A scuola di sopravvivenza dagli studenti fuori sede UniMe. Il lungo “calvario” alla ricerca di una casa “ai limiti della normalità”

 

La vita da studente fuorisede non è fatta solo di mercoledì universitari in cui ci si ubriaca nel locale di turno, sessioni d’esame infinite e ordini su Glovo agli orari più impensabili.

Ph: Alessandra Cutrupia

Dietro le quinte di questo teatro di stress e divertimento è presente un retroscena di difficoltà e fatica, soprattutto nel momento in cui bisogna trovare una casa quanto più possibile dignitosa in cui trasferirsi. Del resto, ognuno prova ad assecondare le proprie esigenze quando cerca un alloggio in affitto. C’è chi non rinuncia alla comodità del wifi, chi si accontenta di una camera doppia o chi, come me, non sopporta il freddo ed è alla ricerca di una stanza provvista di termosifoni.

Grazie a numerose testimonianze raccolte attraverso una serie di interviste a studenti UniMe fuorisede sono giunta ad una conclusione: più che di “esigenze personali” si tratta di una vera e propria questione di sopravvivenza, di esperienze di ragazzi sul filo del rasoio tra rincaro dei prezzi, “innumerevoli disagi” e affittuari con comportamenti molto spesso discutibili.

La prima testimonianza è quella di Luca e Marco, alle prese con un forno da “brividi” e gli annunci sessisti:

Non abbiamo riscontrato problemi irrisolvibili in casa, direi piuttosto che ci sono alcune trovate buffe. Ad esempio gli stipetti della cucina nascondevano gli stickers delle winx al loro interno.

I graffiti poi sono il punto forte della casa! In corridoio abbiamo una raffigurazione dell’albero della vita fatta da qualche inquilino precedente.

Forse uno dei punti deboli dell’alloggio è il forno a gas. Per un periodo non lo abbiamo utilizzato essendo abituati al forno elettrico.

Purtroppo il proprietario non ha sopperito alla mancanza di un forno nuovo con un microonde o un fornetto perciò abbiamo imparato ad utilizzare il forno a gas. Potrebbe esplodere da un momento all’altro ma a noi piace il brivido.

Tutto sommato non ci possiamo lamentare della casa in cui attualmente abitiamo, abbiamo appena rinnovato il contratto ma trovarla è stata una faticaccia. Non c’è molta possibilità per gli uomini di affittare una stanza, tutti gli annunci sono rivolti alle donne.

Giungiamo all’esperienza di Alice:

Ho trascorso due mesi cercando case in affitto a Messina. Ho visto annunci veramente inappropriati.

“Affittasi a studentesse tra i 18 e i 25 anni.” E se io ne avessi 26? Per quale ragione non potrei prendere in affitto quella stanza? Per non parlare dei proprietari che convivono nelle stesse case insieme agli inquilini!

Serena e Rebecca invece ci raccontano della loro privacy turbata:

il nostro proprietario ha dato una copia delle chiavi di casa ad ogni elettricista, imbianchino o idraulico che venisse a riparare qualcosa. Lo abbiamo scoperto una mattina, quando ci siamo ritrovate in casa il tecnico del wifi.

Se quanto scritto finora può sembrare accettabile, dalle parole di Laura si evince un sentimento di sfiducia nei confronti dei proprietari a causa delle gravi problematiche riscontrate: 

I miei sei anni da fuori sede a Messina sono stati un incubo. Il primo appartamento si allagava di continuo a causa delle tubature rotte. Nonostante avessimo firmato un contratto regolare, il proprietario voleva mandarci via di casa con l’accusa di essere state noi la causa della “distruzione” del suo appartamento.

La seconda casa invece era più grande e luminosa. Il disagio? La maggior parte di questi ampi spazi era occupata da effetti personali del locatore e perciò non riuscivo a mettere i miei vestiti nei cassetti.

La cosa peggiore però è stata la fuga di gas. Il cattivo odore lo attribuivamo ai tubi di scarico del lavandino, ma invece il problema era ben più grave.

Sono molti i sacrifici dei genitori che mandano i loro figli a studiare fuori. Ci si aspetterebbe che i proprietari trattassero con rispetto i ragazzi che pagano con il frutto di tanto lavoro un ambiente che, se non confortevole, dovrebbe essere quantomeno sicuro.

 

 Alessandra Cutrupia 

 * articolo pubblicato all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud il 24/11/22

Un sistema che non precluda voci ma che sappia riconoscere i falsi

Ha un limite la libertà?

Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa ma ancora oggi ci si interroga su quale sia il suo limite invalicabile, semmai debba esservene uno.

Una storia sbagliata

Il primo paese che abolì la censura, nel 1695, fu l’Inghilterra, dove già nel corso del Cinquecento era stato istituito un severissimo sistema di controlli sulla stampa. Dovette passare quasi un secolo, prima che tale censura venisse abrogata anche in Francia. Appena dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, la libertà di stampa fu proclamata dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Non tardarono però ad arrivare contestazioni da un gruppo di rivoluzionari. E anche un giurista francese considerò non un’utopia ma un’assurdità questa libertà illimitata che mai dovrebbe esistere nella legislazione di un popolo civile.

Si aprì così a Parigi, nell’estate del 1789, un dibattito sui limiti della libertà di stampa e di parola, a cui si cerca ancora una risposta. Sempre in Francia, infatti, lo stesso dibattito si riaccese dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo” nel 2015. Sorse dunque spontaneo chiedersi se fosse giusto o meno fare della satira, in quel caso sulla religione, senza tener conto della sensibilità di alcuni lettori. E la risposta non può che essere affermativa, in una società in cui (purtroppo o per fortuna?) vige la tutela dell’illimitata libertà di parola e di stampa. In cui illimitato vuol dire che tutto può essere oggetto di satira e di giudizio.

Libertà di stampa: utopia o distopia?

Dovremmo forse affidarci alle parole del filosofo olandese Baruch Spinoza, che all’interno del suo “Trattato teologico politico” propone per tutti una libertà di pensiero e di parola non illimitata. Il filosofo afferma infatti che è un diritto di ognuno esprimere il proprio pensiero, ma bisognerebbe limitarsi ad esporlo semplicemente seguendo la propria ragione, senza inganno, ira o odio nei confronti altrui.

C’è chi invece nel corso della storia non ha esitato a riconoscere ai sovrani la piena facoltà di giudicare le varie opinioni. Ma pensiamo davvero a cosa significherebbe istituire un controllo sulla libertà di stampa, evitando la pubblicazione di quei giornali ritenuti magari sconvenienti. Ciò rievocherebbe soltanto uno dei più terribili scenari orwelliani, mettendo nelle mani di un giudice l’immenso potere di decidere quando una libertà possa essere esercitata e quando no, sulla base del solo gusto personale. Può essere questa considerata “libertà di stampa”?
Essa dovrebbe piuttosto rappresentare un potere per contrasto: i giornali, in primis, dovrebbero dimostrare la capacità e la volontà di opporsi ad un potere “malato”, e non farsi soggiogare da esso.
Ora più che mai abbiamo bisogno che la stampa si metta in ascolto dell’altro ed eviti di appiattirsi sullo scontro politico.

La libertà di stampa non è un privilegio…

“Voi, la stampa libera, contate più di quanto abbiate mai fatto nel secolo scorso”

Sono state queste le parole pronunciate qualche giorno fa dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, alla cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca. Tradizione ripresa dopo i due anni di sospensione voluti da Donald Trump, che ha sempre dimostrato una certa sfiducia nei confronti dei media, scagliandosi di continuo contro stampa e giornalisti. Per Biden, invece, il buon giornalismo serve da specchio della società, per riflettere sul bene, sul male e soprattutto sulla verità. Il Presidente non ha perso l’occasione per ringraziare i reporter di tutto il mondo che con coraggio oggi si fanno portavoce proprio di quella verità che affligge l’Ucraina, mettendo a rischio la loro stessa vita. Perché “libertà di stampa” in fin dei conti vuol dire anche “assoluta indipendenza dagli uomini del Governo”.

Lo sanno bene tutti quei giornalisti indipendenti della Russia che rischiano fino a quindici anni di carcere parlando della guerra in modo oggettivo e subendo la peggiore censura degli ultimi decenni. La stampa, dunque, non dev’essere nemica del popolo, ma piuttosto porsi come guardiana di una libertà ormai in bilico da troppo tempo, sempre pronta a mettersi dall’altro lato della barricata, nella parte scomoda, per difendere i propri ideali e la propria autonomia.

…è una necessità!

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Gazzetta del Sud, ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza dell’indipendenza dell’informazione, definendola “l’unico riparo dalle sfide imposte dagli eventi del mondo”. Il Capo dello Stato ha poi continuato spiegando l’importanza di un sistema informativo che senza precludere nessuna voce riesca ad informare con proprietà critica i suoi lettori su ciò che accade nel mondo.

La libertà di stampa è alla base della democrazia e in quanto tale è necessaria alla sua realizzazione: fin quando un Paese avrà un’informazione indipendente e funzionale allora potrà vantare un buon governo.

 

Domenico Leonello

* Articolo pubblicato il 05/05/22 all’interno dell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud.

La mia “favola storta” e il lieto fine che sono stata capace di costruire

C’era una volta un’universitaria

 Ho sempre amato le favole: “Cappuccetto rosso”, “La Bella Addormentata”, “Cenerentola”, ma quella che mi ha più illuso è stata sicuramente “La favolosa vita di un’universitaria”. Diciamo che non è propriamente adatta per i bambini; di solito gli adulti iniziano a raccontartela quando hai più o meno sedici anni, solo che a questa ci credi (perché sei fomentata dal trilione di serie tv ambientante nei college americani). Nella maggior parte dei casi questo “e vissero felici e contenti” esiste davvero nella vita reale, fatta eccezione per chi come me ha iniziato a frequentare l’università nel 2019 e adesso sta per laurearsi. Noi matricole di quell’anno non lo abbiamo vissuto il lieto “inizio”, siamo stati catapultati nella versione aggiornata al 2020 della “favola”. Non c’è neanche stato il tempo perché passasse la paura dei primi esami universitari che una pandemia globale ci ha relegati in casa. Totalmente alienati dalle lezioni online, tra un circuito per gli addominali e un impasto per la pizza ci siamo imposti di studiare e andare avanti, pensando che, forse in seguito, saremmo riusciti a viverla anche noi quella “favolosa vita universitaria”. Settembre 2020: nuovo anno, nuove restrizioni, un po’ meno speranza. Il nostro Paese si faceva spazio tra una vasta gamma di colori e noi studenti vivevamo però in una scala di grigi. Dopo l’ennesimo picco di contagi, il grigio è scomparso, vedevo solo nero. Mi stavo perdendo una favola che mi spettava di diritto, allora ho deciso di riscriverla cogliendo l’occasione di partire in Erasmus. Ho vissuto per sei mesi una storia diversa da quella che mi aspettavo, parallela e alternativa. La “sliding doors” della “favolosa vita di un’universitaria”. Il mio periodo in Spagna più che la “reconquista” di abitudini da studentessa è stato lo “spin off” dell’estate dopo la maturità: bellissimo ma pur sempre differente. Andavo a “scuola”: la mattina in classe, il pomeriggio i compiti. Niente. La favola non iniziava! Poi, al rientro, il dipartimento in ristrutturazione mi ha fatto diventare ospite nella mia stessa università. Una matricola attempata che sta per laurearsi… altrove, seguendo le lezioni con una modalità mista che rende i colleghi icone evanescenti del mio laptop. Niente in questa favola sembra andare come dovrebbe, tra un “c’era una volta” mancato e un “vissero felici e contenti” solo promesso.

Eppure: ci sono tanti “eppure” in questa favola un po’ storta. Eppure, se fosse stata una di quelle favole in ordine, avrei perso più tempo ad organizzare lo studio da sola dopo il liceo. Eppure non avrei macinato tutti i libri che mi hanno permesso di essere in corso con le materie. Eppure non avrei saputo intrecciare rapporti con persone fisicamente lontane. Eppure, senza questa “ingiusta detenzione” da pandemia, forse mai e poi mai mi sarei imbarcata sul transatlantico Erasmus, perché non ne avrei sentito il bisogno, e a questa favola sarebbe comunque mancato un pezzo.

È vero che l’isolamento forzato ti toglie il sostegno del gruppo e quel cameratismo che spinge e tira. Eppure, con tutte le difficoltà del caso, questa situazione un po’ anomala mi ha costretto a contare sulle mie forze, a verificare da sola la mia preparazione, a supportarmi nelle decisioni da prendere senza confronto coi miei pari e, infine, a fidarmi di me e delle mie capacità. Ho toccato con mano i miei limiti e i miei momenti di sconforto, ma la mano non ha tremato quando finalmente ho potuto aprire la porta e uscire.

In questa favola storta non c’è una strega cattiva, è una di quelle in cui eroe e antagonista coincidono: la forza maturata all’interno di quella solitudine è stata l’espediente eroico che mi ha consentito di essere creativa e produttiva, nonostante mi sentissi fuori da quel mondo che mi ero immaginata.  La principessa si è salvata da sola ed è scesa dalla torre con le sue stesse trecce.

Aprile 2022: entro in un dipartimento non mio e mi stupisco di vedere gente intorno, mi sembra un sogno interagire con i miei colleghi e con i professori, scambiare chiacchiere e informazioni tra un caffè e l’altro… un sogno ad occhi aperti!

Adesso sto preparando la tesi, inizio a dare un’occhiata al mondo del lavoro; insomma sto temperando la matita per disegnare il bozzetto del mio futuro. Questo tempo, seppure vissuto in maniera inusuale, imprevedibile, inaspettata, è trascorso, e non invano. Ha lasciato le cicatrici della pandemia ma anche le medaglie dei traguardi. Ha investito indistintamente tutti e in particolare quelli che, come me, erano allo start di una gara fondamentale. Ma in un modo o nell’altro al traguardo ci sono arrivata. Sulle mie gambe, con le mie forze, con le trecce di Raperonzolo e col cavallo bianco di ogni principe che si rispetti. Perché in questa favola un po’ storta, che mi sono raccontata da sola, c’è una sola morale: il “vissero felici e contenti” l’ho scritto da me.

* Articolo pubblicato il 28/04/22 all’interno dell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud.

                                                                                                                     Sofia Ruello