The Pale Blue Eye – I delitti di West Point

Un film thriller che non convince mai del tutto, configurandosi ormai ai piatti standard Netflix – Voto UVM: 3/5

 

Anno nuovo uscite nuove! Il catalogo Netflix si arricchisce di una nuova pellicola uscita nelle sale americane e disponibile in streaming dal 6 gennaio di quest’anno.

Stiamo parlando della tanto attesa pellicola The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, diretta da Scott Cooper e adattamento dell’omonimo romanzo del 2003 scritto da Louis Bayard. Un cast stellare e un co-protagonista davvero gigantesco, ma basterà tutto questo a rendere questo film eccezionale? Scopriamolo insieme!

The Plot

Il film ha come protagonista il detective August Landor (interpretato dallo straordinario Christian Bale), un uomo dal carattere schivo e misterioso, ma dalle grandi abilità che lo portano ad essere scelto dagli alti ranghi dell’accademia militare di West Point, nel 1830, per risolvere uno strano delitto. Spinto dal suo talento e da metodi al di fuori dall’ordinario, si muove alla ricerca della verità, scontrandosi però con la scarsa collaborazione della stessa accademia.

In suo aiuto arriva un giovane quanto brillante cadetto Edgar Allan Poe (Harry Melling) che si rivela un preziosissimo compagno di indagini, dimostrando lo stesso tormento interiore e uno spiccato amore per gli enigmi quasi al suo pari.

Gli omicidi continuano e s’intrecciano, il mistero va via via infittendosi, portando lo spettatore ad arrovellarsi il cervello per indovinare il colpevole e soprattutto, cosa spinga l’omicida a commettere tali delitti. Il duo comincia quindi un’intricata caccia all’assassino, portandoli ad affrontare insieme i propri drammi personali e la perenne sensazione di essere costantemente emarginati da tutto e tutti.

                             

(Trailer italiano di The Pale Blue Eye – I Delitti di West Point)

Edgar Allan Poe può bastare a salvare tutto?

Il film si presenta con l’intenzione di essere un giallo intellettuale (a tratti ci riesce pure) dai toni noir, con ambientazioni gotiche e dai tratti più psicologici che visivi.

Il primo, alla base di tutto, è un grande e grosso, oserei dire gigantesco problema.

Ovviamente, il problema, è lo stesso Edgar Allan Poe (ormai infilato ovunque a caso, basti vedere la recente serie Mercoledì): la presenza del leggendario scrittore, porta a scemare ogni tensione sul suo destino, sgonfiando, e di non di poco, il potenziale lato thriller della vicenda che, come ogni film degno di questo genere, dovrebbe portare lo spettatore a viverlo tra stati di tensione, angoscia e paranoia. L’effetto finale della presenza del personaggio di Poe riduce la pellicola a mero giochino intellettuale, all’interpretazione degli indizi attraverso lunghi e barbosissimi dialoghi tra lui e Landor.

Il secondo problema è presentato dall’intreccio narrativo scialbo e meccanico (molto lontano dai film d’eccellenza come La vera storia di Jack Lo Squartatore – From Hell del 2001 diretto dai fratelli Hughes), che non concede nemmeno il tempo per approfondire emotivamente altri personaggi oltre i due protagonisti che, anche loro, restano come appena sommersi nelle profondità della psiche.

August Landor (Christian Bale e Edgar Allan Poe (Harry Melling) in una scena del film. Distribuzione: Netflix

Tra regista atipico e cast stellare

Il film vede il ritorno di una coppia scoppiettante Scott Cooper e Christian Bale, che già avevano lavorato insieme con il western Hostiles e il thriller Il Fuoco della vendetta.

Cooper è uno dei registi più atipici del panorama moderno, da sempre interessato a parlarci della lotta dell’individuo contro sé stesso, in una produzione dominata dalla sensazione di isolamento, del tutto scevra da ogni ottimismo ma soprattutto una visione della società come dittatura della ferocia e della prepotenza.

Christian Bale si dimostra uno degli attori più versatili, passando nella sua lunga carriera da personaggi dalla personalità e dalla psiche turbata (come in American Psyco e L’uomo senza sonno) a diventare l’eroe di cui Gotham ha bisogno (la trilogia di Batman di C. Nolan). Anche in questo film nulla da dire, con Bale si va sul sicuro.

Vera rivelazione è Harry Melling (il cugino Dudley di Harry Potter per capirci) che dà il volto a Edgar Allan Poe e lo fa bene, incarnando gli albori dell’inquietudine che saranno il motore della produzione di Poe.

Il resto del cast è ricchissimo e soprattutto affollato, con gente del calibro di Gillian AndersonCharlotte Gainsbourg o Toby Jones che devono sgomitare per farsi notare.

Spettacolare è la fotografia di Masanobu Takayanagi, ben curata dal punto di vista estetico attraverso una rievocazione storica di un certo spessore, ma anche elegante e forte, che tende a valorizzare l’intima regia di Cooper.

Conclusioni

Più che di un thriller vero e proprio, The Pale Blue Eye – I delitti di West Point, si presenta come un divertissement quasi letterario, che a tratti funziona e a tratti no. Stupefacente la fotografia, l’interpretazione magistrale degli attori, nonostante questo, il  film possiede tutti i difetti di un film fatto per le piattaforme.

Lodevole l’idea di voler omaggiare uno dei più grandi scrittori della storia come Edgar Allan Poe, ma allo stesso tempo bisogna fare i conti con la grandezza dell’omaggiato in questione e non ridurlo all’ennesimo “investigatore del mistero” come ultimamente piace a Netflix.

 

Gaetano Aspa

5 film/serie tv che partono in modo folle

Perché finire l’anno con la solita top five o top ten sui film o serie tv più belli (o più brutti) e non buttarsi su qualcos’altro? Qualcosa di più anticonformista, interessante e per nulla banale. Qualcosa che sia fuori dagli schemi e che parta subito a bomba! Ecco, quel qualcosa che fin dall’incipit deve farti dire “ma che cavolo sto guardando? Eppure funziona, mi piace!”. Ecco per allietare le vostre vacanze UniVersoMe vi consiglia 5 film tra i più folli dell’anno. Dopotutto, le vacanze servono anche a recuperare quelle serie tv come The Office che forse, dopo 2 anni dalla visione del primo episodio, sarebbe il caso continuare. O magari, quest’anno tra gli innumerevoli VIP morti vi sarà capitato di scoprire quel regista la cui filmografia potrebbe allietare le vostre pause, tra un pandoro e un panettone senza canditi. Insomma, iniziamo, altrimenti divento matto prima di finire l’articolo!

Everything, Everywhere, All at Once

Credo che i The Daniels, registi e sceneggiatori della pellicola, siano dei veri maestri del bizzarro, basti pensare a Swiss Army Man (in cui Daniel Radcliffe interpreta la parte di un cadavere che parla ed emette peti). In questa loro ultima fatica, la storia inizia da basi molto semplici: Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh) è un madre immigrata cinese, proprietaria di una lavanderia che gestisce insieme alla sua famiglia. Evelyn si trova in difficoltà con l’agenzia delle entrate ed il suo rapporto col marito Wayland (Jonathan Ke Quan) è in forte crisi. Inoltre, l’arrivo del padre dalla Cina e le richieste di approvazione da parte della figlia Joy (Stephanie Hsu) non fanno altro che aumentare il suo stress. A stravolgere totalmente la vita di Evelyn sarà Wayland, o meglio, una sua versione alternativa proveniente da un altro universo. Questi l’avvisa di un pericolo che minaccia la sua vita e quella di tutti i suoi cari. Per questo la prepara ai meccanismi del multiverso che le permetteranno di sbloccare abilità e conoscenza innumerevoli. Per di più, il villain si mostra molto interessante e le sue origini non sono per nulla scontate. Insomma, le idee sono tante, sono ben mescolate e per niente confuse. Direi che questo è un caos ben ordinato, che permette una piacevole visione.

Lamb

Che succederebbe se una coppia decidesse di allevare una pecora come se fosse una figlia? Lamb è un’opera autoriale ambientata in Islanda. Per quanto le prerogative non lo facciano pensare, la narrazione ha spunti drammatici, fantasy e anche da horror psicologico. Diciamo che i contesti presentati vengono anche stravolti secondo una visione innovativa. Ma non diciamo altro, per non farvi perdere il pathos che questo piccolo gioiello vi farà provare.

Frame dal trailer di Lamb. Fonte: A24

1899

Dai produttori di Dark, 1899 è una serie inquietante e avvincente, sviluppata in un continuo alternarsi tra sogno e realtà. Il Kerberos, un battello transatlantico, viaggia alla volta di New York; e tutti i passeggeri nascondono degli oscuri segreti. Il loro normale scorrere delle giornata sulla nave viene interrotto dall’avvistamento del Prometeus, battello disperso in mare da più di quattro mesi. Da questo momento, cose sempre più sinistre accadranno al Kerberos ed ai suoi passeggeri, e la loro realtà finirà pian piano per sgretolarsi.

Moon Knight

In questa lista anche la Marvel viene chiamata in causa. Questa volta, però, non ci troviamo di fronte ad un film allungato e proposto in formato di serie tv (vedasi She-Hulk et similia), ma parliamo una storia – divisa in 6 puntate – che non coinvolge nessun eroe. Il protagonista, Steven Grant, ci viene presentato come un timido e introverso impiegato di un museo egizio. E al contrario di quello che si potrebbe pensare, ad avere i super poteri non è lui, o perlomeno non questa personalità. Steven viene presto a conoscenza di essere malato di Disturbo Dissociativo dell’Identità (come Kevin in Split per intenderci) e dovrà convivere con un’altra entità, il mercenario Marc Spector. Non è finita qui, Spector è, infatti, il servo mortale di una divinità egizia, Konshu, che gli conferisce dei poteri sovrannaturali e una tuta da combattimento speciale al costo di seguire ogni suo ordine. Vi capiterà spesso di rimanere confusi durante la visione, soprattutto dopo il finale; ma tranquilli, la follia non deve essere sempre compresa. L’importante è l’intrattenimento!

Frame dal trailer di Moon Knight. Fonte: Disney+

Wanna

Chi poteva mai pensare che Netflix avrebbe prodotto una serie sulla più grande venditrice e truffatrice in Italia? Nonostante la figura macchiata dai suoi numerosi crimini, Wanna Marchi è riuscita sempre a fare delle sue gesta un vanto, grazie alla sua tenacia. Per quanto sembri strano dar voce ad un’icona degli anni ’90 così sbagliata e criminosa, la serie ci fa un resoconto sull’Italia del tempo e sul mondo del telemarketing.
Sebbene i metodi di Wanna non fossero “convenzionali”, la sua stravagante dialettica riusciva a convincere chiunque, anche quando il prodotto non veniva mostrato. E qui verrebbe da chiedersi: “chi è più pazzo: il compratore o Wanna Marchi?”. Ma forse è proprio questo a rendere così affascinante il personaggio di Wanna.

Frame dal trailer di Wanna. Fonte: Netflix

Stay foolish, stay hungry

Inutile dire che non c’è mai limite alla follia e sicuramente ci saranno molte altre perle inestimabili di cui non vi abbiamo parlato. Ci siamo limitati a proporre alcuni dei titoli che certamente vi faranno venir “fame” di altra follia. Quindi concludiamo lasciandovi con un senso di curiosità e consigliandovi di continuare a cercare, sia al cinema che in streaming queste perle, non sempre facili da trovare. E ovviamente, vi consigliamo anche di continuare a leggerci per rimanere sempre aggiornati sulle prossime uscite. Chissà, potrete trovare qualcosa di più sobrio o ancora più fuori di testa!

 

Salvatore Donato

Del Toro dona la vita a Pinocchio

Un film eccezionale che rinarra Collodi attraverso la psiche di Del Toro – Voto UVM: 4/5

 

Del Toro ci regala un altro grande pezzo di cinematografia col suo Pinocchio. Non si tratta di una semplice trasposizione del classico di Collodi, bensì – come vedremo – di un totale rifacimento della storia.

Il regista dei recenti Nightmare Alley e de La forma dell’acqua ci regala un racconto molto più crudo di quello a cui ormai siamo abituati, anche per via delle libertà che la Disney si prese decenni fa nel suo film. Ed in questo è un film di Del Toro in tutto e per tutto: per sua stessa ammissione, infatti, la pellicola non si è limitata ad un semplice riadattamento ma a narrare una storia profondamente diversa che risonasse con l’intimo del regista.

                                                                                                 

Burattini che prendono vita

Ciò che più di ogni altra cosa in questo film traspare è la crudezza. Ogni personaggio riesce ad esprimere una varietà di emozioni enorme, soprattutto per un film in stop-motion.

Uno degli aspetti più interessanti da analizzare è proprio questo: riuscire a trasmettere la stessa mimica di un attore tramite un “burattino” da manovrare fotogramma per fotogramma è un’impresa quasi impossibile, e questo film riesce ad essere uno degli esempi migliori sotto quest’aspetto.

Pinocchio sullo sfondo di un paesino sulle montagne liguri. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

La pellicola è stata girata con in mente l’imprecisione: sia quella dei movimenti umani sia quella di un’animazione “fatta a mano”. Ogni personaggio ha qualche imperfezione che lo caratterizza, ma che soprattutto riesce a spiccare sullo schermo. Gli occhi sono forse la parte che risalta di più in questa animazione ed è qui che il legame col live action si sente maggiormente. Il regista ha trasposto la sua esperienza con gli attori in questo nuovo lavoro, portando ad un nuovo estremo le possibilità della stop-motion.

Geppetto. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Anche la regia risulta ben studiata e chiarissima nell’esposizione. Il film trasuda da ogni frame il famoso stile di Del Toro, cupo ma colorato. Se consideriamo la tecnica utilizzata, il numero e la varietà di inquadrature risultano ancora più strabiliante. La camera inquadra benissimo ogni personaggio e i set sono costruiti ad hoc per permettere ciò, con un realismo ed una cura maniacale.

Il nuovo Pinocchio

La trama è forse l’elemento più controverso del film. Ricorda molto le altre produzioni di Del Toro con una grande enfasi sull’onirico nella prima parte e un ritorno al reale verso metà della pellicola. È una cifra stilistica che torna anche qui, arricchendo la storia di Collodi di un sottotesto storico e politico. Ciò si ricollega in maniera perfetta alla metafora narrativa generale della trama: il legame tra la vita e la morte ed il nostro vivere nella coscienza di entrambe.
In questo modifica anche parecchio la storia originale – come già detto – ma il tutto risulta una narrazione interessante. La nascita di Pinocchio deve tutto al mostro di Frankestein: Geppetto è un falegname poverissimo caduto nell’alcol e interi personaggi vengono eliminati ( Fata Turchina, Mangiafuoco), altri vengono aggiunti. Il tutto risulta all’inizio straniante, ma ci si abitua presto a vedere sotto una nuova luce questa storia, che Del Toro è riuscito a fare sua in tutto e per tutto, modernizzando anche aspetti del romanzo che oggi avrebbero stonato con la nostra coscienza moderna.

Volpe, il nuovo proprietario del circo, a destra il Mangiafuoco “scartato”. Frame dal trailer di “Pinocchio di Guillermo Del Toro”. Fonte: Netflix

Le uniche recriminazioni che facciamo alla pellicola sono da imputare alla parte finale. Alcune scelte sembrano derivate da una fretta produttiva che elimina per parte del film alcuni dei personaggi più interessanti, mentre altri su cui riponevamo aspettative vengono lasciati in secondo piano.

Tutte le dinamiche delle scene finali non ci sono sembrate convincenti assieme all’utilizzo di una computer grafica scadente.

Conclusioni

Detto questo, il film risulta essere forse la cosa più lontana in tutto e per tutto dal romanzo originale, ma che in esso affonda le radici del suo spirito. Uno spirito che traspare anche dai vicoli dei vecchi paesini italiani, dalla loro povertà e dai loro modi di fare.

È una storia che parla di morte e del saper vivere assieme e che lo fa con un tatto che solo Del Toro sa trasmettere.

 

Matteo Mangano

Mercoledì Addams tra passato e presente, top o flop?

“Mercoledì” è affascinante, divertente e inquietante quanto basta. Non si avverte però il tocco di Tim Burton – Voto UVM: 3/5

 

Mercoledì , in lingua originale Wednesday, è la serie del momento targata Netflix . Firmata da Tim Burton, che ne è anche produttore esecutivo insieme ad Alfred Gough e Miles Millar, la serie è incentrata sul personaggio di Mercoledì Addams.

Lunghi capelli neri raccolti in due trecce, abiti scuri, cupi ed austeri, incarnato pallido. Un inconfondibile sguardo inquisitorio, un penchant per la solitudine ed uno strano ed inquietante amore per il paranormale. Unica nel suo genere ed emblematica da decenni. Ci penserà Jenna Ortega a presentarci una visione moderna, contemporanea e affascinante della protagonista nell’interpretazione di un personaggio complicato e pieno di sfaccettature.

Mercoledì: una visione ribaltata

Mercoledì, così come descritta nell’immaginario collettivo, anche in questa serie, rispetta le sue imprescindibili caratteristiche. Ma la serie declinerà la crescita dell’adolescente all’interno di una cornice singolare e sicuramente insolita, per i nostalgici della Famiglia Addams. La giovane figlia di Gomez e Morticia, espulsa per l’ennesima volta dall’ennesima scuola, a causa di un pesante scherzo per difendere il fratellino Pugsley, viene mandata alla Nevermore Academy. Questa scuola, che ha visto venticinque anni prima nascere fra le proprie mura la storia d’amore tra i coniugi Addams, farà da sfondo a diverse dinamiche che coinvolgeranno Mercoledì.

L’istituto ricorda per tanti aspetti quello di magia e stregoneria di Hogwarts. Infatti, entrambe le scuole presentano un comune denominatore: ospitano i giovani reietti, proteggendoli dal bigottismo e dai pregiudizi, facendolo loro imparare e padroneggiare le loro abilità fuori dal normale.

Gli alunni, adolescenti come la protagonista, appartengono a diverse categorie di reietti: abbiamo sensitivi, vampiri, lupi mannari. Ma anche sirene, gorgoni, mutaformi ed hydes. Un velato ma chiarissimo messaggio di inclusione, con il quale il personaggio di Mercoledì si sposa alla perfezione.

Affinità, somiglianze e prese di distanza

E’ una serie che può essere analizzata sotto parecchi aspetti. L’affascinante Gomez, intrepretato da John Astin nel 1964, lascia il posto a Luis Guzmán, decisamente più fedele alla versione fumettistica del personaggio. Invece, la dark lady Morticia, interpretata da Carolyn Jones, viene sostituita da un’affascinate e sensuale Catherine Zeta Jones. Degna di menzione anche la presenza di Christina Ricci, nei panni della Professoressa Marilyn Thornhill. Non vi dice niente il nome dell’attrice? E’ la storica interprete, durante gli anni novanta, proprio di Mercoledì ne “La Famiglia Addams”. Ecco il tocco di Tim Burton con questo plot twist generazionale!

Sono presenti anche gli altri componenti della famiglia. Mano, presenza discreta ma fondamentale per la protagonista e per la trama. Ma ci sono anche altre vecchie conoscenze come lo zio Fester, il cugino It e Lurch, il maggiordomo di casa Addams. Nonostante la loro presenza, però, la famiglia farà solo da contorno alle dinamiche che si svilupperanno nella serie e avranno per protagonista principale proprio Mercoledì Addams. Infatti, calata nei nostri giorni, in un contesto family friendly, Mercoledì si ritroverà, come qualsiasi adolescente, a dover fare i conti con il tanto odiato contatto fisico e il gioco di squadra, ma anche con qualche cotta, incomprensioni e scontri con la madre e la nascita di un’amicizia

Jenna Ortega nei panni di Mercoledì Addams
Jenna Ortega nei panni di Mercoledì Addams Fonte: MGM television, Netflix

Mercoledì: trama già vista o c’è qualche elemento di novità?

La primogenita Addams si troverà, tra le visioni inquietanti ed i demoni con i quali dovrà combattere, tra un caffè sorseggiato in un tipico ambiente americano e la stesura del suo libro, a risolvere un caso che da ben venticinque anni attanaglia la Nevermore Academy. Un po’ come Scooby Doo, dovrà cercare un potenziale assassino nella ristretta cerchia di abitanti della città di Jericho. Insieme alla sua compagna di stanza Enid e Tyler, il ragazzo per cui ha una cotta, scoprirà diversi misteri e scheletri nell’armadio della città.

L’atmosfera di Tim Burton si percepisce dalla fotografia e dai colori scelti…ma manca qualcosa. Sembra quasi un cocktail di alcuni prodotti più famosi del regista Hollywoodiano. Infatti, alcuni personaggi sembrano ricordare Dark Shadows, film non proprio riuscitissimo, sempre di Burton, risalente ad una decina di anni fa. La serie, in alcuni passaggi, sembra fin troppo contaminata da elementi presi in prestito da altre realtà made in Netflix.

Mercoledì nei panni di una detective, intelligente e portata a scovare il crimine come Jessica Fletcher non mi ha pienamente convinta. La delusione nasce dalla premessa fatta sulla serie: è stata presentata come la versione di Tim Burton della crescita di Mercoledì, ma così non mi è sembrato.

E’ innegabile, però, che gli otto episodi scorrano velocemente e che la loro compagnia sia piacevole, con la morale che si prefiggono di avere, seppur molto distante dalla realtà macabra e spaventosa della Famiglia Addams.

Cosa aspettarsi da una seconda stagione?

Il finale di stagione lascia presagire che non tutti i nodi sono giunti al pettine, lasciando noi spettatori in preda alla suspense visto il clamoroso colpo di scena. Anche qui, gli ultimi minuti hanno ricordato molto le vibes di Pretty Little Liars: vi è sicuramente una chiara somiglianza tematica. Il che ha tutte le carte in regola per essere un assaggio di quello che potrebbe aspettarci nella seconda stagione, che sicuramente ci sarà, visto il finale aperto. Con l’augurio che il “made by Tim Burton” sia più presente e che il frivolo teen drama venga messo in secondo piano, magari facendo primeggiare dinamiche più cupe e dark degne della famiglia Addams.

Tu cosa ne pensi? Qui il trailer:

Giorgia Fichera 

 

 

 

 

Vatican Girl: storia inedita di uno dei più grandi misteri italiani


 Tra thrilling, flashback e testimonianze reali, “Vatican Girl” è un esperimento riuscito sulla storia della sparizione di Emanuela Orlandi – Voto UVM: 4/5

 

La mini docuserie Vatican Girl, diretta dall’autore e regista Mark Lewis, tra toni cupi ed investigativi, analizza e declina il misterioso caso di Emanuela Orlandi. Formata solo da quattro episodi, racconta tra flashback e testimonianze alcuni retroscena su uno dei misteri più oscuri avvenuti tra le mura vaticane.

La produzione Netflix, in collaborazione con la famiglia della giovane scomparsa, permetterà la fruizione in 160 paesi, dando chiaramente un approccio internazionale al documentario. Infatti, la serie è principalmente in lingua inglese mentre le testimonianze in italiano.

Chi era Emanuela Orlandi?

Emanuela Orlandi era una ragazza di quindici anni di Città del Vaticano, con molte passioni, tra cui la musica. Ed è proprio all’uscita dalla scuola di musica, in un afoso pomeriggio di metà giugno che sparirà senza lasciare più traccia.

Parte quindi una corsa contro il tempo,  scandita da ansie e sensi di colpa dei familiari, nel vano tentativo di ritrovarla: una famiglia distrutta che però, dopo quasi quarant’anni, non si da pace e spera di rivederla ancora in vita.

Vatican Girl: la serie su Emanuela Orlandi

La vicenda prende subito una direzione quasi da thriller politico, tanto da essere definita dagli americani “a Dan Brown story”. Si inizia con tentativi che barcollano nel vuoto e inizialmente riconducono alla mafia e alla criminalità organizzata per poi rivelarsi miseri buchi nell’acqua. La miniserie, che è a tutti gli effetti un esperimento riuscito, racconta come una fotografia, uno spaccato della società durante gli anni Ottanta.

La trama ha una particolarità non indifferente: come afferma anche lo stesso regista, viene raccontata tramite una narrazione retroattiva in cui ogni episodio è scandito dalle testimonianze di familiari e amici. Grazie alla digitalizzazione di alcuni video realizzati al tempo, è stato possibile riportare anche il punto di vista dei fratelli, facendo rivivere al telespettatore la serenità familiare prima della scomparsa.

Le testimonianze: chiave di svolta o buchi nell’acqua?

Intervengono, nei quattro episodi, anche potenziali testimoni della vicenda, da sempre vista come “scomoda”. La  testimonianza straordinaria di Sabrina Minardi, l’ex amante di Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana, non lasciano dubbi: dietro questa serie c’è coraggio da vendere!

Dal primo fino al quarto episodio, infatti, si susseguono le interviste a personalità italiane di spicco come Andrea Purgatori o Ferruccio Pinotti, che con il loro contributo offrono testimonianze dirette di chi, in questi anni subito dopo il rapimento di Emanuela Orlandi, era molto vicino alla realtà dei fatti. Le loro interviste ci offrono un puzzle che nell’insieme ha una forma, ma non completa! Mancano, infatti, dei pezzi. Forse questa serie può dare lo slancio per trovarli? Può contribuire a far uscire alla luce del sole la verità?

Sono stati tanti i tentavi di insabbiamento della storia. Infatti il terzo episodio è completamente dedicato a Marco Accetti, un fotografo che nel marzo 2013 si autoaccusa di essere complice nella vicenda. Dopo trent’anni sembra quasi uno spiraglio di luce per la famiglia Orlandi, come una boccata d’aria dopo un lungo periodo di apnea. Si scopre poi però che Accetti è soltanto un mitomane, al quale addirittura verrà diagnosticato il disturbo narcisista della personalità.

 Il tempo stringe in attesa della verità

Sono già diciotto anni che Ercole Orlandi, padre di Emanuela, non c’è più. Mentre la madre, Maria Pezzano, è molto anziana. E’ ancora vivo in lei il desiderio di poter abbracciare la sua bambina, che adesso avrebbe più di cinquant’anni. E’ forte il desiderio anche nel fratello Pietro e nelle sorelle Federica e Maria Cristina. Ed è proprio il tempo il file rouge che lega i quattro episodi, con frames di orologi ricorrenti che scandiscono momenti destinati a finire.

E’ parecchio interessante l’ultimo episodio  con l’intervista concessa da Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi. Infatti, nell’estate del 2019, la donna ha ricevuto un biglietto anonimo con in allegato una fotografia di una tomba. Il biglietto recitava: “Cercate dove guarda l’angelo”. Ma il sepolcro in questione, dopo l’intervento della scientifica, è stato trovato vuoto. E nel momento in cui il legale Sgrò ha chiesto successivi chiarimenti, non ha ricevuto alcuna risposta dagli inquirenti del Vaticano. Perché fare così? Si tratta forse di un caso di insabbiamento? O davvero qualcuno, tra le protette mura del Vaticano, è a conoscenza di qualcosa? Una serie di domande che ancora oggi, a quasi quaranta anni dal quel 22 Giugno 1983, non hanno una risposta. Una risposta che però, la famiglia Orlandi merita di avere.

Quello che il regista Mark Lewis e la produttrice Chiara Messineo si augurano è che la serie possa proporre una visione della storia inedita e questo possa avvicinarci alla tanto agognata verità. E se lo augurano pure gli italiani che da quarant’anni aspettano, come se si trattasse della propria figlia, il ritorno di Emanuela a casa.

Giorgia Fichera 

Quando l’all-you-can-eat di serie tv diventa indigesto

Netflix, dopo gli inizi promettenti della sua produzione con la serie House of Cards con protagonista Kevin Spacey nel 2013, si è fatta decisamente largo nella nostra quotidianità. La maggior parte di noi ha oggi un abbonamento attivo, le sue serie di punta sono entrate nel panorama mainstream e il catalogo si è nel tempo ampliato aggiungendo sia serie e film vintage che nuove produzioni della stessa Major. Questo menu però si è col tempo trasformato in un “all-you-can-eat” dalla qualità decisamente altalenante: l’azienda, cercando di procurare sempre più prodotti agli spettatori, ha col tempo disatteso molte aspettative non riuscendo a coniugare la possente macchina produttrice con una buona fattura.

Serie come La casa di carta sono l’emblema di tutto ciò: si tratta di un prodotto che potremmo giudicare come una vacca munta oltre il necessario. Una rapina raccontata dal punto di vista di personaggi che riescono a stare al di sopra del mero stereotipo ci ha inizialmente catturato come idea, ma col tempo questa stessa idea è risultata ridondante e la serie si è lasciata trascinare verso una banalità che ha colpevolmente punito il lavoro iniziale.

Dal trailer de ”La casa di carta”. Fonte: Netflix

 

Stesso discorso anche per un altro prodotto Netflix acclamato da massa e critica: Stranger Things. La serie ha fin dall’inizio avuto un nucleo semplice ma attraente: gli anni ’80 e tutta la cultura pop relativa al periodo, i mostri che si annidano nei sobborghi americani, le azioni di giovani protagonisti che crescono assieme agli spettatori e Stephen King come maggiore ispirazione narrativa.

Il successo di Stranger Things ha riportato in auge anche il ricordo degli eighties sia nel pubblico giovane, che li sta scoprendo, sia in quello adulto che li ha nel cuore e li sta rivivendo. La serie, però, col tempo si è rivelata una miniera di diamanti per il colosso americano e, se da un lato questo sembrerebbe positivo, è diventato in realtà una lama a doppio taglio. La volontà di ingozzare lo spettatore già a partire dalla seconda stagione, introducendo situazioni che espandevano l’universo narrativo, non è stata recepita bene dal pubblico e, con il prosieguo della trama, quel labirinto ha fatto posto ad una strada più lineare.

Ci saremmo augurati però che la storia seguisse un filo più logico e meno isterico!

Dal trailer di ”Stranger Things”. Fonte: Netflix

 

Per ricollegarci ora ad un universo più ampio, si può accennare ad un’altra importante tendenza dello show business hollywoodiano dell’ultimo decennio: il tema supereroistico. La serie Netflix sul personaggio di DareDevil ha per la prima volta spostato questo tema dalla sala alla TV.

Oggi questo percorso sta venendo continuato da Disney sulla sua piattaforma streaming Disney +.  Nel giro di poco meno di due anni sono state aggiunte al catalogootto produzioni: un numero esorbitante se consideriamo che va ben oltre la media della quantità di serie tv di cui lo spettatore medio fruisce in quel lasso di tempo. Inoltre  solo poche storie all’intero di questo miscuglio meritano una valutazione positiva.

L’atteggiamento bulimico che si aspetta la produzione da parte del pubblico potrebbe, a nostro avviso, non essere la strada migliore da seguire.

Sarebbe invece auspicabile un ritorno ad una produzione meno intensiva ma che al contempo porti con sé maggiore qualità nei prodotti destinati al grande pubblico, anche nell’ottica di salvare queste aziende e queste storie dall’orlo di un baratro che col passare del tempo si fa sempre più vicino e più largo.

 

Matteo Mangano, Giuseppe Catanzaro

 

*Articolo pubblicato su Gazzetta del Sud, all’interno dell’inserto “Noi Magazine” il 10/11/2022

Tutto chiede salvezza: Benvenuti sulla nave dei pazzi

Brillante, empatica e spiritosa, la serie riesce a rompere il tabù delle malattie mentali – Voto UVM: 5/5

 

Benvenuti sulla nave dei pazzi, chi è sano mentalmente è quello strano quassù, la prima regola per salire a bordo è quella di avere qualche disturbo o malattia mentale. Siete disposti a salire?

Come può una serie mettere in scena le nostre paure e preoccupazioni? Nessuno mai in Italia era riuscito a ricreare il tema della salute mentale in un’unica serie tv mischiando umorismo ed empatia. Molte volte confondiamo la fragilità con la debolezza, e nella nostra immaginazione associamo queste due parole con la figura della donna. In questa serie, per la prima volta, si parlerà dell’interiorità del genere maschile, da sempre nascosta perché in caso contrario, l’uomo potrebbe risultare troppo poco virile. Una società che delle volte dimentica che l’umano è un essere fatto di emozioni, e non una mera macchina.

 

Tutto chiede salvezza
Daniele in una scena della serie tv. Regia: Francesco Bruni. Distribuzione: Netflix. Fonte: luce.lanazione.it

Tutto chiede salvezza (2022)

Tutto chiede salvezza è una serie televisiva diretta dal regista Francesco Bruni, e tratta dal romanzo autobiografico di Daniele Mancarelli, vincitore del premio strega giovani 2020. La serie è stata distribuita sulla piattaforma Netlfix il 18 Ottobre 2022, ed è composta da sette episodi.

La storia è ambienta nella bellissima Roma, all’interno di un reparto psichiatrico, dove Daniele (Daniele Mencarelli) che è stato ricoverato contro la sua volontà, dovrà passare un’intera settimana che stravolgerà la sua vita.

Personaggi

“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.”

Il protagonista ha solo 20 anni, quando all’improvviso dentro di lui nasce una forte rabbia che sfocia in violenza – un episodio psicotico – e d’urgenza viene sottoposto al TSO. È proprio in quest’occasione che farà conoscenza con i suoi compagni di stanza: Gianluca (Vincenzo Crea) un ragazzo gay, con un disturbo bipolare, considerato troppo strano dai propri genitori per la propria omosessualità; abbiamo poi Giorgio (Lorenzo Renzi) un omone grande e forzuto ma tenero che con se tiene sempre la foto in bianco e nero della propria mamma scomparsa; troviamo Madonnina (Vincenzo Nemolato), un uomo con seri problemi mentali; Mario (Andrea Pennacchi) che osserva sempre la finestra nella speranza di rivedere il suo amato uccellino; ed infine c’è Alessandro (Alessandro Pacioni), intrappolato con gli occhi e col corpo dentro quel letto d’ospedale. Ma Daniele farà anche conoscenza con Nina (Fotinì Peluso), una ragazza con problemi più grandi dei suoi.

Tutti e sei sono accomunati dal trattamento sanitario obbligatorio, le loro giornate sono accompagnate dal caldo afoso e da infermieri e dottori che vigilano su di essi. In loro nascerà una grande amicizia, anzi, una fratellanza, per resistere a quel mondo “sano” per loro troppo irraggiungibile.

 

Tutto chiede salvezza
A sinistra Daniele (Daniele Mencarelli), seguito da Madonnina (Vincenzo Nemolato), Gianluca (Vincenzo Crea), e Giorgio (Lorenzo Renzi). Regia: Francesco Bruni. Distribuzione: Netflix.

Dentro le sale bianche

Come già detto sopra, la serie è tratta dal romanzo autobiografico di Daniele Mancarelli, che racconta la sua vera storia, ammettendo senza vergogna e paura il proprio disturbo che lo accompagnò nell’estate del 1994. I suoi genitori vollero per lui il TSO, dopo l’ennesimo attacco di rabbia. E da un giorno all’altro non si trovava più dentro la sua cameretta, ma i suoi occhi si risvegliarono dentro una stanza con lunghe pareti bianche e con degli insoliti compagni di stanza.

Sette puntate: una per ogni giorno della settimana, che ci faranno conoscere il breve ma intenso viaggio di Daniele. Una settimana costellata di avventure fisiche e mentali, che accompagneranno i personaggi tra monologhi e speranze abbandonate, sostituite da sogni, tanto belli quanto pericolosi per la loro salute. Per tutti i pazzi e sognatori, non preoccupatevi, prima o poi pure voi sarete compresi, osate finché potete!

 

Alessia Orsa

Del Toro’s Cabinet of curiosities: un’occasione sprecata

“Cabinet of curiosities” raccoglie parecchi talenti mal gestiti dalla produzione. Il prodotto finale risulta essere alquanto scadente. Voto UVM: 1/5

 

La serie antologica di Del Toro uscita su Netflix il 25 Ottobre offre allo spettatore un Horror, che cerca di svecchiare storie classiche, tra le quali si trovano molti adattamenti da famosi racconti di fantascienza. Non riesce però a nostro avviso a soddisfare nemmeno parzialmente le aspettative, create nel pubblico dal nome di Del Toro già regista di ”Il labirinto del fauno”, ”La forma dell’acqua” e del recente ”Nightmare Alley” (da noi già recensito).

Si tratta a nostro avviso di un prodotto molto raffazzonato, vittima, come molte altre produzioni, della sindrome di Netflix: produrre produrre produrre a scapito della rifinitura… ma andiamo nel dettaglio!

Tentacoli e membra

Il contenuto chiave della serie è quello horrorifico: creature tentacolari, demoniache e bestiali, alcune riuscite meglio di altre, altre che invece ci hanno sorpreso solo per la loro povera messa in scena.

L’effettistica è sicuramente il tratto distintivo della produzione e sebbene l’impegno nel portare sullo schermo qualcosa che sorprenda lo spettatore ci sia stato, il risultato finale è alla meglio banale se non a tratti ridicolo: mettere i pantaloni di carne ai mostri o usare dei pupazzoni inermi non ci è sembrata una buona mossa insomma.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Ci sentiamo di dire che nonostante i creatori dell’effettistica avessero buone idee, forse queste non si sono davvero realizzate. Crediamo che parte di ciò sia dovuto alla cattiva gestione del budget da parte della produzione. È evidente (e lo continueremo a dire!) che la produzione di questa serie sia mal gestita e non mostri coesione tra sceneggiatura, regia, prove attoriali e grandi nomi presenti nel cast.

Sceneggiatori intelligenti che non si applicano: dov’è del Toro?

Trattandosi di un’antologia, le storie sono collegate tra loro dalla tematica “horror”, ma anche dall’insensatezza della trama e del comportamento della maggior parte dei personaggi. Plot twist casuali e situazioni al limite (se non oltre) del ridicolo ci hanno fatto – quasi – perdere la voglia di continuare la visione.

A volte si scade nel più becero politically correct, giustificando le azioni di protagonisti squilibrati, instabili e dannosi verso il prossimo. Spesso i protagonisti stessi ci vengono presentati come soggetti dalla mente instabile, ma il fatto che ogni personaggio riesca ad avere le stesse visioni di bestie e demoni, non rende davvero l’aspetto ansiogeno tipico dell’horror.

Insomma non riesce nemmeno a mirare minimamente gli obiettivi per i quali Del Toro ha assunto questo incarico e per il quale era diventato famoso. La sua presenza infatti non è pervenuta!

Performance caotiche e attori sbandati

Le performance attoriali e la regia vengono, anche queste come detto, minate da una produzione sconclusionata: le idee non sono state ben delineate dai vari registi e questo ha comportato delle prove attoriali caricaturali e “fumettistiche”. Smorfie e monoespressività si ripresentano in tutti gli episodi in maniera omogenea.  Sembra che tutto sia ricaduto addosso ad attori e registi dall’alto, tramite direttive che hanno imposto, grossolanamente, storie che, nonostante le idee, ripropongono una visione vuota e ritrita del genere.

Molte inquadrature rimangono ad un livello amatoriale e spesso molte scene presentano incongruenze grafiche molto pesanti che distolgono l’attenzione e suscitano ilarità – dove si dovrebbe invece provare inquietudine.

Dal trailer di “Cabinet of curiosities”. Fonte: Netflix

Raccogliamo i pezzi

Concludiamo allora dicendo che: la qualità complessiva è mediocre e spesso scende anche al di sotto della stessa mediocrità.

Non ci sentiamo di dare che pochi elogi a questa antologia e tra questi elenchiamo il design dei mostri e l’incipit di ogni puntata che mostra un’ispirazione assente nello sviluppo della storia. Di episodi dignitosi ce ne sono davvero pochi e anche quelli rimangono impressi per pochi dettagli scenici. Il salvabile non giustifica la visione e non ci sentiamo di consigliarla al pubblico verso cui è stata indirizzata. Quel pubblico era stato infatti chiamato alla visione per due motivi: da un lato il nome di Del Toro, non pervenuto all’interno degli episodi, e dall’altro quello di Lovecraft.

Usare il suo nome per farsi campagna pubblicitaria ingannevole mettendo solo i titoli dei suoi racconti senza adattare una virgola dei suoi testi non ci è sembrata una tattica onesta. Anzi proprio per le attese che questo nome ci suggeriva, siamo stati molto più annoiati e delusi dalla visione.

Salvatore Donato, Matteo Mangano

Dahmer: mille sfumature di mostro

Dahmer, una serie contorta e controversa che ricostruisce le vicende che hanno portato alla nascita di un mostro. – Voto UVM: 5/5

 

Una storia reale, ambienti cupi al limite del claustrofobico, una continua ricerca delle profondità psicologiche; questo e tanto altro è la controversa serie tv diffusa su Netflix firmata da Ryan Murphy che, in dieci episodi, racconta la storia di uno dei più celebri serial killer che ha sconvolto l’America e il mondo intero.

Stiamo parlando di Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, che nel giro di poco tempo è diventata la serie dei record, scatenando una bufera mediatica che ha riaperto una ferita profonda nel cuore degli americani.

La nascita di un mostro o…

Lo show composto da dieci episodi, si presenta come un racconto solido, che mira alla profondità priva di esagerazioni e fronzoli narrativi. Una tensione in crescendo che ci accompagna puntata dopo puntata, non solo nel racconto degli orribili omicidi e del modus operandi del serial killer, ma soprattutto andando a ricostruire la degenerazione della psiche già frammentata e dolorosa di Dahmer, senza giustificarlo in alcun modo; eppure, mettendo in evidenza le numerose contraddizioni che caratterizzavano una società ottusa e anaffettiva dell’America degli anni ’70-’80.

La serie gioca molto sui flash-back, in un susseguirsi di immagini che delineano il profilo di Jeffrey dall’infanzia solitaria, ad un’adolescenza trascorsa in preda ai fumi dell’alcool ed alla vita adulta segnata dalla sindrome dell’abbandono.

La storia così rimane per la prima parte slegata dagli omicidi per tratteggiare una personalità realistica, costretta alla repressione della sua sessualità da una società intollerante che lo costrinse a rinchiudersi in una rabbiosa solitudine, fino all’esplosione di quell’odio covato sulle prime vittime, rendendolo da quel momento un mostro.

L’incubo di Milwaukee

Jeffrey Dahmer, responsabile di diciassette omicidi effettuati tra gli anni 1978 e 1991, è diventato nel tempo un vero e proprio incubo vivente. Lasciato libero nonostante i sospetti e le segnalazioni dei vicini su di lui, ha protratto indisturbato la sua attività per più di un decennio.

Il racconto di Murphy non cade nei dettagli orrifici ma procede mettendo al centro dello schermo la personalità del suo protagonista più degli orribili omicidi, attraverso un continuo di rimandi psicologici che cerca di definire un personaggio complicato, ma non per questo meno colpevole o barbarico. A cominciare dallo sviluppo del suo modus operandi nella cantina della nonna fino all’appartamento degli orrori in cui verrà dilaniata la sua ultima vittima.

Le sequenze più violente vengono in maniera magistrale intervallate da caratterizzazioni del passato tormentato di Dahmer e successivamente da scorci che si aprono sulle vittime e sui loro famigliari, fino ai risultati mediatici occorsi nel periodo successivo all’arresto. La parte finale, si allontana dal protagonista per gettare una luce oscura sull’America e sul dolore dei parenti in lutto, dimostrando un rispetto verso una ferita aperta che si è cicatrizzata solo nei fatti.

Ora è finita. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose.

 

Dahmer
Jeffrey Dahmer (Evan Peters) in una scena della serie. Distribuzione: Netflix. Regia: Ryan Murphy. Fonte: thetab.com

Dahmer: interpretazione da Emmy

Alla riuscita di questa rappresentazione, che ha portato la storia di un uomo sicuramente malato ma soprattutto in grado di spingersi oltre qualsiasi limite immaginabile, concorrono le interpretazioni impeccabili dei suoi attori protagonisti, in particolare spicca quella del grandioso Evan Peters – che già aveva lavorato con Murphy in AHS – completamente calato nella parte del killer. Il Dahmer da lui rappresentato prende vita nel doloroso binomio vittima-maniaco che l’interprete riesce a riflettere impeccabilmente attraverso un gioco fatto di uso degli occhi e del fisico.

 

Gaetano Aspa

Blonde: tra Norma Jeane e Marilyn Monroe

Un film che mette a nudo tutte le fragilità di Marilyn Monroe. Voto UVM: 5/5

 

Ricordo quando da bambina vidi per la prima volta una foto in bianco e nero in cui era ritratta Marilyn Monroe, rimanendo affascinata da quella donna, così bella ed elegante. Il mio pensiero fu: “non vedo l’ora di crescere, di vestirmi e di truccarmi come lei”. Ora sono una giovane donna ma cerco ancora in qualche modo di imitare quel mito tanto amato, non tanto per ricopiarne la bellezza quanto l’interiorità, ancora oggi nascosta ai nostri occhi.

In molti l’hanno definita come “la bionda stupida”, etichettandola con le famose misure 90-60-90. Ma Marilyn, anzi Norma Jeane, era una persona sola, alla costante ricerca dell’approvazione altrui. Voleva sentirsi desiderata e protetta, per questo scelse la carriera di attrice, quel lavoro in cui si è costantemente amati. Non confondete questo suo desiderio con l’egocentrismo, quest’ultimo porta l’individuo a vedere davanti solo se stesso. Vedrete, invece, in Norma Jeane una persona che per la proprie insicurezze è andata a rifugiarsi in Marilyn. Il film però ci fa capire come Norma odiasse quelle attenzioni, le detestava, perché tutti la vedevano solo e unicamente come un oggetto sessuale.

“Oh Daddy, quella cosa sullo schermo non sono io”

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn Monroe) in una scena del Film. Distribuzione: Netflix. Fonte: Consequence

Blonde (2022)

Blonde è un film del 2022, scritto e  diretto dal regista australiano Andrew Dominik. La pellicola, tratta dal romanzo della scrittrice Statunitense Joyce Carol Oates, ritrae la vita di Marilyn Monroe, la diva per eccellenza, interpretata dalla talentuosa Ana De Armas. Durante la visione però non vedremo la “donna più bella del mondo” ma Norma Jeane, colei che si rifugiò in Marilyn.

L’autrice del libro ha riscritto Marilyn tra realtà e finzione, mettendo a nudo le emozioni della diva e in particolare la sua disperazione. Joyce è rimasta affascinata dal Blonde, queste le sue parole:

Ho visto il primo montaggio dell’adattamento di Andrew Dominik ed è sorprendente, geniale, molto inquietante, e cosa forse ancora più sorprendente, è un’interpretazione completamente “femminista”…non credo che un altro regista abbia mai ottenuto qualcosa del genere”.

La scrittrice ha proprio ragione, Blonde è stato un film non facile da mettere in scena. Il regista ci ha messo ben 11 anni, tra copioni, attori e set. Tutto doveva essere perfetto per reincarnare la “bionda”.

Tra i colori e le ombre di Marilyn e Norma

Il film ha due realtà, quella dei colori e del bianco e nero. Dominik gioca con le luci e le ombre per rappresentare egregiamente il dualismo tra Marilyn e Norma Jeane. Da una lato abbiamo quella finzione creata da Hollywood e dall’altro lato abbiamo invece la disperata realtà che l’attrice viveva. Non è comunque per nulla semplice, quando il film cambia colori, distinguere la realtà dalla finzione. Il regista osa e amalgama il tutto, creando quel dualismo che pian piano va esso stesso ad annullarsi.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: actitudefilm

 

Una vita segnata dalle violenze e da quel lavoro che l’ha resa un’icona, – ottenuto con una vile molestia sessuale – facendola ricordare come una semplice “Bambolina Bionda”, perché ritenuta troppo stupida per ruoli più seri. Nella pellicola vediamo una scena in cui Norma dice di aver letto Dostoevskij e la risposta che si sente dare è: “ah perché tu leggi Dostoevskij?”.

Marilyn e l’amore

“Voglio studiare recitazione, ma recitazione vera. Ma soprattutto, io voglio sistemarmi, come ogni ragazza, e avere una famiglia”

Abbiamo sempre immaginato Marilyn Monroe come una donna forte e indipendente, in fondo lei stessa è cresciuta senza genitori, si è fatta strada da sola. Nel suo viso vedevamo uno sguardo dolce e sensuale, col suo sorriso riusciva a mascherare quella malinconia che l’ha strappata alla vita. Marilyn era una giovane donna, bisognosa d’affetto, che ricercava in quelle svariate storie d’amore un sostegno, quello che non ebbe durante la sua infanzia e adolescenza. Sopportando persino la violenza domestica, accettando delle volte solo l’amore carnale, per sentirsi desiderata e amata anche per un secondo. E di ciò lei era consapevole ma la sua fragilità la costringeva a compiere scelte non giuste verso se stessa.

Nel film vengono presentati i grandi amori di Norma/Marilyn, come Arthur Miller (Adrien Brody), Joe DiMaggio (Bobby Cannavale), e il Presidente John F. Kennedy. Facendoci notare come Norma cercasse di aggrapparsi ad ognuno di loro.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) e Adrien Boy (Arthur Miller) in una scena del film. Fonte: cinema.everyeye.it

 

Chi era Norma Jeane?

Se non fosse Marilyn, chi sarebbe?

Norma Jeane nasce il 1 Giugno del lontano 1926, figlia di una madre mentalmente instabile e di un padre di cui non seppe mai il nome. Norma passò la sua infanzia e adolescenza in varie famiglie, dato che la madre fu dichiarata come “malata di mente”, e quindi incapace di crescere una figlia. Tutto ciò finì per scombussolare Norma. Ve la ricordate la voce nei film di Marilyn? Quella che sembrava un sussurro mischiato col sospiro? Norma Jeane era in realtà costretta ad utilizzare quell’intonazione, difatti, soffriva di balbuzie e il logopedista le aveva consigliato di parlare in quel modo. La vita di Norma fu costellata di abusi e violenze. Norma si rifugiò in Marilyn, si creò un personaggio da tutti amato e desiderato, con lei ottenne quell’amore che non ebbe mai. Marilyn era quella amata, non Norma Jeane.

 

Ana De Armas (Norma Jeane/ Marilyn) in una scena del film. Fonte: news9live

 

Blonde rappresenta la sofferenza e la fragilità di ogni essere umano. Chiunque dovrebbe vedere quest’opera cinematografica e non solo per la magnifica interpretazione di ogni singolo attore. Blonde è un lungometraggio che entra dentro l’animo di ogni spettatore, una piccola perla che mostra la parte più nascosta e fragile di Norma Jeane/Marilyn Monroe, e non “la donna più bella del mondo”. Ci mostra il suo fascino e tutto il suo dolore, proprio quello che  l’industria cinematografica, tra strass e perline, ha voluto sempre tenere nascosto.

Alessia Orsa