Tutto ciò che è necessario per i giovani. La chiave della rinascita per Draghi

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Draghi al Meeting di Rimini (agosto 2020) Fonte: investing.com

È un uomo di poche parole, Mario Draghi. Non è un frequentatore di salotti televisivi né avvezzo ad interviste: lo abbiamo percepito tutti cercando tra le righe le idee da cui potrebbe far partire un nuovo esecutivo. In circolo ci sono poche espressioni, ma che hanno il peso e l’eco di epigrafi. “Whatever it takes”: sì, ma non solo. Ci sono altri momenti per il quale Super Mario merita di essere menzionato. “Ai giovani bisogna dare di più”, ad esempio. Lo diceva già ad agosto, durante il Meeting di Rimini, spiegando che i sussidi tout court da soli non serviranno a risanare il tessuto sociale del Paese: se non ben bilanciati, lo lacereranno ancor di più. Per Draghi l’unico volano per una rinascita sociale ed economica italiana, sarà investire sulle nuove generazioni, le stesse – diciamolo senza mezzi termini – che dovranno pagare un debito mai visto nella storia italiana.

È dunque alle donne e agli uomini di domani che bisogna dare il massimo supporto affinché si delinei una società che permetta libera scelta nella formazione umana e nella qualificazione professionale. Se non si mette al centro questo punto focale il rischio è che al futuro si arrivi con meno possibilità del presente e con più diseguaglianze del passato.

Si tratta di coltivare persone, non titoli di stato, non voti. Si mette sul tavolo un investimento potenzialmente vincente ed esponenzialmente fruttuoso.

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Il passaggio simbolico della campanella tra il presidente uscente Conte e il premier incaricato Draghi -Fonte: avvenire.it

Non serve un esperto in politica economica per capire, invece, che il vizio dei recenti governi sia risieduto tutto nel non aver mai impiantato obiettivi di lungo termine, ma semplicemente portato a compimento – nel migliore dei casi – obiettivi nei termini temporali di un esecutivo a causa di una ricerca spasmodica di un immediato ritorno politico.

Quello che serve per una crescita sostanziale, economica e sociale, sono tutti elementi che vanno nella direzione opposta. Servono lungimiranza, pazienza e soprattutto coraggio. Ci vuole impegno morale per spendere decine di miliardi di euro nell’istruzione. È una strada scomoda, un investimento silenzioso, i cui risultati possono essere raccolti solo nel lungo termine, quando ormai sono troppo distanti da chi li ha propagati. Chi investe sull’istruzione, insomma, rischia di passare inosservato.

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Fonte: mef.gov.it

Già a partire dalla sobrietà del governo dimissionario, sembra che si sia mettendo fine all’egoismo che ha indotto i governi a favorire obiettivi elettorali; la tendenza sembra essersi invertita anche ad un livello superiore, e non è un caso che l’Europa abbia intitolato il piano di ripresa europea alla generazione futura – il NextGenerationEu. Per gestire i fondi di quest’ultimo, nel Recovery Plan già il governo Conte, aveva riservato nell’ultimo progetto quasi 28,46 miliardi (9 in più rispetto alla prima bozza) all’istruzione e alla ricerca mentre la questione giovanile era al secondo posto tra i gli obiettivi fondamentali da portare a termine entro il 2026. Adesso si ha buon motivo di credere che spetterà al nuovo governo tecnico ricalcolare e rinegoziare. E Draghi non sembra discostarsi tanto da queste premesse poichè già da giorni le prime dichiarazioni trapelate sul programma di governo confermerebbero la primarietà dell’istruzione in agenda, come anche le notizie sull’apertura delle scuole fino a luglio per recuperare il “tempo perso” o del riempimento delle cattedre già dalla fine di quest’anno scolastico.

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Il piano approvato dal consiglio dei ministri dell’esecutivo Conte il 12 gennaio 2021 – Mef.gov.it

È il solo modo, quello di investire dei fondi per i giovani, affinché l’Europa riprenda a chiedersi che ne pensa l’Italia. E non solo perché si prospetta una figura come Draghi al comando di un esecutivo.

Ma soprattutto l’istruzione e la ricerca, insieme, sono la sola via perché i germi di menti performanti attecchiscano nella loro terra, senza dover perdere le radici.

“Ogni crisi ha in sé i semi del successo e le radici del fallimento”, dice Norman R. Augustine; ed ogni crisi può innescare un vero e proprio turn-around. Non si tratta di utopia, ma di responsabilità morale verso il futuro.

È forse giunta l’ora che l’Italia sperimenti l’ordinario e metta a frutto il cosiddetto debito buono – come lo chiama il Presidente incaricato – un vero e proprio investimento che risponda a criteri di sostenibilità e che, seppur contempla un ingente impiego di risorse nell’ora, delinei dei consistenti risultati umani nel futuro.

Martina Galletta

Articolo pubblicato l’11 febbraio 2021 sull’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud

I nativi digitali e la lotta di supremazia dei millennials

Ascolto consigliato “Altrove” – Eugenio in via di gioia

Qualcuno disse “La storia si ripete”, ma la stessa storia potrebbe confondere se stessa con le sue bugie. Quello succede periodicamente ad intervalli indeterminati. Ad ondate ancora non ben delineate nell’universo spazio temporale.

Un po’ come in una classica puntata di Sex and the City, mi ritrovo nella stessa situazione di Carrie quando si metteva a scrivere: peccato non essere in quell’appartamento. In ogni caso la scena di me che prendo un sorso di caffè accanto al pc c’è. Agenda accanto c’è. Cose procrastinate da giorni pure.

Ricordo un pomeriggio di quelli che apprezzo vivere, perché ogni volta vivo qualcosa di nuovo. Chiacchieravo con una splendida ragazza, Lilly, di qualche anno più grande di me, che ci teneva a dirmi che ammira tanto le generazioni nate tra il 1994 e il 1999, i nativi digitali. Perché? Perché siamo la cavia di un passato incosciente e di un futuro aggressivo. Viviamo con la costante oppressione del posto fisso, della paura di dover superare i nostri limiti perché ci viene imposto, trascinando il peso di una crisi generazionale frammentata e mai ricomposta da una comunità statale che ha accantonato i disturbi patologici sofferti dai propri cittadini. Lilly mi ha ammesso con le mani in alto che la sua classe della fine degli anni Ottanta e inizi Novanta a volte si comporta con prepotenza nei nostri confronti, come chi vede i giovani una minaccia per il proprio futuro.

Facendo un passo indietro, è bene spiegare i termini “tecnici”: con nativi digitali si intendono quelle generazioni nate e cresciute con i nuovi sistemi tecnologici che sono appannaggio di tutti; i millennials sono invece tutti coloro nati dalla fine degli anni Settanta in poi.

La differenza, benchè semplice, è abissale nel loro rapporto con la società. I millennials sono figli del secondo boom economico, con genitori che hanno vissuto i nostri anni Sessanta, la rivoluzione 68ina e tutto ciò che ne è scaturito. Nel bene e nel male. Il problema è che questo boom economico li ha abituati bene, sono stati molto fortunati nella loro crescita, ma si sa i primi anni ’90 sono stati un fulmine a ciel sereno che ha fatto crollare quel muro di sogni che era stato costruito con tanta cura.
I nativi digitali, nella crisi esistenziale che ha colpito un’intera società, hanno affrontato le paure di genitori apprensivi e si affacciano su un futuro sempre più confusionario.

Il paternalismo particolarmente fastidioso delle generazioni precedenti mette in continua crisi chi è a cavallo tra passato e futuro globale. I millennials hanno una gamba appoggiata sul commodore 64 mentre l’altra la fanno vedere a mare con una tattica foto postata su Instagram. Due realtà di materialismo temporaneo con una difficile individuazione delle responsabilità. Lilly mi diceva che lei, come tutti i suoi amici, si sono cullati sugli allori, lasciando il grosso ai tech addicted. Forse perché avevano troppe aspettative sulle spalle difficili da realizzare nel contesto.

La generazione neo-adulta che vive il 21esimo secolo ha invece tante opportunità, invidiate da chi li precede, che frequentemente vengono stroncate da un “perché sì, è così.” In continua lotta tra ciò che hanno e cosa poterne costruire. I millennials accusano il colpo, e come tattica di difesa ripetono le stesse parole dei loro genitori allontanandosi dalla realtà e prendendone solo ciò che per loro è comunque conveniente. Attenzione: la mia non è una critica a nessuna generazione, ma un confronto diretto. E vi spiego perché: Il sociologo Christopher Lasch scriveva delle élite globali così

“Si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale, o una località turistica non ancora scoperta. La loro è essenzialmente una visione turistica del mondo”

e Mario Capanna, nel libro Lettera a mio figlio sul sessantotto, che

“I <<figli di Tangentopoli>> (tra i quindici e in ventiquattro anni) nati e cresciuti nel dilagare del rampantismo – gli anni Ottanta e Novanta – si distinguono per <<sfiducia nei confronti delle istituzioni>>, <<diffidenza verso il prossimo>>, <<disillusione riguardo il futuro>>, <<timore di fronte alle scelte e alle possibilità>> […] come se si svegliassero di colpo in un mondo ostile, senza colori e senza speranza”

La prima citazione, di Lasch, fu scritta nel 1995 e Mario Capanna pubblicò il libro nel 1998. In un primo momento avete pensato fossero attuali? Ebbene, più di vent’anni fa la storia era la stessa.

Due generazioni con le loro sfighe, che dell’appellativo “giovani” ne hanno fatto un mostro simile a Thanos (personaggio dei fumetti Marvel, ndr). Siamo in un loop adolescenziale che non ci permette di essere sereni, di vivere la nostra esistenza. Quindi, cari millennials, non abbiatecela con noi: anche voi siete stati giovani! Lo siete. Non è meglio ritenersi una risorsa al posto di essere influenzati dall’idea di essere un pericolo?

 

 

Giulia Greco

Pics credits: ©Giulia Greco

Immagine in evidenza: ©Laura La Rosa