Diagnosticare patologie analizzando il respiro: realtà e prospettive

L’associazione più immediata che operiamo quando ci viene menzionata la parola “analisi”, in ambito medico, è certamente il prelievo di sangue.

In pochi penseranno che ad essere analizzato possa essere proprio il loro respiro e le molecole che lo compongono, al di fuori ovviamente dell’alcol test.

Eppure, la cosiddetta “breath analysis” è una pratica ormai consolidata nella diagnosi di alcune patologie e nuove e interessanti prospettive si stanno affacciando nella pratica clinica.

Intolleranza al lattosio

Una delle condizioni più frequenti che può giovare di un breath test è sicuramente l’intolleranza al lattosio.

Una quantità standard di lattosio viene ingerita dal soggetto esaminato e successivamente si analizza la concentrazione di idrogeno nell’aria espirata attraverso un apposito strumento. Un eventuale aumento indica infatti la carenza dell’enzima lattasi, che normalmente metabolizza il lattosio: lo zucchero è così preda dei batteri intestinali che lo fermentano con formazione di vari gas, tra i quali, appunto, l’idrogeno.

Gastrite ed Helicobacter pylori

Tale batterio è associato a gastrite, ulcera duodenale, ma anche a cancro gastrico.  La ricerca dei prodotti del metabolismo di questo microrganismo è ormai diventata di routine. Tuttavia, per vedere direttamente H.pylori è necessaria una gastroscopia con biopsia della mucosa gastrica, non esattamente l’esame più comodo per un’analisi iniziale.

Questa volta a essere ingerita è l’urea-C13, ovvero contenente carbonio radioattivo: ciò permette di distinguere l’anidride carbonica (CO2) prodotta dal batterio dalla normale quota eliminata con la respirazione (che non contiene C13). Infatti, il microrganismo produce ureasi, enzima che scinde l’urea in CO2 e ammoniaca.

Nuove prospettive

Ma cosa accade se proviamo a spingerci oltre?

Sebbene le condizioni sopra esposte siano abbastanza frequenti, se precocemente diagnosticate, non comportano particolari problematiche per il paziente (il cancro gastrico si sviluppa a distanza di molti anni).

In altre parole: è possibile diagnosticare patologie gravi quali i tumori esaminando l’aria che espiriamo?

L’intuibile “labilità” di un campione biologico gassoso rispetto a liquidi e solidi (sangue, urine, feci, porzioni di tessuto, ecc.) e la mancanza di tecniche e strumentazioni validate ha fortemente limitato tale pratica.

Eppure c’è chi, come la regione Puglia, decide di investire sulla breath analysis non solo in ambito di ricerca ma anche nella pratica ospedaliera di tutti i giorni.

Dopo una serie di studi sperimentali è da poco stato aperto il Centro regionale di Breath Analysis, all’interno dell’Istituto Tumori di Bari.

L’intento è completare gli studi precedenti sperimentando quotidianamente questa nuova tecnica, grazie allo strumento campionatore Mistral.

In particolare, i tumori presi in esame sono:

  1. Mesotelioma pleurico: neoplasia associata all’esposizione all’asbesto, il cui uso è oggi proibito. Presenta bassissime possibilità terapeutiche e la diagnosi è gravata da procedure molto invasive e difficoltà nel distinguerlo da patologie benigne (più frequenti, sempre asbesto correlate) e altri tumori.
  2. Carcinoma del colon-retto: tra i 3 tumori più frequenti in Italia sia nell’uomo che nella donna. Richiede comunque una colonscopia per la diagnosi.
  3. Carcinoma polmonare: prima causa di morte per tumore, da anni si stanno cercando procedure di screening da usare su ampia scala.

Appare evidente come, in termini di costi e praticità, sia molto più semplice far soffiare una persona dentro un tubicino di metallo, rispetto a proporgli una TC o una colonscopia.

Ma quali sono i presupposti scientifici di tale metodica?

Le cellule tumorali rilasciano numerosi prodotti nel circolo sanguigno.

Parte di essi, i VOCs (composti organici endogeni volatili) raggiungono il polmone per essere poi eliminati attraverso la respirazione. Inoltre, anche sostanze non volatili come le proteine possono essere espulse in particelle di vapore (EBC, aria espirata condensata).

L’immagine, tratta dall’articolo “Exhaled volatile organic compounds in nonrespiratory diseases”, mostra come potenzialmente numerose altre patologie possano correlare con alterazione dei VOCs

Da un lato, il metabolismo aberrante del tumore porta a un’alterazione dei VOCs; dall’altro, le mutazioni genetiche delle cellule neoplastiche comporteranno l’espressione di proteine differenti da quelle normali, ovvero un EBC alterato.

Pertanto, la breath analysis si propone come arma doppiamente efficace, almeno in linea teorica.

Le difficoltà maggiori derivano dalla selezione del tipo e della quantità delle molecole da analizzare: infatti, solo combinazioni di più marcatori sono efficaci nel rivelare il tumore. In più, tale metodica non sostituirebbe le indagini standard, ad oggi considerate irrinunciabili, ma selezionerebbe i soggetti che necessitino realmente di ulteriori esami.

Da non trascurare è la grande potenzialità in termini di diagnosi precoci, che corrispondono a maggiori possibilità terapeutiche e riduzione della mortalità. Da ciò nasce “l’obbligo” per la ricerca di trovare sempre nuove indagini che invoglino i soggetti a sottoporvisi, a maggior ragione se essi sono sani e non avvertono la necessità di essere esaminati.

Nell’attesa che i risultati trovino ulteriori riscontri scientifici, l’iniziativa pugliese rappresenta certamente un passo avanti verso una medicina più smart. Lo studio sistematico su un grande numero di pazienti permetterà di vagliare attentamente la validità di questa interessante e nuova tecnologia.

A trarre vantaggi da approcci sempre più semplici e meno invasivi non sarà soltanto il Sistema Sanitario Nazionale in termini costi e risorse, ma soprattutto il paziente che si vedrà accompagnato, e non più forzato, nelle procedure diagnostiche.

In parole povere: un classico esempio di come prendere due piccioni con una fava.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

Breath Analysis: A Systematic Review of Volatile Organic Compounds (VOCs) in Diagnostic and Therapeutic Management of Pleural Mesothelioma

Detection of cancer through exhaled breath: a systematic review

Omeopatia: tra scienza e menzogna

La diagnosi di tumore è sempre una tragedia che sconvolge la quotidianità di un soggetto e di tutti coloro che gli stanno intorno, cambiando la prospettiva sulla vita e sul mondo.
È una malattia sociale, per così dire, che può condurre la persona in un profondo stato di prostrazione mentale e spingerla alla ricerca di medicine alternative che possano in qualche modo smentire o sovvertire la sentenza del medico curante.
Tra coloro che in buona fede si elevano ad araldi delle parascienze, c’è anche chi lucra sulla sofferenza dei disperati.
A svettare sulle pratiche non convenzionali troviamo la chiacchieratissima omeopatia, che da anni rimbalza da giornali a salotti televisivi, spaccando l’opinione pubblica in due fazioni agguerrite.
Ma cos’è esattamente?

Un po’ di storia

È un metodo basato sul principio per cui il rimedio a una malattia è la sostanza, diluita e agitata, che in una persona sana dia gli stessi sintomi della malattia in questione.
Hahnemann, il medico che teorizzò l’omeopatia, affermava che per curare la malaria servisse una pianta che se assunta provocava sintomi simili, ma senza febbre.
Caso volle che quella pianta fosse la Cinchona succirubra, da cui si estrae il chinino.
A quei tempi era l’unico rimedio a tale patologia, quindi effettivamente i pazienti guarivano, e l’uomo ritenne di aver compiuto una scoperta eccezionale.


Ad oggi nessuno è riuscito a dimostrare l’applicabilità degli studi di Hahnemann, tuttavia sono ancora molti coloro che voltano le spalle alla scienza, in una cieca adorazione dei vari “guru” che promettono cure miracolose.

Cosa dicono i dati?

Tra i tanti studi effettuati, in uno del 2007 vennero arruolati due gruppi di pazienti oncologici (tra essi il più simili possibile dal punto di vista della malattia per evitare di incorrere in errori), al fine di verificare se ci fosse o meno una correlazione tra l’omeopatia e il miglioramento della qualità della vita dei soggetti.
Un gruppo ricevette la terapia convenzionale, l’altro il trattamento omeopatico unito o meno a terapia convenzionale.
Alcuni pazienti in trattamento omeopatico rifiutarono la terapia convenzionale.
E’ da notare che coloro che si rivolgono all’omeopatia sono di solito più giovani e con uno stadio della malattia più avanzata e che hanno terminato i cicli di radio e chemioterapia.
L’obiettivo principale della ricerca era il miglioramento della qualità della vita dopo un anno, mentre gli obiettivi secondari erano la diminuzione dell’astenia, della depressione e l’aumento della soddisfazione del paziente.
Alla fine, lo studio riportò che i soggetti che avevano assunto il supplemento omeopatico mostravano un miglioramento della qualità della vita rispetto al gruppo di controllo, una diminuzione dell’astenia, ma nessuna variazione sulla progressione della malattia.

L’effetto placebo

Il funzionamento dell’omeopatia potrebbe essere spiegato con il ben noto effetto placebo.
Si tratta di un meccanismo per cui un soggetto che assume una molecola non attiva, migliora grazie al rilascio di sostanze endogene che agiscono sul sistema nervoso.
Importante per la buona riuscita di questa procedura è che il paziente sia convinto di assumere una medicina e soprattutto che l’operatore che la sta somministrando sia capace di infondere un totale senso di fiducia.
Ed è su questo che molti giocano la propria partita, spacciando come efficaci dei preparati così diluiti da non poter avere ormai alcun impatto sulla salute del soggetto.
I risultati ottenuti sull’omeopatia sono molto simili in tutti gli studi condotti fino a ora; ciò induce a pensare che non ci sia alcuna utilità terapeutica in queste molecole, ma soltanto un blando e momentaneo beneficio psicologico.
Il problema è, forse, che non sono state messe in atto adeguate campagne di informazione su larga scala al fine di istruire il pubblico e aiutarlo a riconoscere eventuali truffe o inganni, celati dietro la falsa promessa di rivelare segreti, che la medicina tradizionale non vorrebbe elargire.

Maria Elisa Nasso