Radici di cemento

Aveva solo un braccio davanti, una mano da studiare attraverso il percorso sbiadito di vene ancora coperte.

La sua stanza si trovava al centro esatto di Torino, dal suo edificio si diramavano vie sempre piene, case ornate di urla, camere dove i sogni si accatastavano.
Il sole stava per scomparire, ma teneva la luce spenta. Le sue mani divenivano meno nitide e stavano già iniziando a mischiarsi all’oscurità. Quanto era grande in quel momento il letto su cui sopravviveva, simile a un gomitolo inanimato.
Si assopì, ma dentro aveva un ammasso che proiettava nella mente dormiente mostri neri. Si svegliava a occhi chiusi e senza respiro. Così per un paio di volte fin quando non arrivava l’ora di avviarsi verso il luogo di lavoro.
Accarezzò un cane solitario che ormai era diventato suo amico. Ogni giorno si salutavano e pareva che ciò, in qualche modo, li legasse.
Finita la giornata lavorativa si rese conto di non aver fatto abbastanza. La sua trasformazione in macchina non riusciva ad avvenire, la pelle era ancora troppo morbida e fragile. Dentro aveva qualcosa che da sempre cercavano di strappare. Parlavano di una certa sensibilità, ma chi era questa presenza, questa intrusa, che non permetteva di spegnersi e lavorare? L’avrebbe soppressa con piacere, ma non riusciva mai a staccarsela di dosso. Ucciderla significava suicidarsi.

Adesso camminava con gli occhi rivolti verso il basso, mentre ripensava a ciò che non aveva saputo fare. D’improvviso sentì un colpo alla gola e si ritrovò ad essere un tutt’uno con le strisce pedonali che stava attraversando. Si fermò non riuscendo più a comandare le gambe.
Poi vide il nero dell’asfalto lasciare la strada e risalire dai piedi, scalare le gambe fino allo stomaco. Sentì un forte dolore che partiva dalle caviglie e guardando in giù si accorse con orrore che la sua pelle si stava spaccando. La pece nera squartava persino i muscoli e si infilava con prepotenza. Il sangue scivolava su ciò che rimaneva della sua epidermide e scendeva a bagnare la terra.
Era difficile quantificare il dolore che stava provando. Avrebbe voluto allungare le mani e chiudere quegli squarci, ma non riusciva a muoversi, a stento spostava gli occhi per fargli avere una panoramica di quello spettacolo raccapricciante.
Dalle mani, poi, iniziò ad assorbire il fumo dell’aria e, quando le persone iniziarono a intimare di spostarsi con vari insulti, aspirò anche le loro parole e se le chiuse nel petto. Chissà se si erano accorti di come anche la loro oscurità si era riversata come un fiume di fango al suo interno. In ogni caso non lo diedero a vedere. Urlarono e, poi, si sentirono meglio. Presi di premure e ansie attesero che se ne andasse per tornare di corsa alle loro abitazioni o a lavoro alla ricerca di qualcun altro cui buttarsi addosso.

Tornò a casa e quel nerume, che prima circolava lungo il corpo, si rintanò nel cervello. Lì girava viscido e vomitevole.
Eventi di questo tipo erano del tutto nuovi, ma non rimasero tali per molto. Iniziarono a susseguirsi in modo periodico, senza preavviso.
La sua vita aveva subito un grosso cambiamento, ma col tempo iniziava ad abituarsi a quella nuova routine fin quando non avvenne, nuovamente, qualcosa di inaspettato.

In uno dei suoi giorni liberi decise di fare una passeggiata. Si ritrovò in una campagna verde ed estesa. Il manto di piante copriva una terra viva, piena di insetti e microsistemi.
Il sole rendeva il colore di quella rigogliosa natura brillante e riscaldava tutto, senza bruciarlo. Più in fondo un ruscello violento correva e a ogni sconto con i sassi che lo percorrevano le sue acque saltavano e si dividevano.
Mentre si guardava intorno finì ad osservare le sue mani da dove un fumo nero usciva propagandosi come nebbia.
Un desiderio si fece strada nella sua mente, la voglia di spaccare la sua stessa pelle ed abbracciare, infine, la libertà. La brama di smettere di essere non era più accompagnata dalla paura della fine. Adesso opporsi era impensabile.
Si accasciò con fiumi di una sostanza verde che dipartivano dai suoi occhi. La sentiva uscire come lacrime e mentre un sorriso disperato si allargava sul suo volto stravolto l’euforia gli scorreva dentro.
Strappò tutto, qualsiasi bacio fosse stato depositato sulla sua pelle, ogni carezza e schiaffo. Dai suoi polsi uscì uno spruzzo della stessa sostanza, le gambe erano ormai completamente dilaniate. Non vi era più nulla di umano in quella creatura che si contorceva, il cui volto e corpo erano completamente coperti di quella sostanza indefinita che si muoveva scorrendo. Avvolse la carne da cui in origine era uscita, si insinuò nelle narici e nella gola; coprì i capelli e si diramò in foglie che pendevano verso il basso. Quello che prima era un corpo divenne un tronco, i suoi piedi scesero a scavare la terra alla ricerca di acqua, una chioma copriva tutto.

Da allora quella collina venne abitata da una nuova presenza. Era nata dal dolore, ma adesso donava ombra nelle calde giornate estive ed era il rifugio di chi stanco fuggiva dalla vita.
Ogni giorno un cane veniva a far visita a quella pianta e, l’uno accanto all’altro, riposavano per sempre.

Alessia Sturniolo

*immagine in evidenza: illustrazione di marco castiglia

Il cuore enorme della Terra: un’armonia tutta nostra

Che differenza c’è tra noi uomini e gli animali? Molti si sono posti tale domanda.
Alcuni sono riusciti a trovare una maggior ”capacità intellettiva” nella nostra specie, che si dimostra in piccole azioni giornaliere come la possibilità di soffrire e riflettere, l’empatia o un’estrema abilità comunicativa. In alcuni casi però questa domanda perde significato. Troviamo un sentire quasi comune, il cuore enorme della Terra che batte a diverse frequenze, nei corpi di tutti coloro che la abitano. 

Il canto delle megattere

La megattera (Megaptera novaeangliae) è un cetaceo della famiglia Balaenopteridae. Il nome deriva dal greco μέγα πτερόν (grande ala), in riferimento alle pinne pettorali che possono raggiungere una lunghezza pari a circa un terzo di quella del corpo. In queste creature il grado di apprendimento sociale si estende a popolazioni intere. I maschi usano complicati canti per comunicare. Queste melodie durano da dieci a venti minuti e vengono ripetute per diverse ore. Sono caratteristiche di ogni popolazione e ciascun esemplare del branco le conosce e usa.
Uno studio recentemente condotto della University of Queensland e pubblicato su Scientific Reports mostra, però, che tale capacità di apprendimento si allarga oltre i confini della singola popolazione.

Fonte: https://rivistanatura.com

Ascoltando una melodia di onde

Per lo studio, il team australiano ha monitorato due diverse popolazioni di megattere: una vive al largo delle coste orientali dell’Australia, l’altra intorno alla Nuova Caledonia. I ricercatori hanno registrato per sei anni, dal 2009 al 2015, i loro canti. È stato, così, possibile identificare quelli tipici sia degli esemplari australiani che di quelli della Nuova Caledonia, nonché osservare come si è evoluto il loro repertorio in questo lasso di tempo.

Di bocca in bocca

I contatti costanti tra i due gruppi hanno fatto sì che alcuni canti di una popolazione venissero appresi da un’altra ed integrati nei loro spartiti. Dal confronto tra le versioni originali e quelle apprese si è scoperto che le canzoni sono state imparate alla perfezione e riprodotte in maniera identica.
Il processo, peraltro, si è ripetuto con regolarità: ogni anno le megattere cambiavano la loro canzoni e, ogni anno, la popolazione vicina la imparava senza errori. Secondo gli autori dello studio, uno scambio culturale di questa portata (le popolazioni di megattere possono raggiungere i 200 esemplari) è molto raro. Inoltre, i risultati supportano l’ipotesi che le diverse popolazioni di megattere si scambino le canzoni quando si incontrano, per esempio, lungo rotte migratorie comuni.

La mente sensibile degli elefanti

Gli elefanti hanno il cervello più grande tra gli animali terrestri, con una massa superiore a cinque chili. Il volume della corteccia di un elefante permette un enorme ventaglio di processi cognitivi. Il risultato è una capacità neuronale superiore a quella di qualsiasi primate e cetaceo. Ciò si traduce in diversi tipi di intelligenza.
La sua struttura cerebrale è complessa e sofisticata, con più di 250.000 milioni di neuroni. La grande quantità di sinapsi della loro corteccia cerebrale permette di comprendere bene il linguaggio non verbale. Si ritiene che ciò sia associato anche alla loro elevata capacità di imitare anche le persone. Gli elefanti, inoltre, non replicano solo i gesti umani, ma anche i suoni dell’ambiente circostante. 

Fonte: https://www.ildigitale.it

Ricordi e memoria

Le dimensioni dell’ippocampo di un elefante superano quelle di qualsiasi primate.
Si tratta di una struttura cerebrale appartenente al sistema limbico che possiede, tra le altre, la funzione di elaborare alcuni tipi di memoria, come quella spaziale.
L’elefante può usare più dello 0,7% delle sue strutture cerebrali, mentre gli umani di solito ne sfruttano appena lo 0,5%. Ciò permette loro di avere una memoria davvero privilegiata. Questo aspetto è dimostrato in numerosi studi scientifici, ma è visibile anche nei comportamenti allo stato brado.

Il lutto

Gli elefanti manifestano un notevole interesse per gli esemplari deceduti della propria specie. Gli scienziati hanno osservato che gli elefanti piangono i propri morti e, inoltre, continuano a interagire con le carcasse per lungo tempo. In alcuni casi gli esemplari continuano a tornare a mucchi di ossa bianche arse dal sole. A descrivere questi comportamenti è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del San Diego Zoo Institute for Conservation Research e dello Smithsonian Conservation Biology Institute. I biologi, coordinati dalla dottoressa Shifra Goldenberg, hanno condotto uno studio di revisione sulle osservazioni di 32 carcasse di elefante. In alcuni casi è stato osservato il momento esatto in cui un esemplare è morto. Quando è crollato a terra i membri del suo gruppo sono accorsi attorno al corpo provando a sollevarlo e spostarlo con le proboscidi, emettendo vocalizzazioni per richiamare il compagno.
Non è chiaro il motivo per cui gli elefanti si comportino in questo modo, ma sembra che in alcuni casi negli animali sociali non ci sia “accettazione della morte”.
Un recente simile ed emblematico è quello dell’orca che ha trascinato la carcassa del suo piccolo innanzi al porto di Genova per diversi giorni.

Fonte: https://www.animalidacompagnia.it

La Terra e le sue creature

Conoscendo meglio le creature che condividono con noi questo pianeta si amplia la visione di noi stessi. Abbiamo la possibilità di sentire come la muta acqua risponde al canto delle megattere, di osservare come i più grandi mammiferi terrestri si muovono con delicatezza tra le foreste. Siamo parte di quest’armonia, anche quando ci limitiamo a guardarla sbirciando dalle finestre delle nostre case.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

Plastica e natura: un binomio imperfetto

Plastica e natura: tutto ha inizio nel 1861, quando lo studioso inglese Alexander Parkes brevettò il primo materiale semi-sintetico, la xylonite, a partire da ricerche sul nitrato di cellulosa. Da quel momento in poi si sono susseguite una serie di scoperte che hanno rivoluzionato la vita dell’uomo. Chi penserebbe mai oggi di eliminare la plastica? Sarebbe impensabile separarci dalla comodità e dalla resistenza che ci garantisce un imballaggio o un sacchetto di questo materiale. Eppure siamo arrivati ad un punto di non ritorno: l’inquinamento da plastica costituisce un grave problema ambientale e per la salute di tutte le specie animali del pianeta.

  1. La sorpresa delle plastiche nella placenta umana
  2. Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari
  3. Effetti sulle specie marine
  4. L’acqua potabile è sicura?
  5. Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La sorpresa delle plastiche nella placenta umana

È di qualche mese fa la notizia che sono state riscontrate tracce di microplastiche (particelle polimeriche solide di dimensioni inferiori ad 1 mm) nella placenta umana. A rivelare la triste notizia è uno studio osservazionale condotto all’ospedale FateBeneFratelli di Roma, che si è svolto schematicamente in queste 5 fasi:

  1. Strutturazione di un protocollo “plastic free” per evitare qualsiasi contaminazione da materie plastiche durante il parto o l’analisi della placenta.
  2. Reclutamento delle pazienti in base a criteri ferrei: non dovevano ad esempio presentare patologie infiammatorie croniche, fumare o bere alcol, assumere farmaci che alterano l’assorbimento intestinale. Le donne reclutate sono state alla fine 6 e hanno dato il consenso per donare le loro placente.
  3. Passiamo alle fasi di laboratorio: sezione di ogni campione in faccia fetale, materna e porzione delle membrane coriali, conservate a -20°C.
  4. Digestione di ogni campione e filtrazione, seguita dall’analisi in microscopia ottica del filtrato con individuazione delle microplastiche.
  5. Analisi mediante microspettrografia delle microplastiche localizzate per stabilirne la tipologia.

I risultati mostrano il riscontro di 12 frammenti di microplastiche in 4 delle 6 placente analizzate, ma lo studio è veramente molto limitato per poter pensare a delle conseguenze sulla salute dei nascituri.

Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari

Se sicuramente i dati precedenti destano solo preoccupazione, il rapporto nocivo tra plastica e natura viene messo in evidenza dalle immagini degli oceani. Le conseguenze sugli organismi marini, sul loro ecosistema e la loro catena alimentare sono evidenti.

Stando ai dati del WWF il Mar Mediterraneo, pur rappresentando solo l’1% delle acque mondiali, contiene il 7% della microplastica marina. Sui fondali del mare nostrum sono stati rilevati livelli di microplastiche elevatissimi: circa 1,9 milioni di frammenti in un metro quadro.

Ma non finisce qui: sapevate dell’esistenza del Pacific Trash Vortex? Noto anche come Great Pacific Garbage Patch, si tratta di un’area vastissima dell’oceano Pacifico formata da rifiuti plastici galleggianti. Le dimensioni stimate vanno da 700.000 km2 a 10 milioni di km2, potendo rappresentare circa il 6% della superficie del pacifico.

Pacific Trash Vortex: la convivenza forzata di plastica e natura

Effetti sulle specie marine

Date le loro dimensioni ridotte, le microplastiche vengono facilmente ingerite dai pesci, dai molluschi e dagli altri abitanti dei nostri mari e ciò può comportare un danno a vari livelli.

Partiamo dal piccolo: a livello sub-cellulare causano una riduzione dell’attività enzimatica e dell’espressione genica, aumentando lo stress ossidativo: ciò si ripercuoterà a livello cellulare con uno stato di infiammazione ed un aumento dell’attività apoptotica. Infine, favoriscono lo sviluppo di neoplasie, riducono la fertilità e modificano i normali comportamenti all’interno dell’ecosistema marino.

Il danno da microplastiche, inoltre, non è solo diretto da ingestione, bensì anche indiretto legato alla degradazione delle stesse e conseguente liberazione di sostanze inquinanti nell’acqua marina.

L’acqua potabile è sicura?

Diversi studi hanno evidenziato la presenza di microplastiche anche nell’acqua che beviamo normalmente. Facile spiegarlo visto che nella maggior parte dei casi la conserviamo proprio in bottigliette di plastica, anche se si sta diffondendo la buona pratica dell’utilizzo di borracce “plastic free”. Elementi che favoriscono il rilascio di microplastiche sono rappresentanti dagli stress meccanici sulla bottiglia (anche il semplice atto di “girare il tappo” per aprire/chiudere) e dal suo frequente riutilizzo, pratica quindi fortemente sconsigliata.

Una review pubblicata a maggio 2019 sulla rivista Water Research ha analizzato tutti gli studi disponibili sulla presenza di microplastiche in acqua potabile e nelle acque dolci. Così facendo, si sono stabiliti i tipi di polimeri presenti e le loro forme. I polimeri più frequenti, come potete vedere dal grafico, sono: polietilene (PE), polipropilene (PP) e polistirene (PS).

In ogni caso, per dimostrare effetti negativi sulla salute umana servirebbero ulteriori approfondimenti.

Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La risposta alla domanda sarebbe molto ampia e difficile da argomentare in questa sede, però bisogna innanzitutto sapere che ognuno nelle piccole azioni quotidiane può fare qualcosa di buono per l’ambiente, ricordandoci sempre che dell’ecosistema “Pianeta Terra” facciamo parte anche noi.

Pensiamo a quei casi in cui l’uso della plastica potrebbe essere evitato, anche quando potrebbe sembrare banale. Ad esempio cosa ci costa portare una busta da casa per la spesa piuttosto che comprare i sacchetti al supermercato? Evitiamo l’uso di posate, piatti e bicchieri di plastica e cerchiamo di seguire una corretta raccolta differenziata. Plastica e natura non devono diventare un binomio indissolubile e, se lo capiremo, la natura ci ringrazierà.

Antonio Mandolfo

 

Per approfondire:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1382668918303934?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0048969720321781?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0269749116313306?via%3Dihub

https://www.mscbs.gob.es/biblioPublic/publicaciones/recursos_propios/resp/revista_cdrom/VOL93/C_ESPECIALES/RS93C_201908064.pdf

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0043135419301794?via%3Dihub

https://journals.sagepub.com/doi/10.3184/003685018X15294876706211?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori%3Arid%3Acrossref.org&rfr_dat=cr_pub++0pubmed&

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0043135419308565?via%3Dihub

Argimusco: un posto magico immerso nella natura

Oggigiorno la natura è sinonimo di tranquillità e riflessione. A quanti di noi capita di voler staccare dallo stress quotidiano, magari con una passeggiata all’aria aperta? Fortunatamente, riscoprire il legame con flora e fauna – nonché il dovuto rispetto da portare ad entrambe – è alla portata di tutti.

Ma possiamo affermate di conoscere le bellezze naturali che ci circondano? 

Argimusco: una mistica esperienza nel bel mezzo della Sicilia

A pochi minuti di strada dal Comune di Montalbano Elicona, tra una provola fresca ed una ricotta infornata, si stende l’altopiano dell’Argimusco. Il viaggiatore che vi si reca troverà un cancello di legno, solido e curato, con un’indicazione che, riassunta, dice: “Benvenuto, questo è l’ingresso dell’Argimusco, sei libero di entrare, ricorda solo di rispettarlo e non di sporcare nulla“. Questa frase non fa altro che ricordare all’uomo che egli è parte della natura, e, come tale, avrebbe il dovere di non distruggerla. Ma queste poche parole sintetizzano anche le sensazioni che il viaggiatore proverà dopo una giornata passata in quel posto magico: accoglienza, bellezza, serenità.

Megalite colossale nella piana dell’Argimusco – © Salvatore Nucera 

Il sito dell’Argimusco è famoso per i megaliti dalle forme animalesche ed antropomorfe, che si stagliano per tutta la sua superficie. Sarà per questo che il nome “Argimusco” potrebbe derivare dalle parole arabe hagar (da leggere asgiar), ossia “roccia”, e mistah, “pianura”. Hagar mistah sarebbe poi stato latinizzato dai bardi medioevali in Argimustus. Non mancano però altre teorie, per cui il curioso nome potrebbe derivare dal greco arghimoschion, ossia “altopiano delle grandi propaggini”, o dal latino agrimuscus, “campo di muschio”.

A prescindere dall’origine del nome, è certo che il luogo fosse frequentato sin dai tempi antichi. Esso è infatti ritenuto d’importanza strategica per vari studi astronomici e per il riconoscimento delle stagioni, da sempre importantissimo per i cicli di coltivazione agricola.

Prospetto megalitico, la donna orante – © Salvatore Nucera

I megaliti ed il paesaggio. L’Etna ed il Bosco di Malabotta.

Tra le varie formazioni rocciose, due delle più suggestive sono quella della donna orante e dell’aquila, forse ricollegata all’omonoma costellazione. Secondo la tradizione, Re Federico III d’Aragona avrebbe incaricato il medico alchimista Arnaldo da Villanova (1240-1313) di realizzare una grande opera di medicina astrale; questo spiegherebbe le curiose forme dei megaliti. Più verosimilmente, l’Argimusco è stato un luogo di passaggio utilizzato dai sovrani di Sicilia, ma anche da altre civiltà del passato, per collegare la sponda Tirrenica con quella ionica.

Prospetto megalitico, l’elefantino – © Salvatore Nucera

Prospetto megalitico, l’aquila – © Salvatore Nucera

È proprio l’ampia vista, di cui si gode dalla cima dell’altura, che permette di scrutare una vasta porzione della Sicilia nord-orientale, ricomprendente tanto l’orizzonte marino con le Isole Eolie, quanto il monte dell’Etna, che d’inverno appare tipicamente innevato. Infine il viaggiatore, dopo aver apprezzato una rapida escursione nel vicino bosco di Malabotta, potrà riposare nella vicina Montalbano, Comune spesosi negli anni per promuovere la bellezza di questi territori.

Montalbano Elicona, Chiesa di San Domenico, Santuario di Maria SS. della provvidenza – © Salvatore Nucera

In questo tripudio di sensazioni, assume una valenza centrale il rapporto tra i vari elementi naturali, favorita dalla personificazione della nuda roccia, quasi a volerci ricordare che siamo un tutt’uno con la Terra. Una giovane amicizia, che dura da circa 2 milioni di anni.

 

Salvatore Nucera

 

Immagine in evidenza: Prospetto megalitico, la vasca sacra – © Salvatore Nucera

Per approfondire:

Orlando A., Argimusco: Cartography, Archaeology and Astronomy, The Light, The Stones and The Sacred, 2017, p.123-155

A Montalbano Elicona: https://amontalbanoelicona.it/le-nostre-tradizioni/argimusco/

 

 

Una giornata con il FAI: alla scoperta di San Filippo Superiore

In occasione delle giornate autunnali del FAI (Fondo Ambiente Italiano) noi di UniVersoMe non potevamo di certo farci scappare l’occasione di essere guidati verso una delle bellezze naturalistiche e culturali della nostra città: il paese di San Filippo Superiore.

Le origini del borgo

Il borgo di San Filippo Superiore ha origini romane. In quel periodo il torrente omonimo, il più grande della zona, era navigabile e serviva per portare a valle i prodotti agricoli. Dal Medioevo alla metà dell’ ‘800 vi fu un’egemonia del monastero dei Basiliani, che fecero arricchire l’area con la coltivazione di cerali, fichi e agrumi e, soprattutto, tramite la vendita dei bachi da seta e della seta già lavorata. Il nome del borgo deriva dal Santo Filippo d’Agira, anche se il patrono e protettore del paese è San Nicola di Bari.

 

©Corinne Marika Rianò, Dettaglio di una delle vie del paese – San Filippo Superiore, 2020

 

L’antico centro

Inoltrandosi nella parte più antica del borgo ci si imbatte subito in due edifici: il primo, datato 1689, in buone condizioni, il secondo non in perfetto stato. In quest’ultimo si racconta vivesse la cosiddetta monaca di casa, una monaca che non viveva in convento ed usciva di casa soltanto per la messa.

Andando avanti si trova il percorso dove sorgevano gli antichi monasteri: il Monastero latino e il Convento ortodosso. Tra i vari passaggi si possono notare alcuni portali, ricchi di simboli.

Il luogo centrale del borgo è la Chiesa di San Nicola di Bari, attualmente chiusa alle visite causa lavori di ristrutturazione. Gli elementi di pregio sono le finiture interne e i cicli pittorici, originari della chiesa del ‘500. In realtà, una chiesa era già presente dall’anno 1000 e costituiva il filo conduttore del paese. Nella piazza antistante la chiesa sono ubicate delle campane antiche.

 

©Corinne Marika Rianò, Campane della Chiesa di San Nicola – San Filippo Superiore, 2020

 

La piazza è collegata da un corridoio sotto un arco che conduce a uno degli edifici più antichi, denominato la casa del cavaliere.

La nostra visita del centro del borgo si è conclusa di fronte ai resti della vecchia Chiesa della Maddalena, della quale è possibile ancora osservare la forma. La chiesa fu distrutta dall’alluvione del 1973. La tempesta d’acqua fu parzialmente arginata da un masso che fece da scudo impedendo ulteriori danni. La grande pietra, oggetto di culto dei cittadini della zona, adesso è ubicata sotto l’iconografia del Santo Patrono.

 

©Corinne Marika Rianò, L’iconografia di San Nicola e il masso che limitò i danni dell’alluvione del 1973- San Filippo Superiore, 2020

 

L’Ecomuseo del grano

La seconda tappa è stata caratterizzata dalla visita dell’Ecomuseo del Grano, fortemente voluto da Nino Bebba, nostra guida all’interno della struttura, per tenere viva la memoria dell’attività dei numerosi mulini ad acqua della zona e della coltivazione del grano, in passato la principale risorsa del villaggio.

All’inizio del ‘900, con l’avvento dell’Unità d’Italia, il sistema siciliano della molitura fu particolarmente penalizzato da una tassa sostanziosa sul macinato, voluta dall’allora Ministro delle Finanze Quintino Sella, che causò alcune rivolte dall’esito fallimentare, da parte dei contadini. Conseguentemente i mugnai di San Filippo, in seguito alle modificazioni del tipo di economia e all’ascesa dei mulini a cilindro, decisero di abbandonare il lavoro.

©Corinne Marika Rianò, Ecomuseo del grano – San Filippo Superiore, 2020

 

I mulini erano costruiti dai mastri mugnai, mastri d’ascia o della pietra. L’ultimo mastro mugnaio costruì un mulino elettrico a macina di pietra, portando avanti la tradizione e permettendo alle zone limitrofe, rimaste ormai sprovviste di attrezzature, di macinare a San Filippo. Ma gli eredi, sfortunatamente, non hanno continuato la tradizione.

Le tipologie di cereali coltivati erano il grano duro, il grano tenero e un particolare tipo di segale che cresceva in grandi quantità e senza ostacoli e possedeva ottime proprietà nutraceutiche. A giugno era raccolto e battuto, pulito dalle donne, macinato e sterilizzato.

La cooperativa di comunità, insieme all’Associazione Italiana Amici dei Mulini Storici (A.I.A.M.S.), è attiva per cercare di limitare la fuga dei giovani dalla Sicilia, terra meravigliosa ed ospitale, ormai sempre più soggetta ad emigrazione.

 

©Corinne Marika Rianò, Il signor Nino Bebba, fondatore dell’Ecomuseo del grano – San Filippo Superiore, 2020

 

La valle dei 40 mulini e la cascata di San Filippo

L’ultima tappa della nostra visita ci ha dato l’opportunità di immergerci nella splendida Valle dei 40 Mulini, chiamata così perché in passato costellata da circa una quarantina di mulini, i più antichi risalenti persino al 1200. Nel nostro percorso abbiamo incontrato alcuni ruderi; in uno di questi si vede chiaramente il canale dell’acqua, in dialetto saia, che portava l’acqua al salto azionando la ruota.

 

©Corinne Marika Rianò, Sentiero dei 40 mulini – San Filippo Superiore, 2020

 

Ammaliati dalla bellezza di alcuni scorci paesaggistici, si percorre un sentiero tracciato che conduce alla magnifica cascata di San Filippo, la quale scorre tutto l’anno, anche nei mesi più caldi; nel periodo estivo è molto piacevole fare il bagno nel pozzetto sottostante. Sotto la cascata inoltre c’è spazio per scattare qualche foto, per riposarsi e, soprattutto, per godersi lo spettacolo.

 

San Filippo Superiore è uno dei tanti luoghi di Messina in cui la storia si fonde con la natura in un intarsio prezioso. La riflessione sul rilancio della nostra città dovrebbe avere come fulcro la valorizzazione del nostro patrimonio storico-culturale, soprattutto quando è strettamente intrecciato con i meravigliosi paesaggi bucolici della natura incontaminata.

©Mario Antonio Spiritosanto, Dettaglio della natura di San Filippo – San Filippo Superiore, 2020

 

 

Corinne Marika Rianò, Mario Antonio Spiritosanto

 

Immagine in evidenza:

© Chiara Raffaele, cascata di San Filippo – San Filippo Superiore (ME), 2020

La Terra chiede aiuto

Uno studio dell’autorevole “Lancet” dice che per impedire il collasso del pianeta dovremo cambiare radicalmente dieta e sistemi di produzione alimentari, riducendo drasticamente i consumi di carne.

Salvare il pianeta si può.

Il consumo globale di frutta, verdura, noci e legumi dovrà raddoppiare, mentre il consumo di prodotti alimentari come la carne rossa e lo zucchero dovrà essere ridotto di oltre il 50 per cento.

Ad affermarlo è uno dei più corposi studi scientifici mai realizzati e pubblicato dalla commissione Eat-Lancet su cibo, pianeta e salute.

La commissione, che riunisce 37 esperti provenienti da 16 paesi con competenze in materia di salute, nutrizione e sostenibilità ambientale, ha pubblicato la “Planetary Health Diet”, ovvero una dieta che, se applicata, porterebbe a ridurre le emissioni di gas serra a livelli compatibili con l’accordo di Parigi e a migliorare la salute dei 10 miliardi di persone che popoleranno il pianeta nel 2050.

Il rapporto per la prima volta fornisce i target scientifici da perseguire per giungere ad un sistema di produzione alimentare sostenibile e ad una dieta sana per noi e per il nostro pianeta.

In questo senso lo studio fornisce quello che dovrebbe essere il regime alimentare giornaliero: il 35 per cento delle calorie dovrebbe provenire da cereali e tuberi; per quanto riguarda le fonti proteiche, queste dovrebbero essere principalmente vegetali, riscoprendo per esempio il consumo dei legumi.

“Questo rapporto non fa altro che confermare ciò che avevamo già indicato con l’Oms.

Questa commissione ha rianalizzato i dati disponibili sul rapporto tra dieta e salute e conferma che una dieta a base di carboidrati, legumi, grassi insaturi è associata ad una minore mortalità, causata da malattie cardiovascolari e tumori”, afferma il dottor Francesco Branca, direttore del dipartimento della nutrizione per la salute e lo sviluppo dell’Oms.

“Anzi si conferma che, se questa dieta venisse adottata a livello globale, si potrebbero salvare oltre 10 milioni di vite l’anno”.

Una dieta equilibrata, molto simile a quella dei nostri nonni e genitori e praticata oggi in paesi come India, Indonesia o Centro America.

“La novità di questo rapporto è indubbiamente il legame tra questo schema alimentare e l’impatto sull’ambiente. Le attuali tendenze di consumo non sono più sostenibili. Bisogna cambiarle”, continua Branca.

“Solo con un cambiamento dei nostri stili di vita potremmo affrontare il cambiamento climatico e le sfide ad esso legate”.

Lo studio non evoca un vegetarianesimo estremo.

Piuttosto “richiama all’importanza di un riequilibrio dei consumi animali.

Lo scopo di questo rapporto è proprio di aprire un dibattito pubblico su questioni fondamentali”, conclude Branca.

L’uomo ha oggi il dovere di ascoltare le grida della “Terra”.

Se così non facciamo correremo il rischio di rimanere senza casa.

La natura, madre della vita, merita rispetto.

Antonio Mulone

Earth Day a Messina: full immersion nella flora peloritana

Il 22 Aprile, da ben 47 anni, è la giornata mondiale della Terra.
È primavera, il clima è mite, il sole (specie in Sicilia) accarezza con i suoi primi raggi caldi gli esseri umani, stolte creature che con gli anni dimenticano sempre di più di trattare bene la propria casa  e, di conseguenza, l’importante responsabilità di cui sono investiti.
Il contatto con la Terra è spesso sottovalutato, si crede che “abbracciare gli alberi” sia un atteggiamento da sensattottino hippie-naturalista-pazzoide con la testa sempre tra le nuvole, c’è chi non si trova a proprio agio immerso nella natura: ed io mi chiedo, se noi siamo scimmie evolute frutto di questa palla rotante, come facciamo a sentirci a disagio nel nostro habitat? Ecco perché, a mio modesto parere, l’Earth Day è una ricorrenza importante, per tornare alle origini, per dimenticare la routine che ci siamo creati e che ci trasforma giornalmente, come sostiene il maestro siciliano F. Battiato, in insetti.

Grazie alla cooperazione di alcune associazioni studentesche, nella nostra città si è realizzata una splendida iniziativa intitolata “Into the wild”.
I partecipanti hanno vissuto un vero e proprio coinvolgimento con la macchia mediterranea caratteristica dei Peloritani. Partiti alle 10.30 dalla chiesa di San Michele, gli aderenti hanno percorso l’antico sentiero che collegava la città dello Stretto con Palermo.
Il percorso, per colpa dell’incuria è stato tortuoso, e sfortunatamente, nei pressi delle abitazioni si trovavano tracce di immondizia. Proseguendo per il tragitto, allontanandoci dal livello del mare, le guide hanno spiegato la flora che  ci circondava, e nel frattempo il paesaggio diventava sempre più incredibile. Piano piano, salendo, spuntavano all’orizzonte posti familiari che la lontananza rendeva minuscoli.

La prima fermata è stata all’altezza del caratteristico ritrovo Portella che, all’insaputa della maggior parte dei presenti, ha attorno a sé alcuni bunker risalenti alla prima e alla seconda guerra mondiale.
La passeggiata ecologica è proseguita tra salite e discese, fino ad arrivare in un punto panoramico da cui si vedevano i due mari: a destra il Tirreno (all’orizzonte si scorgevano nitide le isole Eolie), a sinistra lo Jonio. “Della saggezza delle piante, mi stupisco sempre” – Gli occhi della luna, Ex-Otago – questa è stata la frase che mi è frullata in testa durante l’escursione: ci siamo ritrovati nascosti tra felci, ginestre, sugheri, pini e tantissime altre piante di cui non ho la più pallida idea ma che mi lasciavano stupita e meravigliata della grandezza della natura. Come piccoli esploratori (cara “Dora l’esploratrice” ti rivolgo i miei più sinceri ringraziamenti) siamo passati per un sentiero stretto, e la vegetazione in alcuni tratti formava brevi gallerie. Si percepiva…magia!

Giunti finalmente al forte San Jachiddu, la prima sensazione che chiunque ha provato è stata armonia: armonia con il paesaggio, con la natura, un senso di pace con il proprio io. Vibrazioni positive e cura dei dettagli sono il frutto del duro lavoro che ha svolto il sig. Mario Albano, il quale ha deciso di prendere in gestione il forte. “L’anima del posto è parte della nostra anima e viceversa. Al forte hanno vissuto fino al 1200 uomini di pace, che ricercavano Dio. Rieducare l’uomo a ritrovare se stesso attraverso un percorso, avvicinando l’animo umano all’animo della natura. Per noi ogni cosa della natura ha un’anima, e va rispettata, come loro rispettano noi. È stato eliminato ogni segno di violenza per fiorire in un luogo di pace e di benessere. C’è ancora un’esistenza che aspetta che voi torniate, e quando tornerete, tutto ciò che cercavate lontano, scoprirete che è dentro di voi. Questo è il parco ecovivarium San Jachiddu” queste sono le parole di Mario rivolte ai ragazzi che hanno partecipato all’escursione, tra un bicchiere di buon vino e piparelli (gentilmente offerti e accolti con grande entusiasmo).

Infine, parlando un po’ con i partecipanti, si avvertiva un clima di benessere, tutti ne sono rimasti entusiasti, svuotati dai cattivi pensieri e riempiti di buone vibrazioni, rimanendo soprattutto stupiti della sensazionale realtà che si trova a pochi passi dal centro città.  
A Messina non c’è nenti? O forse prima bisogna vedere se effettivamente c’è qualcosa dentro noi stessi?

Giulia Greco

Foto di Giulia Greco