Ma Rainey’s Black Bottom, una storia raccontata dal blues

Una produzione Netflix tutta da vedere: sarà rivelazione agli Oscar?- Voto UVM: 4/5

Prima ancora di Billie Holiday, Nina Simone ed Etta James c’era una sola diva del blues: Gertrude detta “Ma Rainey”, cantante afroamericana dei ruggenti anni ’20. Detta la “madre del blues”,  di fatto battezzò il genere; il suo è un grande nome ormai destinato a cadere nell’oblio se non fosse per la recente pellicola di Netflix, Ma Rainey’s Black Bottom. Prodotto da Denzel Washington, diretto da George C. Wolfe e in concorso agli Oscar per ben cinque statuette (miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista, trucco, costumi e scenografia) il film merita di essere visto per tanti motivi.

Dramma, pathos e “talking blues”

Se esistesse la categoria “miglior soggetto” agli Oscar, state certi che il film di Wolfe sarebbe in concorso anche per quella, proprio per la sua storia originale e sui generis. Quando si tratta di star della musica, infatti, portarle al cinema spesso significa dimenticarsi dell’arte e concentrarsi su gossip e vicende private, riducendo tutto alla famigerata triade “sesso, droga e rock’n’ roll”(anche per gli artisti che non sono “rock”). Ma Rainey’s Black Bottom non è niente di tutto ciò! E non perché sia una smielata favola su una grande artista afroamericana di successo in un’America tutt’altro che propensa a dare ai neri successo. Non perché sia un film con tanto di happy ending, privo di drammi, rabbia e violenza, anzi.

La diva Ma Rainey (Viola Davis) assieme ai membri della band in sala incisione. Fonte: blog.ilgiornale.it

Il film di Wolfe, più che della diva Ma Rainey e della sua vita, parla della storia di una canzone, appunto Black Bottom. Parla di blues, che non è solo un genere musicale: è un grido di dolore, è vita vera che scorre nelle vene degli afroamericani e nelle loro storie di subita sopraffazione che vengono fuori dalle parole dei personaggi, dai loro monologhi profondi e densi di pathos, fluidi come canzoni, accompagnati in sottofondo dalle note degli strumenti, che siano piano, tromba o contrabasso. Un blues che parla (si potrebbe azzardare “talking blues”) è quello dei dialoghi del film, tratti dall’omonimo dramma teatrale di August Wilson.

Proprio come le grandi tragedie antiche, infatti, la  maggior parte della vicenda è concentrata in una sola giornata e in un unico luogo: lo studio discografico in cui viene incisa la famosa canzone. Storcono il naso gli amanti dell’azione: in Ma Rainey non succede – quasi – nulla o meglio, la maggior parte di ciò che accade è solo ricordato nei racconti dei quattro membri della band, talmente vividi da permetterci quasi di vederli raffigurati sullo schermo. Leeve (Chadwick Boseman), Toledo (Glynn Turman), Cutler (Colman Domingo) e Slow Drag (Michael Potts) si riuniscono in sala prove, suonano e risuonano i brani tra scherzi e diverbi finché non arriva Ma (Viola Davis) che dà il via alle danze e si parte con l’incisione.

Da sinistra a destra: Toledo (Glynn Turman), Levee (Chadwick Boseman) e Slow Drag (Michael Potts) provano i pezzi. Fonte: nonsolocinema.com

Grandi interpreti in spazi ristretti

Nonostante il film possa apparire limitato nello spazio (e anche nel tempo, con soli 93 min di durata) è proprio attraverso una storia all’apparenza statica che emerge la bravura degli attori in scena: Viola Davis sprigiona tutta la rabbia di una cantante afroamericana che si sente sfruttata dal suo agente, “addolcita” dallo stesso solo al fine di trarne profitto.

Da lei ci aspettavamo una performance esattamente di questo tipo: anche quando il trucco viene rovinato dal calore insopportabile della Chicago anni ’20, Ma è una donna forte, che ama realmente la sua musica e che non ha paura di puntare i piedi per farsi rispettare, sia dagli altri membri della band che da agente e produttore. Le movenze e la mimica facciale dell’attrice rispecchiano in pieno il carattere forte della protagonista, fruttandole una meritata nomination come migliore attrice protagonista.

Viola Davis e Chadwick Boseman sul set – My Red Carpet

Ancor più sorprendente è la prova attoriale del compianto Chadwick Boseman, nei panni dell’alternativo trombettista Levee, che già gli è valso un Golden Globe postumo. Nella narrazione possiamo considerare questo personaggio come l’opposto di Ma: innovatore e fuori dagli schemi, vuole rompere con le sue melodie il “classicismo” della cantante, arroccata sulle sue posizioni storiche e tradizionali.

Ma non sono le scene che rappresentano questo dualismo le più significative dell’attore: la voglia di rivalsa e indipendenza, con il sogno di fondare una sua band, fanno da cornice a una storia disperata di violenza, che ha spaccato la sua famiglia quando era solo un bambino, lasciando un segno indelebile e forse mai elaborato dal personaggio. L’attore riesce al meglio a immedesimarsi sia nel lato spensierato e gioviale del trombettista, che in quello triste e tormentato: un mix che meriterebbe l’Oscar.

Simbolismo della pellicola

Due sono i simboli che spiccano sulla scena: il caldo, che diventa quasi un personaggio vero e proprio, invadente e “palpabile” (soprattutto su Ma) in quasi tutte le scene. Sembrano però soffrirne solo i personaggi di colore, che spesso non riescono ad aprire i ventilatori e ad alleviare questo fastidio evidente: sembra quasi simbolo dell’oppressione e delle sofferenze che gli afroamericani hanno dovuto patire, espresse esplicitamente nelle storie raccontate dei personaggi.

Il secondo è una porta chiusa, che Leeve cerca continuamente di aprire senza successo: alla fine riuscirà a vedere cosa c’è dietro, grazie alla sua caparbietà; a voi l’interpretazione su cosa troverà dietro essa, metafora sul cosa gli ha fruttato il suo comportamento.

La vera Ma Rainey con la sua blues band. Fonte. cineavatar.it

C’è una lunga storia dietro una canzone, spesso ignorata dal grande pubblico e lasciata solo alle ricerche di appassionati del settore: il film la riporta alla luce rendendola il perno attorno cui ruotano altre storie; allo stesso tempo resta un lieve rammarico per la breve durata del film, che lascia lo spettatore desideroso di continuarne la visione. Ma Rainey’s Black Bottom parla di musica, sì, ma non trascura i drammi sociali del tempo, dà loro voce attraverso la musica stessa, attraverso quel blues che è “un modo di comprendere la vita”, una filosofia che i bianchi non sembrano capire, ma di cui hanno un disperato bisogno.

Sarebbe un mondo vuoto senza il blues. Già, io cerco di afferrare quel vuoto e poi cerco di riempirlo. Non sono stata la prima a cantare così. Il blues c’è sempre stato.

Angelica Rocca, Emanuele Chiara

Disney+ vs Netflix agli Oscar 2021

Come per ogni categoria che si rispetti, anche la statuetta dei film di animazione è tra le più attese.

Come sempre, la grande casa Disney fa da padrone ( è inevitabile associare ad essa un cartone ), ma quest’anno ha la Grande N come rivale. Infatti, a concorrere agli Oscar nella categoria in questione abbiamo, tra gli altri, Soul e Over The Moon.

Soul, Disney+

La matita di Pete Docter, ancora una volta, cela dietro personaggi dagli occhi grandi e forme morbide una riflessione sulla vita, profonda e pesante allo stesso tempo. Dietro la figura di Joe Gardner si nasconde l’insoddisfazione “dell’essere umano medio”, di colui che ha dovuto rinunciare ai propri sogni pur di uniformarsi alle convenzioni.

Fonte: taxidrivers.it, il professor Joe

Pete ha disegnato un uomo in grigio la cui unica scintilla è il jazz: sarà proprio questo a farlo svegliare al mattino e a fare da sottofondo alla sua vita e a tutto il film. Infatti sono stati scritti dei pezzi originali proprio per la vita di Joe, in stile “vecchio bar americano” con nuvole di fumo e completi gessati.

Il film è geniale in quanto utilizza un linguaggio semplice per spiegare un concetto complesso: l’essere insoddisfatti e non trovare la propria scintilla perché si è costantemente persi in un mondo caotico.

Il  protagonista sarà oggetto di uno scherzo del destino: la sua vita finisce proprio quando sta per cogliere una delle più grandi opportunità, ovvero suonare con una sassofonista leggendaria. E così ci ritroviamo nell’altro mondo dove Joe, incontrandosi e scontrandosi con le altre anime, riesce – in modo non convenzionale – a comprendere la bellezza della vita. E noi la scopriremo con lui grazie alle voci di Neri Marcorè e di Paola Cortellesi che renderanno il tutto più coinvolgente e leggero.

Ma di leggero in Soul non c’è nulla. Fa riflettere tutte le generazioni, dimostra che siamo così indaffarati a cercare di modellare la nostra personalità alle convenzioni sociali che non ricordiamo l’importanza delle passioni «che sono il sale della vita» o addirittura quanto sia buona una fetta di pizza.

Fonte: ilfattoquotidiano.it, Joe e 22 in una pizzeria dell’altro mondo 

A far capire tutto questo a Joe sarà l’anima di 22; Joe da solo non sarebbe mai riuscito a trovare l’importanza della semplicità e la piccola anima cinica, senza il nostro protagonista, non sarebbe mai riuscita a tornare sulla terra e accorgersi di quanto fosse sbagliata la convinzione che non la potesse “accendere niente”.

Collaborazione, realizzazione e immaginazione sono le tre parole chiave del film che fa scendere una lacrima e accendere molte lampadine, interrogandoci in ogni momento.

Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria, Netflix

Netflix ci porta in Oriente e poi sulla Luna: Over the Moon è una storia commovente, sullo stampo dei classici cartoons, un film da guardare con tutta la famiglia che lascia una sensazione di serenità e pace.

La vicenda strappalacrime è quella di una bambina che perde la mamma, che crede ancora nelle fiabe ma nonostante questo possiede una spinta continua alla ricerca della verità.

Fonte: taxidrivers.it, Fei Fei e la sua famiglia 

Un’anima da scienziata dentro il corpo di una piccola Fei Fei talmente ingegnosa che arriva sulla luna.

Il regista Glen Keane, ex “cadetto” Disney con diverse medaglie, rappresenta in maniera colorata e semplice il “fantastico mondo di Lunaria”, un luogo particolare e fluorescente che farà da palcoscenico alla fiaba scritta da Audrey Weels (deceduta nel 2018) a cui è dedicato il film.

Fonte: tomshw.it, la vista di Lunaria 

I temi trattati sono evergreen: il lutto, la “gelosia” nei confronti della nuova compagna del padre,  il senso del dovere e le tradizioni di famiglia; tutto questo si trova immerso sotto la luce della luna e viene raccontato tramite musica e colori.

Il confronto

Come si può notare, la competizione anche quest’anno è molto alta. Lo streaming ha sostituto le poltrone del cinema e, nonostante questo, i film non hanno perso la loro magia. Da una parte ci sono le riflessioni sulla vita espresse mediante un film di animazione, dall’altro ci sono grandi problematiche della nostra esistenza vissute da una ragazzina; sembrano temi già trattati ma − sicuramente – richiedono una costante e ulteriore rilettura.

Soul e Over the Moon emozionano e fanno riflettere; sicuramente il far parte della categoria “film d’animazione” rappresenta una grande sfida e cela una sorta di evoluzione: possiamo affermare che i cartoni ormai non sono film solo per bambini, bensì richiedono autocoscienza e voglia di cambiare. Ci donano il desiderio di crescere, come quello che avevamo da piccoli, ma ci permettono di farlo con maggiore consapevolezza. Che grande privilegio, non sprechiamolo.

Barbara Granata

Serie TV e flashback, come il passato scandisce il nostro presente

A circa un anno dal lockdown, i social cominciano a mostrarci i ricordi con “ accadeva un anno fa…” allegando foto in pigiama, immagini di pane fatto in casa e videochiamate. Sicuramente la pandemia ci ha reso più nostalgici e vedere le cose che si potevano fare è ormai  parte della routine quotidiana. 

Siamo tutti più avidi di ricordi: riusciamo a trovare sollievo nel passato e questo ci strappa un sorriso; ma ci sono serie tv che hanno fatto di eventi del passato – sotto forma di flashback – i loro punti di forza, usandoli come pretesto per raccontare o dare senso alle vicende o come vera e propria struttura narrativa. Da nuove uscite a grandi classici (come l’intramontabile How I Met Your Mother), il throwback non è solo la tendenza del momento.

Lost, 2005-2010

Quando si parla di flashblack, non possiamo non citare la serie cult per eccellenza. Lost probabilmente è stata la prima serie ad essere diventata un fenomeno di massa: le – fin troppo – complesse vicende che seguono lo schianto dell’aereo di linea 815 della compagnia Oceanic Airlines su un’isola sperduta, si snodano di fatto attraverso le storie precedenti dei naufraghi, con un continuo utilizzo dei flahsback. Il fascino dell’utilizzo di questa tecnica in Lost  è dovuto in gran parte al riflesso che le vicende passate sembrano inesorabilmente avere sulla vita presente dei superstiti toccando la sfera del paranormale.

Cast della serie; in primo piano due dei protagonisti principali: Jack Shepard (Matthew Fox) e Kate Austen (Evangeline Lily) 

Ma se l’isola di normale sembra avere ben poco, fino ad essere considerata un’entità “viva e consapevole”, la trama non può che rispecchiare questo leitmotiv: procedendo attraverso eventi sempre più strani e inspiegabili, lo spettatore si rende presto conto di come tutto sembra non avere – come si suol dire – né capo né coda. A “cominciare” dal finale, molto discusso e oscuro alla maggior parte del pubblico, continuando con una serie di sempre meno credibili colpi di scena, Lost sembra rispecchiare proprio il concetto di flashback: del resto, cos’è la memoria se non uno spazio immaginario, quasi teatrale, onirico, sempre più confuso e distante, dove vanno in scena inevitabilmente sempre gli stessi personaggi?

Mr. Robot, 2015-2019

Altra serie che meriterebbe un intero articolo , apparentemente potrebbe sembrare la più off topic. In realtà, nel capolavoro nato da un’idea di Sam Ismail,  il significato più profondo della vita complicata del protagonista, l’hacker Elliot Alderson (un eccezionale Rami Malek), risiede interamente nei suoi ricordi di infanzia. Mai come prima, una serie tv “moderna”, rivoluzionaria e per certi versi anche inquietante, ha nascosto così bene il suo animo più intimo, facendo di fatto ruotare gran parte delle emozionanti vicende intorno a un tema: i rapporti tra Elliot e i suoi familiari (e i pochissimi amici), ma soprattutto con il padre. 

Celebre scena (prestata in passato a molti meme) nella quale Elliot ( Rami Malek) esulta a Times Square. 

Per questo la serie non è soltanto un must per tutti gli appassionati di spionaggio e informatica, rivoluzionari e amanti dei thriller in senso lato: il racconto di come un gruppo di hacker ha provato a cambiare il mondo è una storia fatta di antieroi, ciascuno con la propria fragilità e il proprio vissuto.

Un passato che lascia ferite ben più profonde di una crisi monetaria globale, ma che, allo stesso tempo, rappresenta una fonte inesauribile di energia (anche se non sempre positiva).

Dark, 2017-2020

Passato, presente e futuro in un cerchio. D’altronde è vero: tutto si ricollega e ritorna al proprio posto, ma cosa succede se l’ inizio è la fine stessa?

Beh, in Dark è possibile vederlo: questa serie – che richiede più attenzione di quanto crediate – si fa strada nel tempo e nello spazio, dimostrando l’importanza dei rapporti umani, delle scelte e il peso delle loro conseguenze. Ogni episodio, a se stante, è come una goccia nel mare o come la goccia che fa traboccare il vaso, quindi è essenziale per capire il quadro generale ma anche per poterlo risolvere.

Presente, futuro, passato. Fonte: lascimmiapensa.com

È sicuramente innovativa, ben fatta, ma molto difficile da capire. Bisogna mettersi lì, a creare alberi genealogici e mappe per poter uscire dal labirinto delle vicende, cercando di comprendere come quello che succede è conseguenza e causa stessa di ciò che è accaduto.

Il flashback, qui, diventa reale. Andare indietro nel tempo e poi tornare di nuovo al presente, per poi arrivare verso il futuro… Che sia questo schema narrativo un monito per noi? Magari questo è il modo giusto di affrontare la vita? A voi la risposta.

Lupin, 2021 – in corso

La storia del ladro gentiluomo prende il volto di Assane (interpretato da Omar Sy): un moderno Lupin immerso nella Parigi del 2020, raccontato da Netflix con estrema leggerezza ma – allo stesso tempo – con una narrativa accattivante.

La storia del protagonista la si conoscerà a poco a poco. Saranno proprio i flashback a permetterci di conoscere il piccolo Assane e vedere come costruisce la sua identità di gentiluomo.

Primo bottino del gentiluomo. Fonte: Netflix

La trama sarà diversa da quella di «Lupin, Lupin, l’incorreggibile» perché dietro si nasconderanno problematiche differenti, attuali ma da sempre presenti: il potere del più forte, il sacrificio dei genitori e la discriminazione. Tuttavia, nonostante le critiche, la serie ha ottenuto un grandissimo successo.

Con lo stampo della – più fruttuosa – Casa De Papel, il protagonista raffigura un genio della truffa e tutto quello che ottiene sarà frutto di uno studio attento della situazione, delle conseguenze delle sue azioni; inoltre non perderà mai di vista l’obiettivo: vendicare il padre.

Ancora una volta, ci costringono ad ammirare il “cattivo” e a metterci dalla sua parte, per cui viene da chiedersi chi sbaglia: il carismatico e creativo ladro o coloro che lo inseguono?

L’estate in cui imparammo a volare (Firefly Lane), 2021 – in corso

La nuovissima serie tv proposta dalla grande N è un capolavoro che, purtroppo, non profuma di successo. 

La storia, riadattata dall’omonimo romanzo, è quella di due amiche che la vita ha reso sorelle e il cui legame indissolubile verrà confermato dagli innumerevoli salti temporali: dagli anni ottanta ai duemila, le vedremo da preadolescenti ad adulte crescere insieme e – nonostante provenienti da ambienti diversi – diventare le donne che sognavano.

 Tully e Kate ’80s. Fonte: rollingstone

Ad interpretare le due ragazze saranno due mostri sacri del piccolo schermo quali Katherine Heigl e Sarah Chalke meglio conosciute come Izzie (di Shondiana memoria) e Elliot di Scrubs; la loro bravura trapelerà in ogni episodio dando consistenza alle storie. La vicenda rende vera quella scritta «amiche per sempre» che non mancava sui diari delle nostre compagne di banco: nel loro caso la promessa viene riconfermata ogni anno che passa.

Il throwback, qui ben strutturato, ci dà la consapevolezza di quanto le protagoniste siano state importanti l’una per l’altra e di come le scelte prese a quindici anni abbiamo un riverbero anche a trentacinque.

L’importanza del passato quindi è inevitabile: il piccolo schermo non fa altro che accattivarci impacchettando le nostre necessità sotto forma di comodi episodi da divorare a nostro piacimento.

Che ci piaccia o no, tutto ciò che accade assume senso alla luce di ciò che lo ha preceduto.

Emanuele Chiara e Barbara Granata 

Ma che razza di isola è? Alla scoperta del nuovo film di Sibilia

Voto UVM 4/5: Una delle migliori commedie degli ultimi tempi. Diverte e fa riflettere senza annoiare

Sbarcato da più di un mese su Netflix, L’incredibile storia dell’isola delle rose ha raccolto parecchie lodi, ma anche diverse critiche. Noi di UniVersoMe non potevamo perdere l’occasione di svelarvi i segreti del suo successo e dirvi cosa ne pensiamo dell’ultimo film di Sidney Sibilia.

Tra realtà e finzione: l’incredibile trama

Bologna, anni ’60. L’ingegner Giorgio Rosa (Elio Germano), appena laureatosi è un ragazzo inventivo e stravagante che sembra vivere in un mondo a parte e ai limiti della legalità. Proprio perché incapace ad adattarsi, decide di fondare una nazione tutta sua servendosi di un’idea geniale: costruire una piattaforma a 12 km dalla costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. Il suo progetto incontrerà le ire del presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e del ministro degli interni Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio).

L’incredibile storia dell’isola delle Rose: locandina. Fonte: eHabitat.it

Il film di Sibilia prende spunto da una storia vera: quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose, micronazione durata meno di un anno (dal maggio ’68 al febbraio ’69), dotata di propria bandiera, valuta e governo, fondata dall’ingegner Rosa.

Tuttavia anziché dare una ricostruzione fedele dei fatti, il regista preferisce ispirarsi al romanzo di Walter Veltroni: L’isola e le rose;  infatti ritrae la piattaforma di Rosa come una piccola Woodstock dell’Adriatico  laddove nella realtà storica l’ingegnere, sebbene ostacolato dallo Stato, era mosso più da fini commerciali che politici e il suo intento non era quello di dar vita a una sorta di esperimento utopico. Chi si aspetta una lezione di storia degna di un docu-film rimarrà perciò deluso. Resta invece piacevolmente colpito chi vuole ridere, ma anche riflettere su un’avventura breve ma ancora oggi suggestiva.

La vera Isola delle Rose in una foto d’epoca. Fonte: living.corriere.it

Il film pone diversi interrogativi allo spettatore: perchè le autorità sono state così poco tolleranti nei confronti di questa impresa? Era forse il periodo storico particolarmente caldo a giustificare la bocciatura di ogni iniziativa che inneggiasse alla libertà? 

In effetti la pellicola lascia lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca e il rimpianto di non aver passato – neanche un giorno – su quella piattaforma che è ignorata da tanti libri di storia. Discoteca balneare o paradiso utopico, non si doveva star poi così male sull’Isola delle Rose. 

Perché ci piace così tanto l’Isola delle Rose?

Nessun uomo è un’isola, ma ognuno di noi in cuor suo lo desidera. In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, in cui il più piccolo errore di un individuo ricade inevitabilmente su tutti gli altri – in una sorta di catena infinita da fiera dell’est – quale rifugio migliore di un’isola-Stato costruita a misura dei nostri desideri? Tanto più adesso che una malattia contagiosa quale il Covid-19 ci mostra come la società umana sia una grande rete che protegge anche se a volte finisce per soffocare.

L’isola colma di turisti in festa. Fonte: agi.it

Ecco perché simpatizziamo con il protagonista, una sorta di moderno Peter Pan pronto a costruirsi da sé la mitica isola che non c’è. Ancora di più si immedesimano tutti quelli più volte riportati sulla retta via perché troppo eccentrici e sbadati e perciò accusati di “vivere in un mondo tutto loro”. Insomma nel protagonista si ritrovano tutti coloro che sono come strumenti incapaci di andare a tempo col ritmo dell’intera orchestra, a cui non resta che la fuga felice – o peggio – il naufragio.

Perché convince il film di Sibilia?

Resta a galla, a differenza del progetto di Rosa, la commedia scritta e diretta da Sibilia: un mix perfetto di realtà storica romanzata, comicità e riflessione politica solo accennata e quel goccio di nostalgia che non manca mai in un film ambientato nei mitici anni ’60. La colonna sonora accompagna degnamente quel vento di libertà che il film fa respirare: il nostro protagonista ha l’illuminazione di costruire una piattaforma sul ruggente sottofondo di Hey Joe di Jimi Hendrix.

Cast del film. Fonte: viaggicorriere.it

Convince anche il cast: su tutti Elio Germano si rivela ancora una volta perfetto nei panni del diverso, dell’ingenuo visionario; anche qui sarà un giovane favoloso che sa credere alle proprie aspirazioni pur di cambiare il mondo o «almeno di provarci». La sua performance vanta poi un bolognese impeccabile. A questo proposito anche la scelta di enfatizzare i dialetti rende lo script ancora più divertente.

Forse possiamo storcere il naso (ma anche ridere) davanti al siciliano – per alcuni caricaturale – del bravissimo Fabrizio Bentivoglio: in alcune scene più gangster che uomo di stato. Ma in ogni caso le diverse parlate dei protagonisti creano un mosaico ancor più vivace e variegato.

Nella squadra dello stravagante ingegnere, desta meno simpatia l’amico Orlandini (Leonardo Lidi), viziato figlio di papà che ruba dalle casse dell’azienda di famiglia e fa ricadere la colpa sugli operai calabresi; qui saranno complici i pregiudizi dell’epoca. Tuttavia anche dietro questo personaggio moralmente discutibile si intravede il tocco di Sibilia (già evidente nella trilogia Smetto quando voglio) che ritrae con pregi e difetti personalità a tutto tondo, allontanandosi dal riduttivo schema buoni vs cattivi da happy-ending comedy.

Sicuramente più simpatico e sui generis invece Rudy Neumann (Tom Wlaschiha): apolide rigettato dalla Germania, perché disertore durante la Seconda Guerra Mondiale, sarà accolto a braccia aperte sull’Isola . Di personaggi tedeschi abbondano le commedie di tutti i tempi, ma raramente si esce dallo stereotipo del rigido intellettuale o del generale super severo pronto a impartire ordini di nazista memoria.

Rudy Neumann (Tom Wlaschiha) anima le feste dell’Isola. Fonte: avgmagazine.it

Chi si aspetterebbe invece un PR ante-litteram, un animatore che grida con accento germanico «Benvenuti sull’isola delle rose!»? Neumann è proprio questo e perciò incarna alla perfezione lo spirito di una commedia che non pretende di essere un film storico o ideologico, ma rimane comunque un inno a tutti i diversi, ai senza patria, ai fuori posto, a coloro al di là di tutte le convenzioni e aspettative altrui.

  Angelica Rocca

E tu che Bridgerton sei?

La serie più discussa del momento non poteva di certo passarci inossarvata.

Voto UVM: 4/5 – bellissima e perfetta per il momento, leggera e intrigante ma forse un po’ sopravvalutata

La fabbrica di sogni (e disgrazie) di Shonda Rhimes ha prodotto ancora una volta un grande successo: Bridgerton, una serie tv in cui non c’è nulla di scontato, neanche la durata di un episodio, e nella quale la «vita scandalosa dell’elite di Manhattan» si è trasferita – temporalmente e spazialmente – nell’Inghilterra di Orgoglio e Pregiudizio.

Lady Whistledown e le sue cronache ci rendono partecipi della vita scandalosa delle debuttanti e delle loro famiglie. E noi, un po’ come tutti, adoriamo gli scandali.

Qual è il modo migliore per parlarne se non tramite i protagonisti?

Eloise Bridgerton

La seconda giovane donna di casa Bridgerton – prossima al debutto in alta società – con una discutibile acconciatura e le gonne «troppo corte» è uno dei personaggi più apprezzati; ma perché?

Sicuramente perché lei (come le sottoscritte e il resto del mondo) vuole sapere chi si cela dietro le famose cronache rosa, ma questo non basta. La giovane nobile si considera al di fuori dal contesto della stagione degli eventi mondani e pur con il dovuto rispetto, considera le altre come «pollastre che sbattacchiano le ali in cerca di attenzioni maschili», non le vogliate male, siamo state tutte un po’ come lei.

Che sia Sua Maestà la regina o sua madre, Eloise riesce a sempre tenere testa e non si piega alle convenzioni.

fonte: townandcountrymag.com

Addirittura pare si sia stabilito il “matriarcato di Eloise”: una giovane donna così consapevole delle proprie scelte tanto da non accettare gli stereotipi; una nobile fuori tema ma non per questo meno solidale, meno femminile o meno gentile.

E questo è forse un urlo di femminismo celato dietro lustrini e modiste.

Anthony Bridgerton

Il visconte è un personaggio affascinante e severo, pieno di doveri e di rinunce. Che «da grandi poteri derivano grandi responsabilità» Anthony lo sa benissimo, il primogenito Bridgerton non può permettersi di sbagliare perchè tutti sono sotto la sua protezione; ma forse lui non è ancora pronto.

fonte: popbuzz.com

Protezione, onore e rispetto sono i valori preponderanti e sposteranno con forza amore e sincerità; questi due ideali – che per tutti sono essenziali – qui perdono tono e infine il giovane dovrà rinunciarvi. Il peso della nobiltà si fa parecchio evidente e il  il cliché della bella ma povera verrà perfettamente interpretato dalla cantante d’opera.

Questo rende bene quanto dura sia la vita dell’alta società e ci ricorda che nonostante tutto è vero che non è tutto oro ciò che luccica.

Sua Maestà la regina

E’ vero, non è un Bridgerton però sapete che c’è? È uno dei  personaggi più interessanti e discussi. Apparentemente piena e ricca di ogni cosa ma concretamente povera di affetto e di gioia. È una regina di colore che ha fatto discutere molto, sopratutto circa la veridicità del contesto storico e della sceneggiatura generale, ma che è stata ben inserita.

fonte: wondernetmag.com

La splendida interpretazione rende giustizia ai tratti non convenzionali della sovrana e dietro animali e dame di compagnia, ci mostra come si nasconde una donna sola che si nutre solo dell’etichetta e delle convenzioni.

Daphne Bridgerton

La quarta degli otto Bridgerton: la figlia di mezzo. Anzi, l’esemplare perfetto di figlia di mezzoDaphne è un personaggio che tenta di essere contemporaneamente all’altezza degli standard richiesti dall’alta società ottocentesca ed un modello per la propria famiglia. Nominata «gioiello della stagione» già al suo debutto, incontrerà un forte ostacolo alla realizzazione dell’unico obiettivo della sua vita, il matrimonio: stiamo parlando del suo carattere. 

Infatti, nonostante i chiacchiericci positivi sul suo potenziale, Daphne non riesce a trovare marito. Da un lato sembra essere il fratello maggiore a scacciare via ogni pretendente, d’altro canto è anche vero che Daphne sembra più adatta ad essere un’amica che altro per via della sua socievolezza, della gentilezza e della sottile ironia. Tale tratto, per quanto giochi a suo sfavore, sarà fondamentale nell’avvicinarla al Duca di Hastings.

fonte: looper.com

Il personaggio dovrebbe rispecchiare la classica tipizzazione dei period dramas, una Jane Bennet rivisitata dalla Rhimes che finisce per assumere connotazioni alterate rispetto a quelle della classica signorina: dalla scoperta della sessualità ai raggiri, Daphne finisce per collidere contro sé stessa, creando una discrepanza tra il personaggio della signorina per bene che la società conosce e la ragazzina ingenua e desiderosa di amore che è realmente. Perché sì, Daphne è ingenua. Molto ingenua, ma anche sottilmente subdola come, dopotutto, molte dame del tempo.

Simon, Duca di Hastings

Veniamo a lui: il bello e dannato. Un lavoro di Shonda Rhimes non potrebbe mai sussistere senza il suo Stranamore personalizzato, è proprio la condicio sine qua non.

Ma osserviamo il personaggio ben oltre l’innegabile bellezza offerta dall’interprete Regé Jean-Page. Simon è infatti una persona profondamente traumatizzata: sin dall’infanzia è costretto ad affrontare un immotivato rifiuto del padre dovuto alla sua balbuzie, fatto che lo indurrà a credere di non essere meritevole di essere amato neanche dopo aver superato l’ostacolo della parola. Tali traumi si riverberano, in età adulta, in un desiderio di vendetta accecante al punto tale da mettere in pericolo la sua stessa felicità. Simon è un personaggio rancoroso, ma sotto il rancore vi è una fragilità d’animo ed un bisogno d’amore tipici dei personaggi della Rhimes. Però non lasciatevi intenerire: anche il nostro Duca sa essere testardo e subdolo, a volte detestabile poiché spinto dall’egoismo.

fonte: vanityfair.it

Un punto a favore di Hastings vogliamo però ricordarlo: egli rimane sempre molto umile nei confronti delle persone che gli stanno attorno e lo dimostra il fatto che il suo migliore amico sia un semplice oste/pugile, oltre che il suo odio verso il titolo con cui è nato (ma questo è dovuto sempre e comunque al desiderio di mancare di rispetto al padre).

E voi in quale personaggio della prima stagione di Bridgerton vi rispecchiate di più? Se, invece, ritenete di non riuscire ancora ad immedesimarvi in nessuno di loro, state tranquilli. Sono alte le probabilità che una seconda stagione venga confermata molto presto e che le riprese comincino a marzo 2021. Intanto, possiamo anticiparvi che molto probabilmente la serie seguirà la struttura originale dei libri, concentrando ciascuna stagione su un Bridgerton diverso.

Quale degli otto fratelli dominerà in futuro il palinsesto di Netflix ma, soprattutto, la penna affilata di Lady Whistledown?

Barbara Granata e Valeria Bonaccorso

Speciale di Natale: 5 film e serie TV (più un libro) per passare al meglio le festività

Una cosa è sicura: quest’anno sarà un Natale diverso dal solito. Ma come trovare il giusto spirito natalizio? Sicuramente un film, una serie TV o un libro potrebbero aiutare (sopratutto se a tema).

Ne abbiamo scelti alcuni per voi, tra quelli più nuovi e adatti a tutti i tipi di età.

Holidate

Questo film originale Netflix, uscito nel 2020, è una commedia romantica di John Whitesell con attori protagonisti Emma Roberts (Sloane) e Luke Bracey (Jackson). 

Fonte: netflix.com

Sloane è una ragazza single che viene assillata dai propri parenti affinché trovi un fidanzato ufficiale così da non essere sola per le feste; prenderà in esempio lo stratagemma usato dalla zia: il festa-amico, cioè uno sconosciuto che la accompagni alle feste in famiglia. Sloane incontra in un centro commerciale Jackson, anche lui alla ricerca di stratagemmi per non passare le feste da solo, come organizzare appuntamenti al buio. In fila per restituire dei regali di Natale si conosceranno e si racconteranno le proprie vicende disastrose, decideranno così di diventare festa-amici. Cosa accadrà?

Jingle Jangle – Un’avventura Natalizia

Jingle Jangle è un musical – fantasy con attori protagonisti Forest Whitaker (Jeronicus Jangle) e Madalen Mills (Journey), diretto da David E. Talbert e distribuito da Netflix.

Fonte: spettacolo.periodicodaily.com

E’ ambientato nella cittadina di Cobbleton, in cui vive Jeronicus Jangle con tutta la sua famiglia; è un famoso giocattolaio dalle magiche invenzioni che avrà dei problemi con il suo giovane apprendista. Infatti questo lo tradirà rubandogli la sua creazione più grande insieme al libro che custodiva i segreti delle sue creazioni. A salvare la situazione ci sarà la nipotina Journey, questa farà ritrovare la speranza al nonno e riuscirà a salvarlo dalla situazione grazie ad una vecchia invenzione da lui dimenticata. Ma niente sarà facile!

Krampus – Natale non è sempre Natale

Questo film dell’Universal Pictures, uscito nel 2015, è una commedia – horror che vede alcuni attori come Toni Collette (Sarah Engel) e Adam Scott (Tom Engel) e come regista Michael Dougherty.

Fonte: themacguffin.it

Mancano pochi giorni al Natale e tutta la famiglia si riunisce. Max, figlio di Sarah e Tom, crede in Babbo Natale e vorrebbe che in famiglia ci fosse lo spirito natalizio che invece manca. Durante una cena le cugine di Max leggono ad alta voce – e davanti a tutti – la lettera da lui scritta per Babbo Natale, provocando così uno scatto d’ira che lo porta ad urlare di odiare il Natale, strappando la lettera. Improvvisamente una bufera di neve causa un blackout; strani esseri iniziano ad invadere la casa attaccando i membri della famiglia, ma ancor peggio, arriverà il Krampus, un demone che punisce chi perde lo spirito del Natale. Riuscirà la famiglia a salvarsi da lui ed i suoi mostruosi scagnozzi?

Klaus – I segreti del Natale

Film d’animazione e avventura spagnolo di Sergio Pablos, distribuito da Netflix, uscito nel 2019 con un cast di voci (nella versione italiana) che comprende Francesco Pannofino (Klaus) e Marco Mengoni (Jesper).

Fonte: nerdevil.it

Jesper, figlio di un ricco padre esperto nel mercato postale, è incapace di compiere il lavoro da postino; così viene spedito dal padre nella piccola cittadina di Smeerensburg, un’isola deserta e ghiacciata, con il compito di consegnare 6000 lettere in un anno. Con gli abitanti divisi in due fazioni, da sempre in lotta tra loro, non è un’impresa facile. Nel corso della missione si imbatte in Klaus, un vecchio falegname con una casa isolata e piena di giocattoli (da lui creati) e in Alva, una maestra che vendendo pesce fa di tutto per risparmiare per andare via da lì. Klaus, vedendo un disegno fatto da un bambino triste, inizia insieme a Jesper la consegna di regali a tutti i bambini che attraverso le loro lettere chiedono la felicità. Cosa combineranno?

Nailed It / Sugar Rush 

Serie TV statunitensi trasmesse su Netflix dal 2018/19. Delle tanti edizioni e da numerosi Paesi troviamo anche le edizioni dedicate al Natale!

Fonte: news.newonnetflix.info 

Dei pasticceri, principianti e non, si sfideranno ai fornelli per aggiudicarsi il premio di 10’000$. A giudicare le loro preparazioni un team di giudici esperti. Ne combineranno delle belle!

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale

Avete presente quando fuori fa molto freddo e le braci sono quasi spente? Ebbene, ecco un ciocco di legno per ravvivare il fuoco del caminetto!

 Fonte: fotografia di Rita Gaia Asti

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale è una poesia di Gianni Rodari, edita da Einaudi Ragazzi e tratta da Il secondo libro delle filastrocche del 1985.
L’autore – insignito del premio Hans Christian Andersen per la narrativa per l’infanzia – racconta la storia di un passerotto infreddolito che scorge dal davanzale di una finestra una famiglia in procinto di fare l’albero di Natale. La invita quindi a lasciarlo entrare, perché possa non solo fare il nido sul loro abete e scaldarsi, ma anche dare gioia ai più piccoli di casa, che apprenderanno l’importanza di accogliere e proteggere anche la più piccola tra le creature viventi:

E per il vostro bambino
pensate domani che gioia

trovare tra i doni, dietro
una mezzaluna di latta,
fra la neve d’ovatta
e la rugiada di vetro.

Trovare un passero vero,
con un cuore vero nel petto

E’ una lettura adatta al periodo natalizio, accompagnata da illustrazioni gradevoli, capace di rasserenare l’animo e scaldare il cuore di grandi e piccini; particolarmente indicata per quei momenti di sconforto nei quali si avverte l’esigenza di alleviare le preoccupazioni.

                                                                                                                                                                                              Samuele Vita e Rita Gaia Asti

Milada: due dittature non bastano per annientare la forza di volontà

Alcune volte il cinema è uno strumento necessario per poter comprendere il passato.
I film rappresentano realtà storiche di primaria importanza, soprattutto quando raccontate dal punto di vista di chi le ha vissute in prima persona.

I libri svolgono una funzione fondamentale per la nostra istruzione ma con le pellicole cinematografiche – di norma – riusciamo ad immergerci maggiormente all’interno di un determinato contesto. Se questi film da un lato ci permettono di conoscere profondamente una verità, dall’altro ci servono per aprire gli occhi.

Questo è il caso di Milada (2017) diretto da David Mrnka e scelto dall’associazione AEGEE per il cineforum #socialequity; il film narra la storia di Milada Horáková, una giurista e politica cecoslovacca divenuta celebre per le sue battaglie, prima contro il nazismo e poi contro il comunismo.

La locandina del film – Fonte: praguesoundtracks.com

Trama

Negli anni 30 Milada Horàkovà (Ayelet Zurer) è membro del partito socialista nazionale cecoslovacco; moglie di Bohuslav Horák (Robert Gant), anch’egli membro del partito e madre di Jana (interpretata nelle sue fasi di crescita da Daniel, Karina Rchichev e Tatjana Medvecká) si mostra da subito riluttante nei confronti della Germania di Hitler.

La donna entra immediatamente a far parte della resistenza contro l’occupazione nazista diventandone uno dei membri di spicco; sarà scoperta ed arrestata dalla Gestapo che in un primo momento la condannerà a morte. Successivamente la pena sarà convertita in ergastolo e Milada verrà deportata – così come il marito – in un campo di concentramento.

Una volta finita la guerra e dopo essere sopravvissuta agli orrori dei tedeschi, decide di candidarsi in politica. Insignita della Legion d’onore francese continuerà a svolgere le sue funzioni ribellandosi alle continue minacce del regime comunista fino a quando verrà nuovamente incarcerata e torturata brutalmente perché considerata una spia.

Milada durante un interrogatorio sovietico – Fonte: hanavagnerova.com

Trascorrono i mesi e i sovietici non permettono a Milada neppure di ricevere visite dalla famiglia; sarà costretta a vivere in una cella minuscola e a subire vessazioni fisiche e psicologiche con il fine di costringerla a dichiararsi nemica dello Stato.

Milada difenderà il suo credo ed il suo operato e lo farà fino alla fine.

Regia e cast

Il lavoro svolto dal giovane regista David Mrnka è splendido; egli è stato capace di raccontare egregiamente i fatti tragici ma (purtroppo) reali che hanno afflitto la vita di Milada.

Dato il suo ritmo lento il film sembra essere quasi drammatico; tuttavia il regista ha deciso di concedere spazio a sotto-trame secondarie per far comprendere integralmente le vicende dell’epoca così da poter dare un tono fortemente biografico al film.

Concretamente, i due generi cinematografici sono come “mescolati” tra loro in modo tale da non far prevalere uno rispetto all’altro, ottenendo così la possibilità di poter narrare una realtà nuda e cruda facendo commuovere e riflettere allo stesso tempo lo spettatore.

Una scena del film – Fonte: imdb.com

La performance dell’attrice israeliana Ayelet Zurer (così come quella degli altri membri del cast) è lodevole; profondamente calata all’interno della parte riesce ad ottenere il massimo a cui un interprete possa aspirare: non far trasparire che si stia recitando quando lo si sta effettivamente facendo.

Milada come simbolo

Affermare che Milada Horáková sia un esempio per la lotta dei diritti umani è riduttivo (soprattutto in questi tempi). Oggi, termini quali dittatura vengono utilizzati in maniera del tutto impropria per alimentare in maniera becera le propagande e per immolarsi paladini di una lotta che – almeno nel nostro e in molti alti paesi democratici – fortunatamente non esiste.

Il processo a Milada, da lei stessa definito «buffonata» – Fonte: expres.cz

Utilizzare tali terminologie solamente per creare paure e per gettare fumo negli occhi è ampiamente vile e irrispettoso nei confronti di chi ha dovuto realmente sacrificare la propria esistenza per abbattere queste tirannie.

Ad oggi diversi Stati del mondo sono sottoposti a regimi dittatoriali veri e propri e Milada è come un ausilio per distinguere la vera dittatura da quella creata per incantare le masse.

Vincenzo Barbera

Luci e ombre de “La regina degli scacchi”: è davvero la serie rivelazione dell’anno?

Voto UVM: 3/5

Miniserie in 7 episodi uscita il 23 ottobre, scritta e diretta da Scott Frank e ispirata al romanzo “The Queen’s Gambit” di Walter Tevis, La regina degli scacchi è la produzione Netflix più chiacchierata ed esaltata da un mese a questa parte. Ma è davvero la rivelazione di cui tutti parlano?

La trama

Tra gli anni ’50 e ’60, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy), rimasta orfana di entrambi i genitori, riuscirà a riscattarsi puntando tutto sulla passione per gli scacchi, hobby insolito per una donna dell’epoca. La serie ripercorre la sua storia partendo dalla infanzia tra luci e ombre nell’orfanotrofio: qui inizierà ad assumere tranquillanti, ma farà anche l’incontro decisivo della sua vita con il custode Shaibel (Bill Camp). Sarà lui a farle scoprire il “mondo racchiuso nelle 64 case” della scacchiera.

La piccola Beth assieme al custode Sheibel, figura centrale nella sua formazione. Fonte: AdHoc News Quotidiano.it

Il personaggio

Beth, bambina prodigio e poi affascinante regina degli scacchi, è un personaggio enigmatico e spigoloso, con cui lo spettatore fa fatica a simpatizzare: la sua è un’esistenza al di là del comune, sempre in bilico sugli estremi del successo e della tragedia, proprio come il bianco e il nero che si alternano sulla sua amata scacchiera. E poi c’è anche la personalità: determinata quasi sino alla presunzione, distaccata e composta, caparbia e restia ad accettare la sconfitta; Beth sembra crollare solo assieme alla torre nei rari casi in cui perde una partita e scomporsi poco invece di fronte agli altri drammi della vita.

Ma l’apparenza inganna: la rabbia che si porta dentro, come la avverte il suo mentore Shaibel, è invece tanta ed è proprio questa che la spinge ad avanzare verso la vittoria e a imporsi ai nostri occhi come un’icona di femminilità anche in un mondo prevalentemente maschile come quello degli scacchi.

Beth di fronte al campione internazionale Borgov (Marcin Dorociński). Fonte: telefilm-central.org

Da goffo anatroccolo bullizzato alla High School, Beth si trasforma in un elegante e seducente cigno. Questo tuttavia non porrà fine alla sua solitudine: la Harmon, come qualsiasi eroe, resta in un mondo a parte ed è per questo che immedesimarsi nel suo punto di vista è difficile. Desta forse più simpatia (per quanto personaggio meno centrale) la madre adottiva Alma, con la sue crisi quotidiane tra alcool e Chesterfield e la smania di vivere il qui e ora, in quanto è «l’unica cosa che conta».

Tuttavia la determinazione di Beth nel perseguire l’obiettivo di diventare Gran Maestro degli Scacchi può essere di grande esempio in un’epoca come la nostra, in cui gli stimoli più disparati distraggono facilmente i giovani dalle loro vocazioni più profonde. Insomma un invito a premere sull’acceleratore del nostro talento, rivolto a noi ragazze (e non solo).

Mosse vincenti

Ci sbagliamo però se vediamo nell’emancipazione femminile la chiave per cogliere l’originalità della serie.

Dal grande cinema alle fiction Rai, le sceneggiature abbondano da tempo di storie di riscatto che hanno per protagonista una donna. L’originalità di The queen’s gambit (questo il titolo originale della miniserie che è anche il nome di una celebre mossa scacchistica: il gambetto di donna ) sta però nel calare questo racconto verosimile di rivalsa femminile in un mondo sconosciuto ai più: gli scacchi, gioco spesso considerato noioso e d’élite e rare volte oggetto di romanzi, film e tantomeno serie di successo.

Il montaggio racconta gli scacchi come un gioco di magiche armonie: i pezzi si muovono guidati dalle mani di Beth come se danzassero e l’ombra della scacchiera appare alla piccola protagonista sul soffitto quasi come in un incantesimo. Ma la mossa sicuramente più riuscita e che sicuramente ha fatto più gola agli spettatori è l’ambientazione d’epoca: il meglio degli anni ’50 e ’60 rivive nella colonna sonora che vanta nomi del calibro di Peggy Lee, The Monkees, Donovan, nei colori pastello della scenografia, ma soprattutto nell’eleganza dei vestiti creati su misura dalla costumista Garbiele Binder.

Beth Harmon in look total white. L’outfit è un chiaro rifermento alla Regina Bianca degli scacchi. Fonte: vogue.it

Altra gioia per gli occhi: la fotografia. Soprattutto nel primo episodio i colori fanno da contraltare al vissuto della protagonista: gli ambienti dell’orfanotrofio sono opachi e freddi; fa eccezione la camera del custode illuminata da una più confortante luce calda: è lì che Beth sarà folgorata dalla scacchiera.

Forzature

Sapevate che il compianto Heath Ledger voleva girare un film basato su “The queen’s gambit”? Un vero peccato che il progetto non sia andato in porto: i tempi più concisi del cinema avrebbero permesso di concentrare una trama che, distribuita invece su 7 episodi, stenta a decollare, rivelandosi a tratti lenta e poco avvincente. Anche l’intreccio è piuttosto monotono: la vita di Beth prosegue tra una vittoria e l’altra mentre alcuni eventi più personali spesso rimangono solo sullo sfondo o vengono narrati con poco coinvolgimento. Altro scoglio che può scoraggiare lo spettatore sono i dialoghi che indugiano troppo sul lessico scacchistico e rischiano di annoiare i più profani del gioco.

Scacco matto

Anya Taylor-Joy (Beth Harmon) davanti alla scacchiera. Fonte: nospoiler.it

La vera rivelazione della serie è invece Anya Taylor Joy nei panni della protagonista: è lei a reggere il gioco comunicando con lo sguardo e la mimica per creare un personaggio intrigante, ma anche impenetrabile e sui generis. Ci auguriamo di rivederla presto anche sul grande schermo: la sua performance posata e allo stesso tempo decisa è perfetta per trame gangster e thriller di tutto rispetto.

 

Angelica Rocca

 

Malèna: cronaca di una morte

Malèna (2000), regia di Giuseppe Tornatore, è una pellicola carica di crudezza ed apatia. Un film che grida alla denuncia di una mentalità chiusa e corrotta che, se esisteva nei lontani anni Quaranta del Novecento, non è sicuramente cambiata – almeno in determinati contesti –  ai giorni nostri. Una denuncia, dunque, che risulta più che attuale, specie se proveniente da una donna.

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Monica Bellucci nei panni di Malèna – Fonte: spietati.it

Sinossi

La protagonista è Malèna (Maddalena) Scordia (Monica Bellucci): un nomen loquens, potremmo dire. Co-protagonista e voce narrante è invece il giovane Renato Amoroso (il nostro concittadino Giuseppe Sulfaro), un ragazzino nel pieno della pubertà che inizia a provare una passione struggente per la statuaria Malèna, innamorandosene al primo sguardo.

Tramite le sue parole, ma ancor più i suoi gesti, ci viene raccontata la parabola di una donnada santa a puttan*“:l’ascesa e poi il declino. Guardandola tramite gli occhi languidi del ragazzino, ci accorgiamo che il realismo magico delle scene erotiche non lascia spazio al romanticismo, a tratti inquietando lo spettatore, con l’incredibile effetto di sottoporci continuamente allo stress di quella situazione verosimile.

I personaggi

Seguendo i protagonisti nel loro percorso sentiremo chiaramente ogni sensazione da loro provata (e voluta dal maestro Tornatore): disagio, angoscia, rabbia, rassegnazione. Ed in effetti, la bellissima Maddalena è una donna rassegnata: a non vedere più il volto del marito, ad essere sola nella gabbia dei leoni. Disprezzata e rumoreggiata da tutti, passeggia per le strade della piccola cittadina siciliana quasi senza una meta.

Dopotutto, quale meta dovrebbe avere un personaggio spogliato di ogni dinamismo, cristallizzato nell’essere la valvola di sfogo dell’intero mondo costruitogli attorno?

Se notiamo bene, i personaggi secondari che ci vengono presentati sono della peggiore fattispecie e vili: una popolazione che sconcerta, raccapriccia, ma che descrive con incredibile finezza la mentalità bislacca della Sicilia d’altri tempi; mentalità, peraltro, talvolta ancora radicata nella nostra isola. In mezzo al questa accozzaglia di gente, si elevano le Erinni della donna. Il paragone non è casuale: la giovane viene perseguitata dalle altre signore del suo paese per un motivo semplice quanto banale: l’invidia.

Ma il male è sempre banale.

Fonte: webpage.pace.edu

L’urlo

E allora, dalle prime scene d’innocenti bisbigli, si passa alla scena più dura, intrisa di cattiveria del film: il linciaggio pubblico. Malèna – ormai divenuta la “prostituta del paese” – viene picchiata in pubblica piazza al cospetto di tutti gli uomini. Quegli stessi uomini che le facevano la corte, che facevano a gara per accenderle la sigaretta, che abusavano della sua dignità.

Chiave del film è il momento in cui la donna, malmenata, si rivolge agli omuncoli che erano rimasti a guardarla con ripugnanza. Nessuno di loro si fa avanti per offrire una mano a lei che striscia e cerca aiuto. Anche Renato, profondamente innamorato di lei, rimane a guardare come paralizzato. Ed allora un urlo: tutto il dolore accumulato negli anni, la rabbia, la depressione. Un urlo che mira a risvegliare le coscienze, non solo quelle della folla indisturbata, ma anche degli spettatori.

“Voi che mi avete derisa ed usata per il vostro intrattenimento, vedete come mi avete ridotta? Siete soddisfatti?”: suona così, tradotta in parole, la mia mia interpretazione della scena.

Ed ho capito anche che Tornatore ha svolto un lavoro incredibile nel momento in cui, anche solo per un secondo, mi sono sentita parte di quelle Erinni.

La cruda realtà

Malèna è un film che, nel suo asettico silenzio, parla di una morte spirituale con lucidità e cinismo e ci fa realizzare come siamo tutti aguzzini: lo siamo ogni volta che ignoriamo il grido d’aiuto di una persona bisognosa e lo siamo ancor di più quando giustifichiamo le violenze con la “disinvoltura dei costumi”.

Se da un lato è vero che la donna aveva effettivamente abbracciato la vita che non meritava, dall’altro dobbiamo renderci conto che tale scelta è stata spinta da un climax di sciagure di cui è la vittima inerme, inserita nella scena col solo fine di dimostrare quali livelli paradossali di malvagità si possano raggiungere.  E la strepitosa Bellucci impersona Malèna con preoccupante naturalezza.

Fonte: cineturismo.it

D’altro canto le rimane solo un ragazzino. Un ragazzino un po’ codardo, sì, ma che dal proprio errore (non aver prestato soccorso alla donna che, per due ore di film, ci ha ribadito di amare) ha attraversato un percorso di maturazione, mentre il resto delle grottesche figure tornerà a ricoprire, a fine film, il ruolo che aveva all’inizio, come se la vicenda si svolgesse dentro un carillon destinato a ripartire ogni volta che se ne gira la manovella.

Tutti tornano al loro posto, compresa Malèna (che a quel principio non è poi così estranea), ma non Renato. Lui, sin dal primo momento una voce fuori dal coro, si distinguerà per essere stato l’unico di quel paesello disgraziato ad aver conosciuto gli effetti devastanti della passione amorosa. Una passione che rimarrà impressa a vita, racchiusa in un nome maledetto ed abusato, ma che nei pensieri del ragazzo sarà sempre sinonimo di “amore”: Malèna.

Valeria Bonaccorso

Studio Ghibli: 5(+1) film per entrare nella magia di Hayao Miyazaki

Quando si parla di animazione è veramente difficile superare i Giapponesi: ne sa qualcosa lo Studio Ghibli, fondato nel 1985 a Tokyo. Il suo nome si è fatto largo in Occidente e nel grande cinema grazie ad Hayao Miyazaki, cofondatore dello studio e suo regista di punta. Nelle sue creazioni il maestro affronta tematiche di grande spessore attraverso gli occhi dei protagonisti, spesso bambini. Questo fa sì che i film dello Studio Ghibli siano godibili sia da un pubblico giovanissimo sia da quello più avanti con l’età.

In occasione della loro recente aggiunta al catalogo di Netflix, vi proponiamo 5(+1) opere che meglio rappresentano il regista giapponese.

1) Il mio vicino Totoro (1988)

Giappone anni ‘50, Setsuki e la sorellina Mei si stanno trasferendo insieme al padre in un piccolo villaggio di campagna per meglio assistere la madre ricoverata in un ospedale lì vicino. La nuova casa è di fianco a un bosco dove le due sorelline faranno la conoscenza di Totoro, spirito buono della natura e custode della foresta. Quest’ultimo accompagnerà le fortunate bambine alla scoperta di una natura affascinante e viva. Si dimostrerà anche essere un amico fedele e pronto ad aiutarle nel momento del bisogno, quando ogni speranza sembrava persa. Il personaggio di Totoro ha riscosso così tanto successo da essere stato scelto come logo dello studio.

Setsuki, Mei e Totoro alla fermata del bus. Fonte: mamamo.it

2) Porco Rosso (1992)

Marco è un ex pilota dell’aeronautica italiana che, dopo aver rischiato la morte durante la prima guerra mondiale, si ritrova trasformato in un maiale. Dopo l’avvenimento decide di ritirarsi a vita privata e diventare un cacciatore di pirati, lasciandosi alle spalle il suo passato. Il film è rappresentativo dello smisurato amore del regista per gli aerei (viene anche citato il bimotore Ghibli, velivolo che ha ispirato Miyazaki per il nome dello studio). Spiccano anche altri temi cari al regista come il rifiuto della guerra e la forza delle donne, che saranno di fondamentale aiuto al protagonista, trattati con la leggerezza e l’ironia che contraddistinguono le opere dello studio.

Marco sul suo aereo. Fonte: anime.everyeye.it

3) Principessa Mononoke (1997)

Il giovane principe Ashitaka è costretto a uccidere uno spirito-cinghiale maledetto che aveva attaccato il suo villaggio. Durante lo scontro, però, si ferisce a un braccio e viene contagiato dalla maledizione dello spirito. Partito alla ricerca di una cura per il male che altrimenti lo porterebbe alla morte, il principe si imbatte in San, una ragazza cresciuta dai lupi ed educata al rispetto della natura e all’odio verso gli umani. Superate le iniziali tensioni, i due collaboreranno per contrastare la Città del Ferro che minaccia la foresta dove vivono San e il Dio-Cervo, l’unico a poter sciogliere la maledizione. Spettatori dell’eterno scontro tra l’uomo e la natura, la pellicola ci lascia con un interrogativo: è davvero impossibile una convivenza tra queste due parti?

Ashitaka e San. Fonte: mardeisargassi.com

4) La città incantata (2001)

Opera in assoluto più famosa di Miyazaki, è stato anche il primo e unico anime ad aggiudicarsi un Oscar. Chihiro e i suoi genitori si imbattono in una città apparentemente deserta composta solo da locali e ristoranti, in cui i genitori della bambina iniziano a servirsi da mangiare. Chihiro, allontanatasi un momento, scopre al suo ritorno che i genitori si sono trasformati in maiali e, come se non bastasse, che di notte la città si popola di spiriti di ogni genere. Sarà un ragazzo di nome Haku a soccorrerla e a svelarle l’unico modo per sopravvivere in quel luogo: trovare un impiego presso la strega Yubaba che controlla la città. Chihiro intraprenderà dunque un percorso interiore che la trasformerà da timida e impaurita a forte e risoluta: basterà per salvare se stessa e i suoi genitori?

Chihiro e Haku. Fonte: nospoiler.it

5) Il castello errante di Howl (2004)

Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Diana Wynne Jones, narra le vicende di Sophie Hatter, una giovane cappellaia che, dopo essere stata tramutata in vecchia dalla Strega delle Lande, incontra il misterioso mago Howl e inizia a vivere nel suo castello. Per sdebitarsi dell’ospitalità ricevuta offrirà i suoi servizi come donna delle pulizie e la convivenza le permetterà di venire a conoscenza dell’oscuro passato del mago e del perché conduca una vita da eremita. Il suo aiuto però andrà ben oltre le pulizie e Howl inizierà ad assumersi le proprie responsabilità. Smetterà infatti di scappare dai doveri che lo vedrebbero impegnato nella guerra che incombe sul regno in cui vive e inizierà a combattere per le persone che vuole proteggere.

Sophie e Howl. Fonte: anipponnight.wordpress.com

5+1) Nausicaä della Valle del vento (1984)

Sebbene prodotto un anno prima della fondazione dello studio, il film è perfettamente in linea per stile e tematiche con le altre opere di Miyazaki targate Ghibli. Tratto dall’omonimo manga del regista, il film ci mostra la Terra devastata da una guerra termonucleare avvenuta millenni prima della storia che vediamo. Nausicaä è la principessa di uno degli ultimi insediamenti di umani che vivono liberi dai miasmi emanati dal Mar Marcio, una foresta in continua espansione abitata da insetti mutanti. Andando contro il pensiero di tutti, la ragazza dimostrerà che anche una natura apparentemente così inospitale, se capita e rispettata, può nascondere un cuore sano e capace di accogliere gli umani.

Nausicaä in una scena del film. Fonte: cinema.fanpage.it

A tutti coloro che sono in trepida attesa della prossima uscita firmata Hayao Miyazaki, dobbiamo dire di pazientare ancora un po’. In una recente intervista Toshio Suzuki, produttore dello Studio Ghibli, ha infatti affermato che per l’uscita del suo prossimo film dovremo aspettare almeno tre anni. Pensate un po’, è necessario un mese di lavoro per disegnare i fotogrammi che compongono un solo minuto di film! È bello come, in un mondo che si avvia sempre più verso la digitalizzazione, c’è chi ancora valorizza le abilità manuali e le tradizioni.

Davide Attardo