Falso ma Bello o Vero ma Brutto?

La diffusione delle notizie false è ormai diventata una piaga diffusa nella società contemporanea. Spesso queste notizie sono veicolate attraverso i social media e altri mezzi di comunicazione raggiungendo un vasto pubblico e influenzando opinioni e decisioni. Questo fenomeno non è casuale bensì è il risultato di complessi meccanismi psicologici e sociali che influenzano il modo in cui percepiamo e valutiamo le informazioni ed in particolar modo la narrazione gioca un ruolo cruciale nella trasformazione della realtà apparente o del parere soggettivo in verità incontestabile ma nei fatti, spesso, quantomeno dubbia.

Lo storytelling, quindi, può plasmare la nostra percezione della realtà e renderci in grado di credere a qualsiasi cosa, dai complotti sui Rettiliani fino alla credenza che i piccioni in realtà non esistano e siano robot governativi passando magari per Terra Piatta e Vaccini. E’ perciò fondamentale, per non farsi ingannare, imparare a riconoscere le notizie false e a distinguerle dai dati di fatto e dalle opinioni.

Speriamo che il seguente articolo possa arricchire lo spirito critico di chiunque lo leggerà.

  1. Partiamo dal Cervello: Come si elabora un pensiero?
  2. Notizie false: Sogno o Incubo?
  3. Come valutare criticamente una informazione?
Un “mondo” nella scatola cranica , CNSC Centro di Neuroscienze Comportamentali. Fonte

Partiamo dal Cervello: Come si elabora un pensiero?

Partiamo dal Cervello: Come si elabora un pensiero?

L’analisi neurofisiologica dell’elaborazione del pensiero e del pensiero critico coinvolge diverse aree del cervello che interagiscono per integrare, interpretare e valutare le informazioni.
Una delle regioni chiave coinvolte in questo processo è la corteccia prefrontale, situata nella parte anteriore del cervello, in quanto è coinvolta in molte funzioni cognitive superiori. Tra queste sono incluse: l’integrazione di informazioni provenienti da varie fonti, la pianificazione, il ragionamento e il controllo delle emozioni.

In particolare pensiamo all’area dorsolaterale e a quella orbitofrontale.

L’area dorsolaterale è associata al pensiero critico e alla valutazione delle informazioni mentre quella orbitofrontale è coinvolta nella regolazione delle emozioni, nella valutazione delle ricompense e dei rischi e a creare risposte empatiche e socialmente accettate.

Altre strutture coinvolte nel processo di elaborazione del pensiero includono:

  • sistema limbico (che regola le emozioni e il coinvolgimento affettivo nella presa di decisioni)
  • amigdala (che svolge un ruolo chiave nella risposta emotiva e nell’apprendimento associativo)
  • sistema dopaminergico (coinvolto nella motivazione, nella gratificazione e nel mantenimento dell’attenzione).

Nel contesto delle notizie false l’elaborazione delle informazioni avviene attraverso complesse reti neurali che integrano input sensoriali, memorie passate e valutazioni emotive. Le fake news spesso attivano le stesse aree cerebrali coinvolte nella risposta emotiva e nell’apprendimento, suscitando una risposta affettiva che può influenzare il giudizio e la percezione della veridicità delle informazioni fino a modificare l’attività cerebrale e alterare la percezione della realtà. Ad esempio il sistema dopaminergico può giocare un ruolo nella suscettibilità alle fake news poiché l’elaborazione delle informazioni gratificanti può influenzare la percezione della loro veridicità e la volontà di condividerle con gli altri auto-alimentando ed estendendo alla massa un certo concetto.

In sintesi, l’analisi neurofisiologica dell’elaborazione del pensiero rivela una complessa interazione di regioni cerebrali e reti neuronali coinvolte nella valutazione delle informazioni, nelle emozioni e nel giudizio critico. Comprendere come e perchè un’informazione ci coinvolga emotivamente è ciò che ci permette di contrastare la disinformazione col pensiero critico.

 

Narrazione nella psicologia | Profumo di storie | Marina di Marco. Fonte

Notizie false: Sogno o Incubo?

Uno dei meccanismi che favorisce la diffusione di una notizia falsa è l’effetto del falso consenso, un noto errore cognitivo che ci porta a proiettare sugli altri il nostro modo di pensare, convincendoci che tutti la pensino come noi. Questo processo è particolarmente diffuso nei gruppi di individui, dove crea una presunta omogeneità di idee che, statisticamente, è infondata. Tuttavia, questa presunta omogeneità, è alimentata da un pregiudizio del consenso che ci fa credere che le nostre opinioni siano più diffuse di quanto non siano realmente.

Parallelamente esiste il cosiddetto “Effetto Dunning-Kruger”, che è un famoso fenomeno psicologico che si manifesta quando individui poco esperti in un certo campo sovrastimano le proprie capacità. Spesso si arriva persino a considerarsi superiori alla media per il cosiddetto “Pregiudizio della Superiorità Illusoria”. Ciò si manifesta quando le persone non sono in grado di riconoscere la propria mancanza di competenza in qualcosa e in assenza di consapevolezza delle proprie capacità queste non possono essere valutate correttamente.
Tutti questi fenomeni, uniti a una narrazione intrigante e spesso arbitraria (se non del tutto falsa) di un fatto e alla sua semplificazione portano alla romanticizzazione di un mondo che nella realtà appare ben poco fiabesco ma senza dubbio più emotivamente intrigante e apparentemente “appagante” per il proprio intelletto anche se in negativo.

 

Pensiero lento e veloce: due sistemi, una sola mente / Filippo Frisina. Fonte

Come valutare criticamente una informazione?

In conclusione l’ascesa delle notizie false costituisce una delle sfide più pressanti della nostra epoca, minando profondamente la fiducia nelle istituzioni democratiche e nella scienza e alimentando l’eccessiva polarizzazione politica. Affrontare questa sfida richiede un approccio sinergico di piattaforme digitali, media, organizzazioni civili e governative, le quali dovrebbero puntare all’istruzione e alla formazione non solo per fornire competenze di base nella valutazione delle fonti ma anche a coltivare un pensiero critico e riflessivo riguardo alle informazioni che riceviamo.

Le principali Red Flag a cui fare attenzione quando si legge una notizia sono:

  • Titoli altisonanti e particolarmente provocatori
  • Narrazione di un fatto che mira a coinvolgere emotivamente chi legge ad esempio usando Titoli in Maiuscolo con molti punti esclamativi volti ad attirare l’attenzione
  • Conflitti d’interesse o coinvolgimento emotivo in chi narra un fatto
  • Mancanza di prove o prove facilmente evidenziabili come false

Visto quanto detto prima si consiglia di fare sempre, in particolar modo quando abbiamo a che fare con notizie particolarmente polarizzanti ed emotivamente conturbanti, il fact checking delle notizie (in tal senso ci auguriamo che possiate trovare utili i consigli detti prima) e di affidarsi a Mezzi di Informazione indipendenti e con fonti verificabili, complete ed attendibili. 

Questo ci permetterà di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso adottando comportamenti informati e responsabili e creando opinioni più funzionali e adeguate.

                                                                                          Simone Garretto

Bibliografia:
https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fninf.2020.607853/full https://www.neurowebcopywriting.com/come-il-cervello-valuta-attendibilita-informazioni/?cn-reloaded=1 https://unikore.it/wp-content/uploads/2024/03/20-lobo_frontale23.pdf
Psicologia delle fake news | Psicologia Contemporanea
Fake news, i meccanismi cognitivi che ci fanno cascare (tutti) nelle bufale – Agenda Digitale
Le fake news influenzano i nostri comportamenti? | Recenti Progressi in Medicina
FAKE NEWS: cosa sono e come difendersi – Cittadinanzattiva una organizzazione, fondata nel 1978
Inganni mentali e causalità apparente. La teoria di Daniel Wegner | DPU | Diritto Penale e Uomo
Attendibilità delle informazioni: il ruolo delle emozioni
cervello, struttura e funzione del in “Dizionario di Medicina” – Treccani – Treccani
Effetto Dunning-Kruger: l’importanza di sapere di non sapere
https://www.pnas.org/doi/full/10.1073/pnas.1517441113
https://www.neuroscienzecomportamentali.it/blog/conoscere-il-cervello/
https://www.skuola.net/news/fun/parole-ostili-festival-comunicazione.html

Neuroestetica: la scienza dietro l’arte

La disciplina che concilia le neuroscienze e l’estetica, intesa come sfera del sensibile in riferimento all’arte, e che si promette di studiare con metodo scientifico i processi neurofisiologici coinvolti nel godimento dell’opera d’arte.

Origini della Neuroestetica

Si tratta di un ambito di ricerca relativamente nuovo, proposto dal neurobiologo Semir Zeki nei primi anni del Duemila e formalmente definita come “studio scientifico delle basi neurali per la contemplazione e creazione di un’opera d’arte” in occasione della fondazione dell’Istituto di Neuroestetica (2002).
Il significato della disciplina è sostenuto dal suo fondatore con l’argomentazione che non può esistere una teoria estetica completa senza la totale comprensione dei fondamenti neuronali.
Zeki inoltre sostiene che vi sia un percorso parallelo per artisti e neuroscienziati della vista e un fine comune di scoprire le distinzioni del mondo visivo e, simultaneamente, i meccanismi cerebrali coinvolti.

Meccanismi cerebrali

Si può quindi comprendere per quale ragione molte volte i dipinti violano le leggi della fisica del mondo reale nell’ambito di ombre, colori e contorni: l’obiettivo dell’artista non sarebbe tanto la rappresentazione fedele al mondo esterno, quanto ricreare le scorciatoie percettive usate dal cervello.

La “manipolazione” cerebrale sfruttata dagli artisti risiede nel percorso compiuto dall’informazione visiva. Tutto inizia a livello della corteccia visiva primaria, dove i neuroni registrano informazioni come linee e curve del campo visivo.

L’informazione poi procede secondo due percorsi, distinti ma collegati, verso l’area ventrale e dorsale del cervello, coinvolte nell’elaborazione visiva: la corrente ventrale, o “via del Cosa”, si estende dalla corteccia visiva primaria alla corteccia temporale inferiore ed è associata al riconoscimento di forme, colori e in generale della rappresentazione degli oggetti.

La seconda è la corrente dorsale, anche detta “via del Dove” o “via del Come”, e ha inizio nella corteccia primaria visiva (V1) con termine nella corteccia parietale posteriore. La sua funzione è di localizzare l’oggetto all’interno del campo visivo grazie anche ad informazioni complementari come luce e movimento, oltre ad essere un’importante componente per afferrare oggetti.

Da cosa è costituita l’opera d’arte?

Gli elementi che compongo l’opera d’arte sono colore, forma, texture e disegno, ma ancora più semplicemente distinguiamo colore e luce: il primo esprime emozioni e simboli, la seconda descrive le forme, il tratto e la texture.

Mentre il colore è un aspetto dell’opera costantemente analizzato e approfondito, la luce, nonostante possieda un ruolo chiave nella composizione artistica, è ancora poco sfruttata dagli artisti stessi.
Un perfetto esempio di ciò è rappresentato dalla corrente impressionista; si affaccia sul mondo dell’arte figurativa verso la fine del XIX secolo a seguito della diffusione del neoclassicismo, avvenuta qualche decennio prima, da cui prende le distanze, facendo dell’uso sperimentale di luce e colore un manifesto.

Un esempio di studio

Si prenda in esame il quadro di Claude Monet “Impressione, levar del sole” (1872), da cui derivò il nome della corrente.
Lo si confronti con una versione monocroma della stessa opera e si rimuova uno dei due elementi chiave, il colore. E’ possibile così soffermarsi maggiormente sulla luce del dipinto e in particolare su come il sole e le nuvole siano stati rappresentati con la stessa luce dall’artista e volutamente.

Se, infatti, Monet fosse rimasto fedele alla realtà raffigurando quindi un sole più chiaro e luminoso dello sfondo su cui si staglia, paradossalmente sarebbe risultato meno brillante rispetto alla versione definitiva.

Tre versioni del dipinto di Monet “Impressione, levar del sole”: originale (in alto), monocromatico (centro), con la luminosità del sole resa realistica (in basso). Fonte: Light Vision

Il fenomeno pittorico appena illustrato si può spiegare a livello cerebrale prendendo in esame l’elaborazione separata dell’informazione visiva convogliata dalle due correnti.

Laddove la via del Cosa trasmette informazioni riguardo al colore, la via del Dove è insensibile al colore.
La seconda è tra i due il sistema più antico e in grado di rilevare con maggiore precisione la luce e le sue variazioni. Come conseguenza, registra anche il movimento e la profondità degli oggetti rispetto allo sfondo.

L’opera impressionista riesce dunque ad ingannare la via del Dove. Davanti agli oggetti isoluminanti (come il sole e il mare, con intensità luminosa uniforme), non potendo contare sull’aspetto cromatico, non riesce a registrarne la posizione o la profondità.  Il risultato di questo fenomeno è quella sensazione di apparente movimento delle onde e dello scintillio del sole riflesso sull’acqua.

Rafforza l’illusione la tecnica pittorica scelta da Monet: tante pennellature brevi sulla tela, che richiedono all’osservatore di essere unite in tratti unici.

L’antitesi classicista

Una controprova della teoria si ha osservando un’opera che rappresenta una scena d’azione, ottenuta facendo uso di luce a diverse intensità: ne “Il ratto delle Sabine” di Nicolas Poussin (1638), l’eccesso di movimento e dettagli raffigurati dall’autore finiscono per avere un effetto paralizzante. 
Il cervello dell’osservatore si sofferma a studiare il maggior numero possibile di particolari. Esso, però, ontemporaneamente fissa le figure sullo sfondo, perdendo così la sensazione di slancio delle figure.

La Neuroestetica non si ferma qui

la Neuroestetica si dimostra promettente verso future applicazioni, specie nella comprensione dell’impatto dell’opera sull’osservatore nel campo dell’arte visiva; ma anche nel mondo architettonico per la costruzione di edifici abitativi e in ambito clinico riguardo gli effetti di malattie neurodegenerative sulla percezione artistica.

Eleonora Calleri

FONTI:

Neurobiology of sensation and reward, Chapter 18, A. Chatterjee: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK92788/#ch18_r52
Light vision, M. Livingstone: https://switkes.chemistry.ucsc.edu/teaching/CROWN85/literature/lightvision.pdf
Neuroaesthetics: an introduction to visual art, T.S. McClure, J.A. Siegel: https://journals.sagepub.com/doi/10.1177/1745691615621274
The neuroaesthetics of architectural spaces, A. Chatterjee, A. Couburn, A. Weinberger: https://doi.org/10.1007/s10339-021-01043-4
Art produced by a patient with Parkinson’s disease, A. Chatterjee, R.H. Hamilton, P.X. Amorapanth: https://doi.org/10.1155/2006/901832

Train The Brain: prevenire il declino cognitivo

“Mens sana in corpore sano” dicevano i latini. Niente di più vero! Che l’attività fisica fosse un fattore fondamentale nella neuroprevenzione non lo scopriamo di certo nel 2022.
Da dieci anni viene svolto un progetto (che coinvolge centinaia di soggetti anziani dai 65 agli 89 anni) che ha come primi autori Gaia Scabia di Cnr-Ifc e dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Università di Pisa e Giovanna Testa del Laboratorio di biologia della Scuola normale superiore e coordinato dal Professore Lamberto Maffei, chiamato Train the Brain“. 

 

Indice dei contenuti

  1. Cosa accade con l’invecchiamento
  2. Come mai le chemochine?
  3. Perché il sistema immunitario?
  4. Lo studio nel modello murino
  5. Risultati dello studio
  6. Conclusioni

Cosa accade con l’invecchiamento

L’interesse di questo progetto è quello di comprendere come i meccanismi molecolari neurobiologici funzionino in relazione all’interazione con l’ambiente, facendo impegnare i soggetti in attività fisiche e mentalmente impegnative. Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione con Marco Mainardi del Cnr-In Margherita Maffei dell’Istituto di fisiologia clinica (Cnr-Ifc).
Particolarmente rilevante, in questo studio, è stato il monitoraggio della concentrazione nel sangue, nei soggetti aderenti al progetto, di una molecola infiammatoria chiamata CCL11/Eotaxin-1, la quale è in grado di attirare gli eosinofili (un componente leucocitario del sangue) e di attraversare la barriera emato-encefalica (BEE), il nostro filtro biologico protettore dei neuroni.
La capacità di questa proteina, definita come chemochina, di attraversare questo scudo biologico, ha conseguenze negative (se in concentrazioni alte) sulla neurogenesi ippocampale e sulla plasticità sinaptica, processi fondamentali per il mantenimento di una buona salute neurologica.

Fonte: wikipedia.org

Come mai le chemochine?

Le chemochine sono importanti tasselli del grande puzzle che compone il sistema immunitario. La loro secrezione è promossa dalla produzione di altre citochine ad opera dei macrofagi o dei linfociti NK, due guerrieri del nostro sistema immunitario. Giocano un ruolo importantissimo le cellule della microglia, popolazione di macrofagi residente nel nostro cervello che produce citochine. Esse favoriscono il rilascio di chemochine e, di conseguenza, se il livello di produzione è elevato rispetto alle normali concentrazioni fisiologiche, si ha un richiamo di leucociti eccessivamente alto con conseguenti processi infiammatori.

Perché il sistema immunitario?

Ma cosa c’entra il sistema immunitario? In condizioni normali, nel nostro cervello avviene spesso una “sistemazione” delle sinapsi, il collegamento tra un neurone e l’altro che rende possibile elaborare o produrre stimoli. Questo turnover sinaptico deve sempre essere mantenuto in equilibrio affinché non si abbia un danneggiamento delle funzioni cerebrali. Un malfunzionamento a carico di questi processi e un aumento del livello di citochine proinfiammatorie agiscono negativamente sulla normale plasticità cerebrale, promuovendo il declino cognitivo.
L’invecchiamento porta ad un aumento di concentrazione di CCL11 a livello ematico che impatta la buone salute del cervello promuovendo il processo di neurodegenerazione. 

Lo studio nel modello murino

Per poter comprendere al meglio gli eventi molecolari dietro questo processo, il progetto Train the Brain è stato ricreato in laboratorio sfruttando il modello murino, anche denominato topo comune, e una tecnica chiamata environmental enrichment (arricchimento ambientale, EE). Questo metodo consiste nel mettere a disposizione dei soggetti un ambiente stimolante con cui essi possono interagire.
L’interazione con l’ambiente è fondamentale nei processi neurologici: allenarci ci fa sentire meno stressati, raggiungere un traguardo ci fa sentire gioiosi mentre fallire ci butta giù.

Risultati dello studio

In effetti, i risultati erano evidenti e significativi! Sia nei partecipanti umani che nel modello murino, le analisi del sangue riportavano livelli di CCL11 molto più bassi dopo diverse sessioni dello studio rispetto a quanto non lo fossero prima. Infatti, nei topi, l’EE ha indotto una plasticità simil-giovanile nei soggetti adulti, mentre nelle popolazioni arricchite ma con livelli di CCL11 mantenuti alti artificialmente, si è osservato uno svantaggio rispetto alla popolazione allevata a livello standard in ambiente arricchito. I risultati più stupefacenti (comunque non troppo nuovi) furono riscontrati nei topi anziani transgenici per alcuni geni induttori dell’Alzheimer. In questi topi malati fu stimolata una più spinta e accesa neurogenesi grazie all’interazione con questo ambiente arricchito e stimolante.

 

Conclusioni

Tutti i processi che coinvolgono emozioni, stati d’animo, semplice benessere psico-fisico, sono il risultato degli stimoli provenienti dall’esterno. L’invecchiamento neuronale, la neurodegenerazione o, malattie neurodegenerative gravissime, come la demenza fronto-temporale o la malattia di Alzheimer, possono essere prevenute grazie ad una vita sana, un’alimentazione giusta, la lettura o lo studio e ad una costante e corretta attività fisica.

Giovanni Bruno

Bibliografia

https://www.lescienze.it/news/2021/09/17/news/una_possibile_chiave_per_contrastare_il_declino_cognitivo-4965645/

https://ihttp://www.ucp.istc.cnr.it/index.php/2012-05-28-21-15-32/il-centro-primati/11-animals/47-l-arricchimento-ambientale-che-cos-e

it.wikipedia.org/wiki/Chemochine

http://www.ucp.istc.cnr.it/index.php/2012-05-28-21-15-32/il-centro-primati/11-animals/47-l-arricchimento-ambientale-che-cos-e

 

 

Il gene che controlla il destino delle cellule staminali neurali

Il cervello è uno degli organi più complessi ma al contempo più studiati. Sin dall’antichità si cerca di capire i suoi meccanismi e ancora oggi si conosce ben poco.

I primi riferimenti scritti sull’encefalo si hanno con il Papiro Chirurgico di Edwin Smith, anche se per gli egizi non aveva un vero e proprio interesse anatomico. Soltanto con Ippocrate e altri filosofi del mondo ellenico come Platone si andò verso un pensiero “encefalocentrico”, considerando il cervello il centro del pensiero.

Fogli VI e VII del Papiro Edwin Smith.

 

Secondo la classificazione di Giulio Bizzozero, il cervello rientra nei tessuti perenni, ovvero tessuti composti da cellule che, a compiuta maturazione, perdono la capacità di replicare.

Nonostante questa classificazione sia ancora accettata, è stata dimostrata la presenza di cellule staminali nel sistema nervoso degli adulti, le quali potrebbero sostituire neuroni danneggiati o cellule gliali.

Infatti, tutto il sistema nervoso è composto sia da cellule neuronali propriamente dette, deputate alla creazione e trasmissione di impulsi nervosi ma anche da cellule che compongono la neuroglia. Quest’ultima è un insieme di cellule con numerosi ruoli, tra cui il sostegno, la difesa, la riparazione tissutale ma anche una importante funzione metabolica.

Le principali cellule gliali sono rappresentate dagli astrociti, oligodendrociti e dalla microglia.

Sia i neuroni che la maggior parte delle cellule gliali derivano da precursori neuronali disposti a livello della corteccia cerebrale; ma qual è lo stimolo che indirizza la maturazione verso forme gliali o verso la neurogenesi?

Cellule gliali del sistema nervoso centrale.

 

 

Uno studio italiano, condotto dal Laboratorio di Sviluppo Corticale della SISSA, studiando celulle staminali nervose murine e umane, ha cercato di risolvere questo interrogativo.

Si è ipotizzato che l’iperespressione di uno specifico gene potesse causare un aumento della neurogenesi a discapito della astrogenesi. (Con il termine astrogenesi si intende la nascita di astrociti a partire da cellule staminali).

L’ipotesi si è rivelata corretta, scoprendo per la prima volta un vero e proprio direttore d’orchestra nel controllo delle cellule staminali durante lo sviluppo embrionale.

Si tratta del gene FOXG1 (Forkhead Box Protein G1), il quale trascrive per un fattore di trascrizione fondamentale nello sviluppo del sistema nervoso centrale.

FOXG1 è un gene già noto, associato ad alcune patologie neurologiche congenite.

Tra le più importanti possiamo ricordare la sindrome di Rett e la sindrome di West.

La sindrome di Rett è un’affezione neurologica che si presenta sin dai primi mesi di vita. È caratterizzata dalla presenza di un grave ritardo mentale, associato alla presenza di movimenti stereotipati delle mani. I soggetti affetti possono presentare anche alterazioni e ritardo dello sviluppo.

Essendo una patologia genetica, sono state riscontrate mutazioni di alcuni geni, tra cui MECP2 ed anche di FOXG1.

La sindrome di West, patologia definita anche come spasmi infantili, è caratterizzata da spasmi assiali, ritardo psicomotorio e la presenza di alterazioni elettroencefalografiche. In questo caso le cause sono diverse, infatti la malattia può essere secondaria a malformazioni o ad eventi ischemici, ma può anche essere la manifestazione di mutazioni genetiche. Anche qui, tra i vari geni implicati, viene menzionato FOXG1.

Ma in condizioni normali come agisce FOXG1? Associando allo studio in vitro uno studio in vivo, il gruppo di ricerca ha dimostrato due meccanismi d’azione: esso può causare direttamente la repressione di alcuni geni che favoriscono la nascita di astrociti (Gfap, S100β , Aqp4), o indirettamente, attraverso un effetto pleiotropico sulle vie regolatrici della differenziazione delle cellule staminali corticali.

I pathways fondamentali in questo meccanismo sono quattro (IL6/Jak2/Stat1,3; Bmp/Smad1,5,8; Nrg1/ErbB4ICD-NcoR e Dll1/Notch1ICD), tutti coinvolti nel controllo dello sviluppo astrogliale.

 

Vie dirette ed indirette della modulazione dei geni astrogliali.

 

Successivamente, confrontando la corteccia cerebrale di embrioni di topo si è visto che vi è una riduzione delle cellule staminali neurali esprimenti FOXG1 con l’avanzare dello sviluppo embrionale. Questo dimostra che vi è una sorta di esaurimento funzionale di suddette cellule.

Lo studio è stato riprodotto anche su cellule staminali umane, dimostrando che meccanismi del tutto sovrapponibili sono presenti nella nostra specie.

Possiamo dunque dire che si è di fronte ad un’importante scoperta: FOXG1 avrebbe una funzione centrale nella regolazione astrogenica e neurogenica, quindi nello sviluppo del sistema nervoso centrale durante la vita embrionale.

Con la scoperta dei meccanismi che stanno alla base della regolazione delle cellule staminali esprimenti FOXG1 vengono aperti possibili nuovi scenari sulla diagnosi precoce e sul trattamento di patologie congenite quali sindrome di Rett e di West.

Carlo Giuffrida

Cervelli in ansia: dalle neuroscienze nuovi dati per comprenderne il meccanismo

Sto in ansia. Quante volte, nella vita di tutti i giorni, avremo usato questo termine per riferirci a tante piccole quotidiane situazioni di stress psichico e nervosismo? Eppure forse non tutti sanno che, accanto a queste situazioni assolutamente fisiologiche, esiste una ansia patologica, con sintomi che spesso possono essere altamente invalidanti. In psichiatria si distinguono diversi disturbi d’ansia, diversi fra loro ma accomunati da una sintomatologia basata su componenti somatiche (sudorazione, pallore cutaneo, aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca e altri segni e sintomi correlati a una attivazione abnorme del sistema nervoso simpatico), cognitive-emotive (senso di pericolo e di allerta, calo della concentrazione) e comportamentali (atteggiamenti di fuga) che possono seriamente compromettere la vita relazionale del paziente.

In particolare, fra i vari disturbi d’ansia, il più elusivo da comprendere è il disturbo d’ansia generalizzato (GAD, generalized anxiety disease) in cui la sintomatologia ansiosa non è collegata a un oggetto o una situazione particolare (come ad es. nelle fobie) ma si verifica in maniera aspecifica, appunto generalizzata.

Da anni la ricerca scientifica cerca di comprendere perché e in che modo, con quale meccanismo, si verifichino questi sintomi. Diversi autori concordano sul fatto che alla base del GAD possa esserci una ipergeneralizzazione degli stimoli di pericolo: normalmente, la nostra esperienza ci permette di associare determinati stimoli sensoriali (per esempio, la vista di un serpente per terra o il suono di una sirena d’allarme) a una situazione di pericolo dando origine a una risposta adeguata, di tipo “combatti o fuggi” (cioè mediata dal sistema nervoso simpatico) non appena gli stimoli vengono percepiti; nel GAD una generalizzazione eccessiva fa si che vengano percepiti come potenzialmente pericolosi anche stimoli che normalmente non lo sono e questo spiegherebbe le manifestazioni della patologia.

Una delle domande dei ricercatori in proposito è se questa generalizzazione sia legata a un meccanismo cognitivo, cioè in parole povere all’incapacità di decidere quali stimoli sono pericolosi e quali no, oppure derivi da un problema percettivo, cioè legato a una anormale percezione sensoriale degli stimoli stessi. Un recentissimo lavoro in pubblicazione su Current Biology, curato da ricercatori del Weizmann Institute e del Jerusalem Mental Health Center*, propone una possibile risposta a questa domanda.

Lavorando su un gruppo di 25 pazienti di GAD e 16 controlli sani, i ricercatori hanno fatto ascoltare ai soggetti suoni di diverse frequenze, associandoli a situazioni di rischio (guadagno o perdita di denaro): dopo questo condizionamento, hanno fatto riascoltare i suoni ai soggetti chiedendo di riconoscere quelli associati al rischio, riscontrando che i pazienti di GAD tendono più dei soggetti sani ad associare al pericolo i suoni anche quando le frequenze risultano essere più distanti da quelle con cui è avvenuto il condizionamento. In un secondo luogo è stata svolta una indagine con risonanza magnetica funzionale (fMRI), una tecnica che si usa per studiare l’attivazione di aree del cervello mediante la misura delle variazioni nel loro utilizzo di sangue ossigenato, rilevate tramite MRI. Tale metodologia, in uso da anni nel mondo delle neuroscienze, ha consentito di osservare, soltanto nei soggetti ansiosi e durante il condizionamento, l’attivazione di un ben preciso network neuronale composto da aree corticali e sottocorticali (come amigdala, putamen, corteccia cingolata anteriore) correlata direttamente alla percezione del rischio e del tipo di rischio. Pertanto, pur senza negare l’importanza dei meccanismi cognitivi nello sviluppo del disturbo d’ansia generalizzato, i ricercatori concludono evidenziandone l’aspetto di disturbo principalmente percettivo. Una tale scoperta, oltre a costituire un importante passo avanti nella comprensione dei meccanismi alla base del disturbo d’ansia generalizzato, contribuisce anche, insieme a tantissimi altri lavori simili, a mettere in una nuova luce l’affascinante problema delle relazioni fra la nostra mente e il nostro cervello, e fra la nostra mente e il nostro corpo. Ma questa, naturalmente, è tutta una altra storia…

*Laufer et al., Behavioral and Neural Mechanisms of Overgeneralization in Anxiety, Current Biology (2016)Qui l’articolo 

Gianpaolo Basile