L’arte di narrare una storia: omaggio a Kobe Bryant

«Gli eroi vanno e vengono ma le leggende sono per sempre» si legge sulla locandina della nuova serie tv firmata Netflix, in uscita ad Agosto 2022, dal titolo The Black Mamba. Dopo il successo di The Last Dance, serie tv prodotta dalla piattaforma streaming per celebrare Michael Jordan nell’ultimo anno con i Chicago Bulls, Netflix si rituffa nel mondo del basket con un’altra leggenda dell’NBA: Kobe Bryant.

L’uscita – a due anni dalla scomparsa di Kobe e della figlia Gianna, insieme ad altre sette persone, in un tragico incidente avvenuto il 26 Gennaio 2020 – permetterà a tutti di immergersi nel mondo di un professionista del gioco.

Kobe Bryant e la figlia Gianna. Fonte: SportFair

La serie racconterà in un arco di dieci episodi i vent’anni di carriera di Bryant con la maglia dei Lakers, ripercorrerà tutti i successi del campione NBA, dai suoi esordi ai tre storici titoli consecutivi, al rapporto con la figlia Gianna, di cui era allenatore; un modo per riscoprire la carriera e le sfide di Black Mamba, attraverso i racconti degli ex compagni e dei suoi avversari.

Black Mamba, che darà il titolo alla serie è il soprannome che Kobe stesso scelse durante gli anni più bui della sua vita privata e della sua carriera. Un soprannome che lo aiutò a scindere il Kobe fuori dal campo di gioco dal Kobe professionista del basket alias Black Mamba appunto, un letale e rapido serpente, l’animale alle cui caratteristiche si ispirava per sviluppare il proprio stile di gioco, metafora di dedizione e talento per raccontare il suo approccio mentale alla pallacanestro.

Kobe Bryant. Fonte: The Indian Express.com

Moltissimi sono altri contenuti presenti in rete che ci permettono uno sguardo lucido su quei luminosi venti anni di carriera fino al ritiro nel 2016. Tra tutti, il libro autobiografico scritto da Kobe stesso è sicuramente una via privilegiata per guardare il mondo del basket dal punto di vista di un campione che padroneggiava perfettamente il gioco della pallacanestro.

The Mamba Mentality è il nome dato all’autobiografia edita Rizzoli e uscita in Italia nel Novembre 2018. Un resoconto minuzioso dell’approccio mentale di Kobe Bryant alla pratica sportiva, una riflessione sull’importanza di alimentare il talento con dedizione e  perseveranza. L’autobiografia vanta la presenza delle bellissime fotografie di Andrew D. Bernstein, da tempo fotografo ufficiale dei Los Angeles Lakers che seguì Kobe sin dall’inizio: la sua prima foto risale al 1996, quando il campione aveva 18 anni. Bernstein definì così il libro e la loro collaborazione durante un’intervista:

“Questo libro ,è una collaborazione davvero unica tra un atleta e un fotografo. Non credo ci sia mai stato un altro atleta in uno dei quattro maggiori sport professionistici americani che abbia speso 20 anni e tutta la sua intera carriera con la stessa squadra, fotografato attraverso l’occhio di uno stesso fotografo.”

L’opera è la dimostrazione di come l’amore per qualcosa – in questo caso uno sport – possano essere espressi con mezzi sempre diversi. Ma soprattutto racconta della strada percorsa da Kobe per raggiungere i suoi obiettivi: duri allenamenti, continuo studio del proprio modo di giocare e degli avversari attraverso filmati, cura e attenzione per ogni dettaglio.

“The Mamba Mentality”: copertina. Fonte: Rizzoli

Ossessione e dedizione costante al basket sono gli ingredienti di questo approccio alla pallacanestro, una mentalità che ha permesso a Bryant di conquistare cinque titoli, due medaglie d’oro olimpiche, due premi come miglior giocatore della lega nelle Finals, due premi consecutivi come miglior marcatore della stagione e il secondo numero massimo di punti mai segnato in un incontro NBA, fino all’ultima partita della sua carriera, dove segnò ben 60 punti.

Ma l’amore per il Basket ha portato Bryant a sperimentare nuovi modi per raccontare della pallacanestro. Lo stesso Kobe scriverà infatti:

“Questo sport mi ha dato ogni opportunità che avessi mai potuto desiderare, e lungo la strada ho imparato moltissimo. E non solo sul campo. Senza il basket non conoscerei la creatività né la scrittura […] questo sport in pratica mi ha insegnato l’arte di narrare una storia.”

La necessità di narrare lo ha condotto infatti nel 2015 ad annunciare il suo ritiro dal mondo della pallacanestro con un articolo pubblicato sulle pagine del The Player’s Tribune, dal titolo : Dear Basket, una vera e propria dichiarazione d’amore al basket, dall’infanzia al momento del ritiro. Dear Basket diventerà un cortometraggio con la voce di Kobe e le animazioni e la regia di Glen Keane.

Il corto, realizzato con un tratto a matita, ricorda i bozzetti Disney. Un’opera sicuramente dal taglio sentimentale che venne premiata nel 2018 con l’Oscar come miglior cortometraggio animato.

Dal cortometraggio “Dear Basket”. Fonte: lascimmiapensa.com

Per tutti questi motivi, la vicenda di Black Mamba ha effettivamente del leggendario per tutto il mondo del basket e a distanza di due anni dalla morte, la sua carriera e la sua presenza vengono restituite ai suoi tifosi sotto altre vesti, sotto forma di racconti, grazie alla necessità di narrare, grazie all’aiuto di quella complessa arte che è il tessere una storia.

                                                                                                                                                                    Martina Violante

Finale NBA: calo di ascolti da record. Trump: “ I Lakers fanno troppa politica”, ma le motivazioni sono altre

I Lakers festeggiano la loro 17esima vittoria (fonte: sito Nba/Douglas P. De Felice)

I Lakers vincono dopo dieci anni

Per l’NBA, il famosissimo campionato di basket statunitense, è stato difficile concludere bene quest’anno già di per sé complicato. Lo stop non solo per la pandemia, ma anche per lo sciopero, a fine agosto nel mezzo dei playoff, degli atleti per l’adesione alle proteste per i diritti delle comunità afroamericane. Anche se a distanza di mesi, alla fine le ultime partite si sono disputate nella bolla del Disney World di Orlando. Ad aggiudicarsi il titolo i Lakers di Los Angeles, tornati a essere vincitori dopo dieci anni dall’ultima volta. I gialloviola hanno sconfitto gli Heat di Miami, conquistando la vittoria di 4 gare – gli avversari ne hanno vinte 2 – per un punteggio di 106 a 93.

Il numero 9, Rondo (fonte: nba.com)

Un calo di ascolti da record

Una serie di finali che ha registrato un record, ma in negativo. È stata la fine di campionato meno seguita di sempre, da quando, nel 1982, le partite hanno iniziato a esser trasmesse in diretta. La Gara 6, l’ultima per l’assegnazione del titolo, è stata seguita da 5,6 milioni di spettatori sulla rete Abc. L’anno scorso, sono state 18,34 milioni di persone a guardare in diretta tv i Toronto Raptors aggiudicarsi la vittoria contro i Golden State Warriors. Le prime tre gare, trasmesse, da Espn, su Abc in inglese, e, su Deportes in spagnolo, sono state le meno viste di sempre in televisione negli Stati Uniti. Fino a prima, la finale NBA meno seguita è stata la quarta della serie del 2003, tra San Antonio Spurs e New Jersey Nets, che all’epoca totalizzò 8,06 milioni di telespettatori.

Trump vs Lakers

Trump vs LeBron (fonte: lakersdaily.com)

La polemica è montata soprattutto a causa delle dichiarazioni del presidente Trump, con il quale i giocatori dei Lakers si sono scontrati per settimane prima della fine di campionato, anche per il loro sostegno al movimento Black Lives Matter.

“Crollo di quasi il 70% di spettatori per l’ultima gara di Finale NBA, battuta da una partita di football trasmessa casualmente la domenica sera. Forse la stavano vedendo in Cina, ma ne dubito. Zero interesse.”

Ha scritto Trump su Twitter. Ha anche aggiunto che la lega è diventata ormai “così politica da non interessare a nessuno”. Ha definito il playmaker dei Lakers, LeBron James, un portavoce del partito democratico e un “hater” che le persone si sono stancate di seguire, nonostante sia un gran giocatore di basket. Il cestista per la vittoria ha ricevuto, allo stesso tempo, anche i complimenti dell’ex presidente Obama.

LeBron James durante e dopo la partita (fonte: nba.com)
LeBron festeggia. Per lui è la quarta vittoria (fonte: nba.com)

Le motivazioni dello share negativo

La presenza in finale dei gialloviola e soprattutto di LeBron, una delle più grandi stelle del basket nordamericano, sembrava potesse contenere i cali di ascolti. Le problematiche riguardo lo share televisivo, anche se non perfettamente inquadrate, probabilmente possono essere ricondotte a due motivazioni, diverse da quelle argomentate dal presidente. Una potrebbe essere l’assenza di pubblico presente dal vivo e il sentiment diffuso tra gli americani a causa della pandemia. L’altra, la sovrapposizione degli appuntamenti sportivi. Difatti, gli altri campionati, rimasti ugualmente interrotti per lungo tempo, hanno deciso di riprendere proprio in questo stesso periodo. Di norma, il calendario sportivo nordamericano evita le sovrapposizioni tra le competizioni, grossomodo una inizia quando un’altra finisce. Quest’anno le finali NBA sono iniziate il primo ottobre, contemporaneamente alla partenza della stagione regolare del campionato di football NFL, il più seguito in America. Coincidenza anche con i playoff della Major League Baseball, per i quali si disputano partite ogni giorno fino a fine mese, completando con le finali. Bisogna sottolineare, però, che la quarta giornata della NFL ha fatto il 10% di share in meno e l’intero campionato ha registrato una media inferiore di 2 milioni di spettatori rispetto all’anno scorso. Dunque, un calo generale per tutti i campionati. L’NBA, in realtà era in perdita già negli ultimi tre anni. Lo scontro tra Trump e i Lakers potrebbe aver influito sugli ascolti, forse anche per il periodo elettorale, entrato nel vivo, in vista del voto fissato al 3 novembre. Il commissario della NBA, Adam Silver, considerando i fatti ha deciso di vietare dai palazzetti i cosiddetti “messaggi di giustizia sociale”, frequenti durante gli ultimi playoff.

Anthony Davis, LeBron James e Quinn Cook, inginocchiati durante l’inno statunitense, indossano maglie che invitano al voto (Fonte: Mike Ehrmann/Getty Images)

Infine, ciò che sembrava il frutto di uno scontro sul piano politico, pare invece spiegarsi con la sovrapposizione di eventi sportivi e magari il cambiamento delle modalità di fruizione­ dei contenuti televisivi, recuperabili anche online dopo la diretta. Improbabile trovare una spiegazione in un risentimento tanto potente dei tifosi nei confronti degli sportivi, che si schierano apertamente nei dibattiti più importanti dei nostri giorni. Pare che le persone apprezzino abbastanza rivedersi in quei personaggi che, di questi tempi, fanno sognare con il loro gioco e per aver il coraggio di manifestare un proprio pensiero.

Rita Bonaccurso

The Last Dance: quando epica e sport si uniscono

L’epica? La narrazione poetica di gesta eroiche, spesso leggendarie.

Così, dall’altra parte dell’Atlantico, non essendoci riferimenti nella tradizione millenaria dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, gli eroi dalle gesta fiabesche sono quelli dello sport.

C’è chi corre forte, chi tira pugni e chi è capace di volare.

“MJ”, “His Airness”, “Air Jordan”. O, più semplicemente, Sua Maestà Michael Jordan.

Nel vortice contemporaneo trafficatissimo dei contenuti seriali arriva l‘opera omnia sul “più grande atleta nord-americano del XX secolo”, cosi come l’ha definito ESPN.

Fonte: skysport.it

Lo show, che si sviluppa in 10 puntate, accende i riflettori soprattutto sull’emblematica stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls (ribattezzata poeticamente da Phil Jackson l’ultimo ballo) della quale Jordan fu simbolo assoluto, timoniere e profeta.

Quella stagione, per l’NBA, per la franchigia e per lo stesso MJ fu il compimento della più grande impresa sportiva, degna delle vette shakespeariane.

Fondamentale il concetto (assolutamente non scontato) “non solo Jordan”: ci sono il coach (luminare, geniale, avanguardistico) Phil Jakcson, ed i compagni di viaggio Scottie Pippen (ed un rapporto di odi et amo), Dennis Rodman (un folle squinternato del quale grazie alla serie capiremo di più), Ron Harper; del resto la storia non si scrive da soli.

Fonte: nba.it

I Bulls dell’era pre-Jordan erano tutto fuorchè l’emblema della vittoria: il Chicago Stadium (decrepito) era spesso deserto e la stagione 83-84 fece segnare il record negativo di 55 sconfitte.

Presto “palla a Jordan” sarebbe divenuta una delle formule più vincenti e decisive della storia.

Il seme della gloria immortale era stato piantato.

Nel giro di poche partite l’universo intero si accorse che una divinità senza ali (ma in grado di volare e restare in aria) era scesa in terra, divenendo simbolo e ispirazione di valori che travalicano i confini del basket e dello sport, come solo Muhammad Ali aveva fatto prima di lui.

La magia di The Last Dance è la narrazione umile, vera, cruda e senza filtri del contesto umano ed emozionale di Jordan.

Fonte: passionebasket.eu

Il montaggio, le riprese e l’impostazione della docu-serie sono assolutamente degne di un kolossal holliwoodiano.

L’ultima danza (sportiva) dei Bulls, culmina con l’indimenticabile tiro di Gara 6 contro gli Utah Jazz, che diede al Novecento un nuovo senso. Immaginate il globo fermarsi e trattenere il respiro, attendere l’infinità dei secondi che separano il volo (l’ultimo) di HisAirness, dalla storia.

Elettricità emotiva allo stato puro, tra il parquet e il cielo dove le fisica diventa solo un’opinione.

“Be like Mike, be like Mike. Again I try, just need to fly”.

La prospettiva interna delle grandi squadre è da sempre trasgressione inarrivabile dei fan più accaniti.

Nel 1997 ESPN ricevette dalla franchigia di Windy City il permesso di fare qualcosa di inedito nello sport professionistico.

“The Last Dance” trascina virtualmente lo spettatore nello spogliatoio dei Chicago Bulls, ma anche nei loro allenamenti in palestra, nei contrasti accesi e nelle discussioni.

Fonte: mjbulls.com

Come ogni docu-serie che si rispetti, anche “The Last Dance” alterna sapientemente i piani temporali.

Non ci sono infatti solo immagini dell’epoca, ma anche interviste attuali ai protagonisti di allora, nell’ottica di una rilettura di quello che accadde negli anni 90′.

In tal modo si incrociano una serie di prospettive narrative diverse; ciò che è effettivamente successo sul campo è solo l’ultima dimensione. Senza lo sviluppo dello show si rischierebbe di tralasciare le dinamiche e gli equilibri complessi che hanno governato i successi sportivi dei Bulls.

Se non vi fossero bastate le suddette ragioni per guadare “The Last Dance”, eccovene un’altra: Michael Jordan ha annunciato che devolverà in beneficenza l’intero guadagno che gli proverrà da questa serie.

L’attesa è finalmente terminata.
Epica, sport, fascinazione, storia ed un pizzico di adrenalina. Tutto a portata di telecomando.

Antonio Mulone

Il campione NBA Bonner si ritira ed omaggia Messina nel suo video messaggio

Dopo 12 stagioni NBA, l’ex-San Antonio Spurs Matt Bonner si ritira ufficialmente dal gioco della pallacanestro. Il Red Rocket (così lo chiamavano in Texas) non avendo potuto lasciare un’impronta così marcata nel mondo cestistico americano come i suoi illustri colleghi ritiratisi prima dell’inizio di questa stagione, Bryant, Duncan e Garnett, verrà certamente ricordato per il “modo” in cui si è ritirato.

Matt Bonner con la maglietta della Pallacanestro Messina
Matt Bonner con la maglietta della Pallacanestro Messina

Infatti il giocatore nativo del New Hampshire ha pubblicato sul suo profilo Twitter un’esilarante video in cui, in modo dissacrante e autoironico, ringrazia Messina e la Sicilia insieme alle altre squadre in cui ha giocato durante la sua carriera, lasciandosi riprendere in un fotogramma in cui indossa la maglia della Pallacanestro Messina (adesso immagine di copertina del suo account Twitter).

Bonner ha militato nella Pallacanestro Messina nella stagione 2003/2004, unica apparizione della compagine siciliana nella massima serie italiana, esperienza di cui il giocatore ha parlato quando è tornato in Italia nel 2014 nelle vesti di ambasciatore della NBA, intervistato dalla Gazzetta dello Sport riguardo il suo esordio contro la Benetton Treviso: “Che serata, palazzo pieno, loro grandi favoriti e Garbajosa che mi cala con un gomito sulla testa. L’arbitro non fischiò, eravamo una leggenda europea e un giovane americano. Ma io perdevo sangue, ne avevo ovunque. Mi misero uno strano cerotto tra i capelli, vincemmo, ma io avrei dovuto tenerlo per una settimana. Poi scoprii che il nostro medico era un dentista. Lo stesso che mi diagnosticò una salmonellosi più avanti. Episodi che oggi mi fanno ridere, meno le difficoltà della società che ad un certo punto della stagione smise di pagarci. Ma quello fu un anno prezioso per me. Ero un rookie, sapevo di essere nel posto giusto per imparare e dimostrare il mio valore. Non ero in Italia per soldi, ma per farmi le ossa e tornare negli Usa ricco di una nuova esperienza sportiva e culturale. Restai fino alla fine, fu la scelta giusta”.

Alessio Gugliotta