After Life, il ritratto comico del dolore e della solitudine

Il dolore e la solitudine sono i claim emotivi di After Life, lo show Netflix magistralmente scritto, diretto e interpretato da Ricky Gervais.

Tony Johnson è un giornalista, che più cinico non si può, del Tambury Gazette un piccolo quotidiano di provincia.

Dopo la morte della moglie Lisa (interpretata da Kerry Godliman), Tony scivola nel baratro di una profonda depressione, e gravita in un triste vuoto esistenziale, tentando invano di metabolizzare il distacco traumatico dalla compagna di vita.

Fonte: www.upcomingseries.it

Il tentato suicidio, sventato con tenerezza dal cane Brandy, è il punto più basso ed il turning point della serie.

Tony trasla la malinconia in una adrenalinica fame di vita e di riscatto da questa: le conseguenze non contano.
Dodici episodi che rappresentano uno slancio verso la vita, e che ci consentono di osservare l’alterità con sarcasmo da una prospettiva completamente inedita.

Un uomo che cerca di reagire come può a un dolore che sembra insuperabile.

Guardare i video della moglie lo fa ancora soffrire tantissimo, ma quasi senza accorgersene, Tony si apre sempre di più al mondo.

Prova a stare dietro al cognato Matt sull’orlo di una crisi di nervi, si occupa del padre Ray (David Bradley) affetto da demenza e assistito in una casa di cura.

Sempre più sensibile ai sentimenti degli altri, inizia ad elaborare il lutto spostando il focus egoistico dal proprio dolore a quello altrui.

Fonte: www.bestshows.com

«Non si tratta solo di noi, ma anche delle altre persone, alla fine, no?» diceva, a ragione, il personaggio di Penelope Wilton nella prima stagione.

Ricky Gervais è tenero e vero nell’incarnare Tony che riscopre l’importanza del contatto umano e trova un nuovo equilibrio nella bilancia della propria vita.

After Life custodisce la propria potenza narrativa nel racconto intimo, sebbene apparentemente comune, della perdita di una persona cara.

Fonte: www.netflixshow.com

Non ci si può abbandonare all’oblio dell’eccesso, non ci si può discostare dalla realtà sebbene triste e troppo vera.

Quando chi ami di più se ne va, il mondo ti cade addosso. Eppure, allo stesso tempo il mondo va avanti e Gervais lo racconta con una semplicità brutale.

Tony imparerà, a fatica, le  piccole grandi sfide quotidiane, che sono il carburante che ci permette di andare avanti nella vita, anche quando pensiamo non abbia più valore.

La linearità narrativa della serie permette di cogliere quel dolore che sembra abbia strappato via un pezzo di noi, ma del quale il mondo che ci circonda non sa nulla.

Fonte: www.tvzipmedia.com

Ricky Gervais è riuscito a dare nuova linfa ad un prodotto che sembrava concluso, senza snaturarlo. La seconda stagione approfondisce il finale della prima e completa la chiusura circolare del percorso di Tony, attraverso dialoghi originali e brillanti, interpretazioni snelle e credibili, ed una trama scorrevole e coerente.

Il pungente black humour di Gervais smaschera le ipocrisie e le falsità dell’essere umano.

Il ritratto del lutto di Tony è di una forza emotiva straordinaria, alcuni monologhi sono strazianti, spaccati introspettivi di una persona che ha perso il centro di gravità della sua vita.

Se volete piangere dalle risate, e subito dopo fare lo stesso per la tristezza e lo sconforto, After Life fa per voi.

Antonio Mulone

 

 

Self-Made: il coraggio di credere in sè stessi

La vita di successo di alcune personalità è stata spunto d’ispirazione per libri, film e serie prodotti negli anni.
Le capacità emotiva di superare gli ostacoli, non abbattersi, sapersi rialzare dai cazzotti che la vita tira hanno sempre connotato con fascino narrazioni, che probabilmente non l’avrebbero avuto.

Self made: la vita di Madam C.J Walker, che è chiara fin dal titolo (fatta da sé), ci porta a ripercorrere le tappe fondamentali della carriera e della vita di Sarah Breedlove (interpretata da Octavia Spencer).

La storia di un’imprenditrice, filantropa e attivista statunitense considerata la prima donna americana (di colore) diventata milionaria.

Fonte: www.greenme.com

La forza di credere in sé stessi, il coraggio di investire nelle proprie idee, partire da zero e costruire un  impero solido: questa è la storia di Sarah Breedlove, e della sua evoluzione, umana ancor prima che imprenditoriale in Madam C.J Walker.

Lo show originale targato Netflix, che trae riferimenti letterari dalla biografia On Her Own Ground di A’Leila Bundles, racconta la trasformazione di un sogno in realtà e una vita, vissuta con tenacia, spirito e passione, che offre allo spettatore uno spettro ampissimo di spunti di riflessione e di coinvolgimento emotivo.

Sarah, incarnata con mirabile efficacia da Octavia Spencer, è un’afroamericana che lavora come lavandaia per sopravvivere ad una vita che la relega ad una prigione di sofferenze immense, dalle quali pare non possa esserci via d’uscita.

Fonte: www.movietime.com

Emotivamente toccante è la perdita dei capelli di Sarah, momento che più di ogni altro nella serie trasporta il drammatico dolore di vivere della protagonista nel cuore di chi la guarda.

La svolta, quasi inaspettata, arriva dall’incontro rivelatore con Addie Munroe ( Carmen Ejogo), che le offre i suoi prodotti per capelli in cambio dei suoi servizi come lavandaia.

Madam C.J, con commovente temerarietà d’animo, comprende che quella vita la sta soffocando, come una scintilla privata dell’ossigeno per poter bruciare.

Dopo essersi sposata con Charles James Walker (Blair Underwood), che le darà parte del nome, espande la propria attività manifatturiera, costituisce la Madam C.J. Walker Manufacturing Co.

Le sofferenze, le sconfitte, ed il coraggio di mettersi in gioco saranno benzina emotiva per quella fiamma alla quale era stata, da sempre, preclusa la possibilità d’accendersi.

Presto Madam Walker diviene una figura rilevante nella comunità afroamericana, un esempio concreto di emancipazione tutta al femminile, in un periodo nel quale essere di colore era un ostacolo in più.

Fonte: www.hallseries.com

Sarebbe stato affascinante avere una prospettiva di indagine sulla persona, oltre che sulla donna d’affari.

La miniserie (contenuto al quale Netflix riserva sempre più investimenti) dedica alla parte più dura e probabilmente più rilevante della vita di Sarah soltanto una parte del primo capitolo.

Uno spettro di visione forse limitato che, invece di analizzare le profondità della anima di Madam C.J, si accontenta di mostrarci la scalata inarrestabile al successo. Un’emozione, forse un po’ strozzata, che non ha tempo di venir fuori nella successione di eventi che lasciano poco spazio alla scoperta intima dei personaggi.

La regia e la fotografia si attestano su un  buon livello tecnico, con alcune scelte inedite per un prodotto seriale (lunghe sequenza di ripresa).

Altrettanto originale la presenza di alcuni brani hip hop che scuotono ritmicamente lo svolgimento della narrazione.

Il vero plus della serie esprime la propria potenzialità mediante il trasporto emotivo suggestionato dalle interpretazioni delle attrici protagoniste.

Se siete in cerca di un contenuto alternativo e di qualità, Self-Made fa assolutamente per voi.

Antonio Mulone

Unorthodox: il fascino della vulnerabilità

La serie Netflix Unorthodox svela allo spettatore gli aspetti più intimi e privati della fede chassidica, ci racconta da un prospettiva inedita la vita quotidiana e le usanze di una cultura ancora oggi sconosciuta.

Seguendo Esty (interpretata dalla bravissima ed intensa Shira Haas) e la sua famiglia nelle loro giornate, scopriamo, infatti, tutte le dinamiche di un’educazione ancora legata ad un patriarcato radicato, nel quale il corpo della donna diviene recipiente procreativo.  Se non sei madre, nella comunità, non sei nulla.

Fonte: www.newseries.com

Ma, accanto alle usanze e alle cerimonie più tradizionali, Unorthodox ci racconta anche il desiderio di affermarsi e di seguire la propria strada. Il coraggio di chi vuole essere l’unico artefice del proprio futuro, a discapito di ogni cosa.

Nel quartiere di Williamsburg (NY) vive una folta comunità di ebrei ultra-ortodossi discendenti delle vittime polacche e ungheresi dell’Olocausto, della quale la miniserie sviscera le realtà del quotidiano e le ipocrisie.

Un tipo di fede profondamente ancorato a tradizioni arcaiche, che entra, inevitabilmente, in contrasto con le realtà culturali contemporanee.

Nella fede chassidica le donne ricoprono un ruolo gravemente subalterno rispetto agli uomini, non hanno il diritto di poter leggere la Torah o ricevere una educazione completa.

Il loro unico mantra è sposarsi e generare figli. Quando questo, per normalissime cause, si complica, si scoprono le fragilità di una realtà incapace di confrontarsi con la vulnerabilità delle cose.

Fonte: www.ciakclub.com

Esty, sposatasi da poco e convinta per questo di aver toccato con mano la bramata felicità, non riesce a rimanere incinta.

Avvilita da questa difficoltà, soffre anche per il frustante paragone con la madre, donna forte e carismatica.

Nonostante le difficoltà che è costretta ad affrontare, Esty dimostra la propria ribelle tenacia: decide di iniziare una nuova vita a Berlino, scrollandosi di dosso lontano le rigide gerarchie nelle quali, senza scelta, è cresciuta.

Un viaggio, un cambiamento che le farà riscoprire sé stessa; solo adesso infatti Esty prende coscienza dei suoi sogni e dei suoi istinti.

Berlino, accogliente e moderna, diventa  una meravigliosa metafora del superamento delle regole e dei pregiudizi imposti dal suo vecchio mondo.

Fonte: www.passionecinema.it

Una nuova realtà, lontana dal matrimonio e dalla vita di privazioni che ha condotto fino ad allora; un nuovo amore, quello per la musica e per il canto, che diventerà il motore della sua vita.

Un’ulteriore metafora, nella quale la protagonista riesce a far sentire al mondo la sua voce  come donna, prima che come cantante.

Questa è l’ultima ribellione di Esty, la liberazione definitiva dalla vecchia sé. Può finalmente intraprendere la nuova vita senza, però, dimenticare da dove proviene; una storia unica eppure simile a quella di tante altre donne (ma anche uomini) che hanno deciso di lasciarsi alle spalle una vita asfissiante.

Lo show targato Netflix mette in luce il rapporto complesso che intercorre tra la propria educazione, chi siamo e chi siamo destinati ad essere.

Un grido all’indipendenza e al coraggio, al fascino della vulnerabilità.

Antonio Mulone

The Last Dance: quando epica e sport si uniscono

L’epica? La narrazione poetica di gesta eroiche, spesso leggendarie.

Così, dall’altra parte dell’Atlantico, non essendoci riferimenti nella tradizione millenaria dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, gli eroi dalle gesta fiabesche sono quelli dello sport.

C’è chi corre forte, chi tira pugni e chi è capace di volare.

“MJ”, “His Airness”, “Air Jordan”. O, più semplicemente, Sua Maestà Michael Jordan.

Nel vortice contemporaneo trafficatissimo dei contenuti seriali arriva l‘opera omnia sul “più grande atleta nord-americano del XX secolo”, cosi come l’ha definito ESPN.

Fonte: skysport.it

Lo show, che si sviluppa in 10 puntate, accende i riflettori soprattutto sull’emblematica stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls (ribattezzata poeticamente da Phil Jackson l’ultimo ballo) della quale Jordan fu simbolo assoluto, timoniere e profeta.

Quella stagione, per l’NBA, per la franchigia e per lo stesso MJ fu il compimento della più grande impresa sportiva, degna delle vette shakespeariane.

Fondamentale il concetto (assolutamente non scontato) “non solo Jordan”: ci sono il coach (luminare, geniale, avanguardistico) Phil Jakcson, ed i compagni di viaggio Scottie Pippen (ed un rapporto di odi et amo), Dennis Rodman (un folle squinternato del quale grazie alla serie capiremo di più), Ron Harper; del resto la storia non si scrive da soli.

Fonte: nba.it

I Bulls dell’era pre-Jordan erano tutto fuorchè l’emblema della vittoria: il Chicago Stadium (decrepito) era spesso deserto e la stagione 83-84 fece segnare il record negativo di 55 sconfitte.

Presto “palla a Jordan” sarebbe divenuta una delle formule più vincenti e decisive della storia.

Il seme della gloria immortale era stato piantato.

Nel giro di poche partite l’universo intero si accorse che una divinità senza ali (ma in grado di volare e restare in aria) era scesa in terra, divenendo simbolo e ispirazione di valori che travalicano i confini del basket e dello sport, come solo Muhammad Ali aveva fatto prima di lui.

La magia di The Last Dance è la narrazione umile, vera, cruda e senza filtri del contesto umano ed emozionale di Jordan.

Fonte: passionebasket.eu

Il montaggio, le riprese e l’impostazione della docu-serie sono assolutamente degne di un kolossal holliwoodiano.

L’ultima danza (sportiva) dei Bulls, culmina con l’indimenticabile tiro di Gara 6 contro gli Utah Jazz, che diede al Novecento un nuovo senso. Immaginate il globo fermarsi e trattenere il respiro, attendere l’infinità dei secondi che separano il volo (l’ultimo) di HisAirness, dalla storia.

Elettricità emotiva allo stato puro, tra il parquet e il cielo dove le fisica diventa solo un’opinione.

“Be like Mike, be like Mike. Again I try, just need to fly”.

La prospettiva interna delle grandi squadre è da sempre trasgressione inarrivabile dei fan più accaniti.

Nel 1997 ESPN ricevette dalla franchigia di Windy City il permesso di fare qualcosa di inedito nello sport professionistico.

“The Last Dance” trascina virtualmente lo spettatore nello spogliatoio dei Chicago Bulls, ma anche nei loro allenamenti in palestra, nei contrasti accesi e nelle discussioni.

Fonte: mjbulls.com

Come ogni docu-serie che si rispetti, anche “The Last Dance” alterna sapientemente i piani temporali.

Non ci sono infatti solo immagini dell’epoca, ma anche interviste attuali ai protagonisti di allora, nell’ottica di una rilettura di quello che accadde negli anni 90′.

In tal modo si incrociano una serie di prospettive narrative diverse; ciò che è effettivamente successo sul campo è solo l’ultima dimensione. Senza lo sviluppo dello show si rischierebbe di tralasciare le dinamiche e gli equilibri complessi che hanno governato i successi sportivi dei Bulls.

Se non vi fossero bastate le suddette ragioni per guadare “The Last Dance”, eccovene un’altra: Michael Jordan ha annunciato che devolverà in beneficenza l’intero guadagno che gli proverrà da questa serie.

L’attesa è finalmente terminata.
Epica, sport, fascinazione, storia ed un pizzico di adrenalina. Tutto a portata di telecomando.

Antonio Mulone

Docuserie Netflix, l’ibrido che funziona

Quando la narrazione incontra lo stile, il ritmo avvincente ed il linguaggio tipici dei contenuti seriali, avviene la magia: le docuserie.

Genere, che per anni è stato (ingiustamente) snobbato dalle piattaforme di streaming e dai grandi network, negli ultimi tempi ha fatto registrare (non con poca sorpresa) un exploit – in termini di views, di investimenti, ed di attenzione – che ha portato in auge il fenomeno “docuserie originali Netflix”.

Titoli, proposte ed idee originali, che hanno conquistato anche gli spettatori più reticenti e indisposti, si sono ritagliati uno spazio rilevante nel catalogo internazionale di Netflix.

Proprio per queste ragioni il colosso dello streaming made in Usa, ha deciso di investire sempre di più in questi prodotti, aprendo l’orizzonte persino a collaborazioni inedite con la rivista scientifica Vox ed il celebre NewYork Times.

Si sa, gli ibridi, che hanno sempre avuto l’incompiutezza come colpa piuttosto che come caratteristica, nono convincono mai a pieno.

L’idea (ardita) di mescolare il documentario e la serialità è un azzardo: due dimensioni antitetiche – apparentemente – non avrebbero dovuto trovare un equilibrio sul piano della novità e del coinvolgimento.

Il progetto delle docuserie, costato a Netflix diversi milioni di dollari, si è dimostrato tutto fuorché utopico.

Netflix, come sempre ha dimostrato comprensione e lungimiranza prima di qualsiasi altro competitor.

Eccovi una lista di sette titoli che vi orienterà nell’infinito catalogo di Netflix.
Mettetevi comodi, ce n’è davvero per tutti i gusti.

1) Making a Murderer

Fonte: Netflixseries.com

Firmata e scritta da Laura Ricciardi e Moira Demos, ed insignita di quattro Emmy, Making a Murderer racconta le controverse vicende giudiziarie del 57enne americano Steven Avery.
La sua è una storia a limite della fantascienza, così assurda e paradossale da trascinare lo spettatore in vortice tra dubbi e mezze verità che lo terranno incollato allo schermo.

Dopo 18 anni di carcere per un’ingiusta accusa di stupro, Avery viene nuovamente sbattuto dietro le sbarre con l’accusa di aver freddato una giovane donna i cui resti erano stati recuperati proprio nel suo giardino.
La prima stagione della docuserie parte da qui e segue con occhio attento le disavventure che hanno portato l’americano all’ergastolo.

L’avvocatessa Kathleen Zellner, protagonista indiscussa della seconda stagione, tenterà di dimostrare l’innocenza di Avery, vittima di un gioco fatto di inganni e sotterfugi mirati a incastrarlo.
Una maestosa docuserie giornalistica fatta per chi ama la suspense.

2) In poche parole

Fonte: Skycinema.it

Abitiamo una contemporaneità che corre veloce e che, spesso, fagocita chi non regge il passo di questo ritmo così frenetico.

Questo prodotto originale Netflix realizzato in collaborazione con la testata scientifica Vox, propone risposte e chiarimenti su una selezione di argomenti che più disparati non si può.

Ogni episodio, infatti, è dedicato a un tema specifico: dall’economia alla fisica, dalla musica alla matematica.

Una voce narrante femminile chiara e lineare, supportata da un’impostazione grafica accattivante e da un archivio di immagini e filmati straordinariamente ricco: una sorta di enciclopedia 4.0 che arricchisce il nostro bagaglio personale.
Se siete curiosi e rompiscatole (un po’ come me) è perfetta per voi.

3) Diagnosis

Fonte: Ciakclub.it

Sette affascinanti episodi, basati sulla storica rubrica che la dottoressa Lisa Sanders tiene da anni sul più celebre quotidiano d’America, ci portano in un viaggio scientifico tra malattie misteriose e storie irrimediabilmente strappate alla vita.

Non si tratta di infotainment, le vicende sono reali, ma mai trattate con un occhio morboso, con le lacrime e la frustrazione (che sarebbero legittime) di chi non riesce a comprendere cos’abbia di male il proprio corpo.

I medici, protagonisti della scena come meriterebbe, mostrano quanto il lavoro di team e la determinazione possano, spesso, restituire speranza e luce a chi è stato costretto ad abituarsi al buio.

Tra i casi presi in esame, c’è anche quello di una giovane infermiera americana affetta da gravi crisi muscolari: un rompicapo medico brillantemente risolto da una laureanda dell’Università di Torino, la 26enne Marta Busso.

Se avete amato Dr. House e le sue stravaganti diagnosi, adorerete questa docuserie nata dalla partnership tra Netflix e il New York Times.

4) La nostra storia

Fonte: Perugiaonline.it

Nel caso in cui Morgan Freeman non fosse già un’ottima ragione per guardare La nostra storia, eccovene qualche altra.

In un’era in cui le differenze vengono demonizzate,le culture diverse dalla nostra ghettizzate, il viaggio dell’attore americano in giro per il mondo dimostra quanto la diversità (presunta) non sia altro che una leggenda metropolitana, sconfessata dalle abitudini incredibilmente comuni dei popoli che si pongono le stesse domande e che si lasciano guidare dalle stesse forze.
Dinamiche emotive essenziali come la fede, l’amore, la ribellione, la libertà e la sete di potere abbattono muri e barriere, accomunando tutti gli uomini.

La forza narrativa de “La nostra storia” sta nella sua semplicità, che convince lo spettatore ad analizzare la realtà da prospettive inedite, ad accantonare i pregiudizi e rimettersi in discussione.

5) Conversazioni con un killer: Il caso Ted Bundy

Fonte: Crimecinema.com

L’intuizione di un giornalista, una conversazione, un libro ed infine una docuserie Netflix.

È da questi presupposti concettuali che nasce Conversazioni con un killer: Il caso Ted Bundy.

Un prodotto che inizia già col piede giusto: il primo episodio, infatti, si apre con la voce di Stephen G. Michaud, il reporter che, nel 1977, inaugurò un lungo ciclo di interviste a Ted Bundy, il serial killer per eccellenza, accusato di aver commesso più di trenta omicidi tra il 1974 e il 1978.

Una parabola inquietante, rievocata anche dalla voce dello stesso protagonista che, spesso, sembra parlare delle proprie imprese con una tranquillità e un’ironia in grado di far accapponare la pelle.

I nastri originali delle conversazioni, fotogrammi di repertorio e gli interventi del braccio destro di Michaud, Hugh Aynesworth, regalano rigore ed attendibilità allo show.
Potrebbe urtare la vostra sensibilità.

6) Seven Days Out

Fonte: Movietime.com

Le lancette si muovono, le ore (impietose) passano e non c’è tempo da perdere.
Questo il mantra di 7 Days Out, la docuserie che ci porta a scoprire cosa accade nei sette giorni che precedono sette grandi eventi live del mondo della moda, del food, dello spazio e dello sport.

Ad aprire la docuserie Netflix, lo show primavera-estate 2018 della maison Chanel e dell’iconico Karl Lagerfeld, purtroppo defunto. La serie ci porta nel backstage, dalla preparazione dell’imponente collezione fino alla sfilata al Grand Palais, trasformato per l’occasione in un meraviglioso giardino botanico.
Quel che incuriosisce di più di questo format è, sicuramente, avere l’opportunità di vedere da vicino, dotando lo spettatore di una lente d’ingrandimento, la macchina organizzativa che porta allo sviluppo del prodotto finito.

Lo show enfatizza l’estro di chi è sempre un passo avanti, di chi non ha paura di alzare la posta in gioco e superare il limite.

7) Chef’s Table

Fonte: Newseries,com

Nata nel 2015 ed ancora in produzione, Chef’s Table porta una ventata d’aria fresca nell’infinito palinsesto di programmi dedicati alla cucina.
Rimodulando tutte le caratteristiche del racconto sul cibo, la docuserie interseca l’intervista principale allo chef protagonista dell’episodio con una serie di interventi di critici culinari di fama internazionale.

Una duplice prospettiva, che pone quasi una dimensione competitiva, alla quale si integrano le immagini dei piatti e degli ingredienti necessari per assemblarli.

Quello che ha reso il format di successo è stata la scelta di guardare allo chef come persona e non come personaggio.

Il risultato è un racconto emotivo delicatissimo, arricchito da paesaggi mozzafiato e piatti da mangiare, anche se soltanto con gli occhi.

Antonio Mulone

Binge Watching: perché la maratona non ti fa bene

Non appena abbiamo un momento libero o bisogno di evadere dalla realtà, cerchiamo rifugio nel nostro amato Black Mirror: e no, non è solo un riferimento alla nota serie tv, ma allo schermo nero dei nostri dispositivi.

Le nostre case ormai ne sono piene, ed è come se non avessimo più altro modo di passare il tempo. Però questa moda potrebbe diventare una necessità e addirittura una possibile patologia.

Consideriamo la questione dello streaming e delle serie tv come un fenomeno che sta dilagando e che potrebbe renderci tutti Binge Watchers: come dei maratoneti… ma che corrono tra una puntata e l’altra.

Fonte : macine24 – netflix invents

Premettendo che in molti si sono spesi sull’argomento, cerchiamo di capire cosa succede quando guardiamo la tv e soprattutto come evolve questa potenza mediatica, tanto da renderci così addicted al prodotto.

Rapporto produttore – consumatore

Dalla loro parte, le piattaforme di streaming ci propongono:

Prossimo episodio *barra che si carica in 3,2,1*… la comodità, la mancata interruzione di pubblicità e l’alta definizione.

D’altro lato, i contenuti proposti hanno un qualcosa che ci incanta :

  • l’effetto cliffhanger: la puntata che finisce sul più bello e, soprattutto, quest’ultima è come se fosse la parte di un film che dura 10 ore (e che non si può non completare);
  • il feuilleton: un vero e proprio romanzo a puntate che funzionando come una macchina gratificatoria, provoca tensione e poi la scioglie, per poi riprovocarla e così via.

Così facendo riescono ad attivare i meccanismi della gratificazione e in particolare la via mesolimbica.

Fonte: la menteemeravigliosa – sistema limbico

Questa interessa il nucleo accumbens che, collocato nei meandri del nostro cervello, regola il meccanismo della ricompensa, rilasciando dopamina: il famoso neurotrasmettitore del piacere.

Questi circuiti, che sono implicati nei meccanismi delle dipendenze, potrebbero giustificare (in casi di iper-attivazione) il perché qualcuno potrebbe definire il Binge Watching una patologia, quasi come il gioco d’azzardo.

Sicuramente c’è una condizione scientifica alla base.

Fasi in crescendo: dall’ intrattenimento alla patologia

Sulla  rivista Scientific American Mind, già nel 2004 viene descritto quando e come comincia ad esserci un’ evoluzione in qualcosa di più grave: “quando al piacere di guardare un telefilm si sostituisce l’urgenza di doverlo fare e la difficoltà nell’interrompere l’attività“.

Fonte: adirai – bingewatching

Ma c’è chi ha approfondito la situazione e molto recentemente tre scienziati dell’ Università di Austin: Sung, Kang e Lee hanno detto la loro.

Alla 65ma Conferenza annuale dell’associazione internazionale delle comunicazioni è stato dimostrato un possibile link tra Binge Watching e depressione.

Fonte: humanmachinecommunication – logo

Il loro studio è stato condotto su un campione di persone tra i 18 e i 29 anni, somministrando un semplice questionario:

  • quante volte guardi la tv ?
  • come ti senti dopo?

Il risultato è sconcertante: ci si sente più soli e tristi per la fine di qualcosa, ma addirittura sembra esserci una vera e propria propensione a chiudersi a casa e ad essere depressi.

Non tutti i soggetti reclutati sono stati definiti dei “Binge Watchers highgrade“,  ma è stato definito un vero e proprio atteggiamento, una sorta di propensione a diventarlo.

Quelli che lo studio delinea come “a rischio” sono  dei soggetti che hanno la necessità di utilizzare le maratone televisive per tamponare le emozioni negative o al contrario per riempire momenti in cui non se ne provano.

Fonte: phillymag – crankase

“ Quando la dipendenza dalle serie tv diventa patologica, i soggetti possono iniziare a trascurare il proprio lavoro e le proprie relazioni con gli altri”, commenta il dottor Sung  e sottolinea la possibilità di un interessamento sistemico “le nostre scoperte mostrano che la pratica non dovrebbe essere sottovalutata. Al binge watching sono legati problemi come l’affaticamento, l’obesità e disturbi cardiaci, per cui ci sono buone ragioni per tenere alto il livello di guardia.”

Carenza = Sofferenza

Quindi divorare serie tv potrebbe spiegare anche delle vere e proprie sindromi di astinenza: ansia, tensione e una chiara difficoltà a tornare alla realtà.

La “sindrome dell’orfano” ne è un esempio. Descritta da Emily Moyer-Gusé della Ohio State University , indica come ci si sente alla fine di una serie tv: dopo che ci ha confortato e ci è stata vicino ci abbandona e lascia come una sensazione di tradimento, ansia e angoscia.

Fonte: encrypted

E se questo potrebbe farci sorridere, dobbiamo pensare a dei possibili soggetti predisposti. Per cui chi si sente solo o chi addirittura è incline (scientificamente constatato a tutti i tipi di dipendenze), potrebbe vivere una vera e propria condizione di esasperazione.

Da qui deriverà il problema che chi non ha autocontrollo potrebbe crollare sotto questo peso e sfociare nella patologia. Anche stavolta, il troppo stroppia.

Sicuramente tutti stiamo facendo un esame di coscienza: quante ore ho passato davanti alla tv? In quanto tempo ho finito Breaking Bad?

Dato che Netflix stesso ha twittato: Sadisfyng: the feeling of equally sad and satisfying when you finish a show you binge watched”, dobbiamo chiederci: come ci sentiamo dopo aver fatto questa maratona ? Vale la pena guardare un’altra puntata?

Sicuramente si, ma magari sarebbe l’ideale farlo in compagnia e renderlo un momento di condivisione. A questo ha pensato la grande N stilando un contratto di co-watching (imponendo ai due intestatari delle regole ben precise: non addormentarsi, non prendere il cellulare ecc.) e creando Netflix Party, così da istituire un vero e proprio cineforum virtuale e provare a rendere tutti partecipi di un’attività che, come abbiamo visto, spinge alla solitudine.

Barbara Granata

 

Bibliografia:

Yoon Hi Sung, Eun Yeon Kang, Wei-Na Lee – Why Do We Indulge? Exploring Motivations for Binge Watching

https://www.google.it/amp/s/www.illibraio.it/sadisfyng-netflix-1000560/amp/

https://www.google.it/amp/s/www.wired.it/amp/64199/lifestyle/salute/2015/02/02/binge-watching-depressione/

 

Il Buco, la metafora dell’ingordigia e del consumismo

“La panna cotta è il messaggio”

Una delle citazioni che meglio comunicano il senso narrativo de Il Buco, uno tra gli ultimissimi contenuti originali prodotti e promossi dal colosso Netflix.

Film horror di matrice spagnola (esordio alla regia di Galder Gaztelu-Urritia) che ha stuzzicato la sensibilità anche dei meno appassionati del genere.

Questa pellicola noir, pregna di sfumature drammatiche e connotata da una forte denuncia sociale, trova tempo e spazio (con originalità) nella narrazione per parlare di cibo.

Il cibo diventa simbolo dell’opulenza e delle contraddizioni della contemporaneità, della lotta per la dignità e per la sopravvivenza.

Il Buco si dispiega nella logica di un futuro distopico, nel quale gli esseri umani vengono rinchiusi in una prigione speciale.

Strutturata come una torre altissima e costruita sotto terra, la fossa – com’è chiamata dai detenuti – accoglie un numero indefinito di prigionieri.

Fonte: Skycinema.it

Ogni piano ha una cella in cui vivono due detenuti, nella parte centrale c’è un buco all’interno del quale ogni giorno una sola volta rotea una piattaforma imbandita da delizie culinarie preparate da chef di alta cucina.
Dal primo piano della torre la piattaforma rotante, un piano alla volta, e si ferma solo 120 secondi.
La piattaforma rotante diviene espediente narrativo che svela un meccanismo semplice: i detenuti dei piani alti hanno la possibilità di sfamarsi, chi si trova ai livelli inferiori finirà invece con l’avere da mangiare solamente gli scarti.

Il nuovo film spagnolo esplica ancora di più la sua potenza emotiva in questi momenti fatti di incertezza e paura.

Il cibo viene rappresentato come dicotomia tra paradiso e inferno: una bidimensionalità che separa l’impeccabile cucina, ed i detenuti sudici che si avventano come avvoltoi sul cibo strappandolo, divorandolo con ferocia animalesca.

Fonte: Cinematography.it

Tutte le pietanze succulente sulla piattaforma corrispondono alle scelte fatte dai detenuti nel momento di compilazione del questionario sottopostogli prima di accedere alla prigione.

Questo horror, mediante la sua simbologia originale rimanda molto alla nostra collettività e alla divisione in classi sociali.

Valori fondanti quali unione, solidarietà, compassione e carità risultano sempre più arenati verso l’individualismo più sfrenato.

Ne Il Buco il binomio grottesco cibo/sopravvivenza viene estremizzato.

Fonte: Movieplayer.it

Goreng, il protagonista, è costretto a cibarsi del suo compagno di cella per sopravvivere; il cibo come metafora del “mangiare noi stessi”, dell’impoverimento dei valori della moderna società verticale.

Persino il suicidio, nello specifico di una donna morta affinché venisse compiuta la rivoluzione, si intreccia con inedita originalità al concetto di cibo come sacrificio, ribellione e condivisione di valori.

Il Buco rivela, esasperandole, le dinamiche della società neocapitalista nella quale l’equità è un’utopia che si configura nel fururo distopico in cui domina la pochezza umana. Temi centrali sono  appunto l’incoscienza umana, l’egoismo e l’indifferenza nei confronti del più debole.

Questa pellicola può essere vista con leggerezza ed al contempo riflessione, entrambe sotto la propulsione registica incalzante e ritmata.

Uno di quei film – come si suol dire – fatto con due lire ma che sprigiona tutta la sua forza nel senso metaforico del suo racconto.
Preciso e che sa esattamente come colpire lo spettatore creando degli inaspettati colpi di scena, ma anche attraverso crescendo di tensione che parte dal primo minuto e arriva ad esplodere nel finale della pellicola.

Il Buco è mosso da una  critica feroce ed esplicita agli sprechi scellerati del consumismo, protagonista assoluto del nostro quotidiano.

Un’ invettiva sulla disuguaglianza e l’egoismo umano, un ammonimento artistico travestito da thriller sci-fi del quale, probabilmente, avevamo bisogno.

Antonio Mulone

Netflix: non solo serie tv e film

Mai come in questo tempo “sospeso” fatto da giorni infiniti l’uno uguale all’altro, nei quali la casa diventa prigione ed il sole diventa miraggio, abbiamo bisogno fisico e spirituale di compagnia multimediale.

Netflix diviene, in questa logica surreale, risorsa imprescindibile che allevia le pene domestiche (si fa per dire) della nostra quarantena.

Il catalogo infinito della piattaforma, oltre film e contenuti seriali, offre la possibilità alternativa di guardare una lunga lista di documentari e docu-serie di altissimo livello narrativo.

In questo articolo abbiamo provato a stilare un elenco dei migliori titoli a disposizione degli abbonati.

 

1) Minimalism 

Il concept di questo docu-film è esaltare l’essenzialità, del resto semplice non vuol dire facile.
Il regista Matt D’Avella racconta le storie di chi è riuscito a rendersi libero non solo degli oggetti futili che accumuliamo in casa, ma anche dalle logiche del consumismo che ci vengono imposte nel quotidiano.
Il minimalismo dunque come filosofia di vita, in cui valorizzare l’essenziale e lasciare andare via tutto il resto.
Uscito nel 2016, il documentario ha riscosso grande successo attraverso il suo impatto comunicativo che ha inciso nella vita di molte persone che dopo averlo visto hanno drasticamente cambiato abitudini di consumo che sembravano radicate. Provare per credere.

 

2) American Factory   

Questo documentario originale Netflix, prodotto in collaborazione con Higher Ground (casa di produzione di Barack e Michelle Obama), affronta contemporaneamente due argomenti che negli ultimi anni hanno avuto rilevanza sia in ambito politico sia in ambito economico-sociale: la classe media americana e le relazioni tra Stati Uniti e Cina.

Il docu-film si sviluppa attorno la vicenda della chiusura di un impianto di General Motors che ha generato spiacevoli fenomeni di disoccupazione.
Un facoltoso uomo d’affari cinese riapre l’impianto e riassume molti ex dipendenti: i lavoratori cinesi e quelli americani si trovano a dover convivere e far i conti con stili, metodi e pratiche opposte di produzione.
American Factory racconta la globalizzazione dalla prospettiva di contesto aziendale locale.

 

3) Icarus 

Icarus di Bryan Fogel, premio Oscar al miglior documentario, pone uno sguardo lucido ed attento alle vicende del doping illegale alle Olimpiadi della federazione russa.
Il doping influisce profondamente sulla credibilità dello sport, minando l’identità culturale della più antica e nobile forma d’intrattenimento.
Il regista-ideatore intendeva porre il focus di Icarus sulle iniezioni di farmaci per migliorare le prestazioni sportive. A seguito invece scoperte fatte dall’intervista al Dr. Rodchenov, capo del programma russo dell’anti-doping, Fogel ha evidenziato come la Russia abbia costruito la sua eccellenza olimpica attraverso inganni sistematici richiesti proprio dal governo russo.

 

4) Gaga, Five foot two 

In questo documentario che parla di musica, sogni e vita, Lady Gaga mostra sfumature di sé che potrebbero essere sfuggite anche ai fan più affezionati.
La sua storia, apparentemente perfetta e senza pieghe, è invece segnata dalla battaglia contro una grave malattia fisica.
La caratteristica narrativa di questo contenuto fa leva su un elemento fondamentale: la sincerità di Lady Gaga che svela con potenza comunicativa le fragilità di questa star planetaria.

 

5) Diego Maradona   

Sebbene su “el Pibe de Oro” ci siano decine di documentari, il racconto di Asif Kapadia (già vincitore dell’Oscar nel 2016) riesce ad emozionare i nostalgici del bel calcio con video, interviste, voci ed immagini inedite.
Il sogno comincia a Lanús, un sobborgo molto povero di Buenos Aires, dove Diego dà prova sin da piccolissimo di possedere un talento soprannaturale, che lo porterà dapprima nel suo Boca, per poi approdare al Barcellona ed in seguito a Napoli, città che diventerà presto la sua seconda casa.
Se vi mancano la sua classe infinita, i suoi giochi di prestigio col pallone e le sue inspiegabili contraddizioni questa docu-pellicola fa per  voi.

 

6) Losing sight of shore 

Quattro giovani donne compiono la traversata a remi dell’Oceano Pacifico: un’avventura estenuante dalla California all’Australia.
Tre ore si rema e tre ore si dorme per nove lunghi mesi.
Le protagoniste vivono un’esperienza irripetibile, superando qualsiasi tipo di ostacolo che sembrava essere insormontabile.
Una storia di volontà,coraggio e determinazione che potrebbe ispirarvi ed azionare in voi un’ improvvisa voglia di spaccare il mondo.

 

7) Spedizione felicità 

 

Due giovani fidanzati trasformano con fantasia e creatività un vecchio ed inutilizzabile scuola-bus in un un camper formidabile con cui partire per un lungo viaggio.
I protagonisti Felix Starck e Selima Taibi, cantautrice in arte Mogli, e il loro cane Rudi insieme scopriranno i meravigliosi paesaggi della British Columbia per poi arrivare in Messico, dove un imprevisto cambierà i loro piani di viaggio.
Da vedere tutto d’un fiato per i sognatori e per chi volesse destare una fame di vita che magari s’era assopita. Gli emozionanti brani di Selima, che fanno da colonna sonora, colorano d’emozione la docu-avventura.
Tenete i fazzoletti a portata di mano.

Antonio Mulone

#iorestoacasa : Guida di sopravvivenza

È arrivato il momento di stare spaparanzati sul divano H24 e magicamente la nostra voglia di uscire sembra sparita. Sicuramente non siamo “armati” contro la sedentarietà e a casa non c’è niente da fare.

Ma non preoccupatevi, abbiamo creato per voi una guida di sopravvivenza: vi proponiamo dei rimedi alla noia quotidiana, dalle serie tv, che sembrano l’unica soluzione… ai tanto amati, quanto sicuramente impolverati, giochi di società.

LUNEDÌ

La Casa di Carta è una delle serie tv più guardate in assoluto, ma cosa ha incantato il mondo intero? Tanta strategia nell’azione e tanta attenzione ai dettagli forse… tanto da voler indossare la tuta rossa, la maschera di Dalì e creare un esercito.

Non ci sono scuse, ne La Casa de Papel si bara. Il profesor, grande stratega silenziosolo farà con così tanta precisione da non farsi scoprire… o quasi. E noi quando abbiamo parco della vittoria come ci comportiamo?

Fonte: nlfxso.net

Monopoli non ha bisogno di molte presentazioni, esiste dagli anni ’30. Obiettivo: arricchirsi e mandare tutti in rovina.

Ma di certo, già da prima dell’uscita del telefilm, esisteva il furbacchione di turno che, con falsa bontà d’animo, si proponeva di fare il banchiere per “togliere una scocciatura agli altri concorrenti”. Mai fidarsi, è sempre lui a vincere.

Che sia forse la mano galeotta che lascia la Zecca di Monopoli vuota?

MARTEDÌ

The Good Doctor è la storia di uno specializzando in chirurgia autistico e brillante. È una serie un po’ fuori gli schemi dei classici medical drama, ma riesce a far appassionare anche chi “s’impressiona”. Di Shaun, viene sottolineato il genio ma anche il suo passato e la sua attuale fragilità. Il tutto contestualizzato in un mondo aggressivo e a volte non sempre disponibile.

Fonte:mondofox.it

Ma a lui poco importa, ha i suoi orari e le sue abitudini e guai a chi li tocca!

Dalle Farfalle nello stomaco, all’acqua nel ginocchio, tanti i malanni da curare. L’allegro chirurgo è da sempre stato il sogno dei medici in fasce. Ed allora, rispettando le norme igieniche (lavatevi le mani prima di operare!) salvate in tutti i modi il povero Sam ed occhio al naso rosso.

Se si accende la lampadina: game over!

MERCOLEDÌ

Game of Thrones: dal King del Nord alla Khaleesi, dal nostro divano a Westeros. Ognuno ha la sua parte di Regno e lo stendardo non deve mai cadere. Falsi amici, reali nemici e famiglie intrecciate.

Fonte:modnofox.it

Non vi diciamo come finisce, ma inevitabilmente vi schiererete con una casata con la quale dovrete combattere. E dagli uomini a cavallo ed i castelli, ai carri armati e le bandierine è un attimo.

Risiko: un nome ed una garanzia. Se scegliete di passare la quarantena in sua compagnia, non aspettatevi di poter fare più di 2-3 partite in tutto. Ma la lunghezza del gioco è ripagata dalla fame di strategie, colonna portante del gioco. False alleanze, favoriti che finiscono per perdere fino all’ultimo carro armato.

Che l’avventura alla conquista dei regn… ehm… degli stati cominci!

GIOVEDÌ

Una scuola d’Elite, popolata da ragazzi perfetti, viene “contaminata” da tre di periferia. Inevitabilmente, tra gonne scozzesi e jeans strappati cominciano ad esserci problemi, l’alta borghesia vince e qualcuno muore.  E’ come un cerchio che si apre alla prima puntata e che deve chiudersi per forza.

Fonte: cinefilos.net

Non si può smettere di guardare e non si può non provare ad indovinare chi ha fatto del male a Marina.

Sei pelato? Hai il cappello? Se risponde si, vinci a Indovina chi? (sicuramente l’avrete letta cantando). Che è un po’ quello che cerca di fare la polizia spagnola per scoprire cosa è successo a Marina. Resta uno di quei giochi immortali.

Fonte: giochibriosi.it

Passano gli anni, ma tu, Indovina chi?, non passi mai!

VENERDÌ

Tra le tante interpretazioni del celebre detective, quella di Benedict Cumberbatch merita il nostro tempo libero. Ma proprio tutto!

Fonte: nexillia.it

Uno Sherlock tutt’altro che preciso, un uomo sbadato quasi, ma attento ai dettagli. La serie rende partecipi dell’analisi investigativa facendoci entrare anche nelle stanze del suo palazzo mentale, senza dimenticare di sbloccare tutte le combinazioni necessarie. Basta scoprire quella di Madame Adler. 

A tal proposito Cluedo è un vero must-have per gli amanti dei gialli. È un gioco rapido che permette di esprimere al meglio le doti investigative di ognuno di noi. L’obbiettivo è solo uno: scoprire l’assassino, il luogo e l’arma del delitto.

Tanto è sempre Scarlet con il candeliere nel garage!

SABATO

Once Upon a Time, è la serie per i sognatori. Permette di esplorare attraverso gli occhi di Henry il mondo delle fiabe: da Biancaneve a Frozen.  Nonostante si cerchi di mantenere la trama originale, gli autori sono riusciti ad intrecciare le storie e rendere i grandi classici sfondo di una vita moderna.

Fonte: alphacoders.com

Cosa c’è di meglio che perdersi a StoryBroke e prendere un caffè con la Regina cattiva?

Parallelismo perfetto con Dixit, gioco da tavolo che più di altri libera la fantasia dei concorrenti. Il narratore c’è e le avventure le creerete voi. Potrete sbizzarrirvi come più vi aggrada, inventare storie fantasiose in base alle carte che vi verranno consegnate e stupire gli avversari.

Fonte: geedko.com

Riuscirete a fare meglio di Henry?

DOMENICA

Una serie di sfortunati eventi è quello che succede ai fratelli Baudelaire. Bambini pieni di ingegno ed ottimismo, orfani ed ereditieri di un capitale enorme. Avranno a che fare con un tutore terribile, il Conte Olaf che vuole accaparrarsi la loro fortuna.

Fonte: screenweek.it

Ed Una serie di sfortunati eventi è quello che spesso capita giocando ad UNO. Gioco che ha rovinato amicizie e giornate di divertimento.

Vi è mai capitato di essere bloccati ad ogni giro da carte Stop o Inverti Turno? O magari finalmente, appena tocca a voi, qualche Cambio di colore vi impone di passare? Niente in confronto a lui: il temutissimo 4+.

Fonte: consollection.com

Si narra che una volta giocato, qualcosa si rompa per sempre nel rapporto tra “carnefice” e “vittima”. E voi chi dei due siete?

Quindi è arrivato il momento di recuperare tutti gli episodi mancanti, sisi recuperare anche lo studio arretrato, certo… ma soprattutto cominciare quelle serie che sono nella nostra lista dei preferiti da un po’ e che aspettavano solo del tempo libero ma sopratutto passare una serata a ridere e a giocare come non si fa più da tanto.

 

        Barbara Granata e Claudia Di Mento

 Immagine in evidenza: MiBACT (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo)

Caro BoJack Horseman, ti racconto

Voto UVM: 5/5

Nel 2014 andava in onda il primo episodio di BoJack Horseman, serie animata creata da Raphael Bob-Waksberg, composta da sei stagioni. Vincitrice di un Golden Globe e di tanti altri premi, senza dimenticare le numerose nomination, la serie è ambientata in una Hollywood popolata da umani e animali antropomorfi: a primo impatto può sembrare un show per passarsi una serata e magari per distogliere l’attenzione dalla realtà, ma la serie produce l’effetto contrario nello spettatore.

Il protagonista è BoJack un cavallo antropomorfo, star della serie tv Horsin’ Around, che ormai ha chiuso i battenti da un paio di anni. BoJack, stanco di non essere considerato una star come ai vecchi tempi, cerca di riaffermare la sua immagine, accompagnato dalla sua agente Princess Carolyn, una gatta, il suo strano – ma dal cuore tenero – coinquilino Todd e Mr. Peanutbutter un labrador, attore e sua nemesi. Infine, Diane, una ghostwriter, cercherà di riportare alla ribalta il nostro protagonista scrivendo la sua biografia.

 

Già dal primo episodio vediamo come il nostro protagonista abbia seri problemi con la società che lo circonda: difatti, si rifugia nell’alcool, nella droga e nelle feste per nascondere la sua depressione. Ed è proprio la depressione  il tema centrale di questa serie tanto strana ma allo stesso tempo veritiera, che ci mostra la discesa di un individuo verso l’autodistruzione.

E no, la serie non è caratterizzata solo da momenti tristi, al contrario offre al pubblico il classico umorismo, ma anche umorismo nero e satira. Il nostro cavallo davanti ai suoi amici e colleghi si mostra come un cinico narcisista, ma allo stesso tempo divertente. Nonostante le apparenze, nasconde dietro di sé una crisi esistenziale, caratterizzata dalla poca autostima e dalla continua paura di rimanere solo,tema particolarmente evidente nell’ultima stagione.

BoJack in analisi durante la disintossicazione (stagione 6)

BoJack allontana sempre tutti da lui, allontana chi gli vuole bene, ad eccezione di Sarah Lynn, che al contrario di BoJack non ha bisogno di riaffermare la sua immagine, essendo una delle star del momento, amata e voluta da tutti. Tuttavia,  la ragazza soffre di una crisi esistenziale, non si sente amata veramente e vede in lui sé stessa e si rifugia nel protagonista. BoJack con la ragazza avrà una strana relazione caratterizzata da un rapporto padre e figlia, come ai tempi della serie Horsin’ Around. Ed è proprio con lei che il nostro protagonista capisce che in lui c’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di marcio. Sarah rappresenta la fragilità dell’immagine, un’immagine costruita solo per il mondo dello spettacolo. Dove a nessuno importa veramente chi sia lei come persona ma a tutti importa chi sia lei come star.

Sai non ho mai capito cosa fosse l’amore, ma in questo momento non ho bisogno di capire niente. Lo sto vivendo. (Sarah Lynn 3×11)

BoJack e Sarah Lynn

Tutti i personaggi della serie nascondono un velo di tristezza:  lo stesso Mr. Peanutbutter, che agli occhi di tutti appare come la felicità, rappresenta la totale indifferenza ad ogni avversità che gli si rappresenta.  Rispondendo sempre “sì ok, va tutto bene” davanti sia una situazione positiva e negativa, diventa un suddito della società stessa.
“L’universo è solo un vuoto crudele e indifferente, la chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con stronz*te varie fino a quando è il momento di tirare le cuoia.” (Mr. Peanutbutter 1×12)

La serie mostra anche il mondo “reale”, non solo quello hollywoodiano. L’esempio più lampante è Beatrice, madre di BoJack. Una cavalla fredda, narcisista e egoista come il figlio, che dovrebbe amare suo figlio ma non fa altro che ricordagli che tutti i mali che ha, sono per colpa sua . Beatrice rappresenta una vita fatta di malinconia e rimpianti, segnata da tanti episodi negativi. Una vita che l’ha costretta a cambiare e l’ha resa cinica e anaffettiva. Beatrice rappresenta la sfortuna.

 

Ma cosa rappresenta BoJack?

Rappresenta l’immagine del mondo attuale, una società che corre troppo veloce, senza soffermarsi sulla morale, in cui l’identità dell’individuo non è più prodotta dal suo essere ma dal mondo che sta intorno.

Ecco perché BoJack fa muovere in noi quei meccanismi umani, perché ci tocca e ci fa capire che corriamo senza pensare e capire chi siamo veramente o per cosa stiamo vivendo.

Come ha potuto questo semplice cartone toccarci così nel profondo?

Ci ha fatto capire che – alla fine – la causa di tutti i mali che abbiamo, come dice Todd a BoJack, sei tu”. BoJack si nutre dell’immagine che Hollywood ha prodotto di lui, non è il vero sé, è solo costruito.

Ma nell’ultima stagione vediamo il nostro protagonista con un velo di speranza: cercherà in tutti i modi di cercare di essere qualcuno per sé stesso, e non essere qualcuno per qualcun altro.

La seconda parte dell’ultima stagione della serie sarà distribuita sulla piattaforma Netflix il 31 Gennaio 2020: non so cosa aspettarmi, non so cosa capiterà al nostro vecchio BoJack; so solo che ci ha accompagnato per 6 intere stagioni con il suo pessimismo comico e non siamo pronti a dirgli addio.

Perché alla fine siamo tutti un po’ BoJack.

Alessia Orsa