi: l’impatto epidemiologico è particolarmente elevato. Fare quindi uno screening significa guidare la popolazione a maggior rischio di incidenza di cancro della mammella, individuata in questo momento nelle donne tra i 50 e i 69 anni, a fare un accertamento che oggi è rappresentato dalla mammografia. Questo è l’unico esame di screening realmente valido per cercare di detectare delle neoplasie che siano ancora inapparenti.

Fatta questa premessa, diciamo che lo screening è un’attività di pertinenza dell’ASP; questa infatti segue una politica di screening: manda delle lettere d’invito alle donne e da degli appuntamenti per fare una mammografia. C’è da aggiungere anche che in Sicilia, la campagna di screening è attualmente inefficace perché la percentuale di donne che si sottopone all’esame diagnostico è inferiore a quella necessaria affinché lo screening sia funzionale nel ridurre la mortalità.

Da noi (come ospedale e centro specialistico) vengono a fare dell’altro. Abbiamo un ambulatorio di senologia che visita circa 20-25 pazienti al giorno dove giungono anche donne a fare prevenzione e che non hanno alcuna patologia, ma è una cosa diversa dallo screening. La verità è che se ci fosse uno screening realmente efficace nelle nostre zone, noi non avremmo l’evidenza in clinica di tumori di una certa dimensione, li avremmo molto più piccoli, mentre purtroppo continuano a venire da noi donne che spesso hanno tumori di dimensioni maggiori di 2 cm, che a quel punto diagnostichiamo noi.

Reparto di Oncologia Policlinico G. Martino, 2014 – © Serena Piraino

Ci riagganciamo subito al discorso della diagnosi dei tumori in una fase avanzata. Pensa che l’equilibrio, per certi aspetti già precario in Sicilia, possa ulteriormente essere aggravato dalla pandemia in atto?

Assolutamente si, perché le campagne di screening sono state arrestate ad un certo punto di questa emergenza mondiale. La frequenza di visite nei nostri ambulatori si è notevolmente ridotta proprio per paura di questo virus: coloro che si rivolgevano a noi per un certo dubbio diagnostico in questo momento stentano a venire. Questo purtroppo è un dato che si è registrato in tutta la nazione e che pagheremo nei prossimi anni: ci aspettiamo molte più diagnosi di tumori in fase avanzata e non soltanto alla mammella. Il 2020 sarà un anno che inciderà negativamente nella prognosi dei pazienti oncologici.

In questo momento cosa consiglierebbe ad una donna che vorrebbe fare uno screening o una visita senologica: cosa e come può fare?

Quello che posso dire è che gli sforzi che stiamo facendo al Policlinico per mantenere in sicurezza le strutture ci impegnano in maniera continua. Vogliamo mantenere questo stato di sicurezza che dovrebbe tranquillizzare tutte le donne.  Ad esempio stiamo distanziando le visite, cercando di organizzarle in modo da non avere le sale d’attesa affollate. Di certo questo comporta una dilatazione dei tempi e un un notevole sacrificio per il reparto, però lo stiamo facendo per dare una garanzia e un segnale forte.

È necessario che si capisca che di Covid si sta morendo e speriamo che il vaccino arrivi presto e tutto si cominci a risollevare. Ma purtroppo le malattie oncologiche e cardiovascolari, entrambe trascurate quest’anno, avranno ripercussioni notevoli nei prossimi anni.

Quindi bisognerebbe cercare di informarsi sulla presenza di strutture che possono garantire nel migliore dei modi la mancanza di contagio e frequentarle rispettando le regole che le strutture si sono imposte e impongono ai pazienti.

Reparto di Oncologia Policlinico G. Martino, 2014 – © Serena Piraino

Come è cambiata la percezione del tumore alla mammella nel corso degli anni a livello di consapevolezza?

Non possiamo impedire a priori che la noxa patogena causi la cancerogenesi nella cellula tumorale, ma possiamo prevenire andando ad individuare la patologia quando questa non è ancora in una forma avanzata, quindi la consapevolezza è tuttoOnestamente devo dire che la trovo molto aumentata, soprattutto nel gruppo di ragazze e di giovani donne.

Sono oramai docente universitario da circa 40 anni, ed è la prima volta che vengo intervistato da due studentesse relativamente a questo tipo di problema. Qualcosa vorrà pur dire no?

Gli effetti “scientifici” di questa consapevolezza però verranno misurati in termini di efficacia soltanto quando voi giovani donne arriverete alla media età: ci auguriamo che questa corrisponda ad una minore mortalità delle donne del futuro per cancro della mammella. Oggi probabilmente stiamo ancora verificando una consapevolezza probabilmente non troppo matura nelle donne che avrebbero dovuto avere una istruzione adeguata circa 30 anni fa.

Mi piacerebbe che il processo della prevenzione, della diagnosi, della cura, dell’assistenza e, nei casi specifici, anche della terminalità dei tumori (non soltanto della mammella) possa essere in qualche modo reso uniforme. Non si possono incaricare diversi enti e lasciarli sconnessi tra di loro: il processo del malato oncologico dovrebbe essere governato tutto nell’ambito di un dipartimento oncologico provinciale unico. È questa la strada sulla quale bisogna battere moltissimo secondo me. La formazione della rete e di una sua coordinazione reale da parte di chi lavora nell’ambito di questo tipo di patologie è indispensabile.

Pensa che la scuola e l’istruzione in generale possano giocare un ruolo importante da questo punto di vista?

Purtroppo, ogni volta che sono uscito da una conferenza in una scuola media o in un liceo, ero molto deluso. Questo perché secondo me i ragazzi non erano sufficientemente preparati e quell’ora che passavano in aula magna era un modo per scappare dalla classe tra sorrisetti e spintoni.  L’informazione va data da chi è tecnicamente preparato ed io sono sempre stato disponibile nel farmi portavoce, però la scuola deve dare tanto e nell’ambito dei programmi educazionali dovrebbero essere incluse un certo tipo di attività da svolgere in maniera continuativa così da formare anche la coscienza.

Come vivono le pazienti il fatto di avere un carcinoma in una delle parti che le rendono donne? Quanto questo, dal punto di vista psicologico, impatta sulla prognosi e che conseguenze ha sulla terapia?

Se c’è la consapevolezza di cui parlavamo insieme alla certezza che questo tipo di patologia possa essere “presa in carico” – uso questo termine di proposito – da una struttura che da garanzie in temine di qualità ed organizzazione, il problema si supera. La sicurezza che vi possa essere una struttura che possa farsi carico della malata a 360° e darle il meglio che la scienza offre, può dare un miglioramento importante della componente piscologica.

Io talvolta dico a delle pazienti malate di tumore del seno che hanno dei fattori prognostici assolutamente favorevoli (tumore piccolo, l’espressione dei recettori ormonali), che è come se si fossero rotte una gamba. Ci si cura e si guarisce.

Reparto di Oncologia Policlinico G. Martino, 2014 – © Serena Piraino

Lei ha sempre stressato il concetto di umanizzazione delle cure, ma come è nato e quanto è importante offrire una struttura di continuità come l’Hospice o, nel contesto del vostro reparto, di “Una stanza tutta per sé” per mantenere la donna, per quanto sia possibile, tale?

Se avete notato io ho usato il termine “Prendersi carico” piuttosto che “curare” e “malato” piuttosto che “paziente”, che letteralmente vuol dire “colui che sopporta”.

Prendersi cura di un paziente oncologico vuol dire prendersi cura non soltanto dei bisogni fisici, ma anche di quelli psicologici, sociali, spirituali. Sono tutte condizioni che vanno considerate. La tristezza, il peso di una diagnosi di questo genere, va in qualche modo accompagnata dal processo di umanizzazione.

Ho cominciato questo percorso di umanizzazione delle cure in Oncologia nel 2013, dopo avere assistito ad una rappresentazione teatrale in cui una donna malata di cancro veniva ricoverata e nella sua stanza, accanto al suo letto libero, c’erano altri 3 letti. Lei che si era comprata il pigiama “non pigiama” e le pantofole “non pantofole” per cercare di sdrammatizzare la gravità del suo ricovero, improvvisamente aveva il problema di una promiscuità e di un ambiente tetro.

Ho visto il mio reparto di allora, in cui di letti ce ne erano cinque e non c’era neanche il bagno in camera, e ho capito che tutto doveva essere cambiato. Mi sono impegnato in questo percorso – aiutato da tutta una serie di donazioni che mi hanno consentito di avere dei fondi per riformare il reparto – e nella scrittura di un progetto per l’umanizzazione delle cure in Oncologia che ha portato negli ultimi anni ad un florido finanziamento. Grazie a questo, ma anche grazie alla sensibilità di tutti i miei collaboratori, un malato che entra in ospedale , che vede e “sente” un ambiente che non sembra un ospedale, sta sicuramente meglio.

Un’oncologia deve avere la capacità di seguire un paziente in tutte le sue fasi, anche in quella terminale ecco perché oggi abbiamo questo Hospice: per dare una possibilità e una vita sociale in un vero e proprio residence ospedaliero. Per rendere il tutto non semplice sopportazione.

Reparto di Oncologia Policlinico G. Martino, 2014 – © Serena Piraino

Il tutto potrebbe avere un effetto anche sulle cure?

Questo è stato verificato scientificamente con HuCare, un programma italiano che ci ha consentito di misurare la soddisfazione dei pazienti prima e dopo un certo percorso di umanizzazione. Abbiamo verificato come i pazienti immersi in questo genere di ambienti abbiano avuto una compliance molto aumentata. Il calcolo che ha raggiunto la significatività statistica, è un dato oggettivo.

Abbiamo appreso con piacere come accanto all’innovazione scientifica, al potenziamento delle strutture esistenti e all’inaugurazione di nuovi ambienti ci siano – e ci debbano essere – l’amore e la passione per quello che si fa, per i propri pazienti e per l’umanizzazione delle cure. Da questo non si può prescindere.

Barbara Granata e Claudia Di Mento 

 

#OttobreRosa: i numeri e la prevenzione del cancro al seno

Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione del tumore al seno e noi di UniversoMe vogliamo dare il nostro contributo. Rappresenta il 30% delle diagnosi di neoplasia nella donna ma, nonostante resti ad oggi un grande nemico, può essere diagnosticato precocemente attraverso attente valutazioni e metodiche di screening e curato.

Iniziamo dai numeri

Sfogliamo insieme il volume “I numeri del cancro in Italia 2020”, redatto dall’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) in collaborazione con altre associazioni. Si stima che nel 2020 saranno diagnosticati circa 54.976 nuovi casi di tumore della mammella femminile, su un totale di 181.857.
Questi così distribuiti per fasce d’età: il 41% tra 0 e 49 anni, il 35% tra 50 e 69, mentre sopra i 70 anni la percentuale scende al 22%.

Nel 2017, secondo l’ISTAT, rappresentava il 16,1% dei decessi per tumore nel sesso femminile: la prima causa di mortalità per tumore nella donna (la terza considerando la popolazione generale).

Sempre rifacendoci a dati AIOM, la sopravvivenza delle pazienti con cancro della mammella in Italia è dell’87% a 5 anni e dell’80% a 10 anni dalla diagnosi. Rispetto al 2015, da questo punto di vista, siamo in miglioramento, sia per il progresso delle terapie (continuate a seguirci se siete curiosi a riguardo), sia per la diffusione di programmi che permettono una diagnosi precoce.

Guardando alla realtà locale, l’Atlante tumori della regione Sicilia ha registrato nel periodo fra il 2003 ed il 2011 un numero medio annuale di nuove diagnosi di cancro al seno di 403,4 in provincia di Messina, il 13,3% della Regione. Nell’immagine sotto possiamo vedere i tassi standardizzati diretti della patologia nei vari distretti della regione.

Chi ha un rischio più elevato?

Guardiamo in primis allo stile di vita. Dieta corretta, giusta attività fisica, moderato consumo di alcolici e astensione dal fumo rappresentano i pilastri di una vita sana.

Bisogna considerare fattori endocrino-riproduttivi in quanto la ghiandola mammaria è un tessuto sensibile agli ormoni sessuali (soprattutto estrogeni e progesterone). Menarca precoce, menopausa tardiva, assenza di gravidanze sono condizioni che prolungano l’esposizione agli ormoni, quindi aumentano il rischio di carcinoma.

L’aver avuto precedenti displasie o neoplasie mammarie espone la donna alla possibilità di una recidiva. Così come l’essersi sottoposta a radioterapia toracica, soprattutto se prima di 30 anni, magari per altre patologie, accresce il pericolo di cancro del seno.

Infine la variabile ereditaria. Riferendoci ai numeri forniti dall’AIOM, il 5-7% delle neoplasie mammarie ha basi genetiche. Di questi, 1/4 sono legati a mutazioni dei geni oncosoppressori BRCA-1 e BRCA-2. Tali geni codificano per proteine coinvolte nei meccanismi di riparazione dei danni a doppia elica del DNA. Quando mutati viene a mancare un controllo sui meccanismi di replicazione cellulare.

Screening in Italia

In Italia il ministero della salute offre alle donne di età compresa tra 50 e 69 anni lo screening gratuito attraverso l’esecuzione di una mammografia ogni due anni. Si tratta di un esame radiologico che individua anche lesioni di piccole dimensioni, quali microcalcificazioni.

Esecuzione di una mammografia

Ha, tuttavia, un limite: è poco adatta nelle giovani in quanto riesce a discriminare meglio delle alterazioni nel parenchima adiposo. Quindi sotto i 40 anni si preferisce effettuare un’ecografia che, oltre a non esporre a radiazioni, ha il vantaggio di una migliore specificità in un parenchima a maggiore componente ghiandolare.

Come ha inciso il lockdown in questo settore?

Nei mesi di chiusura da una parte la paura di contrarre il virus recandosi in ospedale, dall’altra la riduzione dei normali controlli da parte dei nosocomi, hanno portato ad una riduzione di tutti gli screening oncologici. Esaminando il confronto effettuato dall’osservatorio nazionale screening nei primi 5 mesi del 2020 in Italia si è accumulato un ritardo del 53,8% rispetto allo stesso periodo del 2019 per lo screening mammografico. La Sicilia si attesta poco sopra la media nazionale, al 55,7% con 5754 esami e 78 diagnosi di cancro mammario in meno.

L’autoesame del seno: poche semplici manovre da imparare

Prima fase è l’ispezione, svolta davanti allo specchio. Bisogna osservare le mammelle prima con le mani distese ai fianchi e poi appoggiandole al bacino e contraendo i muscoli pettorali. Obiettivo è analizzare forma, colore e dimensioni, considerando piccole alterazioni di volume fisiologiche. La stessa osservazione va ripetuta di profilo con le braccia alzate, mettendo in evidenza il cavo ascellare, sede privilegiata delle metastasi linfonodali da carcinoma mammario.

Passiamo alla palpazione vera e propria. Ci si sdraia, ponendo un cuscino sotto la spalla sinistra e la mano sinistra sotto la nuca.

A questo punto con le dita della mano destra posta a piatto si inizia a palpare il seno sinistro, compiendo dei movimenti circolari in senso orario con pressione crescente. In questo modo possiamo identificare eventuali nodularità o indurimenti del parenchima.

Successivamente si eseguono dei movimenti in direzione radiale, dall’esterno verso il capezzolo, e poi dal basso verso l’alto.

Importantissima è la palpazione del cavo ascellare per individuare eventuali linfonodi aumentati di volume, di consistenza alterata (dura-lignea). Infine, stringendo il capezzolo tra due dita, verificare la presenza di secrezione.

Ripetere ovviamente le stesse manovre per il seno controlaterale. Queste semplici manovre possono essere effettuate anche sotto la doccia. Qualora notaste delle anomalie e/o differenze con la precedente autopalpazione, contattate il vostro medico di fiducia.

Antonio Mandolfo

 

Bibliografia:

https://www.epicentro.iss.it/tumori/pdf/ASS%20SALUTE_Atlante%20Tumori%202016.pdf

https://www.aiom.it/wp-content/uploads/2019/09/2019_Numeri_Cancro-operatori-web.pdf

https://www.epicentro.iss.it/tumori/pdf/2020_Numeri_Cancro-pazienti-web.pdf

https://www.osservatorionazionalescreening.it

https://liltbolzano.blog

 

 

È possibile diagnosticare un tumore con un prelievo di sangue?

Una delle maggiori problematiche della medicina moderna è la diagnosi precoce dei tumori maligni: identificarli in uno stadio iniziale corrisponde a dare ottime chance di guarigione al paziente. I metodi oggi a disposizione per ottenere tale scopo sono essenzialmente 2 ed entrambi presentano grossi limiti:

  1. Metodiche di imaging: ecografia, radiografia, TC (ex TAC), risonanza magnetica e altre, che ci permettono di visualizzare strutture all’interno del corpo umano. Tuttavia, neoplasie molto piccole sfuggono costantemente a queste metodiche, nonostante un tumore sia considerato tale già quando composto da poche cellule.
  2. Dosaggio di marcatori tumorali: sostanze che se rilevate su un campione di sangue in quantità elevate indicano la presenza di un tumore. Esempio noto è il PSA (Antigene Prostatico Specifico) per il cancro della prostata. Tuttavia questi markers mancano spesso sia di specificità (ovvero si riscontrano elevati anche in patologie benigne) sia di sensibilità (anche se è presente una neoplasia sono a livelli normali).

Moderna TC

Inoltre, per evitare indagini inutili e costose, l’utilizzo di entrambi deve essere mirato a quei soggetti che seppur sani presentano dei fattori di rischio (condizioni ambientali o ereditarie/familiari) che aumentano la possibilità di sviluppare un cancro.

In altre parole: sarebbe impensabile sottoporre annualmente tutta la popolazione a TC total-body nel tentativo di evidenziare una neoplasia, considerando anche che questa metodica usa radiazioni ionizzanti e quindi è potenzialmente dannosa se usata indiscriminatamente.

Ma veniamo al dunque: è possibile identificare tumori con tecniche non invasive per il paziente e allo stesso tempo efficaci?

Da qualche anno ormai si sta puntando sulla cosiddetta biopsia liquida. Questa tecnica non è altro che un prelievo di sangue, adeguatamente processato in laboratorio. Permette di rilevare molecole rilasciate dal tumore (ccDNA, DNA circolare circolante) e in alcuni casi cellule neoplastiche.

Comporta per il paziente un disagio minimo (per coloro i quali hanno timore del prelievo ancora la scienza non offre molte alternative), se confrontata alla biopsia classica. Questa consiste nel prelevare mediante un ago un campione di tumore, presenta rischio di complicanze e certamente chiunque preferirebbe fare un prelievo sanguigno piuttosto che vedere un ago abbastanza lungo bucare la propria pelle.

Se fino ad ora vi è sembrata una metodica promettente, è inutile sottolineare che -come tutte le cose belle- presenta notevoli difficoltà (soprattutto tecniche). Pertanto ad oggi più che per la diagnosi è usata per monitorare i pazienti con una neoplasia già nota, evitando l’esecuzione di più biopsie invasive.

Ma come è possibile isolare componenti del tumore in mezzo a tutte le altre cellule del sangue?

E se in quel campione specifico non fossero presenti?

A questi problemi ha provato a dare delle risposte il team di ricerca italiano dell’Università degli studi di Catanzaro, guidato dalla dottoressa Malara, in uno studio pubblicato su Nature (sezione oncologia di precisione) nel novembre 2018. Lo studio si concentra non sulla rilevazione di cellule o ccDNA, ma ha un approccio totalmente nuovo: la valutazione delle modificazioni del secretoma. Sicuramente ognuno di voi avrà sentito parlare di genoma, l’insieme di tutti geni presenti nel nostro DNA. Il secretoma non è altro che l’insieme di tutte le proteine secrete, ovvero immesse nei liquidi al di fuori delle cellule, dalle cellule stesse. In particolare, in caso di neoplasia è stato riscontrato un aumento della protonazione, ovvero della quantità di protoni legati a tali proteine.

Questa variazione è spiegata dalla predilezione delle cellule neoplastiche per la glicolisi , via metabolica che ha come risultato:

  1. La produzione di sostanze che rilasciano protoni che quindi si legheranno alle proteine secrete.
  2. La produzione di sostanze che alterano la struttura delle proteine, facilitando il legame ai protoni

In breve: cellula tumorale → glicolisi esclusiva → più protoni → proteine secrete maggiormente protonate. La tecnica prevede una biopsia liquida (5 ml di sangue), la successiva eliminazione delle cellule del sangue (globuli rossi e bianchi, piastrine) e la coltura del materiale rimanente per 14 giorni.

Dalle cellule rimanenti, che nel tempo si moltiplicano, si estrae il campione per l’analisi del secretoma: questo verrà analizzato da un dispositivo all’avanguardia facente parte delle nanotecnologie. È stato inoltre confrontato il campione così ottenuto con campioni estratti direttamente dal tessuto tumorale: le componenti sono risultate essenzialmente identiche, convalidando l’ipotesi che anche da piccole quantità di sangue si possa risalire alla presenza di una neoplasia.

Nei 36 soggetti sottoposti allo studio, alcuni dei quali con neoplasia maligna nota ma non trattata e altri sani, è stata ritrovata una corrispondenza del 100% tra aumento protonazione e cancro.

Non solo: di due pazienti con valori intermedi di protonazione ,uno ha poi effettivamente sviluppato un melanoma (tumore maligno della cute).

Tra gli svantaggi di questa tecnica ci sono la laboriosità ed il costo. Inoltre un risultato positivo indica soltanto la presenza di un tumore, ma non il tipo e la localizzazione. Tuttavia, studiando il singolo soggetto è possibile valutare il rischio personale cancerogenico ed eventualmente approfondire con altre tecniche diagnostiche.

Questa interessante metodica può rappresentare un punto di svolta nella diagnosi precoce di cancro.

In fondo basta solo un po’ di sangue!

Emanuele Chiara