Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Pride Month: coppie arcobaleno nelle serie tv

Le serie tv sono ormai un’espressione dell’arte visiva e cinematografica sempre più affermata; ne esistono veramente di tutti i tipi e per tutti i gusti. Ultimamente anche grandi registi e star di Hollywood tendono a cimentarsi maggiormente nella realizzazione di serie tv. Queste divengono quindi un nuovo strumento di diffusione e di sensibilizzazione per tutte quelle tematiche d’attualità che si vanno affermando nella nostra società: prima fra tutti, la tutela della comunità LGBT+. E quale momento migliore per celebrare l’amore in tutte le sue forme se non durante il Pride Month! A tal proposito, negli ultimi anni è aumentata la rappresentanza di questo gruppo sociale anche nelle serie tv. Andiamo dunque a ricordare alcune delle più note coppie LGBT+ del mondo seriale!

Glee: Kurt e Blaine / Santana e Brittany

Una delle serie tv, a mio parere, più inclusive è Glee. Questa, pur essendo ormai più datata di altre (la prima stagione è uscita nel 2009), affronta in maniera molto aperta il tema della diversità. La serie racconta le vicende del glee club, il gruppo corale della McKinley High. Tra i personaggi principali, specialmente delle prime stagioni, ritroviamo due coppie gay: si tratta di Kurt Hummel (Chris Colfer) Blaine Anderson (Darren Criss), e di Brittany S. Pierce (Heather Morris) e Santana Lopez (Naya Rivera). I Klaine si conoscono alla Dalton, dove Kurt si intrufola per spiare una delle squadre rivali del glee club; qui, tra tutti gli studenti che lo accolgono calorosamente, conosce Blaine e tra i due si crea subito un legame particolare. La relazione tra Santana e Brittany è un po’ differente. Le due sono molto amiche da sempre, entrambe cheerleader, ma Santana ha delle difficoltà ad aprirsi e riesce a fare coming out solamente durante l’ultimo anno di liceo, quando inizia una relazione con Brittany.

pride month
Logo del glee club. Fonte: wikimediacommons.org

Modern family: Mitch e Cam

Modern family è una nota sitcom, lanciata nel 2009 e conclusasi solamente nel 2020. Tratta le vicende di una famiglia americana e di come le loro vite si evolvano negli anni. Due dei personaggi principali sono Mitchell Pritchett (Jesse Tyler Ferguson) e Cameron Tucker (Jesse Tyler Ferguson). I due si rivelano una coppia stabile, pur essendo molto diversi tra loro: Mitch è sicuramente più riservato ed apatico, mentre Cam è molto sentimentale ed affettuoso, e tende spesso ad incentrare tutte le attenzioni su di sé. Fin dal primo episodio adottano una bambina dal Vietnam, Lily (Aubrey Anderson-Emmons), che cresce circondata dall’amore dei due genitori e da tutte le cure possibili.

Sex education: Eric e Adam / Lily e Ola

Sex education (di cui abbiamo già parlato qui) è senza alcun dubbio una delle serie più conosciute e più discusse fin dalla sua uscita, sulla piattaforma Netflix, nel gennaio del 2019. La serie, infatti, ponendosi come strumento per sensibilizzare maggiormente i giovani, affronta in maniera chiara ed esplicita il tema della sessualità. Nel corso delle vicende ritroviamo due coppie LGBT: si tratta di Eric (Ncuti Gatwa) e Adam (Connor Swindells) e di Lily (Tanya Reynolds) e Ola (Patricia Allison). I primi riscontrano da subito diversi problemi, legati alla difficoltà di Adam a vivere la propria omosessualità in maniera serena e ad esprimere i propri sentimenti. Lily ed Ola, invece, vivono la propria relazione in modo più sano, senza vergognarsi delle proprie fantasie.

Grey’s anatomy: Callie e Arizona

Grey’s anatomy è uno degli show medical drama più conosciuto in assoluto. Uscito per la prima volta nel 2005, oggi conta ben 18 stagioni dense di intrighi amorosi e strabilianti colpi di scena. La serie, segue le vicende dei medici del Seattle Grace Hospital e specialmente della dottoressa Meredith Grey (Ellen Pompeo). Tra i personaggi principali ritroviamo anche Callie Torres (Sara Ramirez), chirurgo ortopedico, che dalla quinta stagione intraprende una relazione col chirurgo pediatrico Arizona Robbins (Jessica Capshaw). Pur avendo inizialmente un rapporto difficile, dovuto anche ai contrasti del padre di Callie, le due avranno una relazione duratura nelle successive stagioni, fino a sposarsi.

Black Mirror: San Junipero

Last but not least, troviamo nella nota serie tv distopica Black mirror un intero episodio della terza stagione dedicato alla storia d’amore tra Yorkie (Mackenzie Davis) e Kelly (Denise Burse). Black mirror tratta in ogni episodio una storia differente, ambientata in un ipotetico futuro tecnologico e anti-utopico. San Junipero però non presenta quell’ansia e quel terrore catartico che caratterizzano molti altri episodi della serie. In questo, vengono raccontate le vicende di due ragazze, Kelly, molto estroversa, e Yorkie, più timida ed impacciata, a San Junipero, una sorta di realtà parallela. Per quanto Kelly, spaventata dall’idea di una relazione, cerchi di scappare da Yorkie, le due sono però destinate a stare insieme.

pride month
Logo di Black mirror. Fonte: commons.wikimedia.org

La presenza di qualche personaggio LGBT+ potrebbe sembrare irrilevante per molti: sicuramente non può da solo risolvere problemi di omo-bi-transfobia nella nostra società. Ciononostante può sensibilizzare e normalizzare qualsiasi relazione; ed in più, permette a tutti di potersi immedesimare nei personaggi, di sentirsi rappresentati, anche se solo in una serie tv o in un film. Si tratta di piccoli gesti che però possono avere una grande importanza.

Ilaria Denaro

Stranger Things 4 parte I: tra realtà e fantascienza

      Una serie avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo – Voto UvM: 5/5

 

Esser felici dura il tempo di un ballo
Fra Dustin e Nancy
(La Storia Infinita – PTN)

Una strana atmosfera avvolge Netflix, i colori si sono spenti, è tutto sotto sopra, giochi da tavolo come Dungeons & Dragons vengono rispolverati. Strane cose avvengono sulla piattaforma streaming.

Dopo tre anni finalmente ritorna Stranger Things con la prima parte della quarta stagione. Ritardo dovuto soprattutto all’emergenza pandemica che ha più volte costretto il regista a rimandare le riprese. La seconda parte della stagione debutterà il 1 luglio 2022 con altri due episodi ma non sarà l’ultima! Netflix ha infatti già annunciato una quinta stagione per il gran finale.

Con l’annuncio di questa quarta stagione internet è esploso. I fan ormai aspettavano l’uscita della serie, il 27 maggio, più di ogni altra cosa. Non saranno mancati i rewatch di una terza stagione che ci aveva lasciati col fiato sospeso, del duetto di Dustin e Suzy sulle note di Neverending Story, canzone tratta da La Storia Infinitafilm che ha ispirato i Pinguini Tattici Nucleari nella realizzazione dell’omonimo brano. Abbiamo capito che la serie TV è entrata nei cuori di molte persone. E per i più nostalgici sarà un colpo al cuore vedere i protagonisti che da teneri bambini sono diventati dei veri e propri adolescenti isterici. È proprio in casi come questi che la vecchia che è in te penserà: “Ai miei tempi queste cose io non le facevo”.

Da sinistra verso destra gli attori: Caleb McLaughlin (Lucas), Gaten Matarazzo (Dustin), Finn Wolfhard (Mike),  Milly Bobby Brown (Unidici). Fonte: Netflix

Un tuffo nel passato

Ritorniamo indietro nel tempo: con le stagioni precedenti abbiamo avuto modo di conoscere tutti i personaggi. Li abbiamo visti scappare in bici dai “cattivi” che trattavano Undici come un topo da laboratorio. E abbiamo visto nascere i primi amori, come quello tra “Undi” e Mike o quello tra Max e Lucas. E poi, chi non ha mai desiderato creare l’alfabeto, costruito da Joyce nella prima stagione, per ritrovare Will?

“Gli amici non mentono”

Ci siamo innamorati di Stranger Things per la sua storia avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo. Autentico, perché ci mostra l’interiorità di ogni personaggio. Ci fa scoprire il mondo del Sottosopra, una dimensione alternativa, “arredata” di flora e fauna. Sono quest’ultime ad allevare e controllare il Mind Flayer, un super organismo e villain principale della serie, che produce i Demogorgoni, creature alte 3 metri, con corpi antropomorfi e con una “carnagione” verdastra – che nemmeno con un po’ di sole di Agosto si può rimediare – e una testa che sembra un simpatico fiore di tulipano.

Undici che combatte contro il Demogorgone. Fonte: Netflix

Il Ritorno

Stranger Things con la sua storia avvincente ha affascinato tutti – nerd e non – rendendola una delle serie TV più amate di tutti i tempi. L’opera tiene lo spettatore incollato allo schermo anche grazie ai tanti temi trattati: amore, amicizia, mistero, ecc…

“Solo l’amore ti rende così folle e così dannatamente stupido”

La quarta parte è composta da 7 episodi e il Sottosopra ritorna a minacciare gli abitanti di Hawkins. Nuovo mostro, nuova avventura!
I ragazzi come dei segugi cercheranno di risolvere il mistero, per salvare la loro cittadina, che sembra essere diventata la nuova Salem – ma con i Demogorgoni al posto delle streghe! In questa stagione un nuovo cattivo fa il suo debutto. Stiamo parlando di Vecna, un “demone” che minaccia i cittadini.

La nuova stagione è come un puzzle: all’inizio lo spettatore si sente confuso e non capisce cosa sta accadendo ma andando avanti, pian piano, riceve delle risposte.

The Hellfire Club. Fonte: SmartWorld

Stagione nuova, personaggi nuovi

Nel cast troviamo delle new entry, come l’affascinante Jamie Campbell Bower, che interpreta Peter Ballard, un uomo empatico che lavora come assistente nel laboratorio del Dottore Martin Brenner, (Matthew Modine) colui che tiene sotto osservazione i bambini e i ragazzi come Undici (Milly Bobby Brown). Ci sarà poi  Joseph Quinn, a vestire i panni di Eddie Munson, un liceale, leader del Hellfire Club.

I protagonisti principali sono ormai cresciuti, sono cambiati, e anche il gruppo questa volta non sarà unito “fisicamente” come nelle stagioni precedenti. Ognuno di loro affronterà un’avventura diversa. Ma anche se in Stati diversi, tutti lotteranno per lo stesso scopo.

Joyce, interpretata dalla bellissima Winona Ryder, volerà in direzione Alaska, assieme a Murray Bauman (Brett Gelman), per salvare Hopper (David Harbour). Nancy, Lucas, Steve, Dustin, Max e Robin, rimasti ad Hawkins, cercheranno indizi per salvare la loro città. Mentre Mike, Will e Jonathan, saranno alla ricerca di … non ve lo dico, dovrete guardare la serie!

Alla fine abbiamo Undici, che tornerà nel laboratorio, da cui in passato era scappata, per cercare di riacquistare i propri poteri. Tre gruppi, tra cui Undici che sarà sola, dovranno affrontare mille avventure accomunate dallo stesso obiettivo.

“Non avevano bisogno di me. Avevo bisogno di loro”

Caleb McLaughlin (Lucas Sinclair), Priah Ferguson (Erica Sinclair), Sadie Sink (Max Mayfield) e Gaten Matarazzo (Dustin Henderson). Fonte: Netflix

Musiche

L’opera è amata per tante ragioni, a partire dall’ambientazione: i mitici anni ’80, un’era di capigliature eccentriche, outifit stravaganti ma sempre alla moda, e una musica che ha creato leggende. È proprio grazie a Stranger Things che sono tornate alla ribalta canzoni come “Every Breath You Take” dei The Police, “Beat It” di Michael Jackson, “Girls Just Wanna Have Fun” di Cyndi Lauper o “Should I Stay Or Should I Go” del mitico gruppo The Clash , vere e proprie colonne sonore dei mitici anni ’80 che ci fanno alzare dalla sedia e ballare. Con la quarta stagione la canzone Running Up that Hill di Kate Bush, si è posizionata al primo posto tra i brani più ascoltati sulle piattaforme digitali.

Darling you got to let me know
Should I stay or should I go?
If you say that you are mine…
(“Shoul I Stay Or Sholud I Go” -The Clash)

Una serie TV che riesce a dare spazio a tutti i suoi personaggi, anche a quelli secondari, mostrandoci le loro fragilità e paure. Dopo un’attesa durata tre anni, noi fan possiamo ritenerci soddisfatti e pronti a rivedere, fra un paio di settimane, le avventure dei ragazzi di Hawkins.

Alessia Orsa

Tra le pagine della vita di Sheldon Cooper

Divertente ma che lascia spazio alla riflessione, ottimo per passare del tempo in famiglia e con gli amici. – Voto UVM:5/5

 

Chi non ha adorato il personaggio di Sheldon Cooper (Jim Parsons) nella sitcom americana The Big Bang Theory? Probabilmente un po tutti abbiamo apprezzato la sua ironia, seppur un tantino tagliente, come anche il formidabile e divertente quartetto di scienziati insieme a Penny (Kaley Cuoco), Amy (Mayim Bialik) e Bernadette (Melissa Rauch). Bene, perché non è finita qua!

Personaggi principali di “The Big Bang Theory” in una delle consuete serate in compagnia a casa di Sheldon e Leonard. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

I produttori Chuck Lorre e Steven Molaro ci hanno deliziato con una serie dedicata interamente a questo personaggio. Nata come spin off e prequel della serie “madre”, Young Sheldon è incentrata sull’infanzia dello scienziato. Arrivata in Italia nel 2018 attraverso la piattaforma streaming Infinity Tv, oggi entrerà a far parte del catalogo di Netflix.

Nella vita di Sheldon

Ambientata in Texas, troviamo un giovane Sheldon, interpretato da Iain Armitage, dell’età di nove anni, che, grazie alla sua innegabile intelligenza, si ritrova nei panni di uno studente liceale. In una famiglia in cui si sente poco a suo agio: tra una madre convinta credente sempre pronta a citare Dio, un padre allenatore della squadra di football del liceo, e due fratelli che non perdono tempo nel prenderlo in giro.

Poster Young Sheldon. Fonte: senzalinea.it

La sua intelligenza e la sua mancata emotività lo portano ad essere escluso sia all’interno che all’esterno del contesto domestico. Molto spesso, infatti, per via dei suoi comportamenti inusuali tende a mettere la famiglia in difficoltà agli occhi della comunità ma, nonostante ciò, vengono fatti vedere alcuni momenti di affetto, in cui tutti i membri della famiglia dimostrano il loro volergli bene. Con la voce narrante di Sheldon da adulto, ci viene rivelata un’analisi retrospettiva degli eventi mostrati negli episodi, con qualche dettaglio della serie originale.

Rapporto madre figlio…e non solo

Dato il rapporto conflittuale che ha sempre caratterizzato la scienza e la religione, ci si potrebbe aspettare una certa severità dalla madre Mary, interpretata da Zoe Perry, nei confronti di Sheldon. Ma non è questo che ci mostra la serie. Sua prima sostenitrice, Mary è sempre pronta ad aiutarlo e a confortarlo, sembra quasi essere l’unica a preoccuparsi del suo effettivo benessere. Non dimentichiamoci, inoltre, di “Dolce Kitty”, la ninna nanna che il piccolo scienziato le chiedeva di cantare quando stava male. Gesto rimasto anche nei panni di uno Sheldon adulto.

Mary e Sheldon in un momento affettuoso. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

Un ruolo importante è giocato anche dalla nonna Connie, o “nonnina” come è solito chiamarla Sheldon. Contrariamente alla figlia è una donna irresponsabile e ciò porta alla nascita di molti conflitti con Mary. Ma quando si tratta del suo nipote preferito, è disposta a mettersi in gioco, dando del filo da torcere a chiunque.

Ultimo, ma non per importanza, è il padre George, interpretato da Lance Barber. Personaggio che trasmette l’idea classica di padre-allenatore che non desidera altro che il figlio giochi nella propria squadra di football. Viene mostrato un rapporto controverso con una percettibile sensazione di imbarazzo, ma nonostante ciò non mancano le dimostrazioni di affetto reciproco, evidenti soprattutto nell’incoraggiamento del padre verso i successi accademici di Sheldon.

Il piccolo Sheldon: perché guardarlo?

A sinistra Iain Armitage a destra Jim Parsons, entrambi interpreti del ruolo di Sheldon Cooper. Fonte: serietivu.com

Iain Armitage nella sua interpretazione riesce a mostrare benissimo i tratti distintivi dello Sheldon adulto di Jim Parsons, compresa la sua faccia inespressiva.

La serie molto apprezzata dal pubblico, in grado di essere vista anche da chi disconosce il mondo di ‘Big Bang’, è leggera, fluida e divertente ma non lascia fuori i problemi sociali e relazionali tipici di quegli anni. In conclusione, è un’ottima serie che vale la pena guardare. Detto ciò, Sheldon vi aspetta su Netflix!

Bazinga! a tutti.

Giada D’Arrigo

Tick, Tick… Boom! La stoffa del miglior attore cucita a tempo di musical

 

Un musical scoppiettante e coinvolgente è la perfetta occasione di rivalsa per un talentuoso Garfield – Voto UVM: 5/5

 

Sentirsi in tempo, nel tempo. Come se tutto fosse in perfetto equilibrio tra te ed il mondo. È così che un giovane quasi trentenne, nonché compositore teatrale vive i rapporti umani – l’amicizia e l’amore – ma anche i propri obiettivi e sogni. Ciò che emerge è la continua spinta che un uomo determinato ha nel perseguire e realizzare qualcosa di grande, prima che il tempo porti via qualsiasi speranza di successo.

Tick, Tick è il continuo ticchettio dell’orologio, il tempo che scorre e si consuma dietro una piccola lancetta. Boom è suspence o anche realizzazione. È con questa titolo che Andrew Garfield si aggiudica il posto nella scalata agli Oscar come miglior attore protagonista.

Tick,Tick…Boom! Fonte: Netflix

Il profilo dell’attore

Classe 1983, Andrew Garfield è stato senza dubbio una fantastica sorpresa alle nomination degli Oscar di quest’anno. Grazie alla sua favolosa interpretazione, nel film Tick, Tick… Boom! si è aggiudicato il Golden Globe 2022 come miglior attore protagonista. La nomina è stata confermata anche alla categoria degli Academy Awards dove troviamo a fargli compagnia l’attore Benedict Cumberbatch ne Il potere del cane.

Quello di miglior attore è sempre stato un trofeo ambito da tutti e per questo risulta anche un premio molto combattuto dai tanti attori in gara. La performance di Andrew lungo tutta la durata di Tick, Tick… Boom! è stata geniale, inaspettato, brillante e molto vivace: proprio per questo l’attore dovrà quindi confrontarsi con grandi professionisti del campo come Will Smith, Javier Bardem e Denzel Washington.

Nel corso della sua carriera, del resto, Garfield, ha sempre mostrato il proprio talento ed è stato in grado di lasciar inciso nei nostri ricordi il proprio ruolo di Peter Parker in The Amazing Spiderman dove ha dimostrato un grande valore attoriale proprio così come anche nella pellicola The Social Network di David Fincher.

Andrew Garfield candidato a miglior attore protagonista

Sotto ritmi diversi

È vero che non tutti amano i musical e per questo il film – con 1 ora e 55 minuti di durata – potrebbe risultare a tratti noioso. Nonostante questo limite molto soggettivo, ciò nonostante esistono dei personaggi canterini che tutti abbiamo amato, ad esempio Mary Poppins, la vecchia tata che canta ninnenanne ai piccoli o Christian che conquista la bella Satine cantando al Moulin Rouge. E poi c’è Jonathan Larson, compositore e amante della musica che lavora alla scrittura e alla realizzazione del suo nuovo musical.

 Larson nella pellicola mostra in che modo tiene impegnato il suo tempo: componendo. Lo fa continuamente e su tutto, addirittura anche su un barattolo di zucchero. Qualsiasi cosa lo circondi diventa musica e riesce addirittura a coinvolgere anche i suoi amici, che a loro volta cantano e ballano insieme a lui, come se si trovassero tutti in una grande festa.

La scena più simpatica è sicuramente quella in cui cerca di riappacificarsi con la propria ragazza e le canta una canzone usando il suo braccio come se fosse una tastiera. Non una scelta di cattivo gusto, bensì ironica e molto dolce.

Il musical e la grande interpretazione dell’attore racchiudono la vita e le giornate di un artista innamorato del proprio talento. Dalla trama scoppiettante e ironica che suscita un vivace coinvolgimento, una pellicola musicalmente moderna e a tratti poetica: è questo quello che si può dire di Tick,Tick… Boom!

Sui social sono diversi i commenti generati dal pubblico che affermano quanto questo film sia vicino alla perfezione. L’interesse è rivolto soprattutto ai monologhi, i quali ricostruiscono arte e vita privata del protagonista.

Tick,tick…boom! Fonte: stagechat.co.uk

La ribalta

Una scena che rende evidente il lavoro ben fatto è quella in cui Garfield mette tutto sé stesso nella voce, nonostante non abbia mai studiato canto prima di quel momento. Uno sforzo sicuramente apprezzato dal pubblico e non solo, che ha cucito addosso ad Andrew il vestito da miglior attore protagonista. La rara maturità attoriale è stata subito riconosciuta.

Il merito non va solo all’attore ma anche a chi ha esaltato le sue doti e ha saputo scegliere bene: il regista Lin-Manuel Miranda. Sono diversi i tratti del profilo di Miranda che ricalcano quelli di Larson. Miranda durante la sua carriera è passato attraverso il rap e il freestyle e ha iniziato presto a scrivere musical: è per questo che la sua fama nasce a Broadway. Il messaggio lanciato dall’attuale pellicola sembra richiamare anche qualche passaggio della vita del regista. È anche questo che rende il suo lavoro un qualcosa di strettamente personale e intimo.

Cos’altro dire? Corri a vederlo su Netflix. C’è un gran sogno da realizzare prima che sia troppo tardi.. Nel frattempo Tick…..Tick…..Tick….

Boom!

Annina Monteleone

Room di Lenny Abrahamson: fuori dalla “caverna”

In una leggenda molto famosa di Platone, viene raccontata la storia di alcuni uomini prigionieri dentro una caverna, con gambe e collo incatenati. Quella condizione li porterà a vivere per ore, giorni, anni rinchiusi tra quelle mura senza riuscire mai a scoprire il mondo, a vedere la luce.

Ma cosa potrebbe succedere se anche solo uno di quegli uomini riuscisse ad evadere? Forse inizierebbe a scoprire di cosa siano fatte le foglie, che colori abbiano i fiori o cosa significherebbe avere un amico …

Nella Stanza

Tratto da una storia vera

Diretto da Lenny Abrahamson, Room è un film non molto recente, che risale al 2015. La pellicola è l’adattamento cinematografico del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio del 2010, scritto da Emma Donoghue. Non è un caso che il titolo del romanzo sia una serie di parole che faranno da cornice ad alcune scene importanti del film.

Il romanzo – come il film – non è frutto di fantasie o storie immaginate, ma è tratto da una pagina di cronaca nera che prende il nome di caso Fritzl. Questo caso nasconde una storia sconvolgente, proprio come Room, caratterizzata da violenze e maltrattamenti ad opera di una mente molto perversa e malata.

La storia di Room ruota appunto attorno alla “stanza” in cui vivono Joy e Jack, una mamma con il suo bambino. Questo piccolo spazio diventa per loro l’intero mondo. Come se non esistesse nient’altro.

Jack (Jacob Tremblay) ha cinque anni ed è il frutto di uno stupro. I suoi capelli sono molto lunghi ed è un bambino molto dolce. Non conosce il mondo, ha sempre vissuto in quella stanza. Secondo il piccolo, oltre quelle quattro mura, l’armadio, la porta e qualche altro oggetto, non esiste nient’altro. Ed ogni mattina si appresta – da buon ometto – a dare il buongiorno all’intera stanza

“Buongiorno pianta, buongiorno armadio, buongiorno lucernario”

Una bella scena che mostra il rispetto e la gratitudine che Jack prova nei confronti di qualsiasi entità presente. Joy (Brie Larson), invece, conosce bene il mondo. È la mamma del bimbo, che ama follemente. Da sette anni è stata rapita da un uomo, Old Nick (Sean Bridgers), che tiene prigionieri lei e il figlio in una piccolissima stanza nel giardino.

Spinta da questa situazione insostenibile, da forti emozioni e dal desiderio di tenere al sicuro il proprio bambino, Joy tenterà di trovare una soluzione per entrambi e scappare da lì.

“Joy: -Ti piacerà.
Jack: – Cosa?
Joy: – Il mondo.”

Qualcosa andrà storto o riusciranno a fuggire dalla stanza per sempre?

Gli anticorpi che servono per la libertà.

Il film fu una vera e propria sorpresa per tutti ed è stato vincitore del Premio del Pubblico a Toronto. Room racconta di spazi interiori e delle profonde ragioni intime che legano i due protagonisti nella piccola stanza e contribuiscono alla loro co-costruzione sempre continua nel corso della sceneggiatura.

“Jack ora ascoltami: questa è la nostra occasione.”

I due protagonisti di Room guardano il lucernario

Quando la stanza si spopola e la soluzione risulta efficace, si pensa subito di poter scalare ogni vetta come se non ci fossero ferite nascoste, date dai sette anni di reclusione. Una volta assaporata la libertà, però, il peso delle catene si farà sempre più forte lasciando un senso di stordimento e depressione caratteristico di chi vive in una situazione del genere. Le ferite subite negli anni inizieranno a sanguinare in un colpo solo e la situazione sembrerà degenerare, come se fosse una guida spericolata in stato di ebbrezza in cui si perde il controllo.

Jack: – Siamo su un altro pianeta?
Joy: – E’ lo stesso, ma in un posto diverso.”

Per i due protagonisti sarà come rinascere una seconda volta, ma vivere per la prima volta il mondo reale e l’affetto di chi li aspettava da anni. Jack ne rimarrà sin da subito affascinato e finalmente può godere della sua libertà, trovare nuovi amici e giocare con veri giochi.

“Sono nel mondo da 37 ore e ho visto finestre, tantissime macchine, uccelli e nonno e nonna.”

Libertà

In due tempi

Room si aggiudica un posto di tutto rilievo all’interno del panorama cinematografico. Ascrivibile al filone del cinema post-traumatico e drammatico, ha tutte le carte in regola per rivelarsi un ottimo film strappalacrime, ma anche molto educativo. Sensibile alle tematiche più delicate, la pellicola si divide in due fasi. Una prima fase in cui troviamo la presentazione della storia e del problema e una seconda in cui scopriremo la doppia prospettiva di Joy e Jack.

La meraviglia negli occhi di Jack segnerà la fine di questa pellicola impeccabile con una sceneggiatura da dieci e lode.

Annina Monteleone

Cobra Kai: un filo che unisce il vecchio al nuovo

«Karate Kid è un gran film! È la storia di un giovane entusiasta appassionato di karatè, i cui i sogni e le speranze lo porteranno a disputare il campionato di karate di All Valley…anche se purtroppo perde l’ultimo round con quel tipo sfigato! Ma impara una lezione importane su come accettare la sconfitta. Quando guardo Karate Kid faccio il tifo per il Karate Kid, Johnny Lawrence, appartenete al Cobra Kai». Queste sono le parole che disse il formidabile Barney Stinson, parlando dell’antagonista di Karate Kid, e – cari lettori lasciate che vi dica una cosa – aveva proprio ragione il nostro leggenda- non muovetevi- dario Barney.

Negli anni ’80 tutti facevano il tifo per il protagonista, criticando i Cobra Kay come i cattivi per eccellenza, vedendo nel film la contrapposizione tra il classico bravo ragazzo e il tipico bulletto della scuola. Dai ammettiamolo per chi tifate anche voi?

 

I due protagonisti a confronto. Fonte: Netflix

Cobra Kai è una serie tv del 2018, disponibile su Netflix dal 2020, sequel/spin-off della trilogia di The Karate Kid e allo stesso tempo un omaggio a quello che divenne un simbolo degli anni ’80. La storia è ambientata ai giorni nostri, esattamente 34 anni dopo quel fatidico scontro tra Daniel La Russo (Ralph Macchio) e Johnny Lawrence (William Zabka), che vide Johnny sconfitto e umiliato e segnò il suo declino

Il “cattivo” di All Valley adesso è un uomo di mezza età, fallito e che vive con inerzia le sue giornate, tutte uguali fra di loro. Dai primi minuti della serie possiamo notare la sofferenza nascosta nei suoi occhi (da qui si può notare la bravura dell’attore che mostra il malessere del proprio personaggio): Johnny è ancora tormentato  da quella sconfitta, ma i fan più accaniti di Karate Kid sanno che non è uno che si arrende facilmente. Infatti, col duro lavoro e quel sogno di “fanciullino” che si porta ancora dietro, aprirà un nuovo dojo (palestra) di Karate “Cobra Kai”, con un solo allievo di nome Miguel Diaz (Xolo Mariduena). Sarà proprio quest’ultimo a rinvigorire in Johnny un desiderio di rivalsa, proiettato in un primo momento verso Daniel La Russo.

Con l’avanzare del tempo, però, Johnny capirà che tutto ciò è in realtà un’occasione di riscatto personale attraverso il suo amore puro per il karate.

Johnny e Miguel in una scena della serie


Nella serie ritorna anche Daniel La Russo: non poteva mancare “il buono”, sempre dipinto come il pacifista, “figlio adottivo” del mitico maestro Myagi, e due volte campione dell’All Valley Karate, una vera celebrità. Amato e visto da tutti come l’eroe imbattibile, si farà spesso prendere dall’invidia e dalla rabbia, tanto che andrà contro Johnny per la riapertura del nuovo dojo, scadendo in gesti banali e infantili poiché accecato dalla vendetta.

Ma riavvolgiamo il nastro. Come ricorderete, Johnny dopo l’umiliante sconfitta consegna il premio al proprio avversario congratulandosi con lui e andando contro il proprio sensei (insegnante) e i compagni di karate. Perché allora tutto questo desiderio di vendetta? Ricordavamo un Daniel La Russo diverso: forse col passare degli anni si sarà dimenticato degli insegnamenti del proprio maestro, tradendo la filosofia del karate perché troppo preso dalla fama. In lui tuttavia rinascerà l’amore per il karate, un po’ grazie anche alla sua “nemesi”. Aprirà  un nuovo dojo, il “Myagi Dog”, in onore del suo maestro ormai scomparso da pochi anni.

Lo stesso legame allievo-maestro si riscontra anche nella vicenda del suo rivale Johnny, che sfoga i suoi problemi di rabbia con alcool e risse. Ma i fantasmi del suo passato non avranno la meglio, in quanto ha ancora cuciti addosso gli insegnamenti di John Kreese.

“Non esistono cattivi allievi, ma solo cattivi insegnanti.”

 

Il vecchio e il nuovo 

Questo odio tra i due ormai maestri si trasferirà nella classe dei loro allievi, creando una vera e propria faida fatta di risse e competizione, il tutto per affermare il dojo più forte.

La serie non mostra solo la “vecchia classe” anni 80, ma anche quella dei post- millenials: due generazioni completamente diverse fra di loro che andranno a creare divertenti scambi d’opinione, sorrette da espressioni come “ai miei tempi”.

Johnny con i ragazzi

Cobra Kai è una serie abbastanza fluida, che riprende i mitici anni ’80, soprattutto per coloro che sono cresciuti con capigliature eccentriche, outifit stravaganti ma sempre alla moda, e una musica che ha creato leggende. Dall’altre parte vediamo i nuovi giovani che vivono sui social e con grosse difficoltà nel comunicare con i propri genitori, perché talmente insicuri da confondere una richiesta d’aiuto con un atto di debolezza.

Il karate è il vero e proprio protagonista e come un filo unisce il vecchio col nuovo, facendo assopire le insicurezze e aprendo nuove prospettive.

                                                      Alessia Orsa 

“Emily in Paris 2” : everything coming up roses

Serie family friendly, adatta ad ogni fascia d’età, ma con qualche piccola sbavatura – Voto UVM: 4/5

 

«Everything coming up roses» recitava una vecchia canzone. Una frase tra l’altro già sentita e pronunciata da Emily Cooper (Lily Collins), protagonista della serie tv di successo mondiale Emily in Paris, produzione targata Netflix. Il significato sembra racchiudere perfettamente quello che è il carisma, la grinta, la passione e la positività della protagonista.

Come ci eravamo lasciati?

Tra una storia d’amore giunta al termine e l’incontro con un’evidente nuova fiamma, lo chef francese Gabriel (Lucas Bravo), Emily riesce ad affermarsi, stravolgendo le regole dell’azienda in cui lavora, nonostante sia un’americana sbarcata a Parigi che –  come ormai risaputo – è terra di veri patriottici duri a staccarsi dai propri costumi e dalle proprie convinzioni, anche in ambito lavorativo.

Nuove amicizie, nuove prime volte e l’eccessivo entusiasmo, però, portano la protagonista a fare scelte sbagliate, come quella di tradire la propria amica, Camille (Camille Razat), andando a letto con il suo fidanzato.

Nonostante ciò, Emily continuerà a vivere godendo appieno la vita, e facendo quasi sentire questo senso di totale leggerezza anche agli spettatori. Se trasmettere questa sensazione al pubblico era l’intento dei produttori, si può dire che ci siano riusciti alla grande!

Primo selfie di Emily a Parigi 

Ecco cos’è cambiato nella seconda stagione

Sempre più francese, ma senza mai abbandonare le radici, i valori e le strategie (di marketing) del proprio Paese, Emily è ancora più determinata nel proprio lavoro, pur vivendo un crescendo di fatiche e difficoltà. Rimasta imbrigliata nel triangolo amoroso con Gabriel, nonché suo vicino di casa, e la sua prima amica conosciuta a Parigi, Camille ( ex o “quasi” di Gabriel), la vita di Emily andrà a sfociare in un susseguirsi di eventi negativi. Diverrà dnque meno “rosea”, seppur vissuta sempre con il sorriso in volto e il coraggio di mettersi in gioco.

Sarà Alfie ( Lucien Laviscount), affascinante inglese, suo compagno a scuola di francese, a portare grandi cambiamenti nelle sue giornate. Ma ancora una volta gli sceneggiatori decideranno di lasciarci col fiato sospeso. La stagione termina infatti con una difficile scelta che deve compiere la protagonista, scelta che può incidere sulla sua futura carriera (e anche sulla vita privata). Ci tocca aspettare un po’ per sapere come andrà a finire.

Da sinistra a destra: Lucien Laviscount, Lily Collins e Lucas Bravo nella foto promozionale di “Emily in Paris 2”

To be continued…

Passerà un anno, o forse più, prima dell’uscita della terza stagione già ufficialmente confermata insieme alla quarta  (quest’ultima del tutto inaspettata).

Per cui, cari fan, se avete passato una brutta giornata, questa è un’ottima notizia per cui gioire.

Inoltre, sono molte le voci che girano riguardo ad un’interessante aggiunta nel cast: si tratta di Kim Cattrall (la seducente Samantha di Sex and the City), che dopo aver rifiutato di partecipare all’attesissimo sequel And Just like that, sembra voler approdare proprio nella Parigi di Emily.

Un po’ meno per i detrattori di una serie che ha toccato il gradino più alto del podio delle tendenze mondiali, divenendo in poco tempo una delle produzioni Netflix più amate e redditizie degli ultimi anni.

Petra e Madeline: pregiudizi o solo ironia?

“Nella serie c’è un’inaccettabile caricatura di una donna ucraina. Un vero e proprio insulto. Ma è così che vengono visti gli ucraini all’estero?”

Una tra le tante voci critiche arriva dall’Ucraina: il ministro della cultura Oleksandr Tkachenko ha sottolineato come il personaggio di Petra (Daria Panchenko), compagna di classe di Emily nel corso di francese, sia costruito sul solito vecchio stereotipo degli abitanti dell’est Europa. È possibile che nonostante la globalizzazione e il multiculturalismo, ci si fermi ancora a questo genere di pregiudizi?

Ad ogni modo, possiamo notare come effettivamente molti personaggi della serie siano un po’ caricaturali: Madeline (Kate Walsh), ad esempio, rappresenta quella che potrebbe essere considerata l’americana tipo che non rispetta gli usi francesi e pretende di imporsi con arroganza su tutti ( tralasciando i suoi modi molto poco fini).

Per quanto gli stereotipi che riguardano la figura di Madeline siano certamente meno offensivi di quelli che caratterizzano  il personaggio di Petra, è chiara una tendenza in tutta la serie alle generalizzazioni facili.

Petra ed Emily fanno shopping. Fonte: New.Fox-24.com

Serie da vedere tutta d’un fiato

Emily in Paris – la prima come la seconda stagione – è una serie leggera, piacevole da seguire, con tutti i suoi intrighi amorosi, i suoi grandi eventi ed outfit alla moda (fin dai primi episodi non si è potuto fare a meno di notare lo stile di Emily).

Allo stesso tempo, però, è molto interessante il multiculturalismo presentato: nonostante alcune forzature (come nel caso di Petra), la serie gira tutta intorno a come Emily riesce ad integrarsi nella società francese, sempre però mantenendo una sua individualità.

A questo punto direi che non ci resta che aspettare – con ansia! – la terza stagione per scoprire le nuove avventure di Emily. Au  revoir!

Ilaria Denaro, Marco Abate

 

 

Don’t Look Up: un film che ci prende in giro (e a buon diritto)

Un film che critica la nostra società in maniera brillante. Adam McKay non smette di stupire – Voto UVM: 4/5

 

Le potenzialità di un film alle volte non incontrano limiti. È incredibile come la stessa pellicola possa essere guardata e giudicata con occhio diametralmente opposto in base alla forma mentis di persone appartenenti ad orientamenti politici o culturali diversi.

Tra chi “a sinistra” l’ha elogiato quale capolavoro sulla crisi climatica e chi invece, tra i repubblicani, no ne ha digerito i riferimenti alla politica di Trump, Don’t Look  Up, si è rivelato un film che ha letteralmente spaccato in due l’opinione pubblica, soprattutto quella americana. Proprio per questo noi di UniVersoMe, non potevamo rinunciare ad analizzarlo.

Trama

Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), una specializzanda di astrofisica, scopre un’enorme cometa, la cui traiettoria impatterà molto presto con la Terra causando l’estinzione di ogni forma di vita. La dottoressa. assieme al professor Randall Mindy, (Leonardo Di Caprio) sarà convocata immediatamente nello studio ovale del Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep).

Da qui in poi ha inizio il teatro dell’assurdo: le istituzioni ed i media non si preoccuperanno minimamente dell’imminente catastrofe, anzi non faranno altro che sminuire la vicenda e trattarla come se fosse una qualunque questione all’ordine del giorno.

Cast

Il cast della pellicola è di primissima qualità.

Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence danno vita ad un duo che funziona perfettamente. I loro personaggi sono gli unici a rendersi conto della terribile minaccia che incombe sulla Terra. Gli attori, calati interamente nei rispettivi ruoli, riescono perfettamente ad incarnare due scienziati impauriti che cercano con ogni mezzo di informare l’intera razza umana anche mettendo a nudo tutte le sue debolezze. Nonostante tutto, continueranno imperterriti nel proprio intento.

Il professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoressa Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) in una scena del film

Allo stesso tempo, confusi e impacciati, i due personaggi riusciranno a conquistarsi l’empatia dello spettatore che per tutta la durata del film dovrà convivere con lo stato di nervosismo e di ansia provato dai protagonisti.

Meryl Streep interpreta il Presidente degli USA mettendo a segno – come sempre – un’interpretazione magistrale. Dà vita ad una creatura che si ciba di consensi, populista oltre ogni misura, insomma una vera e propria macchina politica. Si può quasi definire una rivalsa personale per l’attrice nei confronti di un noto presidente che l’aveva definita “sopravvalutata”.

Da segnalare anche le ottime interpretazioni di Jonah Hill nei panni di Jason Orlean (figlio della presidentessa) e del premio Oscar Mark Rylance in quelli di Peter Isherwell (una sorta di Steve Jobs o Elon Musk).

Stile Mckay

Il regista Adam Mckay, in passato, non si è fatto problemi ad affrontare con i suoi film tematiche delicate. Con La grande scommessa (2015) ha ripercorso le origini della crisi finanziaria del 2008, mentre con Vice – L’uomo nell’ombra (2018) ha raccontato la vita di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush, uno degli individui più loschi della storia americana.

Rappresentare ed affrontare problematiche odierne quindi non lo intimorisce per nulla.

Il presidente degli USA Janie Orlean (Meryl Streep) in una scena del film

Come già fatto in passato, il regista è riuscito a identificare quale sia la causa di fenomeni negativi che interessano il mondo intero: l’operato umano.

I politici, i programmi Tv ed i cittadini stessi sono gli artefici di tutto ciò che accade in Don’t Look Up.

Ripudiamo la scienza per ascoltare  – e ammirare come pecorelle – chi sproloquia per soddisfare esclusivamente un interesse personale.

Una delle scene più emblematiche, a questo proposito, è quella in cui i due scienziati sono invitati in uno studio televisivo. Tanto per cominciare, il loro intervento viene messo in scaletta dopo l’apparizione di una famosa cantante (interpretata da Ariana Grande) che dà vita ad uno spettacolo super trash con il proprio ex compagno, spettacolo che tuttavia raccoglierà il picco massimo di spettatori della trasmissione. Solo dopo viene dato spazio alla questione della cometa, problematica affrontata con molta leggerezza, scherzandoci su e ridicolizzando la povera Kate Dibiasky. Quest’ultima, dopo aver provato a spiegare i pericoli cui la Terra sarebbe andata incontro, sclera divenendo lo zimbello del mondo di Internet.

Una storia raccontata in perfetto stile Mckay, unico nel suo genere: l’autore mira diretto al problema e lo mostra per quello che è senza usufruire di metafore o riferimenti esterni e raccontandone le conseguenze con un ritmo incalzante.

La locandina del film

 

Un film che va visto per ciò che è: un film. Non un attacco a una specifica frangia politica o una satira esagerata sui complottisti.

E’ solo una pellicola che ci apre gli occhi su cosa sia oggi la nostra società e lo fa in maniera brillante. Ci prende in giro ed è normale e giusto che sia così. Guardatelo, godetevi lo spettacolo e distogliete l’attenzione dalle guerre mediatiche condotte per accalappiare consensi inutili.

Vincenzo Barbera

 

Incastrati: un giallo siculo

 

Un giallo comico, dipinto con i colori della Sicilia – Voto UVM: 5/5

 

Anno nuovo vita nuova. Lo stesso vale per il duo comico Ficarra e Picone, che sono sbarcati su Netflix il 1 gennaio con la loro prima serie TV.

Un nome una garanzia:  i due siciliani sono sempre pronti a deliziarci col loro umorismo- non quello banale e volgare alla Pio e Amedeo– ma quello che fa riflettere e porre domande, sempre pronti a difendere i diritti degli italiani con l’arma dell’ironia.

 

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: tvserial.it

Una storia ricca di imprevisti

“Voglio una vita piena di imprevisti”. Queste sono le parole che pronuncia Salvatore che voleva sfuggire dalla monotonia, avere una vita come il commissario di una serie tv, in cui non esiste la parola noia, ma solo tante avventure. Come non detto, il suo desiderio verrà esaudito, ma di certo non come aveva immaginato. Il caro Salvatore dovrà ricredersi. Per quale motivo? Andiamo a scoprirlo. 

Incastrati è una serie scritta e diretta da Ficarra e Picone- composta da sei puntate di 30 minuti ciascuna- e racconta l’avventura di Salvatore (Ficarra) e Valentino (Picone), due riparatori di elettrodomestici che col loro furgoncino girano di casa in casa.

Da un lato abbiamo Salvatore, sposato con Ester (Anna Favella), ossessionata dallo yoga e dalla vita salutista, che impone pure al povero marito, dall’altro Valentino (fratello di Ester e cognato di Salvatore), un uomo ingenuo ma dal cuore d’oro, che vive ancora con la mamma morbosa, che vuole il figlio tutto per sé e fa di tutto per tenerlo lontano dalle donne, viziandolo come un bambino.

I due, oltre ad essere cognati, sono pure grandi amici e, un giorno come un altro, si recano in una casa per lavoro, ma finiscono nei guai: si ritroveranno dentro la dimora di un ex mafioso, ammazzato dalla mafia stessa in quanto pentito.

Da quel momento in poi per i protagonisti inizierà veramente una vita piena di avventure e imprevisti. I due per non essere incolpati si cacceranno ancor di più nei guai e da semplici testimoni rischieranno di passare per probabili assassini.

Non piangere,  che le lacrime contengono DNA


Cast, luoghi e folklore

La serie è ricca di personaggi, interpretati da: Leo Gullotta (Procuratore Nicolosi), Marianna di Martino (Agata Scalia), Anna Favella (Ester), Tony Sperandeo (Tonino Macaluso), Maurizio Marchetti (il Portiere Martorana), Mary Cipolla (Antonietta), Domenico Centamore (Don Lorenzo), Sergio Friscia (il giornalista Sergione), Filippo Luna (vicequestore Lo Russo), Sasà Salvaggio (Alberto Gambino) e Gino Carista (Frate Armando).

Un cast che con il talento fa divertire il telespettatore, utilizzando un’ironia tutta siciliana.

Ficarra e Picone in una scena della serie Fonte: Today

La mafia viene descritta per quello che è: una barzelletta fatta di uomini stolti, privi di etica, un’organizzazione poco furba ma allo stesso tempo pericolosa.

Nota di merito va per la sceneggiatura che descrive nei minimi dettagli la terra del sole: Ficarra e Picone disseminano i tipici luoghi comuni che il sud è condannato a indossare a causa delle menti più arretrate. I due comici però ci offrono anche paesaggi immensi, strade abbellite da cittadini col loro accento, i loro colori, il cibo, e tanto altro che solo il mezzogiorno può offrire.

Un messaggio nascosto?

Usiamo il crimine per farvi ridere

Cosa vuol dire questa frase? Cosa vogliono farci intendere i due attori? La serie va vista non solo come una produzione comica, ma bisogna avere un occhio critico. Come citato sopra, al centro vi è il tema della mafia, un morbo della nostra società.

Forse i due comici ci vogliono portare un esempio di “pornografia del dolore”, che ipnotizza gli individui anche con scene drammatiche, scene agrodolci che deliziano gli animi delle persone, facendole rimanere inermi davanti alla prepotenza? I due protagonisti però non rimarranno di certo immobili e faranno trionfare la giustizia. Un dovere a cui pochi riescono ad adempiere.

Una serie così piacevole, che la si vede tutta in un colpo solo. Ci erano mancati Ficarra e Picone, due comici che hanno portato su Netflix non solo la loro ironia, ma anche la sicilianità, fatta di arancini(e), culture e paesaggi da far invidia al mondo intero.

                                                                                                 Alessia Orsa