Sindrome del tunnel carpale: sintomi e approccio chirurgico

La sindrome del tunnel carpale è una neuropatia assai frequente, dovuta alla compressione del nervo mediano nel suo passaggio attraverso il tunnel carpale (o canale carpale), situato a livello del polso.

  1. Epidemiologia ed eziopatogenesi
  2. Caratteristiche cliniche
  3. Diagnosi e valutazione
  4. Terapia conservativa
  5. Terapia chirurgica

Epidemiologia ed eziopatogenesi

La prevalenza della malattia nella popolazione varia tra 1’1-5%, con un tasso d’incidenza più alto nelle donne a partire dalla III o IV decade di vita.

Il tunnel carpale è un canale inestensibile delimitato da un “tetto”, rappresentato da un legamento denominato legamento trasverso del carpo, teso tra le ossa carpali. Questo canale contiene nove tendini flessori (flessore lungo del pollice, flessori superficiali delle dita e flessori profondi delle dita) e più superficialmente il nervo mediano. Inoltre ognuno dei tendini flessori è avvolto da una guaina, chiamata sinovia, che consente lo scorrimento senza attrito dei vari tendini.

L’aumento di pressione sul nervo mediano o il suo schiacciamento sono all’origine di questa sindrome. Si pensa che l’aumento di pressione sia dovuto alla tenosinovite, ovvero l’infiammazione della guaina che riveste i tendini flessori con conseguente ipertrofia.

Esiste una predisposizione, sebbene il più delle volte l’origine sia da ricondurre ad un eccessivo uso del polso (attività manuali o uso prolungato di una tastiera mal posizionata). Altre possibili cause possono essere fratture, patologie autoimmuni, patologie di natura endocrina, amiloidosi, ecc. In conclusione la genesi è multifattoriale, cioè tale sindrome nasce per diverse possibili cause spesso contemporanee.

tunnel carpale
Anatomia del tunnel carpale. Fonte:

Caratteristiche cliniche

I sintomi classici includono il dolore e le parestesie (intese come intorpidimento e/o formicolio) estesi al territorio d’innervazione del nervo mediano alla mano, con il coinvolgimento delle prime 3 dita e della metà del quarto dito della faccia palmare (metà più interna). Dell’innervazione della porzione dorsale della mano se ne occupa il nervo radiale e per questo motivo è importante fare le giuste domande al paziente. L’insorgenza dei sintomi durante la notte è abbastanza caratteristico e, non di rado, provoca il risveglio del paziente. I fastidi possono presentarsi a intermittenza, ma possono anche diventare costanti. Nei casi più avanzati può comparire anche un deficit motorio, ovvero una riduzione della capacità di afferrare saldamente gli oggetti. Nel tempo, i muscoli della mano sul lato del pollice possono indebolirsi e diminuire di volume per il mancato uso (atrofia dell’eminenza tenar, cioè la porzione della mano da cui nascono i muscoli del pollice). Infine si riporta che nella maggior parte dei casi la patologia è sintomatica su un lato e subclinica sull’altro.

Appianamento tenare. Fonte:

Diagnosi e valutazione

Gli esami utili nel formulare una diagnosi di sindrome del tunnel carpale sono: test di laboratorio, elettromiografia e elettroneurografia.

Il test di Tinel viene praticato applicando una ripetuta percussione digitale (con il dito indice “a martello”) sul polso; il test è considerato positivo quando viene evocato formicolio sul territorio della mano di pertinenza del nervo mediano.

Test di Tinel. Fonte:

La manovra di Phalen può essere fatta mettendo la mano in flessione: questo mette sotto stress il nervo mediano e, se il polso viene mantenuto in questa posizione per un minuto, il paziente potrebbe sentire l’addormentamento delle dita.

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Test di Phalen. Fonte:

Il test di Durkan, invece, è simile a quello di Tinel, ma invece di percuotere diverse volte il nervo mediano, qui si applica una forza compressoria costante direttamente sul nervo che viene mantenuta per 30″, scatenando formicolio e intorpidimento.

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Test di Durkan. Fonte:

L’elettromiografia referterà l’assenza o la diminuzione dell’impulso elettrico sul muscolo, quindi indirettamente ci permette di capire che lo stimolo che parte dal nervo non arriva al muscolo; in più l’elettroneurografia ci dirà a che livello nervoso è presente l’alterazione. Quindi facendo questo studio elettrofisiologico sulle velocità di conduzione motoria e sensitiva del nervo mediano saremo in grado di oggettivare l’eventuale presenza di una sindrome del tunnel carpale.

Elettromiografia. Fonte:

Terapia conservativa

Per le forme lievi si può applicare un trattamento conservativo, mettendo per esempio dei tutori di supporto che tengano il polso in posizione neutra (specialmente durante le ore notturne). Altre soluzioni per alleggerire il processo infiammatorio sono rappresentate dai FANS (antinfiammatori non steroidei) o dalle infiltrazioni di cortisone nel canale carpale. Recentemente, sono stati proposti anche esercizi fisioterapici di nerve gliding, cioè di “scorrimento” nervoso, in modo da alleggerire la costrizione nervosa e alleviare i sintomi. Tuttavia, esercizi di scorrimento inappropriati peggiorerebbero le condizioni. Il fine ultimo è evitare un eccessivo allungamento del nervo mediano nei movimenti di estensione del polso e delle dita.

Terapia chirurgica

La chirurgia è raccomandata quando le strategie conservative non riescono più a controllare i sintomi del paziente o dinanzi a casi moderati/severi. Il target è la decompressione chirurgica del nervo mediano. Inoltre è importante liberare il nervo da eventuali aderenze infiammatorie.

Fondamentalmente esistono 3 diverse tipologie di intervento, tutte di brevissima durata e finalizzate alla sezione del legamento trasverso:

  • Tecnica Open o “a cielo aperto”: prevede la sezione del legamento attraverso un’incisione che va dalla base del polso fino a 3-4 cm sopra al polso. Questa tecnica ormai è destinata solo alle recidive.
  • Tecnica mini-open: prevede la sezione attraverso un’incisione di circa 3 cm in corrispondenza del palmo della mano.
  • Tecnica endoscopica o “a cielo chiuso”: prevede la sezione del legamento attraverso l’introduzione di una apposita sonda, tramite un’incisione alla base dal palmo di circa 1 cm.
tunnel carpale
Decompressione del nervo mediano tramite tecnica “a cielo aperto”. Fonte:

La medicazione andrà mantenuta per due settimane, ma nonostante ciò la mano può essere utilizzata da subito, per movimenti semplici o complessi. Nelle settimane o nei mesi successivi all’intervento il paziente potrebbe avvertire indolenzimento nella zona della cicatrice. L’intorpidimento e il formicolio possono scomparire rapidamente oppure in maniera più graduale. Possono essere necessari alcuni mesi affinché la forza della mano e del polso torni alla normalità, ma nei casi più gravi e avanzati è possibile che i sintomi non scompaiano completamente dopo l’intervento chirurgico. Pertanto è bene rivolgersi subito allo specialista appena si avvertono questi sintomi.

Bibliografia

CHIRURGIA Plastica Ricostruttiva ed Estetica di Valerio Cervelli e Benedetto Longo – Pagine 241-244

Sindrome del tunnel carpale – Humanitas

Sindrome del tunnel carpale – MSD Manuals

Tunnel carpale – Sintomi, Cause e Rimedi – Sebastian Guzzetti

Sindrome del tunnel carpale – Wikipedia

 

Pietro Minissale

 

Alzheimer: sarà possibile diagnosticarlo tramite un esame del sangue?

L’Alzheimer è una malattia cronico-degenerativa, caratterizzata da un progressivo impoverimento cognitivo: ad oggi, si stima che il 5% dei cittadini italiani con un’età superiore ai 60 anni, soffre di questa patologia, che comporta enormi difficoltà anche nello svolgere le attività della vita quotidiana.

Durante il decorso di malattia si osserva una progressiva degenerazione neuronale a carico delle aree celebrali. È stato dimostrato come questa degenerazione sia causata dall’accumulo di due proteine tossiche: la beta-amiloide e la tau, con conseguente atrofia delle aree celebrali e compromissione totale.

La sintomatologia dell’Alzheimer

L’esordio di questa malattia è solitamente subdolo, inizialmente non è facile riconoscere i sintomi, che spesso vengono confusi con dimenticanze dovute alla stanchezza o all’eccessivo stress. La patologia è infatti caratterizzata da una progressiva perdita di memoria, che però si manifesta con una sintomatologia talmente sfumata da essere difficilmente riconosciuta e diagnosticata in tempo.

Segno evidente di malattia è invece la progressiva degenerazione delle funzioni cognitive che si manifesta con: perdite di memoria riguardo parole, volti ed eventi recenti o ancora difficoltà prassiche, disturbi comportamentali, alterazione della personalità, disturbi della deambulazione, fino ad un quadro di demenza severa che comporta spesso l’allettamento.

Tali sintomi però sono rilevabili solo quando la patologia è già giunta a uno stadio avanzato, tanto da rendere i trattamenti ad oggi impiegati poco efficaci.

Alzheimer (demenza): disturbi e cause – ISSalute

Come viene trattato clinicamente ad oggi

Anche se non esistono attualmente farmaci in grado di curare la malattia o di arrestarne il decorso, è stato provato da diversi studi come l’utilizzo degli inibitori dell’acetilcolinesterasi all’insorgere della patologia sia particolarmente efficace.

Oltre ai trattamenti farmacologici esistono trattamenti di natura terapeutico-riabilitativa che si sono dimostrati efficaci nel rallentare il deterioramento cognitivo; tuttavia anche in questo caso l’inizio precoce di tali interventi determina maggiori benefici.

Ad oggi è possibile fare diagnosi di Alzheimer ragionando solo in termini di esclusione, con accertamenti medici che aiutano a scartare altre possibili cause, che possono scatenare la stessa sintomatologia. Ad esempio, si utilizzano Tac celebrali e test neuropsicologici, per escludere la presenza di un tumore celebrale, o di qualsivoglia lesione.

La blood biomarker challenge

Per provare a rispondere alle difficoltà diagnostiche e cliniche legate a questa patologia, alcuni istituti di ricerca medica britannici hanno intrapreso una collaborazione per un ambizioso progetto: la sfida dei marcatori sanguigni.

L’obiettivo di questa ricerca è riuscire a individuare nel sangue dei marcatori specifici per la patologia di Alzheimer, così da poter intervenire quando la patologia si trova ancora in una fase iniziale.

Diverse sono le ipotesi dei ricercatori: alcuni di questi esami ricercano nel sangue le tracce delle proteine beta amiloide e tau, altri individuano molecole ad esse connesse o proteine legate alla morte neuronale. Già una parte di questi test, ha mostrato di avere la stessa accuratezza ad oggi garantita dai prelievi di liquido spinale, che fa parte dell’iter diagnostico attuale; tuttavia, servono ulteriori ricerche per assicurarsi che tali esami siano effettivamente in grado di cogliere la giusta combinazione di biomarcatori nel liquido analizzato, a prescindere dalle differenze fisiologiche che caratterizzano ognuno di noi, senza restituire diagnosi errate.

Blood-based biomarker discovery points to early-stage Alzheimer’s test (newatlas.com)

Prospettive future della lotta all’Alzheimer 

La riuscita di questo progetto permetterebbe di accorciare i tempi necessari per dare un nome alla patologia e per intervenire clinicamente: infatti, come già evidenziato, tutti i trattamenti per rallentare il decorso di malattia danno migliori risultati se intrapresi precocemente, quando il danno neurale è ancora contenuto. L’obiettivo di questo progetto da 5 milioni di sterline è di somministrare ai pazienti lo strumento specifico entro 5 anni, ed è quello che ci auguriamo.

Marta Scuderi

Fonti:
  • Neurologia per le professioni sanitarie (Padovani, Borroni, Cotelli);
  • Focus: https://www.focus.it/scienza/salute/il-primo-esame-del-sangue-per-l-alzheimer-potrebbe-essere-pronto-tra-cinque-anni

Alzheimer: approvato il primo farmaco specifico per la malattia

È di ieri, 7 Giugno 2021,  la fantastica notizia dell’approvazione, da parte dell’FDA (Food and Drug Admininistration), dell’Aducanumab (nome commerciale Aduhelm), il primo farmaco specifico contro l’Alzheimer.

Cos’è l’Alzheimer?

L’Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che causa demenza progressiva ed inarrestabile. Essa porta, a lungo andare, ad un’auto-insufficienza, determinando dopo 4-8 anni di malattia la morte per le precarie condizioni igienico-alimentari dovute all’allettamento.

Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia, il numero dei pazienti con demenza è di oltre 1 milione (circa 600.000 a causa dell’Alzheimer) e 3 milioni sono le persone coinvolte nella loro assistenza, con enormi conseguenze economiche e sociali.
Ma il problema non è solo italiano. Nel 2010, in tutto il mondo 35,6 milioni di persone erano affette da demenza.
Si stima inoltre un aumento del doppio nel 2030, del triplo nel 2050, con 7,7 milioni di nuovi casi all’anno e con una sopravvivenza media, dopo la diagnosi, di 4-8-anni.

Crediti immagine: truenumbers.it

Quali sono le cause della malattia?

L’eziologia della malattia non è ancora ben compresa. Si crede contribuiscano fattori ambientali, come evidenziato dal Global Burden of Disease (nello specifico, il particolato PM 2.5), fattori genetici come i geni presenilina-1 (PSEN1), presenilina-2 (PSEN2) e proteina precursore di beta-amiloide (APP), l’elevato stress ossidativo (ROS) causato da un eccessivo stato infiammatorio.

Il meccanismo attraverso il quale la malattia causa demenza consiste nella formazione di placche nel cervello, dette placche amiloidi, ed ammassi neurofibrillari. Essi si accumulano via via nel cervello, “intasandolo” ed impedendone il corretto funzionamento, conducendo infine a morte i neuroni.

Crediti immagine: Brainer.it

Le placche di beta-amiloide e gli ammassi neurofibrillari (costituiti da proteina Tau) sono dovuti ad un errato ripiegamento delle proteine, che normalmente hanno una conformazione ad alfa elica o a foglietto beta. Non essendo ripiegate bene, a causa di tutti i fattori di cui sopra, saranno difficili da smaltire per la microglia (insieme di cellule deputate alla “pulizia” del tessuto nervoso) e si accumuleranno sempre di più.

Come veniva curato?

Fino a ieri, la terapia della malattia si è basata su un approccio farmacologico ed uno psicosociale-cognitivo.

L’approccio psicosociale-cognitivo consiste in programmi di training cognitivo, basati sulla stimolazione cognitiva e comportamentale attraverso “esercizi mentali”. Effetti positivi sono dati pure dalla musico-terapia e arte-terapia, che influiscono positivamente sull’umore dei malati.

Crediti immagine: tieniamente.it

L’approccio farmacologico consiste nell’uso di farmaci non specifici per il morbo di Alzheimer, ma in grado in generale di potenziare le rimanenti funzioni cognitive, ormai deficitarie. Si tratta di molecole come l’acetilcolina e gli inibitori dell’acetilcolina colinesterasi (che ne aumentano la concentrazione cerebrale), come la fisostigmina, la neostigmina ecc.
Altri farmaci utilizzati comprendono i glutammatergici, come la memantina.

Questi farmaci, seppur in grado di rallentare il declino della malattia, non ne modificano il decorso, purtroppo infausto.

Aducanumab, il nuovo farmaco

L’Aducanumab, (nome commerciale Aduhelm) è un anticorpo monoclonale diretto contro le placche di beta-amiloide che si accumulano nel cervello. Si somministra una volta al mese per via endovenosa.

Crediti immagine: nursetimes.org

Rappresenta una svolta epocale, in quanto prima di ieri nessun farmaco era diretto a contrastare il meccanismo patogenetico della malattia. I farmaci precedentemente usati, infatti, avevano solamente un effetto non specifico, in grado di potenziare le funzioni  cognitive rimaste, ma non influenzavano il decorso finale dell’Alzheimer.

Vista lefficacia del farmaco, valutato in 3 studi che hanno coinvolto 3482 pazienti, l’FDA ha approvato con un protocollo di approvazione accelerato, usato quando si scopre un farmaco efficace per una malattia grave e pericolosa per la vita.

I pazienti infatti, tramite studi in doppio cieco e randomizzati, hanno mostrato una significativa riduzione dose e tempo-dipendente delle placche di beta-amiloide nei pazienti che ricevevano il farmaco, rispetto a quelli che assumevano il placebo.

Per tali ragioni ieri, 7 Giugno 2021, l’FDA ha autorizzato la vendita di questo prodigioso farmaco, prodotto dalla Biogen, che ha iniziato a svilupparlo nel lontano 2003.

Prospettive future

Grazie all’Aducanumab, probabilmente la storia naturale dell’Alzheimer potrà cambiare.

La speranza è che, grazie ad esso e a successivi farmaci, si riuscirà a far diventare l’Alzheimer una malattia cronica un po’ come il diabete.
C’è da considerare, infatti, che sebbene sia il primo farmaco diretto contro il meccanismo patogenetico, adesso si ha la prova che questo tipo di farmaci, ovvero gli anticorpi monoclonali, funzionano.

Crediti immagine: infomedics.it

Questo farà sì che altre aziende farmaceutiche spenderanno in ricerca per realizzare nuovi farmaci contro questa ed altre malattie neurodegenerative caratterizzate da meccanismi simili.

Si prospetta dunque un’epoca d’oro per la medicina odierna e futura. Grazie infatti ai calcoli dei super computer è ormai facile realizzare farmaci ad hoc contro un particolare bersaglio molecolare.

L’epoca della target-therapy è iniziata da pochi anni, ma già mostra le sue incredibili potenzialità. Presto molte malattie, finora incurabili, potranno avere nuove terapie.

Crediti immagine: nuvola.corriere.it

Un sincero grazie ai ricercatori che nel silenzio, ogni giorno, lavorano per noi e che, ormai spesso, ci omaggiano di queste fantastiche notizie.

Roberto Palazzolo

Giornata delle Malattie Neuromuscolari 2021: novità incoraggianti dalla terapia genica ai farmaci sperimentali

Il 13 marzo 2021, in occasione della Giornata delle Malattie Neuromuscolari 2021, associazioni laiche e scientifiche (AIM e ASNP) hanno portato avanti un progetto volto ad aggiornare un pubblico di ampio respiro, in primis i pazienti e le loro famiglie, ma anche medici e psicologi che si occupano della loro gestione.

I punti salienti:

L’evento live ha visto protagonisti molteplici esperti in materia, che hanno fatto luce su quelle che sono patologie, ereditarie o acquisite, interessanti il motoneurone, il muscolo, la giunzione neuromuscolare o il nervo periferico. Si tratta di forme estremamente eterogenee: alcune di queste sono malattie del motoneurone (come la SLA), altre forme distrofiche e forme infiammatorie.
Comportano disturbi del movimento, paralisi, difficoltà nello svolgere attività fisiologiche come deglutire, camminare correre.
Sebbene siano forme rare, sono da attenzionare in quanto compromettono notevolmente la qualità della vita del soggetto, considerando per di più che le fasce più colpite sono bambini e giovani adulti.

Fonte: https://www.corriere.it/salute/neuroscienze/18_marzo_02/centri-malattie-neuromuscolari-49184256-1e3f-11e8-af9a-2daa4c2d1bbb.shtml

Tutto ha inizio da una corretta diagnosi

Il Professor Carmelo Rodolico ed a seguire la Professoressa Olimpia Musumeci (UOC di Neurologia e Malattie Neuromuscolari) illustrano come eseguire una attenta procedura diagnostica.
Di fondamentale importanza è l’anamnesi, personale e familiare, al fine di individuare altri casi tra parenti prossimi nell’ipotesi di una forma congenita. Altro fattore importante è l’età, in quanto l’orientamento diagnostico sarà diverso a seconda del momento di insorgenza. Saranno poi necessarie determinazioni di laboratorio (CK sieriche e LDH), analisi genetiche nelle forme ereditarie, studi biochimici nelle forme metaboliche e mitocondriali ed elettromiografia. La biopsia muscolare, una volta considerata il gold standard, oggi riveste un ruolo di primo piano nelle malattie da accumulo, infiammatorie e nelle forme genetiche. Infatti, uno stesso gene può essere responsabile di quadri clinici differenti, così come forme cliniche differenti sono associate a mutazioni di geni diversi.
Oggi, l’affinamento della diagnosi è stato possibile grazie a metodiche di sequenziamento dell’esoma che consentono di sequenziare le regioni codificanti del genoma e di identificare tutti i potenziali “geni malattia”. Il limite è la grande mole di dati che si ottiene, pertanto sarà necessaria una scrupolosa cernita per trovare quelle varianti realmente significative.

Nuove speranze dalle terapie innovative e sperimentali

Le novità più recenti riguardo la SMA

L’intervento della Professoressa Messina ha apportato novità circa i risultati delle recenti terapie innovative e sperimentali in ambito di SMA (atrofia muscolare spinale, patologia neuromuscolare caratterizzata da progressiva morte dei motoneuroni).
Un primo studio ha comparato una coorte di 12 pazienti, trattati con terapia genica, con due studi di storia naturale. Ha mostrato un aumento della sopravvivenza accompagnato da un miglioramento funzionale. “Il dato fondamentale – riporta la Prof. Messina – è che due pazienti erano capaci di stare in piedi e camminare autonomamente, mentre solo tre pazienti hanno sviluppato effetti collaterali”. Nel follow-up a 5 anni si è continuato a registrare un aumento della sopravvivenza rispetto all’andamento più aggressivo osservato negli studi di storia naturale.

Altro approccio recente è il Nusinersen, oligonucleotide antisenso che agisce sullo splicing alternativo, determinando una produzione di proteina matura e stabile. Il problema è che va somministrato per via intratecale, cioè all’interno del liquor cefalorachidiano (il fluido presente nel sistema nervoso centrale). Il farmaco è in commercio per tutti i tipi di SMA indipendentemente dall’età. Il primo studio sulla SMA di tipo 1, pubblicato sul “New England Journal of Medicine“, mostrava una migliore sopravvivenza dei bambini trattati. Inoltre il 22% acquisiva il controllo motorio completo del capo, il 18% di sedere autonomamente e l’1% di stare in piedi.

Ultimo approccio innovativo è il Risdiplam. Anch’esso agisce sullo splicing promuovendo la sintesi di una proteina totalmente funzionante. Il farmaco è uno sciroppo e attualmente è previsto un uso compassionevole nelle SMA 1 e 2. In uno studio il 29% dei bambini con SMA 1 era in grado di stare seduto autonomamente per 5 secondi, cosa normalmente impossibile, ed il 95% ha registrato un miglioramento nella capacità di deglutire. Risultati sovrapponibili si sono ottenuti in tutte le fasce di età, non solo nei più piccoli.
Naturalmente, più progredisce la malattia, minori saranno le possibilità di risposta ottimale al trattamento.

Fonte: https://www.stateofmind.it/2018/05/malattie-neuromuscolari-benessere/

L’evoluzione nelle neuropatie disimmuni e genetiche

Altri progressi si hanno in ambito di neuropatie disimmuni, legate ad un’aggressione del sistema immunitario contro antigeni del nervo periferico. La Prof. Mazzeo ha illustrato alcune terapie innovative. “Una terapia ormai consolidata è con immunoglobuline per via endovenosa, anche se, negli ultimi anni, una svolta è stata affiancata dalla somministrazione sottocutanea, che naturalmente garantisce una maggiore adesione del paziente”. Una nuova molecola è l’Efgartigimod, il quale mostra affinità e competitività per il frammento Fc delle immunoglobuline ed è pertanto in grado di ridurre i livelli sierici di IgG (responsabili del danno ai nervi).

Nell’ambito delle neuropatie genetiche, su base ereditaria, una delle più frequenti è la malattia di Charcot-Marie-Tooth (CMT), caratterizzata da debolezza e atrofia dei muscoli che appaiono come “smagriti”. Recentemente è in corso l’utilizzo del BXT3003, una composizione di sorbitolo, baclofene e naltrexone. Studi animali hanno mostrato che la somministrazione di questo composto determina un miglioramento del danno delle fibre nervose in termini di aumento di calibro e dei processi di mielinizzazione.

Le nuove prospettive nella terapia dell’amiloidosi

Altri sviluppi terapeutici si sono avuti in ambito di amiloidosi, patologia caratterizzata da depositi di proteine anomale (come la transtiretina mutata). La forma che interessa il SNP, oltre alla neuropatia somatica, coinvolge il sistema nervoso autonomico. Ne conseguono pertanto disturbi della sfera sessuale, dell’alvo, per poi dare a breve termine un interessamento di organi nobili.
La conoscenza delle alterazioni molecolari alla base ha permesso di identificare nuove molecole che si sono rivelate efficaci nel trattamento. Tra queste il Tafamidis, stabilizzante della transtiretina che impedisce la formazione di fibrille di amiloide.
Terapie estremamente innovative sono quelle di gene silencing. L’Inotersen è un oligonucleotide antisenso, che agisce sull’RNA mutato e wildtype della proteina, determinando una riduzione dei livelli sierici di transtiretina. Altra molecola che permette di raggiungere lo stesso obiettivo è il Patisiran, che agisce con un meccanismo di RNAi (RNA d’interferenza). Lo studio APOLLO, pubblicato sul “New England Journal of Medicine“, ha dimostrato un netto miglioramento dei pazienti che assumevano il farmaco.

Ecco che, a dispetto della grande eterogeneità delle patologie, la Medicina non si arrende! Ciò che dai più è ritenuto “irrisorio”, in realtà sono piccoli grandi tasselli ritrovati nell’estrema complessità della fisiopatologia umana.

Alessandra Nastasi

Fonti:
Webinar “Giornata delle Malattie Neuromuscolari” 2021
https://www.giornatamalattieneuromuscolari.it/

BioNTech, potenziale vaccino per la Sclerosi Multipla

Crediti immagine: Ansa

È dell’8 Gennaio 2021 la pubblicazione, da parte di BioNTech sulla rivista Science, di un vaccino sperimentale per la cura della Sclerosi Multipla. Esso si basa sulla tecnologia del vaccino a RNA, seguendo la scia dei recenti vaccini adoperati per il Covid19.

Cos’è la Sclerosi Multipla?

È una malattia infiammatoria cronica demielinizzante che colpisce il sistema nervoso centrale. Si ha la formazioni di placche negli assoni (“i cavi” del nostro cervello), che compromettono la trasmissione nervosa. Questo comporta stanchezza, affaticabilità, disabilità, paralisi dopo molti anni e nelle forme più gravi morte, per le conseguenze dell’immobilità.

Non esistono già farmaci per questa malattia?

I farmaci attualmente in uso per la malattia non sono curativi, bensì la trattano, rendendola una patologia cronica con la quale si è costretti a convivere. Essi sono immunomodulanti e immunosoppressori, che variano dai cortisonici agli anticorpi monoclonali.

Purtroppo però, nonostante la terapia, nel lungo termine (20 anni circa) le forme progressive porteranno comunque a disabilità neurologica il malato.

Aree del cervello danneggiate dalla Sclerosi Multipla, viste in RMN. Crediti immagine: Associazione Italiana di Neuroradiologia Interventistica

In cosa consiste il “vaccino” di BioNTech?

Considerando che la malattia ha una probabile origine immunitaria, vista l’efficacia degli immunomodulanti, gli scienziati hanno pensato di “resettare” il Sistema Immunitario che attacca gli assoni.

Per fare questo, bisogna introdurre nel corpo umano gli Antigeni (le molecole bersaglio) che sono vittime dell’attacco del sistema immunitario e far sì che esso sviluppi una “Tolleranza” nei confronti di questi.

È possibile indurre la Tolleranza Immunitaria attraverso dei vaccini Non Infiammatori, per cui il sistema immunitario, anziché allarmarsi e produrre anticorpi contro una determinata molecola, la consideri “amica”, come fosse del corpo umano, e smetta di attaccarla.

C’è qualche collegamento con il Vaccino per il Covid19?

Anche se il Covid19 e la Sclerosi Multipla sono due malattie distinte e separate, i due vaccini hanno molto in comune: sono vaccini a RNA.

Un vaccino a RNA dà le istruzioni alla cellula su come deve costruire l’Antigene, ovvero la molecola che dovrà essere attaccata dal sistema immunitario. Quest’ultimo, una volta che la molecola è stata prodotta, noterà che essa è qualcosa di estraneo al corpo e costruirà gli anticorpi per combatterla.

Prima del Covid19, i vaccini a RNA non erano mai stati testati sulla popolazione umana, in quanto si usavano dei vaccini contenenti già l’antigene verso cui si voleva costruire la risposta immunitaria.

Il problema dei vaccini tradizionali è che sono molto costosi, sia in tempo che in ricerca, da produrre. Si deve infatti produrre la giusta proteina, inserirla in virus innocui per l’uomo in quanto disattivati e successivamente iniettare il Vaccino.

Quello a RNA ha come svantaggio il fatto di richiedere basse temperature di conservazione, ma è molto veloce ed economico da produrre, potendo bypassare la ricerca del virus adatto da usare come vettore e potendo invece semplicemente mettere in una particella le informazioni necessarie alla cellula per costruire l’antigene di cui abbiamo bisogno.

La spinta tecnologica data dal Covid19

Senza la necessità di un urgente vaccino contro il virus SARS-Cov2, i vaccini ad RNA avrebbero impiegato ancora anni prima di essere approvati per la sperimentazione umana. Lo stato emergenziale ha fatto sì che tutti i rallentamenti burocratici, come la ricerca di fondi, venissero bypassati.

Inoltre, dopo un’iniziale sperimentazione animale, si è passati subito a quella umana, cosa che di norma richiederebbe anni.

Fortunatamente, ad oggi non ci sono stati effetti collaterali significativi usando questo tipo di vaccino a RNA, così come usando quello a RNA della casa farmaceutica Moderna.

Questo comporta un grande impulso verso la ricerca su vaccini a RNA per altre patologie.

Infatti, essendo facili ed economici da produrre, si potranno ideare vaccini verso una quantità innumerevole di patologie. Senza l’incertezza di una lenta approvazione per la sperimentazione umana, inoltre, le case farmaceutiche saranno molto più interessate alla produzione di questo tipo di farmaci.

La BioNTech ha così sperimentato sui topi questo potenziale vaccino per la Sclerosi Multipla.

L’esperimento

In alcuni topi con Encefalite Autoimmune, l’equivalente della Sclerosi Multipla dell’uomo, l’inoculazione del vaccino ha mostrato non solo un arresto della progressione della malattia, ma perfino un miglioramento delle capacità motorie dei topi malati. Questo perché, grazie al vaccino, il loro Sistema Immunitario ha smesso di riconoscere come “nemici” gli antigeni dei neuroni, facendo così cessare l’infiammazione a carico di essi.

Il vaccino funziona.

Risultati dell’esperimento. Crediti immagine: Science

La sperimentazione continuerà sugli animali, per riprodurre questi risultati incoraggianti. Si spera, in un futuro prossimo, che possa essere testato sugli esseri umani affetti da Sclerosi Multipla, potendo così guarirli per sempre da questa patologia.

Prospettive per il futuro

Sono moltissime le patologie autoimmuni verso le quali ad oggi non esiste cura.

Ricordiamo il Lupus, l’Artrite Reumatoide, la Sindrome di Sjögren, il Diabete Mellito di tipo 1, solo per fare qualche esempio.

Purtroppo ad oggi la terapia di queste gravi malattie si basa solamente sulla cura dei sintomi, o sul tenere a bada il Sistema Immunitario mediante cortisonici o altri immunomodulanti.

Questo, però, espone ad effetti collaterali come infezioni, maggiore incidenza di tumori e squilibri ormonali e glicemici.

Foto di una paziente affetta da Lupus Eritematoso Sistemico. Crediti immagine: MDS Manuals

Se questo vaccino funzionerà, sarà possibile curare definitivamente e senza gravi effetti collaterali tutte queste malattie.

Conoscendo infatti l’antigene verso cui si instaura l’autoimmunità, si potrebbe costruire un vaccino ad hoc per instaurare la Tolleranza Immunitaria, guarendo così il malato.

Conclusioni

Il Covid19, nonostante i milioni di vittime e la crisi economica e sociale che ha causato, potrebbe averci fatto un regalo meraviglioso.

Esso infatti ha permesso di concentrare ingenti risorse economiche ed umane per lo sviluppo, con velocità senza eguali, di una cura efficace.

Ciò da un lato dimostra che, con la collaborazione internazionale e l’intenzione di spendere in ricerca, è possibile raggiungere traguardi miracolosi.

Dall’altro ci apre le porte verso una nuova tecnologia, quella dei Vaccini a RNA, che potrebbero in futuro guarire molte patologie ad oggi incurabili.

                                                                                                                                                      Roberto Palazzolo

Musicoterapia, un farmaco senza effetti collaterali

Chi al mondo non conosce la musica?

Siamo proiettati sin dalle prime percezioni sensoriali a sentire suoni, melodie, che ci accompagnano poi per tutta la vita. Infatti se da principio nell’Antica Grecia la musica viene intesa come prodotto dell’arte di ideare e produrre, oggi di sicuro è molto più che una semplice arte, è una costante, una compagna quotidiana.

Provando ad analizzare la tua ”giornata tipo” ti accorgerai che è una stabile presenza. Già la sveglia, la mattina, parte con una fastidiosa musichetta, il più delle volte. Ma anche con le pubblicità, o nei bar, discoteche, supermercati, saloni di bellezza, in macchina, in chiesa, palestre, perfino aspettando di parlare con un operatore telefonico, ciò che ti accompagna è la musica.

Cosa ti succede quando ascolti la musica?

Premesso che sentire ed ascoltare sono due azioni differenti (essendo la prima prettamente involontaria e l’ascoltare qualcosa di più attivo), il suono come onda meccanica giunge a livello uditivo e da qui a livello cerebrale.

Le parti del cervello coinvolte dagli stimoli sonori sono numerose. L’ ascolto di un brano musicale, può indurre degli effetti biologici su tutto il corpo e in particolare su:

-Frequenza cardiaca e pressione sanguigna: la velocità del ritmo musicale agisce sul ritmo cardiaco aumentandolo ascoltando musiche veloci mentre diminuendolo con quelle più lente, allentando tensioni corporee, l’ansia e le preoccupazioni. Come se il cuore volesse andare a tempo.
-Temperatura corporea: la musica ad alto volume può alzare la temperatura di qualche grado .
-Respirazione: ascoltare una musica veloce rende il respiro più dinamico mentre i ritmi più lenti provocano un respiro più profondo inducendo uno stato di rilassamento.
-Regolazione degli ormoni dello stress: l’ascolto di musiche rilassanti diminuisce il rilascio di ormoni dello stress come la secrezione di cortisolo; la musica inoltre può regolare il rilascio di ossitocina che regola lo stress, l’ansia e gli stati motivazionali affettivi.

Tutto ciò si esplica concretamente nel potere della musica di calmare, eccitare, concentrare e anche curare.

La storia della musica come terapia

La storia della musicoterapia inizia già dal ‘500. Il suo beneficio nell’ascoltarla, o dal crearne e riprodurne aveva già portato a pensarla come uno strumento terapeutico.
I primi passi concreti però li avremo solo dopo la Seconda Guerra Mondiale in America. Infatti negli ospedali, casualmente si vide quanto la musica giovasse ai pazienti, grazie ad alcuni musicisti che volontariamente vi si recavano per allietare le giornate dei veterani degenti. Da questo piccolo gesto di altruismo, nasce la consapevolezza di quanto fosse importante e quasi necessario questo strumento, ma anche di come prima ci volesse una preparazione preventiva.
La figura del musicoterapista come professionista si deve a tre importanti figure: Ira Althshuler, Willem van de Wall e E. Thayer Gaston, padri della musicoterapia. Al giorno d’oggi ci sono numerose associazioni professionali della musicoterapia, tra cui vale la pena citare l’American Music Therapy Association (AMTA), nata nel 1998, che è attualmente la più vasta associazione di musicoterapia del mondo.

Applicazioni della musicoterapia

La musica può essere considerata un fattore motivante per quei pazienti restii a sottoporsi alla psicoterapia o farmacoterapia;
Gli obiettivi principali della musicoterapia sono:
– ridurre le tensioni
– rimuovere le inibizioni
– facilitare la comunicazione
– stimolare l’attività sociale e individuale
– istaurare un processo che faciliti e favorisca la comunicazione e l’espressione delle emozioni

Demenze

La musicoterapia in questi pazienti si è dimostrata essere uno strumento di comunicazione con il paziente. Soprattutto nell’ambito della Alzheimer, alcuni studi hanno dimostrato ottimi risultati con miglioramenti della
-memoria a breve termine, l’ascolto di un brano conosciuto o a cui si è affettivamente legati può rievocare con molta precisione un episodio della vita;
-orientamento spazio temporale;
-tono d’umore;
-senso di identità;
-competenze espressive e relazional
i;
riduzione dei livelli di cortisolo, e con esso dello depressione, stress e delle compromissioni cognitive che possono scaturire da un incremento di questo ormone.

Terapia palliativa del dolore

Si tratta di programmi terapeutici attuati per lo più in pazienti oncologici in fase terminale. In alcuni studi condotti su persone affette da carcinoma epatico, i risultati sono stati sorprendenti: nei giorni in cui i pazienti effettuavano questa terapia, e soprattutto mentre la eseguivano, non avevano avuto bisogno di somministrazioni di antidolorifici come la morfina che erano soliti prendere nei giorni pregressi. 

Autismo

Nell’ambito dell’autismo la musicoterapia non solo migliora il comportamento, ma influisce anche sulla forza delle connessioni tra le aree cerebrali. In questa patologia c’è uno squilibrio tra le varie connessione neuronali, che sono accentuate. L’ipotesi è che le capacità di comunicazione sociale diminuirebbero a causa di tutta la sovra stimolazione sensoriale. Mi spiego meglio: immagina di parlare con qualcuno, mentre grida, in una stanza con luci molto forti percepite come flash. Quanto saresti in grado di relazionarti adeguatamente in questa situazione? Effettuando la RM durante la musicoterapia si è valutata una diminuzione delle connessioni tra le aree uditive e visive, che può portare a miglioramenti delle abilità sociali.  È possibile che diminuendo i sintomi sensoriali, le abilità sociali migliorino.

In conclusione anche se ad oggi la musicoterapia non è di certo così ampiamente utilizzata, si auspica che in un futuro possa essere maggiormente applicata essendo una metodica a basso costo, che può giovare a chiunque.
Vorrei inoltre proporti di guardare un bellissimo film proprio su questo argomento che si chiama ”La musica che non ti ho detto” e di dedicare sempre del tempo a te stesso, magari chiudendo gli occhi per un po’, dimenticando i tuoi problemi e
ascoltando un po’ di sana, buona musica.

Sofia Turturici

Bibliografia

https://americanamusic.org/node/495
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22743206/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/14689332/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26417751/
http://tesi.cab.unipd.it/51115/1/porcu.elisabetta.1048659.pdf
https://www.stateofmind.it/2018/06/musicoterapia-demenze/

Neuralink, l’interfaccia uomo-macchina sempre più vicina

  • Sembra di parlare di qualcosa di futuristico o di fantascienza

Ma in realtà il 28 agosto 2020 è stata presentata la demo di Neuralink, con dati scientifici alla mano. 

Il prodotto è stato testato su 3 simpatici maialini, umoristicamente chiamati “Cypork”, i quali godono tutti e 3 di perfetta salute. 

In un maialino usato come controllo non è stato installato Neuralink, in un altro è stato installato e rimosso dopo 2 mesi, dimostrando che è possibile rimuovere il dispositivo dal cervello senza alcun danno, nel terzo maialino Neuralink è ancora in funzione, mostrando le potenzialità di cui dispone. 

Ma cos’è Neuralink?

Neuralink è un dispositivo dotato di microchip ed elettrodi, in grado di far comunicare ed interagire un cervello con un computer, ideato e finanziato dall’imprenditore Elon Musk, CEO di Tesla e Space X, che sta facendo molto parlare si sè ultimamente.

Cosa propone di trattare Elon Musk con Neuralink? 

  • Danni cerebrali, dati da ictus, incidenti ecc 
  • Danni alla spina dorsale
  • Deficit sensoriali (cecità, sordità ecc)
  • Malattie neuro degenerative parkinson
  • Perdite di memoria
  • Malattie psichiatriche come ansia e depressione

 

Dati alla mano, cosa abbiamo? 

Il Neuralink attuale è un impianto invisibile intracranico, con 1024 elettrodi (gli attuali dispositivi arrivano ad una ventina di elettrodi) talmente fini che la loro installazione non produce sanguinamento. 

È installabile in day hospital, senza bisogno di anestesia generale e in una sola ora, traguardo grande rispetto gli attuali dispositivi medici di elettrostimolazione intracranica. 

 Inoltre è stato creato un robot chirurgico ad hoc per l’installazione del dispositivo, per aiutare i chirurghi consentendo pure meno eventuali errori.  

Permette contemporaneamente di “leggere” gli Spikes (la scarica elettrica ndr) dei neuroni, e di “scrivere” ovvero mandare Spikes ai neuroni a propria volta. 

 Grazie ai software odierni è possibile modulare gli spikes affinché si attivi solamente il gruppo  di neuroni che si desidera attivare. 

Attualmente è installabile solo nella corteccia cerebrale e nel midollo, ma presto sarà installabile pure in profondità, consentendo una migliore gestione del sistema limbico. 

Nei maialini c’è la dimostrazione pratica di cosa è in grado di fare, come per esempio andare a predire gli Spikes corretti da mandare al midollo perché si esegua una camminata su tapis roulant, con differenze minime rispetto agli spikes fisiologici. 

Elon, ha dichiarato che sarà possibile installare pure più di un dispositivo nella stessa persona. 

Il dispositivo si ricarica wireless la notte, avendo una durata di una intera giornata con una carica. 

 Attualmente è stata fatta la richiesta formale alla FDA (Food and Drugs Amministration) per i test sull’uomo, necessita ancora di qualche test animale e poi verrà approvato. 

L’azienda cerca altro personale (attualmente sono in cento) per sviluppare più velocemente l’uso sull’uomo e in larga scala. 

In conclusione, che dire? 

Che siamo davvero nel terzo millennio e si vede. 

Con questo dispositivo, qualora funzionasse pure sull’uomo (le premesse sono ottime), sarà possibile riportare ad una vita normale milioni di persone con varie disabilità, dai paraplegici ai non vedenti. 

Sarà possibile comunicare, qualora lo si “acconsenta” con altre persone i nostri veri pensieri in tempo reale, con un linguaggio non più verbale ma neurale, riuscendo ad esprimere davvero agli altri le nostre idee, le nostre emozioni. 

Si potranno vivere nuove esperienze in campo di gaming, musica, films e altre attività video ludiche. 

Potremo addirittura implementare i normali sensi arrivando ad avere una “super vista” o altro ancora. 

E, ancora più importante secondo il CEO Elon Musk, potremmo competere con le AI (Artificial Intelligence) che rischiano ben presto di superarci.  

Ovviamente non dimentichiamo che uno strumento del genere aprirà nuovi ed importanti dibattiti d’Etica:

Saremo noi o sarà il computer a pensare quello che stiamo pensando?

Non si rischia forse di oltrepassare il confine di ciò che significa “essere umani”?

Fortunatamente prima di provare a dare una risposta a queste domande, dovremo aspettare qalche altro anno, ma c’è da dire che stiamo vivendo in un’era meravigliosa, le differenze tra il futuro che immaginavamo e la realtà sono sempre più sottili. 

Siamo gli stessi artefici, consapevoli, della nostra evoluzione. 

What a beautiful time to be alive  

Roberto Palazzolo

Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=sr8hzF3j2fo&feature=youtu.be&fbclid=IwAR0efnGp4slqkxVwwddrwlUe9-5Wcfh-q5WjUUtnWJd1xHVLQJMTetwJzEs  

Conferenza di Elon Musk del 28/08/2020 

 

Sintomi neurologici da covid-19: alterazioni di gusto e olfatto

 

La malattia da Coronavirus SARS-CoV-2, nota col nome Covid-19, comporta principalmente un quadro clinico caratterizzato da sintomi respiratori. L’evenienza più grave, come ben sappiamo, è rappresentata dalla polmonite interstiziale, ma questo virus ha la capacità di diffondersi anche in altri distretti. In particolare il sistema nervoso sembra poter essere interessato precocemente e le manifestazioni lievi connesse potrebbero aiutare a velocizzare il processo diagnostico. Ciò sarebbe utile a discriminare i soggetti che non svilupperanno polmonite ma sono portatori attivi dell’infezione.

Quali sono i sintomi neurologici del coronavirus?

La risposta arriva da dove ci si sta avviando ad una lenta ripresa delle attività dopo la fase critica dell’epidemia, ovvero dalla Cina. Proprio uno studio cinese, recentemente pubblicato su JAMA Neurolgy, ha portato alla luce possibili sintomi e complicanze neurologiche della Covid-19. I partecipanti allo studio sono stati 214 pazienti ospedalizzati SARS-CoV-2 positivi, sia uomini che donne, sia con infezione severa che non. Di questi, 78 pazienti (il 36,4%) mostravano una sintomatologia neurologica, più frequente in coloro con malattia grave. In base alla sede coinvolta, hanno distinto i sintomi in:
– Manifestazioni del sistema nervoso centrale: mal di testa, perdita della coscienza, accidenti cerebrovascolari acuti (coinvolti il 24,8% dei pazienti oggetto di studio, ictus nel 6%).
Manifestazioni del sistema nervoso periferico: compromissione del senso del gusto (ageusia: perdita della capacità di discriminare i sapori) e dell’olfatto (anosmia: mancanza della percezione degli odori nell’aria), ma anche problemi visivi (8,9%).
– Danni ai muscoli scheletrici, con coinvolgimento del 10,7% della popolazione studiata.
La maggior parte dei sintomi neurologici si sono mostrati precocemente, anche in assenza del classico quadro respiratorio, potendo costituire quindi un elemento utile al riconoscimento precoce ed un miglior trattamento. Comunque un grande limite di questa analisi è la bassa numerosità del campione in esame.

Quali riscontri nel vecchio continente?

Anche in Europa sono in corso delle ricerche a riguardo. Uno studio condotto su 417 pazienti ricoverati in 12 località diverse si è soffermato sulle disfunzioni di gusto ed olfatto. Il 34,5% dei soggetti studiati era nella fase acuta della malattia. Le principali comorbilità del gruppo erano rinite allergica, asma, ipertensione arteriosa ed ipotiroidismo.
Per quanto riguarda i sintomi olfattori i risultati sono stati i seguenti:
– L’85,6% della popolazione campione presentava disordini dell’olfatto, di cui la maggior parte lamentava anosmia.
– La fantosmia, ovvero la percezione di un odore per il quale nell’ambiente non è presente alcuna molecola, interessava il 12,6% dei soggetti durante il decorso clinico.
– Mentre la parosmia, cioè lo scambiare un odore per un altro, veniva lamentata dal 32,4%.
– In 247 pazienti con infezione clinicamente risolta, in cui erano scomparsi tutti i sintomi “canonici”, le disfunzioni olfattive persistevano per un tempo indeterminato nel 63% delle persone.
Riferendoci alle alterazioni del gusto, queste hanno dato manifestazioni nell’88,8% dei pazienti. Consistevano in una riduzione o distorsione della percezione di alcuni sapori, in particolare salato, dolce, amaro ed acido.
Basandoci sui risultati dello studio, i disturbi olfattivi e gustativi sono risultati essere sintomi significativi dei pazienti Covid-19 europei. Inoltre possono rappresentare, in alcuni casi, anche gli unici sintomi in assenza di complicanze e per questo necessitano di essere riconosciuti per aiutare nella limitazione della diffusione del contagio.

Trattamento anosmia
Opzioni terapeutiche adottate in questo studio europeo per i pazienti con problematiche dell’olfatto (Da https://link.springer.com/article/10.1007/s00405-020-05965-1#citeas ).

 

Come SARS-CoV arriva al sistema nervoso?

L’esame del liquor cefalorachidiano è in genere negativo, quindi il virus non attraversa la barriera emato-encefalica. Certo, sono possibili eccezioni, ma non sono state riscontrate frequentemente meningiti o encefaliti, come invece può avvenire con gli Herpes virus. Per identificare le porte di ingresso del Coronavirus al SNC le ipotesi sono due.
La prima prende in considerazione la possibilità che il virus possa risalire dai neuroni del bulbo olfattivo. Questo spiega l’elevata frequenza di anosmia riscontrata negli studi sopra citati ed è una via già utilizzata da altri virus respiratori.
Secondo l’altra ipotesi il danno neurologico non sarebbe diretto, bensì scatenato dalla tempesta di citochine sistemica dovuta all’infezione. Le nostre difese immunitarie iperattivate andrebbero fuori controllo e coinvolgerebbero altri distretti, fra cui il sistema nervoso ma anche il cuore (possibilità anche di miocarditi).

Struttura delle vie olfattive
Bulbo olfattivo ed epitelio olfattivo nel naso separati solo dalla lamina cribrosa dell’osso etmoide (Da Stanfield, Fisiologia umana)

 

Anche i neurologi possono quindi essere aggiunti alla lista degli specialisti che, insieme ad infettivologi e pneumologi (oltre ai medici di medicina generale), potranno avere contatti con pazienti covid già alla prima diagnosi od essere coinvolti durante il loro trattamento. Già si sta cercando di scrivere delle linee guida ad hoc che permetteranno di affrontare l’infezione da coronavirus dal punto di vista multidisciplinare. Così da prepararci al meglio a quella che sarà la fase 2, di cui iniziamo a vedere gli spiragli, in cui si auspica la messa in funzione dei Covid hospital. Si tratterà di centri interamente dedicati ai pazienti covid con l’obiettivo di facilitare anche la ripresa degli altri reparti ospedalieri, le cui attività ambulatoriali sono state momentaneamente sospese.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://link.springer.com/article/10.1007/s00405-020-05965-1#citeas
https://jamanetwork.com/journals/jamaneurology/fullarticle/2764549
https://www.focus.it/scienza/salute/la-covid-19-da-anche-manifestazioni-neurologiche

Quando l’infezione da COVID-19 si ‘traveste’ da ictus o da stato confusionale

Può un uomo credere di essere morto?

“Dottore, dottore, sono morto!”. Potrebbe essere la scena di un film, invece è davvero possibile che un medico senta una tale frase pronunciata da un paziente. Si tratta della Sindrome di Cotard, conosciuta anche con il nome di “sindrome dell’uomo morto”.

La sindrome di Cotard è un raro disturbo caratterizzato dalla presenza del cosiddetto “delirio di negazione”.
Il soggetto affetto non percepisce più alcun tipo di stimolo emozionale e la sua coscienza spiega questo fenomeno convincendosi di non essere più in vita o di aver perso tutti gli organi interni preposti a tale scopo.

Si evidenziò per la prima volta il 28 giugno 1880, quando Jules Cotard presenta, alla Société Médico-Psychologique, una comunicazione che lo renderà celebre dal titolo “Du délire hypocondriaque dans une forme grave de mélancolie anxieuse” dove riporta il caso di una donna di 43 anni che sostiene di non avere cervello, nervi, torace, stomaco e intestino; tutto quello che le era rimasto erano la pelle e le ossa.

La malattia era iniziata due anni e mezzo prima quando la signora aveva manifestato una grande spossatezza e ansia affermando di sentirsi come un’anima persa. Riteneva, a causa dello stato del suo corpo, di non doversi nutrire, di non potere più morire di morte naturale pensando che l’unico mezzo per porre fine ai suoi giorni fosse quello di essere bruciata viva.

Cotard affermò di avere descritto una nuova varietà clinica di melanconia ansiosa grave le cui caratteristiche sono costituite da:

  • melanconia ansiosa
  • idee di dannazione o possessione
  • tendenza al suicidio e alle automutilazioni
  • analgesia
  • delirio ipocondriaco di non-esistenza o di devastazione di alcuni organi o del corpo intero
  • delirio di immortalità

Al giorno d’oggi sono pochi i casi descritti.

Uno studio condotto presso l’ U.O. di Neurologia, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Pisa, espone la condizione di un paziente con sospetta sindrome di Cotard.

Riguarda un uomo, EC di 82 anni, senza alcuna storia familiare di disturbi psichiatrici che vive in famiglia. Operoso e partecipe a tutte le attività familiari, il paziente è stato profondamente colpito dalla morte di una sorella verificatasi sei mesi prima di giungere all’osservazione dei medici. Due mesi dopo l’evento luttuoso il paziente ha iniziato a riferire vaghe rachialgie.

Progressivamente l’anziano era divenuto inquieto, preoccupato per il persistere della sintomatologia dolorosa, iporessico ed insonne, aveva abbandonato l’abitudine di fare lunghe passeggiate e si era rifiutato di recarsi al supermercato per le compere quotidiane, rispondendo faticosamente e con parole imprecise alle domande dei familiari.

Un mese prima della valutazione medica, gradualmente, EC aveva manifestato deficit di attenzione, di memorizzazione e di esecuzione di calcoli aritmetici. Nel contempo l’uomo era divenuto ansioso, perplesso, come spaventato, perseverante su previsioni di morte. Successivamente aveva avvertito che il suo corpo era cambiato. Infine si era rifiutato di nutrirsi ritenendosi morto.

Il paziente fu mandato in ambulatorio per i disturbi cognitivi nel sospetto di una sindrome demenziale a decorso sub-acuto. L’anamnesi orientava verso un quadro Cotardiano nell’ambito di una depressione maggiore con manifestazioni psicotiche.

Il paziente fu quindi trattato con farmaci antidepressivi e il quadro clinico ha mostrato una progressiva risoluzione sintomatologica dalla seconda settimana di terapia fino a remissione totale con reintegrazione nel ruolo familiare e nel contesto sociale del soggetto dopo circa quaranta giorni di trattamento farmacologico.

Ma vi sono basi neurobiologiche per spiegare la sindrome di Cotard?

Per quel che riguarda l’aspetto psicologico/neuropsicologico, alcuni studi hanno evidenziato nei pazienti con sindrome di Cotard una disposizione psicologica individuale definibile come stile attribuzionale introiettivo.

Numerosi studiosi infatti analizzarono l’assessment neuropsicologico di pazienti con la sindrome di Cotard ed evidenziarono che il profilo neuropsicologico, attraverso il test di riconoscimento di facce, non mostrava deficit a carico di funzioni cognitive quali le capacità di ragionamento, la memoria visuospaziale per i luoghi, la memoria di riconoscimento verbale, ma i deficit riguardavano il riconoscimento delle facce e le stime cognitive (funzioni esecutive).   

La perdita del significato emotivo di ogni esperienza sensoriale, determinerebbe il delirio di negazione, ovvero “Io sono morto”, quale unica spiegazione per la totale mancanza di emozioni. In particolare le anomalie percettive, soprattutto per i volti, causate dal deficit neurologico di elaborazione emotiva del riconoscimento visivo interagiscono con lo stile attribuzionale interno determinando un vissuto depressivo importante che, a sua volta, è alla base del delirio di negazione.

Anche la diagnostica per immagini ha contribuito nell’approfondire le conoscenze su tale patologia, soprattutto TC e RMN, così come la medicina nucleare: in alcuni pazienti attraverso la SPECT si evidenziò una riduzione di flusso cerebrale.

Solitamente, la sindrome di Cotard viene trattata con medicinali antidepressivi e antipsicotici, associati a delle sedute di psicoterapia. In questo percorso si tende, generalmente, a coinvolgere i familiari, in quanto il paziente potrebbe non riconoscere il proprio stato in piena autonomia.

Nonostante la sindrome di Cotard non sia riportata nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali), e nonostante sia associata ad altre patologie neuropsichiatriche, verosimilmente rappresenta una sindrome ben definita e ciò dovrebbe stimolare i ricercatori a studiarne ulteriormente i meccanismi fisiopatologici. 

Carlo Reina

Pareidolia: ecco perché vediamo volti ed oggetti nelle nuvole

Vi sarà già capitato che, osservando il cielo, vi siate imbattuti in figure che vi ricordano oggetti, animali o addirittura dei volti. Questo fenomeno prende il nome di pareidolia (dal greco para, “vicino”, ed èidōlon, “immagine”), ovvero la tendenza ad interpretare uno stimolo vago come qualcosa di già noto a chi osserva.

Gli esempi sono molteplici: dai volti su formazioni rocciose a messaggi estrapolati da brani musicali ascoltati lentamente o al contrario (pareidolia acustica), fino a figure rilevate da immagini della superficie della Luna o di Marte:

Qualsiasi coppia di oggetti può potenzialmente assumere una disposizione tale da “ingannare” il nostro cervello, risultandoci a prima vista parte di un volto o un’immagine alternativa più familiare. Uno studio del 2009, infatti, utilizzando una metodica chiamata magnetoencefalografia, che permette di quantificare l’attività cerebrale mediante la misurazione dei campi magnetici, conferma come il cervello risulti effettivamente “ingannato”. Mostrando a un gruppo di soggetti delle immagini vagamente simili a delle facce reali, si è notata l’attivazione delle stesse aree cerebrali deputate al riconoscimento dei volti (e probabilmente anche di altri oggetti), a livello del lobo temporale, nell’area fusiforme facciale.

Questa tipologia di immagini “ambigue” ma dotate di un significato sembrerebbero lasciare una traccia duratura nel nostro cervello. Come dimostrato in uno studio pubblicato nel 2013, in seguito a ripetuti stimoli, il cervello interpreterebbe le immagini dandogli un significato e le archivierebbe mostrando quindi una forma di apprendimento, similmente a quanto avviene per immagini reali.

Il fenomeno sembrerebbe quindi fondamentale nell’apprendimento del significato di specifiche immagini, così da rendere possibile ad alcune persone di essere più veloci e abili di altre in specifici compiti. Basti pensare che i giocatori di scacchi professionisti attivano l’area in questione per riconoscere alcune situazioni di gioco ed essere più rapidi nell’elaborare una strategia; analogamente anche i radiologi esperti, al contrario degli studenti, nell’analizzare le immagini fanno uso delle potenzialità di questa regione del cervello.

Tutto ciò avrebbe anche un collegamento con una patologia del neurosviluppo, ovvero l’autismo. Infatti, nei soggetti affetti da questa condizione, è stata rilevata un’attivazione più debole dell’area in maniera proporzionale alla gravità della malattia stessa. Inoltre un danno a quest’area comporta l’assoluta incapacità nel riconoscere i volti. Questa condizione è chiamata prosopagnosia.

Anche se, durante la colazione, vedere che il caffè sorride ci possa sembrare una cosa divertente, è interessante pensare come dietro a questo fenomeno siano coinvolti dei meccanismi che stanno alla base delle nostre capacità di apprendimento e di relazione. La tendenza di vedere volti e in generale di dare un significato alle immagini, nasce dalla necessità di analizzare lo spazio intorno a noi e di identificare rapidamente la presenza di altri soggetti, di animali o di oggetti potenzialmente utili.

La pareidolia è quindi la dimostrazione pratica delle capacità di elaborazione e schematizzazione del nostro cervello che, seppur con finalità diverse, ci offre tutte le sue potenzialità sia in una situazione di pericolo sia nel caso in cui stessimo giocando una partita a scacchi, o anche quando osserviamo il cielo.

Antonino Micari