I segreti di Sagittarius A*: Fotografato il buco nero al centro della via lattea

Gli scienziati sono riusciti a fotografare per la prima volta il buco nero Sagittarius A* al centro della Via Lattea, la nostra galassia. Una scoperta sensazionale, che conferma la teoria della relatività generale di Einstein.

Indice dei contenuti:

Cos’è un buco nero?

La scoperta

Differenze con M87

L’immagine

Metodologie della scoperta

Futuro

Conclusione

Cos’è un buco nero

Il buco nero è un luogo nello spazio in cui la gravità è talmente attrattiva che nemmeno la luce può uscirne. Questo perché la materia è stata schiacciata in uno spazio minuscolo e ciò può accadere quando una stella sta morendo. Abbiamo già affrontato una spiegazione più dettagliata in un precedente articolo.

Fonte https://tg24.sky.it/

La scoperta

Durante le cinque notti nell’aprile 2017, la collaborazione EHT, ha utilizzato otto osservatori in tutto il mondo per raccogliere dati sia dal buco nero della Via Lattea sia da M87*. Le posizioni dell’osservatorio andavano dalla Spagna al Polo Sud e dal Cile alle Hawaii. Hanno raccolto quasi 4 petabyte (4.000 terabyte) di dati che, essendo troppi per poter viaggiare su internet, sono stati trasportati in aereo su dischi rigidi.

Differenze con il precedente buco nero della galassia M87

I dati di Sagittarius A* erano più difficili da analizzare. I due buchi neri hanno all’incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, perché M87* è quasi 2.000 volte più lontano ma circa 1.600 volte più grande. Qualsiasi massa di materia che ruota attorno a M87* copre distanze molto maggiori, più grandi dell’orbita di Plutone attorno al Sole, e la radiazione che emettono è essenzialmente costante su scale temporali brevi. Ma Sagittarius A* può variare rapidamente, anche in poche ore. “In M87*, abbiamo visto pochissime variazioni in una settimana […] Sagittarius A* varia su scale temporali da 5 a 15 minuti”, afferma Heino Falcke, co-fondatore della collaborazione EHT ed astrofisico della Radboud University di Nijmegen, nei Paesi Bassi.

Fonte:
https://www.focus.it/scienza

L’immagine

A causa di questa variabilità, il team EHT ha generato non un’immagine del Sagittarius A*, ma migliaia, la cui immagine svelata qualche giorno fa, è la risultante di molte elaborazioni. Oltre a mostrare un anello di radiazione attorno a un disco più scuro, l’immagine elaborata conteneva tre “nodi” più luminosi. “Vediamo nodi in tutte le immagini che abbiamo creato”, dice Issaoun, astrofisico dell’Harvard and Smithsonian Center for Astrophysics a Cambridge, Massachusetts “ma ognuna aveva i nodi in punti diversi. I nodi mediati che appaiono nell’immagine sono probabilmente artefatti della tecnica di interferometria utilizzata dall’EHT”.

Ricostruisce le immagini da una parabola radiofonica idealizzata delle dimensioni della Terra, ma in cui solo minuscoli frammenti della parabola sono in grado di acquisire dati in un determinato momento. L’aspetto è diverso da quello di M87*, per il quale la regione più luminosa nell’immagine aveva una forma più a mezzaluna, il che potrebbe indicare una massa di materia più densa che viene accelerata lungo la direzione della linea di vista. Come affermato da Gomez, il team EHT ha condotto simulazioni di supercomputer per confrontare i propri dati. Ha così concluso che il Sagittarius A* sta probabilmente ruotando in senso antiorario lungo un asse che punta all’incirca lungo la linea di vista della Terra.

FONTE: https://tech.ifeng.com/

“Quello che mi fa impazzire è che lo stiamo vedendo di fronte”, dice Regina Caputo, astrofisica al Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland.

Il telescopio spaziale Fermi Gamma-ray della NASA, con cui Caputo lavora, aveva precedentemente rilevato gigantesche caratteristiche luminose sopra e sotto il centro della galassia, che potrebbero essere state prodotte dal Sagittarius A* durante periodi di intensa attività in passato. Ma quelle caratteristiche, note come bolle di Fermi, sembrano richiedere che la materia ruoti attorno al buco nero di taglio, piuttosto che di fronte, come si vede dalla Terra.

Metodologie della scoperta

Il Sagittarius A* è praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e del gas sul disco galattico. Ma a partire dalla fine degli anni ’90, Falcke e altri, si sono resi conto che l’ombra del buco nero poteva essere abbastanza grande da essere ripresa con brevi onde radio in grado di perforare il velo. Ma i ricercatori hanno calcolato che ciò avrebbe richiesto un telescopio delle dimensioni della Terra. Fortunatamente, la tecnica  dellinterferometria, che  implica il puntamento simultaneo di più telescopi lontani sullo stesso oggetto, potrebbe rivelarsi utile perchè, in effetti, i telescopi funzionano come frammenti di una grande parabola (vedi immagine di seguito).

Mappa illustrativa della costituzione dell’EHT ©Jacopo Burgio

I primi tentativi di osservare il Sagittarius A* con l’interferometria, hanno utilizzato onde radio di 7 millimetri relativamente lunghe e osservatori a poche migliaia di chilometri di distanza. Tutti gli astronomi potevano vedere un punto sfocato. I team di tutto il mondo hanno quindi perfezionato le loro tecniche e adattato i principali osservatori che sono stati aggiunti alla rete. In particolare, i ricercatori hanno adattato il South Pole Telescope e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile da 1,4 miliardi di dollari per svolgere il lavoro. Nel 2015, i gruppi hanno unito le forze come collaborazione EHT. La loro campagna di osservazione del 2017 è stata la prima a coprire distanze abbastanza lunghe da risolvere dettagli come le dimensioni del Sagittarius A*.

Futuro

Feryal Özel, astrofisico dell’Università dell’Arizona a Tucson, in una intervista svoltasi a Washington, ha affermato che il prossimo obiettivo del progetto è generare un filmato del buco nero per saperne di più sulle sue proprietà fisiche.

I ricercatori sperano di scoprire se Sagittarius A* ha i getti astrofisici. Molti buchi neri, incluso M87*, mostrano due fasci di materia che escono rapidamente in direzioni opposte. Essi sono ritenuti il ​​risultato dell’intenso riscaldamento del gas in caduta e alimentati dalla rotazione del buco nero. Il Sagittarius A* potrebbe aver avuto grandi getti in passato, come suggeriscono nubi di materia riscaldate sopra e sotto il centro galattico. I suoi getti sarebbero ora molto più deboli, ma la loro presenza potrebbe rivelare dettagli importanti sulla storia della nostra Galassia. “Questi getti possono inibire o indurre la formazione stellare, possono spostare gli elementi chimici in giro” e influenzare l’evoluzione di un’intera galassia […] e ora stiamo guardando dove sta succedendo.” afferma Falcke.

Conclusione

Ciò che abbiamo osservato non è una scoperta fine a se stessa, poichè avrà certamente implicazioni nel domani e nelle tecnologie future della vita di tutti i giorni. Quindi non ci resta che aspettare con il naso puntato all’insù.

Livio Milazzo & Gabriele Galletta

Fonti: Nature,   Eso

Nature Electronics: pubblicato uno studio targato UniMe

L’Università di Messina si distingue nuovamente a livello internazionale grazie al co-authorship del Professore Giovanni Finocchio, associato di Elettrotecnica afferente al Dipartimento MIFT dell’Ateneo peloritano, su uno studio sulla nucleazione e manipolazione degli skyrmions magnetici, mediante l’applicazione di gradienti di temperatura.

https://www.nature.com/natelectron/
Fonte: www.nature.com/natelectron

L’abstract è stato pubblicato sulla rivista “Nature Electronics“, considerata ormai una delle più autorevoli ed antiche riviste della comunità scientifica internazionale – insieme alla rivista Science -,  conosciuta sin dal 4 novembre 1869, data della sua prima pubblicazione.

Lo studio tratta del progetto sullo spin-caloritronico, un campo di studio sulle interazione tra spin elettronici e correnti termiche che può fornire le basi teoriche per la creazione di nanomotori termici ed per il recupero energetico dal calore dissipato in sistemi dalle dimensioni nanometriche, convertendolo in correnti di spin.

Il professore Finocchio ha fornito i modelli necessari a descrivere quantitativamente il comportamento sperimentale, utilizzando i parametri dei dispositivi valutati sperimentalmente e integrati poi nello studio. Questi sono serviti a spiegare come gli skyrmions magnetici, solitoni topologicamente protetti, si muovono dalle regioni calde alle regioni fredde del dispositivo.

L’obiettivo della ricerca è migliorare di molto la dissipazione dell’energia sotto forma di calore in dispositivi integrati, cosi facendo si migliorerebbe la scalabilità e potenzialmente aumenterebbe la frequenza di utilizzo.

Questo lavoro va ad aggiungersi ad un campo in espansione come quello della spin-caloritronica.

Non è il primo riconoscimento che i professori dell’Università di Messina ricevono nel campo del magnetismo applicato, infatti la Sezione Italiana dell’Istituto degli Ingegneri Elettrici ed Elettronici (IEEE) ha conferito, per il secondo anno consecutivo, il “Best Chapter Award 2020” al Chapter di Magnetismo guidato proprio dal prof. Finocchio. Nel team è presente anche il prof. Vito Puliafito, ricercatore RTD-A di Elettrotecnica appartenente al Dipartimento di Ingegneria di UniMe che gestisce il Chapter, con il ruolo di Segretario/Tesoriere.

Il Chapter di Magnetismo è stato premiato per le intense attività di divulgazione scientifica organizzate negli ultimi 12 mesi, anche in forma telematica durante la pandemia da COVID-19; seminari organizzati con cadenza mensile con la partecipazione di alcuni tra i migliori ricercatori mondiali nel campo del magnetismo applicato all’ingegneria, ad esempio la professoressa Phallavi Dhagat, Presidente della IEEE Magnetics Society.

Come se non bastasse il Chapter di Magnetismo sponsorizza un premio annuale in denaro per motivare e finanziare giovani ricercatori a presentare le loro ricerche ai colleghi in ambito mondiale.

Giuseppina Simona Della Valle

La diagnosi di cancro non è mai stata così precoce

Sanjiv Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection

Un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine ha messo a punto un nuovo metodo per diagnosticare precocemente il cancroLo studio è stato pubblicato il 18 marzo su Nature Biotechnology e vede tra i suoi autori principali Sanjiv “Sam” Gambhir, direttore del Canary Centre at Stanford for Cancer Early Detection, e Amin Aalipour, uno specializzando. 

“Abbiamo seguito la diagnosi precoce del cancro per anni, ma questa volta ci siamo arrivati da un’altra angolazione, ha annunciato Sam Gambhir. E forse, in un terreno già molto battuto ma ancora arduo, è questo il segreto, cambiare prospettiva. 

L’arma migliore che ad oggi la medicina offre per la cura dei tumori è la diagnosi precoce. Basti pensare a come un frequentissimo cancro al seno al primo stadio assicuri una sopravvivenza a 5 anni di oltre il 95%. Lo stesso tumore, diagnosticato al quarto stadio, abbassa l’aspettativa al 5%. Da qui l’importanza della prevenzione e dei controlli di routine, e di pari passo la necessità di strumenti sempre più precisi e complessi.

La ricerca ha fatto innumerevoli passi in avanti in quest’ambito, ma probabilmente non saranno mai abbastanza. Per la diagnosi di tumore, accanto ai mezzi radiologici (TC, PET, RMN), vengono ricercati dei biomarcatori tumoralimolecole che sono associate alla presenza di un tumore. Sono esami poco invasivi e possono essere di grande aiuto per il clinico, sia per la diagnosi che per la terapia. Hanno però una specificità ed una sensibilità poco affidabile, per questo necessitano sempre di una convalida con i mezzi tradizionali. Il gruppo di ricercatori guidati da Sam Gambhir ha sperimentato un curioso metodo per incrementare in modo significativo l’efficienza della diagnosi precoce per alcuni fra i tumori più frequenti e temibili per l’uomo: il carcinoma mammario ed il cancro del colon.

Alcuni dei più comuni marker tumorali

La squadra ha giocato sui punti di forza insiti nei macrofagi, cellule del sistema immunitario; molte cellule immunitarie, compresi i macrofagi, cambiano a livello genetico quando si preparano a svolgere compiti immunologici. Alcuni geni si attivano quando un macrofago entra in contatto con l’ambiente tumorale, aiutandolo ad eliminare le cellule morte o anomale. Nello specifico, i macrofagi possiedono due fenotipi: M1, associato all’infiammazione comune (come per una ferita), ed M2, associati ad una neoplasia. 

Quando uno di questi macrofagi incontra il tumore e muta l’aspetto verso un fenotipo M2, si avvia un meccanismo molecolare che porta all’attivazione di vari promotori (il promotore è una sequenza di DNA che innesca l’attivazione genica). Una volta che un promotore viene attivato, il gene viene espresso sotto forma di una molecola.

Nello studio, tramite tecniche di ingegneria genica, si è utilizzato il promoter del gene arginasi-1 come attivatore di un gene diverso dal normale, quello per la luciferasi (molecola luminescente, la stessa che fa brillare le lucciole!). I macrofagi, opportunamente stimolati dal tumore, liberano questa molecola che può essere rintracciata da immagini a bioluminescenza e quantificata nel sangue tramite un semplice prelievo.  

Gambhir e il suo team hanno testato i macrofagi modificati nei topi, scoprendo che potevano rilevare tumori alla mammella di solo 4 millimetri di diametro. In particolare, rilevano: tumori fino a 50 mm³ nel 100% dei casi, tumori tra i 25-50 mm³ nel 85%, tumori sotto i 25 mm³ nel 70%.

Questo metodo di immunodiagnostica ha avuto risultati eccezionali rispetto ad altri metodi convenzionali: il cfDNA (molecole di DNA tumorale liberate nel sangue) raggiunge un significato diagnostico quando il tumore ha un volume di 1500-2000 mm³; una scansione PET è capace di rilevare tumori con un volume minimo di 200 mm³; il CEA (antigene carcino embrionale) è alterato quando il tumore ha già superato i 100 mm³ (e presenta molti limiti di specificità).

Tuttavia non è tutto cancro ciò che luccica! Anche se una fiala di prelievo è fluorescente e si registrano livelli anomali di luciferasi, non può ancora essere posta una diagnosi di certezza. Infatti i macrofagi possono attivare questi geni modificati anche quando stimolati da una manciata di cellule atipiche o da una semplice ferita: si possono avere falsi positivi. 

Gli studiosi pongono come prossimo obbiettivo quello di rendere la metodica più specifica, così da poter eliminare il rischio di avere questi errori e sopravvalutare o sottovalutare la reale patologia. Inoltre il metodo può essere implementato con altre cellule immunitarie, come i linfociti T e B, e con altri stimoli target. L’intenzione è quella di estendere l’utilizzo dello strumento a tumori e patologie diverse. All’orizzonte i ricercatori immaginano di poter rendere questo strumento il più versatile ed economico possibile, così da poter essere utilizzato su larga scala.

Antonio Nuccio

 

Bibliografia: https://www.nature.com/articles/s41587-019-0064-8

 

“Alzati e cammina” disse il neurologo

Lo scorso 31 ottobre su Nature è uscito un articolo veramente interessante, riguardante una tecnica che potrebbe permettere a pazienti paraplegici di riacquistare il controllo degli arti inferiori. La tecnica si basa su una stimolazione elettrica a livello del midollo spinale, così da rinforzare le connessioni tra encefalo e secondo motoneurone.

 

 

 

 

I ricercatori hanno prima mappato quali aree del midollo spinale sono coinvolte in ogni movimento richiesto per camminare, come la flessione dell’anca o l’estensione della caviglia. Successivamente, attraverso un intervento chirurgico, hanno impiantato stimolatori elettrici in tre persone, con diversi livelli di menomazione motoria nelle gambe a causa di lesioni del midollo spinale. Avendo scoperto quali parti del midollo spinale sono coinvolte nel camminare, il team è stato in grado di programmare una sequenza di impulsi elettrici che stimolerebbero il midollo spinale nel momento e luogo corretto per facilitare quei movimenti.

I ricercatori ci tengono a sottolineare che questo è soltanto un primo piccolo passo verso quello che potrà essere un trattamento. Sono tanti i limiti di questo studio. In primo luogo il numero di partecipanti: 3. Due di loro riuscivano parzialmente a muovere le gambe e sono riusciti a effettuare alcuni passi con l’aiuto di un supporto mentre il terzo, che non riusciva minimamente a muovere le gambe, è riuscito a fare alcuni stereotipati movimenti da sdraiato. Tutti e tre i paziente sono comunque dei paraplegici a seguito di una lesione a livello lombare del midollo spinale. Lesione non totale che salva comunque alcuni motoneuroni. I ricercatori non si esprimono se tale tecnica di stimolazione elettrica possa funzionare per ogni tipo di lesione. Per il momento ha parzialmente funzionato su questi tre pazienti, e il risultato non è né banale né scontato.

Quando una persona subisce una lesione grave a livello di midollo spinale, si blocca la comunicazione tra encefalo e periferia, dove con la periferia si intendono muscoli e recettori cutanei. In altre parole si perde la capacità motoria e la sensibilità di un parte del nostro corpo. I ricercatori hanno notato soltanto i miglioramenti sul piano motorio, senza soffermarsi se tale tecnica migliorasse anche la sensibilità degli arti inferiori di questi tre pazienti.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto più sorprendente dei risultati di questo studio è che ad ogni nuova stimolazione, i pazienti rispondevano sempre meglio, segno che si creano nuove sinapsi a livello di midollo ogni volta che i paziente effettuavano gli esercizi.

Il lavoro è davvero entusiasmante, dice Jennifer French, direttore esecutivo del Neurotech Network di San Pietroburgo, in Florida, un’organizzazione no-profit che educa le persone con condizioni neurologiche sulle neurotecnologie. Tuttavia ci tiene a precisare che i partecipanti richiedevano ancora il supporto del corpo per muoversi.

Kim Anderson, un ricercatore clinico nelle lesioni del midollo spinale alla Case Western Reserve University di Cleveland, Ohio, aggiunge che la tecnica potrebbe non essere in grado di aiutare tutti con tali lesioni. I partecipanti allo studio hanno mantenuto un certo livello di funzione motoria al di sotto della lesione prima dell’inizio della stimolazione, mentre la maggior parte delle persone con lesioni del midollo spinale ha ferite “motorie complete”, senza alcuna capacità residua di movimento.

Il team di Courtine ha anche sviluppato una tecnologia che consente ai partecipanti di utilizzare la stimolazione elettrica epidurale all’esterno del laboratorio. Ciò include sensori indossabili che attivano la stimolazione e un’app che funziona su un orologio a comando vocale, consentendo agli utenti di scegliere la forma esatta di stimolazione necessaria.

Questi dispositivi sono ancora in fase di sviluppo, afferma Courtine, ma i partecipanti li hanno usati per camminare e persino, in un caso, per un triciclo a due gambe. Nei prossimi tre anni, afferma Courtine, mira a ottimizzare la tecnica e convalidarne la sicurezza e l’efficacia.

Francesco Calò

 

Fonti:

https://www.nature.com/articles/d41586-018-07251-x

 

Vuoi essere mio amico? Processi neurali ci suggeriscono se saremo mai amici

Non esiste uomo che non abbia, almeno una volta nella vita, provato il sentimento dell’amicizia, né qualcuno che non abbia provato o desiderato amore. Sfido chiunque a dire il contrario. Un’introduzione un po’ sdolcinata, vero, ma pur sempre realistica. La complessità e la necessità delle reti sociali testimoniano quanto la specie umana sia incline a relazionarsi con chi gli è simile in termini di caratteristiche fisiche (età, sesso), di interessi (studi, tempo libero, idee) e di cultura. Ormai numerose evidenze antropologiche suggeriscono come, la tendenza all’aggregazione, sia, nella specie umana, un primordiale principio organizzatore della società che conosciamo oggi. Vari ormoni e strutture anatomiche regolano, seppur ancora in maniera non del tutto chiara, le emozioni provate durante l’esperienza della relazione interumana, e per quanto l’amicizia e l’amore siano sperimentati da tutti gli umani, resta ancora da capire il perché vengano a formarsi certi legami.

A suggerire l’esistenza di una sorta di “firma neurale” dell’amicizia è un gruppo di ricercatori dell’Università della California a Los Angeles e del Dartmouth College ad Hanover, nel New Hampshire, coordinati dalla Dott.ssa Carolyn Parkinson. Il gruppo ha infatti voluto indagare se tali similitudini possono derivare da altre più nascoste, connessioni neuronali che codificano il modo in cui percepiamo, interpretiamo e interagiamo con il mondo che ci circonda.

Per il loro studio, pubblicato su “Nature communications” lo scorso mese dal titolo “Similar neural responses predict friendship” –Risposte neurali simili predicono l’amicizia-, sono stati reclutati 279 studenti da un corso di laurea della stessa Università, a cui poi è stato sottoposto un questionario online in cui gli veniva chiesto di indicare i ragazzi, partecipanti allo stesso studio, cui erano legati da un sentimento di amicizia. Si è così costruita una mappa matematica a partire da una rete sociale reale, qui sotto illustrata.

Un campione di 42 studenti è stato poi selezionato casualmente per partecipare allo studio mediante risonanza magnetica funzionale. Tale esame valuta l’attività della corteccia cerebrale in una determinata zona, quindi se il soggetto è stimolato da un’immagine, la fMRI noterà un segnale proveniente dalla corteccia visiva, un’altra immagine provocherà un segnale proveniente dalla stessa zona, ma leggermente diverso. Durante l’esame ogni soggetto ha guardato la stessa selezione di videoclip, che comprendevano un ampio range di argomenti, dagli sketch comici ai documentari, fino ai dibattiti politici, tutti scelti secondo un unico criterio: i soggetti non dovevano averli già visti. In questo modo, i ricercatori hanno indotto uno sforzo mentale di attenzione, interpretazione ed evocazione di risposte neuronali nuove.

Analizzando i dati raccolti, Parkinson e colleghi hanno dimostrato che durante la visione di uno stesso video, il profilo dei livelli di attività nelle aree del cervello implicate nell’interpretazione dell’ambiente sensoriale e nelle risposte emotive era molto simile tra coloro che si definivano amici. La somiglianza della risposta neurale diminuiva invece con l’aumentare della distanza tra gli individui nella stessa rete sociale. Le regioni corticali più interessate nella discriminazione dell’amicizia sono quelle coinvolte nell’allocazione dell’attenzione, nell’interpretazione narrativa e nella risposta affettiva, suggerendo che gli amici possono essere eccezionalmente simili nel modo in cui si occupano, interpretano ed emotivamente reagiscono a ciò che li circonda. Era inoltre possibile prevedere, con un esercizio speculare, la stessa mappa dell’immagine precedente partendo dalla sola acquisizione in fMRI. Oltre alle regioni corticali sopracitate, sono state notate associazioni con zone sub-corticali implicate nella motivazione, apprendimento e formazione di nuovi ricordi, come l’amigdala, e parte dei nuclei della base.

L’immagine mostra aree corticali ad alta associazione (rosso) tra amici, che risultano ad associazione minore (rosa/azzurro) tra individui legati da una distanza sociale maggiore.

I profili ottenuti con la risonanza, concludono gli autori, “forniscono quindi firme ricche di informazioni sulle risposte di questi individui agli stimoli, che presumibilmente sono modellati dalle caratteristiche delle loro disposizioni, conoscenze preesistenti, opinioni, interessi e valori. Queste firme possono essere utilizzate per identificare le persone che possono diventare amiche e quelle che possono essere collegate indirettamente tramite amici comuni.”

Lo studio in questione è stato ispirato da un’altra scoperta fatta precedentemente dallo stesso team di scienziati: non appena vediamo qualcuno che conosciamo, il nostro cervello ci dice immediatamente quanto è importante o influente quella persona e la posizione che occupa nella nostra rete sociale. La prossima sfida per il gruppo dii ricercatori sarà quella di “comprendere se veniamo attratti naturalmente dalle persone che vedono il mondo alla nostra stessa maniera, se diveniamo più simili una volta che condividiamo le stesse esperienze o se entrambe le dinamiche si rafforzano a vicenda”.

Antonio Nuccio

Vaccini tumore-specifici, uno spiraglio di luce

Piccoli passi possibili: sono quelli che, progressivamente, l’immuno-terapia oncologia sembra capace di compiere nella lotta al tumore.

Si può facilmente consultare sulla rivista “Nature”,  l’esito positivo di una terapia sperimentale sviluppata in due distinti laboratori di ricerca, uno a Boston – Massachusetts, l’altro a Meinz – Germania. I due diversi team guidati rispettivamente da Catherine Wu ed Ugur Sahin, sono stati in grado di elaborare un vaccino anti tumorale specifico per i loro pazienti, tutti affetti da melanoma (= in questo caso le cellule malate sono quelle della pelle).

Gli studiosi hanno quindi sfruttato il razionale che sta alla base del comune vaccino – ovvero una soluzione contenente materiale biologico inattivo, o comunque, incapace di scatenare un’infezione violenta, assieme anche ad altre molecole coadiuvanti-  al fine di stimolare nel sistema immunitario una risposta anti-tumorale specifica. Come? Sfruttando l’evidenza per cui alcune componenti del nostro sistema immunitario (immaginatevelo come un qualcosa di molto più potente della stessa US. Army) sono in grado di riconoscere specifici antigeni presenti sulle nostre cellule, attivarsi (a determinate condizioni, sulle quali si gioca tutta l’attività dei ricercatori, fondamentalmente) e mandare in lisi le stesse.  Infatti, grazie alle ultime, assai versatili, tecnologie sviluppate negli ultimi anni, i ricercatori sono riusciti a sequenziare i geni codificanti per proteine nel tumore di ciascun paziente. Dopodiché sono stati attenti nello scegliere quelle proteine mutate che più verosimilmente avrebbero potuto determinare una risposta del sistema immunitario, utilizzandole, così, per preparare la base dei vaccini specifici.

Entrambi i gruppi di ricerca hanno quindi potuto concludere i loro lavori riportando l’esito positivo riscontrato nel trattamento del melanoma con questo mezzo assolutamente innovativo.

I risultati di queste ricerche, pertanto, dimostrano che “l’immunoterapia dei tumori sta facendo passi da gigante”, commenta Michele Maio, direttore del Centro di Immuno-oncologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena.  Anche Cornelius J.M. Melief, parte del dipartimento di Immuno-ematologia dell’Università di Leiden, conclude la sua presentazione al lavoro della Wu e Shain affermando: “Entrambe le ricerche confermano il potenziale di questo tipo d’approccio terapeutico al tumore, nonostante non si possa ancora parlare di validità assoluta, considerato il numero esiguo di pazienti coinvolti; il passo successivo sarà proprio continuare a provare con un maggior numero di partecipanti, in modo da poter stabilire con esattezza l’efficacia di questo trattamento terapeutico contro tutti quei tipi di cancro che producono abbastanza mutazioni da poter fornire sufficienti antigeni tumorali, necessari in questo tipo di approccio.

Ivana Bringheli