Il mistero della fosfina su Venere: c’è vita nell’atmosfera?

In quanto esseri umani, la curiosità ci appartiene da millenni e le domande più frequenti riguardano le nostre origini: chi siamo? Da dove veniamo? Ma soprattutto, siamo soli nell’universo? L’atmosfera di Venere potrebbe dare una risposta.

Venere fotografato dal Mariner 10.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare, nonché il più vicino alla Terra. Nonostante sia considerato il gemello del nostro pianeta, poiché simile in dimensioni e struttura, in realtà non potrebbe essere più diverso. La sua superficie è costellata da vulcani, montagne e valli. La pressione atmosferica equivale a quella presente a circa mille metri di profondità in un oceano, essendo 92 volte quella della Terra. L’atmosfera è composta principalmente da anidride carbonica e da nubi di acido solforico. Essa è talmente densa da intrappolare il calore del Sole: ciò genera il più forte effetto serra del Sistema Solare che rende Venere perfino più caldo di Mercurio, con temperature che raggiungono i 470°C.

Sicuramente, il nostro vicino roccioso non sembra il pianeta più ideale ad ospitare la vita, eppure il 14 settembre 2020 gli astronomi hanno rilevato nelle sue nubi un gas chiamato fosfina. Ma cos’è la fosfina? E perché è così importante?

La molecola della vita aliena

Riconosciuta da Lavoisier come combinazione di fosforo con idrogeno e scoperta negli anni ’70 nelle atmosfere di Giove e Saturno, la fosfina è un gas altamente tossico per chi respira ossigeno. Sulla Terra è possibile trovarlo in zone paludose o sedimenti lacustri. Secondo uno studio della ricercatrice Clara Sousa-Silva del Massachusetts Institute of Technology (MIT), questo gas è prodotto da organismi anaerobici, come batteri e microbi, che non hanno bisogno dell’ossigeno per vivere, ma assorbono fosfato, aggiungono idrogeno ed espellono fosfina.

Impronta della fosfina nello spettro di Venere.
Fonte: Alma(Eso/Naoj/Nrao), Greaves et al. & Jcmt (East Asian Observatory)

La rilevazione del gas è stata effettuata per la prima volta da Jane Greaves, astrofisica della Cardiff University. Greaves ne scorse la firma spettroscopica nella regione abitabile dell’atmosfera di Venere (circa 60 chilometri di altezza dalla superficie) utilizzando il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT), che si trova alle Hawaii. A confermare la scoperta sono state le verifiche effettuate dal team di Sousa-Silva tramite l’Acatama Large Millimiter Array (ALMA) in Cile. ALMA è una rete di radiotelescopi che produce osservazioni ad altissima risoluzione e che dunque permetterebbe una mappatura dettagliata dell’atmosfera di Venere.

L’elaborazione dei dati è stata effettuata tramite un modello sviluppato da Hideo Sagawa, della Kyoto Sangyo University. Si è scoperto che la concentrazione di fosfina nelle nubi è di circa venti parti per miliardo, una quantità più elevata rispetto a quella presente nell’atmosfera terrestre. Dal team degli scienziati Bains e Petkowski sono stati considerati vari scenari in cui sarebbe possibile la produzione di fosfina che non sia collegata alla vita: la luce solare, l’attività vulcanica, un impatto di un meteorite e i fulmini. Tra tutti i casi analizzati, nessuno è risultato avere una concentrazione di questo gas tossico tanto alta quanto quella presente nell’atmosfera di Venere. L’unica spiegazione possibile resta dunque la presenza di organismi viventi.

James Clerk Maxwell Telescope (JCMT). Fonte: eaobservatory.org

C’è vita su Venere?

In realtà la risposta non è quella che gli astronomi speravano di ottenere, in quanto la presenza di fosfina potrebbe essere stata un abbaglio. Un gruppo di scienziati, guidato da Therese Encrenaz dell’Osservatorio di Parigi, ha analizzato i dati ottenuti nel 2015 dall’Infrared Telescope Facility (IRTF) della NASA alle Hawaii. I dati hanno mostrato che la fosfina presente nell’atmosfera di Venere è pari a un quarto rispetto a quella rilevata nello studio originale. Inoltre, il gas si troverebbe al di sopra delle nubi, ipotesi considerata improbabile dagli astronomi dal momento che si disperderebbe molto facilmente.

La ricercatrice Sousa-Silva ha tentato di dare una spiegazione alla mancanza di fosfina, dichiarando al National Geographic che la quantità potrebbe variare nel tempo. Un altro interrogativo riguarda l’altitudine: le osservazioni all’infrarosso potrebbero non aver sondato le nubi a una profondità tale da rilevare il gas ai livelli riportati.

Un’altra analisi ai dati

La ricerca però non finisce qui. Altri scienziati hanno deciso di analizzare nuovamente i dati ottenuti dai telescopi JCTM e ALMA. Sfortunatamente, anche stavolta, non vi è stata alcuna evidenza della presenza di fosfina.

Per quanto riguarda il JCTM, il telescopio ha rilevato una linea spettrale alla giusta frequenza, la stessa che corrisponde all’anidride solforosa presente nell’atmosfera di Venere.
I dati ricavati da ALMA sono stati più difficili da elaborare. Trattandosi di apparecchi ad altissima risoluzione, catturano molto rumore di fondo. Per ottenere dei segnali, il team ha dovuto utilizzare un metodo chiamato adattamento polinomiale. Questo metodo consiste nel rimuovere matematicamente il rumore di fondo intorno alla regione in cui si sarebbe dovuta trovare la fosfina. Purtroppo, può produrre dei falsi segnali se utilizzato con più variabili e unito a dei dati ‘’rumorosi’’. Nonostante l’analisi accurata e la ricalibrazione di ALMA, lo spettro di Venere non mostra presenza di fosfina.

Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).
Fonte: Di Iztok Bončina/ESO – http://www.eso.org/public/images/potw1040a/, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11686363

La ricerca continua

Gli scienziati continuano a lavorare, fiduciosi di poter risolvere il mistero della fosfina. In fondo è proprio così che la scienza funziona.

“Abbiamo bisogno di ulteriori osservazioni in modo da non fare affidamento su pochi, molto rumorosi set di dati,” ha spiegato Sousa-Silva. “La lezione è spingere per ulteriori analisi e più dati.”

‘’In un universo infinito, deve esserci altra vita. Non vi è dubbio più grande. È tempo di impegnarsi per trovare una risposta.’’ 

 

Serena Muscarà

 

 

Bibliografia

https://news.mit.edu/2020/life-venus-phosphine-0914
https://www.media.inaf.it/2020/09/14/venere-vita-fosfina/
https://www.eso.org/public/news/eso2015/
https://news.mit.edu/2019/phosphine-aliens-stink-1218
https://www.nature.com/articles/s41550-020-1174-4
https://www.nationalgeographic.com/science/2020/10/venus-might-not-have-much-phosphine-dampening-hopes-for-life/

Interstellar: un viaggio nello spazio tempo, tra fisica e fantascienza

L’amore per la fisica di Nolan ritorna con Interstellar. Ma avrà commesso errori scientifici anche questa volta?

Christopher Nolan, lo sappiamo, nella fisica ci sguazza. E con Interstellar è voluto andare oltre. Si, perché ha coinvolto addirittura Kip Thorne, premio Nobel per la fisica nel 2017 per la scoperta delle onde gravitazionali. Quindi sarà fisicamente perfetto, direte voi… Non esattamente, perché, in genere, dove comincia Hollywood si ferma la fisica.

Siamo sulla Terra, dove una calamità naturale ha stravolto l’ecosistema, tanto da permettere come unica coltivazione quella del mais, mettendo così a rischio la sopravvivenza del genere umano. La NASA ha riscontrato vicino all’orbita di Saturno un cunicolo spazio-temporale, il cosiddetto wormhole, che si pensa sia stato creato da esseri penta-dimensionali. Esso, teoricamente, conduce da tutt’altra parte dell’Universo, precisamente vicino ad un gigantesco buco nero, Gargantua, attorno a cui orbitano ben dodici pianeti, che si spera possano ospitare la vita. La NASA decide così di inviare, nella missione spaziale Lazarus, dodici scienziati, uno per pianeta, per riportare dati sulla loro abitabilità.

Il protagonista è Joseph Cooper (Matthew McConaughey), ingegnere ed ex pilota della NASA, ridottosi a gestire delle piantagioni di mais. Durante una tempesta di sabbia, Cooper nota sul pavimento della camera di sua figlia Murph delle strisce di sabbia ben definite. Egli intuisce subito che si tratta di un codice binario che cela delle coordinate geografiche. Seguendo queste indicazioni giunge, insieme alla figlia dodicenne, ad una base NASA, dove il professor Brand gli mostra i dati ricevuti dagli scienziati della missione Lazarus, iniziata più di dieci anni prima. Cooper, nonostante le resistenze di Murph, parte quindi in missione per verificare la vivibilità di tre dei dodici pianeti.

Tutto il film si basa sull’esistenza del wormhole. Ma che cos’è, in fisica, un wormhole?

Il wormhole Lorentziano, o ponte di Einstein-Rosen, è una scorciatoia, un cunicolo, che per l’appunto squarcia lo spazio-tempo e unisce due punti remoti dell’Universo. Il wormhole dovrebbe essere composto da un buco nero d’entrata, che assorbe tutta la materia a sé circostante, e un buco bianco d’uscita, che al contrario la emette. Interessante a leggersi, ma abbiamo prove certe della loro esistenza? Purtroppo no. Infatti, mentre i buchi neri si basano su solide teorie e riscontri sperimentali (per i quali Penrose, Genzel e Ghez hanno vinto il premio Nobel per la fisica nel 2020, ne parliamo qui), i buchi bianchi costituiscono ancora una mera speculazione.

I primi wormhole attraversabili, che rispettano la Relatività Generale, furono ipotizzati per la prima volta proprio da Kip Thorne, consulente scientifico del film, e da un suo studente, Mike Morris (essi infatti presero il nome di wormhole di Thorne-Morris). Questo tipo di wormhole, tuttavia, pur essendo ammissibile nella Relatività Generale, richiederebbe la presenza di un particolare tipo di materia esotica con densità negativa di energia. Si presume, inoltre, che alcuni paradossi circa i viaggi nel tempo, insiti nella relatività generale, comportino l’irrealizzabilità dei viaggi tramite wormhole.

Quindi, per il momento, più che di scienza stiamo parlando di fantascienza.

Ma Cooper e la sua navicella, l’Endurance, attraversano comunque il fantomatico wormhole e arrivano nei pressi di Gargantua. Il film offre a questo punto una rappresentazione molto realistica di un buco nero supermassiccio, tanto da valergli il premio Oscar per gli effetti speciali, oltre che uno straordinario sforzo da parte degli scienziati.

Arrivano quindi sul pianeta di Miller, uno dei dodici scienziati della missione Lazarus. Distruttivi moti ondosi imperversano sulla superficie del pianeta, ricoperta unicamente da acqua. Questi moti ondosi sono prodotti dalla forte attrazione gravitazionale di Gargantua. Talmente forte, però, che avrebbe dovuto attrarre a sé, inesorabilmente, la stessa Endurance. Inoltre, come se non bastasse, nel film viene sottolineato come un’ora passata sul pianeta di Miller corrisponda a sette anni passati sulla Terra. Questo è un errore: infatti, affinché ciò si realizzi, il pianeta dovrebbe essere così vicino al buco nero da venirne irrimediabilmente risucchiato e, di conseguenza, distrutto.

Ma un’altra domanda sorge spontanea: qual è la fonte di calore di questi pianeti? Non c’è nessuna stella attorno ad essi. Come la Terra viene riscaldata dai raggi del Sole, anche i pianeti che orbitano attorno a Gargantua dovrebbero godere del calore di una Stella per permettere la vita: così non è, risultando freddi e inospitali.

Dopo mille peripezie, comunque, Cooper decide di entrare dentro Gargantua. Ma nella realtà dei fatti, non è possibile. L’incredibile forza di gravità di un buco nero comporterebbe un fenomeno chiamato spaghettificazione che, come suggerisce il nome, fa sì che un corpo, superato l’orizzonte degli eventi, si disintegri, tanto da ridursi alle dimensioni di uno spaghetto. Anche se decidessimo di ignorare questo fenomeno, saremmo comunque soggetti ad una spaventosa e letale dose di radiazioni fortemente energetiche (raggi X e raggi gamma), che non ci lascerebbero scampo. Infine, una forza gravitazionale così intensa, in pratica, fermerebbe il tempo! Quindi Cooper, una volta entrato nel buco nero, morirebbe di vecchiaia senza raggiungerne mai il centro. Ma andiamo oltre e parliamo del tesseract, un evergreen dei film di fantascienza.

Cooper giunge in una struttura a cinque dimensioni, il tesseract. Si accorge molto presto, però, che questa è una proiezione penta-dimensionale della stanza di sua figlia Murph. Capisce così che può inviare dei dati nel passato, per convincere sé stesso prima della partenza a restare a casa. Invia infine i dati relativi al buco nero a Murph, che nel frattempo è diventata una brillante fisica, affinché possa utilizzarli per risolvere l’annoso problema della sopravvivenza sulla Terra. Che sia una cosa tecnicamente irrealizzabile è chiaro, ma le motivazioni fisiche di ciò sono radicate nella teoria, più precisamente nei paradossi insiti nella stessa.

Facciamo finta che io inventi la macchina del tempo. Torno indietro nel passato e uccido mio nonno prima che possa nascere mio padre. Come ho fatto a nascere, inventare la macchina del tempo e uccidere mio nonno? Intrigante, vero? Benvenuti nel magico mondo dei viaggi nel tempo.

Il film si conclude con la visione di una stazione spaziale che sfrutta la penta-dimensionalità, realizzata grazie agli studi di Murph basati sui dati di Cooper.

Nonostante gli errori scientifici, la simulazione del buco nero ha rappresentato una delle più veritiere rappresentazioni mai realizzate. Saremo in grado di viaggiare nello spazio e nel tempo? Riusciremo, un giorno, a sfruttare i wormhole per raggiungere i posti più remoti dell’Universo? Non possiamo ancora saperlo, la scienza è ancora troppo giovane. Ma sognare non costa nulla.

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Premio Nobel per la Fisica 2020: dalle galassie ai buchi neri

Stoccolma, 6 ottobre: il premio Nobel per la Fisica 2020 conferma ancora le teorie di Einstein.

Quest’anno la Reale Accademia di Svezia premia gli scienziati Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez per i loro contributi al misterioso mondo dell’astrofisica. Tra galassie e buchi neri, curiosiamo un po’ più a fondo nei loro lavori.

Il contributo di Penrose

Pensatore libero, anticonvenzionale ed eclettico, Roger Penrose è un matematico e cosmologo inglese, vincitore del 50% del premio Nobel per la Fisica 2020 grazie ai suoi studi del 1965. Grazie a dei brillanti metodi matematici è riuscito a provare che la formazione dei buchi neri è una solida previsione della teoria della relatività generale. Egli ha dimostrato che, al centro dei buchi neri, la materia si addensa inesorabilmente a tal punto da divenire una singolarità puntiforme con densità infinita. Ha compreso anche che i buchi neri rotanti possono liberare enormi quantità di energia, sufficienti a spiegare l’emissione delle più potenti sorgenti di radiazione dell’universo, quali i quasar e i lampi di raggi gamma.

Prima fotografia di un buco nero.

Ma cos’è, in effetti, un buco nero?

Per provare a comprendere un concetto così complesso, esploriamo quanto teorizzato dal celebre Albert Einstein con la teoria della relatività generale del 1916. Essa si basa sul modello matematico dello spaziotempo elaborato da Minkowski, che ha introdotto la struttura quadridimensionale dell’universo: la posizione di ogni punto viene individuata non soltanto dalle tre coordinate dello spazio, ma anche dal tempo. In questo senso, ogni punto dello spaziotempo rappresenta un vero e proprio evento, verificatosi in un dato luogo ed in un preciso momento.

Abbandoniamo quindi le idee newtoniane di spazio e tempo assoluti e distinti e immaginiamo lo spaziotempo come una sorta di “tessuto universale”, in cui sono immersi tutti i corpi celesti esistenti. Questi, per definizione, possiedono una certa massa, proprietà fondamentale affinché si generi attrazione gravitazionale (e quindi un campo) sui corpi vicini. L’intuizione chiave di Einstein fu che un campo gravitazionale curvi lo spaziotempo. Più un corpo è massiccio, più è forte il suo campo gravitazionale, maggiori sono la deformazione che causa ed i condizionamenti che impone al moto dei corpi vicini.

Un buco nero è quindi una concentrazione di massa talmente imponente da far collassare lo spaziotempo su se stesso in un unico punto, chiamato singolarità. Attorno a questo si trova una porzione di spazio delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi. Una volta oltrepassato tale confine, non c’è alcun modo né per la materia, né per le radiazioni, di sfuggire all’attrazione gravitazionale. Per scamparvi, infatti, dovrebbero raggiungere una velocità infinita.

Un po’ complicato? Per avere un’idea di ciò che accade, immaginiamo di lasciar scivolare una sfera su un telo elastico. Intuitivamente, esso cederà a delle deformazioni. Se adesso aggiungessimo un’altra sfera di massa minore, noteremmo che le curvature sarebbero trascurabili rispetto a quelle generate dal primo corpo. Il secondo, inoltre, essendo più leggero, tenderebbe a convergere sempre più velocemente verso il primo, il che è un po’ quello che accade ai corpi celesti che orbitano attorno al buco nero.

Deformazione dello spaziotempo a seconda della massa.

I lavori di Genzel e Ghez

I buchi neri sono fenomeni tra i più potenti e affascinanti dell’intero Universo. Viene da chiedersi dove sia il buco nero più vicino a noi, quanto sia esteso o quanto siamo distanti dal suo orizzonte degli eventi. I due scienziati Genzel e Ghez hanno risposto a queste domande.

Se dobbiamo a Penrose la dimostrazione teorica dell’esistenza dei buchi neri, è invece merito degli scienziati Genzel e Ghez il contributo sperimentale alla loro osservazione. Il tedesco Reinhard Genzel e la statunitense Andrea Ghez, vincitori del restante 50% del premio, hanno studiato per oltre due decadi il comportamento delle stelle situate in prossimità del centro della Via Lattea. In questa zona, nascosta alla vista da una densa nube di polveri interstellari, hanno visto come le stelle danzino attorno ad un buco nero supermassiccio, Sagittarius A*, un mostro di massa pari a 4 milioni di volte quella del Sole.

Ma c’è di più: la necessità di misure sempre più precise ha portato alla creazione di strumenti di tecnologia all’avanguardia, come il Very Large Telescope in Cile o l’interferometro infrarosso Gravity, grazie ai quali l’Europa detiene un ruolo da protagonista nel panorama della grande ricerca scientifica internazionale.

                             ESO’s Very Large Telescope (VLT) 

La scelta di assegnare il premio Nobel a questi lavori riconferma ancora oggi l’importanza e la validità della teoria della relatività di Einstein. Stuzzica l’immaginario collettivo sulla complessità ed il fascino del cosmo, fonte inesauribile di scoperte ed altrettanti interrogativi. Quindi naso all’insù ed occhi fissi alle stelle: i misteri del nostro Universo sono ancora tutti da scoprire.

Giulia Accetta

Giovanni Gallo

Acqua sulla Luna, la scoperta della NASA

Ieri, 26 ottobre, in questo catastrofico 2020 una fantastica notizia ha acceso gli animi degli astrofili: la NASA ha annunciato che  “è stata scoperta dell’acqua sulla Luna.

I risultati della scoperta sono stati pubblicati sulla rivista Nature. (1) (2) 

Crediti immagine: NASA   

In realtà, già da tempo si era a conoscenza di depositi di acqua sulla superficie lunare, soprattutto ai poliInfatti, a livello di essi, la luce solare sfiora appena i crateri, i quali, restando sempre bui all’interno, permettono la conservazione di masse di ghiaccio che altrimenti, esposte alla luce del Sole, evaporerebbero. 

Perché allora c’è tanto entusiasmo per l’annuncio fatto ieri dalla NASA? 

Perché l’acqua, stavolta, è stata trovata (con molta sorpresa, visto che dovrebbe evaporare) non ai poli, mnella zona equatoriale della Luna, esposta ai raggi solari, regione di gran lunga più accessibile rispetto ai freddi poli. Inoltre, la sua presenza pare essere molto più abbondante delle precedenti previsioni, il che apre a diversi scenari interessanti. 

In particolare, l’acqua è stata trovata in corrispondenza dell’antico cratere (in quanto particolarmente eroso) Claviussituato nell’emisfero sud della superficie lunare visibile. 

Come abbiamo fatto per tutto questo tempo a non vederla? 

Il fatto che l’acqua ci sia, non significa che sia facilmente visibile. Situata all’interno del cratere Clavius, uno dei più grandi crateri lunari dopo i mari, con i suoi 231 km di diametro, è stata trovata in quantità pari a 340g/m³ di regolite. Una quantità che può sembrare irrisoria, se consideriamo che il deserto contiene quantità di acqua centinaia di volte superiori. 

Cratere Clavius – Crediti immagine: wikipedia

Come fa l’acqua sulla Luna a non evaporare? 

Si presume che essa sia o intrappolata in microsfere di regolite (il materiale roccioso di cui è composta la superficie della Luna ndr), oppure sia sottoforma di sali idratati contenuti nella struttura chimica della regolite stessa. In questo modo, viene schermata dai raggi solari, non potendo quindi evaporare e disperdersi nello spazio. 

La scoperta 

È avvenuta grazie all’uso di una particolare tecnologia. 

Finora, infatti, avevamo osservato la superficie lunare con dei telescopi incapaci di distinguere lo spettro emesso dall’acqua da quello emesso dall’ossidrile, in quanto molecole molto simili (H2O è la formula dell’acqua, -OH quella dell’ossidrile). 

Stavolta, però, gli scienziati hanno usato un particolare Telescopio, chiamato SOFIA (Stratospheric Observatory for Infrared Astronomy), dotato di un sensore capace di osservare gli infrarossi con una precisione tale da poter distinguere le molecole di acqua da quelle di ossidrile o anche di idrogeno semplice. 

Crediti immagine: NASA

Ogni molecola, infatti, emette un proprio spettro luminoso caratteristico, che con i giusti strumenti è captabile. 

La particolarità di questo telescopio, oltre alla sua precisione per l’Infrarosso, è quella di essere il più grande telescopio ad essere installato su un aereo. Esso, infatti, è montato su un Boeing 747 SP, per sovrastare nuvole ed inquinamento atmosferico che renderebbero altrimenti impossibili certe osservazioni. 

Crediti immagine: NASA

Grazie a questo telescopio mobile, gli scienziati hanno accertato inequivocabilmente la presenza di acqua sulla superficie visibile della Luna. 

Ma come ha fatto quest’acqua ad arrivare sulla Luna? 

Sono due le principali teorie riguardo la presenza di acqua sulla Luna: 

  • La prima riguarda dei micrometeoriti contenenti acqua che, impattando contro la superficie lunare, avrebbero intrappolato l’acqua in microsfere createsi in seguito alla fusione della roccia dovuta all’impatto. 
  • La seconda teoria, invece, prevede due fasi: nella prima fase il vento solare avrebbe portato idrogeno che, combinandosi con l’ossigeno presente sulla Luna, avrebbe prodotto l’ossidrile, il quale poi, nella seconda fase, a seguito dell’impatto di meteoritisi sarebbe trasformato in acqua grazie al forte calore sviluppato. 

Entrambe le teorie vedono dunque come protagonisti i meteoriti, in quanto l’acqua è stata trovata appunto nel cratere, generato dall’impatto di questi sulla superficie lunare. 

Che implicazioni ha una simile scoperta? 

Innanzitutto, è la dimostrazione di come ciò che pensiamo di conoscere possa ancora stupirci, se indagato a fondo con nuove conoscenze. 

Una scoperta del genere proietta a scenari innovativi per le future missioni spaziali, in particolare per le missioni lunari. 

Sappiamo, infatti, che nel 2024 la NASA tenterà di riportare l’umanità sulla Luna con la missione Artemis III. 

Crediti immagine: www.nasa.org

Per affrontare un viaggio del genere, gli astronauti dovranno portare svariate scorte di cibo e acqua per sopravvivere. Questo significa avere un carico in più da vincere contro la forza di gravità.

Nel momento in cui fosse possibile estrarre acqua dal suolo lunare, questo problema sarebbe risolto, permettendo un considerevole risparmio di peso, destinabile ad esempio agli alimenti. Questo consentirebbe non solo di programmare missioni spaziali più lunghe, ma addirittura di poter pensare ad una base lunare in pianta stabile. 

Scetticismo

Ovviamente è ancora tutto da vedere. Già da tempo gli scienziati progettano di stabilire una base lunare, rifornendosi di acqua grazie ai giacimenti ai poli lunari.  

Il problema è che, nonostante ci siano considerevoli quantità di acqua ai poli, essa si trova a notevoli profondità all’interno dei crateri lunari, fino a 4km, essendo quindi molto impegnativa da raggiungere. 

Inoltre, essendo i crateri bui e mancando la Luna di atmosfera, la superficie lunare non illuminata dal Sole raggiunge temperature molto basse, che richiederebbero un plus di energia per non far congelare l’equipaggio o la strumentazione. 

Per questo motivo, per le prossime missioni spaziali, si valuterà la possibilità di estrarre la poca acqua presente nella superficie illuminata della Luna. 

Gli scienziati devono ancora capire se l’acqua sia contenuta in microsfere di regolite, oppure sia parte integrante della struttura chimica dei sali che compongono la roccia lunare (possiamo portare l’esempio del solfato di rame pentaidrato). 

Nel primo caso, basterebbe estrarla fisicamente, mentre nel secondo caso il processo richiederebbe qualche reazione chimica. 

Si ipotizza, inoltre, che Clavius sia solamente il primo di tanti altri crateri contenenti acqua nella loro struttura. 

Crediti immagina: ESA/Piere Carril

Un futuro roseo per l’esplorazione spaziale

Se gli esperimenti delle prossime missioni lunari andranno a buon fine, l’umanità potrà fare a meno di portare l’acqua dalla Terra ed avere così basi lunari stabili, con tutto il progresso tecnico-scientifico che ne consegue. 

L’esplorazione spaziale ci ha infatti già fornito innumerevoli innovazioni tecnologiche. Basti pensare al GPS, alla TV satellitare, ai termoscanner che oggi usiamo per misurare la temperatura. Per non parlare dei benefici in medicina: leghe al titanio per gli interventi ortopedici, algoritmi del telescopio Hubble usati per una migliore risoluzione delle mammografie per la diagnosi di tumore della mammella, e molto altro ancora.

Purtroppo, per quanto riguarda la possibilità di vita aliena sulla Luna, essa appare ugualmente improbabile nonostante questa scoperta, vista l’esigua quantità d’acqua per volume di regolite (340g/m³) ed il particolare immagazzinamento di essa nella roccia lunare. 

In ogni caso c’è da festeggiare, l’uomo a breve tornerà sicuramente sulla Luna per studiarla e siamo un passo più vicini al sogno che fin dalla notte dei tempi affascina l’uomo: vivere sulla Lunapotendo toccarla con un dito. 

Roberto Palazzolo 

(1) https://www.nature.com/articles/s41550-020-01222-x

(2) https://www.nature.com/articles/s41550-020-1198-9

Nasa, la sonda Osiris-Rex preleva frammenti di asteroide

Il 21 ottobre alle ore 00:12 italiane, la sonda Osiris-Rex è entrata in contatto per pochi secondi con l’asteroide Bennu per prelevare campioni da riportare sulla Terra. La Nasa ha trasmesso in diretta le difficili manovre.

Nasa, la sonda Osiris-Rex è atterrata sulla superficie dell’asteroide – Fonte:srmedia.info

Nei primi minuti di mercoledì la sonda spaziale Osiris-Rex, ha tentato il contatto con l’asteroide per prelevare alcuni esemplari di rocce della superficie e farli analizzare sulla Terra una volta terminato il suo lungo percorso di ritorno. Lo scopo della missione sarà scoprire qualcosa in più sul Sistema Solare e sull’origine della vita sul pianeta Terra.

Cosa sono gli asteroidi

“Mentre i pianeti e le lune sono cambiati nel corso dei millenni, molti di questi piccoli corpi no. Gli asteroidi sono come capsule del tempo che possono fornire una testimonianza fossile della nascita del nostro Sistema Solare”

Osservatorio Sideralmente – Fonte:riviera24.it

Cosi li definisce Lori Glaze, capo della divisione di Scienze planetarie della Nasa. Sono parenti stretti dei pianeti e secondo l’ipotesi che accomuna gran parte degli astronomi, sono ciò che è rimasto del disco protoplanetario, ossia quella regione in cui i grani di polvere crescono, si sedimentano e danno vita al processo di formazione dei pianeti. Rispetto a quest’ultimi gli asteroidi risultano essere di dimensioni molto più ridotte e con una forma vagamente sferica. Ne esistono di due nature differenti, di origine minerale o dal processo evolutivo delle comete. I primi sono formati prevalentemente da composti ferrosi; i secondi invece nascono dai ripetuti passaggi ravvicinati al Sole che ha fatto sciogliere il loro strato di ghiaccio.

Dove sostano

La loro casa è la fascia principale, un grande anello di detriti che orbita attorno al Sole passando fra le traiettorie di Marte e Giove. L’immensa distanza che li separa dalla Terra non esclude che impatti o altri eventi posso inquietare il tragitto di queste masse portandole a sfiorare, secondo misure astronomiche, il nostro pianeta.

La fascia principale degli asteroidi – Fonte:meteoweb.it

Chi è Bennu?

L’asteroide 101955 Bennu, si muove nello spazio come una montagna che viaggia ad una velocità di 28 chilometri al secondo. Esso fa parte del gruppo Apollo, un agglomerato di corpi celesti costantemente controllati poiché in futuro potrebbero invadere l’orbita della Terra.

La sonda della Nasa toccherà l’asteroide Bennu – Fonte:ilmessaggero.it

È molto scuro per il suo contenuto di carbonio, che fa riflette solo il 4% della luce che lo colpisce. Secondo molti scienziati su Bennu ci sono delle tracce di acqua e di molecole organiche, ingredienti fondamentali per poter risalire al periodo di formazione del Sistema Solare e consentire lo studio su come sia avvenuta la formazione della vita sulla Terra.

La sonda Osiris-Rex

La Nasa l’ha dotata di un corpo centrale cubico con pannelli solari ai lati, è fornita anche di diversi strumenti per la mappatura della superficie dell’asteroide e nella parte inferiore presenta un braccio meccanico necessario per il recupero dei materiali.

Nasa, la sonda Osiris-Rex atterra su un asteroide dopo quattro anni – Fonte:Inews24.it

La sonda è stata lanciata nel 2016 e ha raggiunto Bennu nel 2018, da quel momento gli orbita intorno per rilevare e accumulare senza tregua più informazioni necessarie per la missione. La scelta degli studiosi non è stata casuale, fu ponderata da rivelazioni effettuate con il telescopio. L’asteroide si mostrava ai ricercatori con una superficie sabbiosa che avrebbe permesso alla sonda di atterrare senza difficoltà, ma una volta arrivati in sua prossimità, si presentava con numerose sporgenze e cime aguzze che avrebbero reso arduo portare a termine il lavoro. Gli scienziati però non si sono mostrati impreparati, hanno fin da subito creato delle mappe tridimensionali da poter inviare alla sonda per capire se procedere con il prelievo del materiale o rinunciare nel caso in cui qualcosa andasse storto.

Del resto i dati inviati dalla sonda impiegano 18 minuti per attraversare i 320 milioni di chilometri che la separano dalla Terra e perciò soltanto dopo poco arriveranno agli studiosi le esatte dinamiche su ciò che è avvenuto sull’asteroide.

Quale sarà la sequenza di discesa

Quando Osiris-Rex accenderà i propulsori sarà pronta per abbandonare la sua orbita, assestando durante la discesa posizione e velocità. Dopo 11 minuti, trovandosi ad un’altitudine di 54 metri, inizierà a frenare e a mirare verso il suo obiettivo, un largo cratere roccioso chiamato Nightingale. Toccherà la superficie per circa 5 secondi, quando in Italia sarà passata da poco la mezzanotte, la bombarderà con una delle sue tre bombole pressurizzate di azoto che farà sollevare polveri e rocce. Queste dovranno poi confluire dentro un cilindro che conserverà 60 grammi di materiale da portare sulla Terra.

La sonda Osiris-Rex tocca l’asteroide e preleva alcuni frammenti – Fonte:ilmessagero.it

Esito della missione

Dai primi dati inviati il tochdown è avvenuto a 75 cm di distanza rispetto al punto scelto come obiettivo. Durante il prelievo la sonda non è stata guidata da Terra, ha fatto “tutto da sola” grazie all’inserimento di un sistema di navigazione autonomo chiamato NFT (Natural Feature Tracking); il quale attraverso l’uso di immagini scattate in tempo reale e la ricostruzione della superficie dell’asteroide è riuscita a prevedere eventuali correzioni di traiettoria.

Il ritorno

Osiris-Rex lascerà Bennu a marzo 2021 e impiegherà due anni per arrivare sulla Terra. L’approdo sul pianeta è previsto per settembre 2023 grazie all’uso di un paracadute che riducendo notevolmente la velocità della sonda, permetterà l’atterraggio nel deserto dello Utah.

Osiris-Rex:come prelevare un campione di asteroide – Fonte:lescienze.it

Giovanna Sgarlata

The Martian: la fisica strampalata di Hollywood

Un’analisi scientifica del film di Ridley Scott, tra buffe imprecisioni e trovate (poco) geniali.

Avere una laurea in fisica ha diverse ripercussioni. La perdita della sanità mentale? Certo, soprattutto quella. Ma anche guardare un film con occhio critico (anzi, ipercritico). Così è stato quando ho avuto la felice idea di guardare “The Martian – Il sopravvissuto”, prodotto e diretto da Ridley Scott.

Siamo su Marte. L’equipaggio della missione Ares 3 della NASA raccoglie campioni da analizzare. Ancora non ho fatto in tempo a trovare la mia sedia al multisala che noto il primo errore: la camminata degli astronauti. Essendo la gravità marziana, infatti, circa un terzo di quella terrestre, gli astronauti avrebbero dovuto procedere per piccoli balzelli.

L’equipaggio ad un certo punto è costretto a partire a causa di una violenta tempesta. Domanda: ci sono tempeste così violente su Marte?  Parecchio improbabile, quasi impossibile. Questo perché la densità dell’atmosfera marziana è circa 1/100 di quella terrestre. Ma vabbè, partono.

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene colpito da dei detriti e trafitto da un palo di metallo; creduto morto a causa dei danni elettronici riportati nella tuta, viene lasciato sul pianeta rosso. Ovviamente, da buon americano, si toglie il palo ben inserito nel suo intestino con estrema facilità, per poi chiudersi la ferita con una spillatrice, senza nemmeno imprecare un po’ per il dolore. Se fossi un medico mi indisporrei un po’, ma sono un fisico, dunque glisso su questa parte e vado avanti.

A questo punto il nostro Superman marziano, conscio che nel breve periodo non c’è nessuna possibilità che la NASA possa tornare a riprenderlo, è costretto ad affidarsi al suo ingegno e alle sue conoscenze scientifiche per sopravvivere all’angusto territorio marziano. Da buon botanico (ma anche ingegnere, fisico, chimico, biologo, Iron man e uomo ragno) pianta delle patate, presenti nella base che avevano costruito, nella notoriamente fertile terra marziana, che concima con un po’ di escrementi dei suoi colleghi et voilà, ecco una coltivazione intensiva di patate!

Watney: passione agricoltore.

“Oh cavolo, manca l’acqua”. Così prende l’idrazina, elemento fondamentale nei carburanti liquidi per i razzi, e la unisce all’ossigeno per creare dell’acqua. Il tutto andrebbe fatto in un ambiente completamente isolato. È interessante sottolineare come, se proprio voleva dell’acqua, poteva riscaldare della terra marziana! Infatti, per ogni metro cubo di terra marziana ci sono circa 35 litri di acqua sotto forma di ghiaccio. Ma effettivamente fa meno figo.

Le patate crescono, Watney balla e se la spassa nella sua beata solitudine, trova anche il modo di mettersi in contatto con la Terra. Qui il regista sottolinea come la comunicazione fra i due pianeti sia un po’ problematica, e questo è più che giusto. Infatti, i segnali che trasportano le informazioni, per percorrere il tragitto Terra-Marte possono impiegare dai 6 ai 40 minuti. Finalmente una cosa fisicamente corretta, direte. Si, è vero. Ero contento.

La gioia di Watney sapendo che su Marte non c’era la suocera.

A questo punto Ridley Scott si è accorto che il suo capolavoro stava diventando un film della Disney e inserisce di prepotenza un colpo di scena. A causa di un malfunzionamento, si stacca il portellone che manteneva la base spaziale pressurizzata e con una temperatura umanamente accettabile. Infatti, la temperatura di Marte può andare da un minimo di -140 °C in “inverno” fino ad un massimo di 20 °C in “estate”. Ora, ammesso che fosse estate, comunque il nostro astronauta sfortunato si ritrovava a dover risolvere il problema della forte differenza di pressione (pari circa ad una atmosfera) tra il dentro e il fuori della base spaziale. E lui ci riesce! Come? Con un telo di plastica e un po’ di scotch. È una cosa possibile? Manco per scherzo. Con una tale differenza di pressione nemmeno la colla di Giovanni Mucciaccia poteva tenere il telo ancorato alla base.

“Cos’altro potrebbe andare storto?” e si stacca il portellone.

Ah, nel frattempo si vede un bellissimo tramonto così simile a quello terrestre. Anzi, aspetta, troppo simile: il tramonto sulla Terra è rosso perché i raggi solari vengono deviati in un certo modo dalle particelle presenti nell’atmosfera, ma avendo l’atmosfera marziana densità e composizione molto differenti da quella terrestre il tramonto sarebbe dovuto apparire di colore blu-indaco.

I compagni di avventura del buon Watney vengono poi informati del fatto che lo hanno lasciato solo a marcire su Marte. Dato che si sentivano più in colpa di me quando mangio la pizza al primo giorno di dieta, allora decidono di tornare a prenderlo. Atterrare sulla Terra e ripartire costerebbe troppo e gli farebbe perdere troppo tempo, così sfruttano l’effetto fionda per prendere velocità e tornare su Marte. Questa manovra è corretta e spesso usata nei viaggi spaziali per far prendere velocità alle navicelle: in poche parole, ci si avvicina abbastanza al pianeta per essere attirati dal suo campo gravitazionale, ma non troppo da caderci dentro e schiantarsi al suolo. In questo modo, come suggerisce il nome, si viene catapultati a velocità maggiore, proprio come funzionerebbe con una fionda. Nel frattempo gli astronauti, per alcune riparazioni, si avventurano in passeggiate spaziali senza nessun tipo di imbracatura o sostegno. Tanto, se sbagli di un millimetro puoi solo fluttuare per l’eternità nello spazio, che sarà mai.

Watney è estasiato (e giustamente direi, dopo tutti quei mesi a mangiare patate). Per poter effettivamente ricongiungersi al resto dell’equipaggio, Watney necessitava, ovviamente, di una navicella: fortuna che su Marte c’era già quella destinata alla missione successiva ad Ares 3, che riesce a raggiungere grazie ad un Rover marziano vicino alla sua base. Dalla NASA, però, gli dicono che deve alleggerirlo parecchio per far sì che parta. Bene, praticamente lo smonta tutto, e la parte finale del razzo, smontata anche quella, la copre con un telo di plastica attaccato con dello scotch (si, lo so, la fantasia non è il suo forte).

Rover marziano.

Gli altri astronauti nel frattempo arrivano in soccorso e Watney parte. Piccola parentesi: sapete cosa sono quelle stelle cadenti che vedete la notte di San Lorenzo? Sono piccoli detriti che entrano nell’atmosfera terrestre e, viaggiando ad alta velocità a causa dell’attrazione gravitazionale, prendono fuoco a causa dell’attrito con l’aria. Ora, va bene che l’atmosfera marziana è molto più rarefatta di quella terrestre, ma può un telo di plastica sopportare la velocità e il calore prodotto dall’attrito dovuto dal contatto telo-atmosfera? No. Lo scotch non avrebbe retto e il telo avrebbe preso fuoco.

Il signor Scott ha voluto inserire un ultimo colpo di scena. I fisici della NASA hanno sbagliato i calcoli di 200 metri. Possono sembrare pochi, ma a quelle velocità, anche solo qualche metro può risultare decisivo. Watney non sa come raggiungere i suoi compagni. Allora gli viene l’idea: “Buchiamo la tuta, in modo da sfruttare il getto d’aria come propulsore”. Dopo essermi ripreso dallo shock, con la mia ragazza che mi assicurava che presto sarebbe finito tutto, ho analizzato la situazione. Le tute spaziali sono pressurizzate e isolanti. Se fai un buco nella tuta, oltre a morire subito di freddo, a causa della fortissima differenza di pressione i polmoni collasserebbero. Quindi, in effetti, non gli rimane che scegliere come morire.

Inoltre, ci sono due piccole e insignificanti leggi della fisica che cozzano con questa genialata: i principi di conservazione della quantità di moto e del momento angolare. Infatti, una volta bucata la tuta, Watney doveva calcolare l’angolo di uscita del getto con elevatissima precisione, perché una volta stabilita la direzione del getto d’aria (e quindi una certa direzione del moto in un sistema isolato, come lo spazio) non la si può più cambiare in virtù del fatto che la quantità di moto si conserva. La stessa cosa vale per la conservazione del momento angolare: sempre se non fosse morto subito, una volta bucata la tuta molto probabilmente avrebbe cominciato a girare intorno ad un asse del tutto casuale. Anche se avesse raggiunto il comandante della missione, che nel frattempo si era fiondata a prenderlo, avrebbero cominciato a girare insieme senza riuscire a fermarsi, come nel tagadà della fiera. Tutto ciò perché lo spazio è vuoto e non si ha l’attrito.

Alla fine il nostro eroe, dopo mille peripezie, torna sano e salvo a casa ad insegnare come sopravvivere mangiando patate su Marte.

Nonostante i continui mancamenti durante la visione del film, devo dire che tutto sommato mi è piaciuto. Pieno di errori, certo, ma da un film di Hollywood non pretendo l’accuratezza scientifica dei documentari di Alberto Angela. Quindi gustatevelo, ma con occhio critico… da fisico.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Perché il cielo di notte è buio nonostante le stelle siano infinite?

Il paradosso di Olbers, proposto dall’astronomo tedesco a cui deve il nome nel 1826, ci pone davanti a una delle, apparentemente banali, domande che tutti ci siamo fatti almeno una volta, magari in una calda notte di mezza estate passata a guardare le stelle. 

Di cosa parla questo paradosso?

Heinrich Wilhelm Olbers propose il paradosso nel XIX secolo sotto condizioni particolari di natura ipotetica. L’universo era considerato come infinito, esistente da tempo infinito, immutabile, omogeneo e isotropo (le stelle sono disposte in modo uniforme nello spazio).

Mettendo tutte queste condizioni insieme abbiamo che:

  • se l’universo fosse infinito, dovrebbero esistere un numero infinito di stelle;
  • se esistesse da tempo infinito, la luce di tutte le stelle esistenti dovrebbe essere visibile da tutti i punti dell’universo;
  • se fosse omogeneo e isotropo sarebbero distribuite uniformemente in ogni punto dello spazio.

Quindi, con queste condizioni di universo statico, noi dovremmo vedere nel cielo una luce continua in ogni direzione dell’universo, il cielo dovrebbe essere infinitamente luminoso in ogni direzione.

Animazione che raffigura il paradosso

E allora perché il cielo è buio?

Nonostante le affermazioni di prima, sull’impossibilità di stabilire perché il cielo sia buio, furono proposte tante soluzioni tutte molto valide. Tuttavia, l’unica vera risposta, per quanto ancora discussa, si trova nella teoria del Big Bang formulata da Alexander Friedmann nel 1929 e completata da George Gamow nel 1940. La teoria ci dice che l’universo non è infinito ed esiste da un tempo finito. Non esistono infinite stelle e nemmeno da tempo infinito. L’Universo esisterebbe da circa 13 miliardi di anni e, secondo le teoria, ha avuto inizio con un esplosione di una luminosità elevatissima che ha ricoperto tutto lo spazio esistente (tutto lo spazio esistente in quel momento era un singolo punto), fino a espandersi insieme all’universo stesso. Quindi la luce dovrebbe essere visibile in tutto l’universo, visto che si muove insieme all’espansione fin dall’inizio;

Allora perché non la vediamo?

In realtà è ben visibile solo che l’occhio umano non è in grado di di vederla, perché con l’espansione anche la luce si è ‘stirata’, passando dallo spettro visibile a quello delle microonde; questa traccia è chiamata radiazione cosmica di fondo e fu misurata per la prima volta nel 1965 da Arno Penzias e Robert Wilson, che nel 1978 vinsero il Nobel per la scoperta.

Immagine della radiazione cosmica di fondo

A oggi le migliori osservazioni sono dovute al progetto WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA conosciuto anche come sonda spaziale per l’anisotropia (proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica come la velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc. dipende dalla direzione che si considera) delle microonde, Microwave Anisotropy Probe (MAP).

Questa era solo una delle tante teorie che prova a risolvere il paradosso, spero di avervi stimolato ad osservare il cielo notturno con occhi diversi!

Gabriele Galletta

NASA: “Domani un asteroide passerà vicino alla Terra”. Lo sguardo della fisica, tra verità ed allarmismi

Un asteroide classificato come “potenzialmente pericoloso”, ma che di pericoloso ha solo il nome, sta per passare nei nostri cieli: gli esperti rassicurano

Il 4 marzo 2020 la NASA ha comunicato al mondo con un tweet l’imminente passaggio di un asteroide vicino alla Terra.

Infatti il 29 aprile 2020, l’asteroide (52768) 1998 OR2, con un diametro stimato tra i 2 e i 4 chilometri, passerà a circa 6 milioni di chilometri di distanza dalla Terra, alla velocità di 8.7 chilometri al secondo.

Molti i commenti sui social di allarme e preoccupazione, ma Gianluca Masi, responsabile del Virtual Telescope Project di Roma, assicura che “(l’asteroide, ndr) marcerà a una distanza pari a più di 16 volte di quella media che separa la Terra dalla Luna. Non c’è, quindi, alcuna ragione di allarmarsi perché non esiste alcun rischio di collisione”. Infatti, nonostante le notevoli dimensioni, l’asteroide passerà comunque ad una distanza tale da non impensierire gli esperti, che anzi vogliono cogliere l’occasione per osservare il fenomeno da vicino.

È stato stimato, inoltre, che l’osservazione del passaggio dell’asteroide sarà possibile dall’Italia alle ore 10:56 del mattino, con un semplice binocolo.

Anche l’Italia, che vanta la presenza di un centro ESA (European Space Agency) a Frascati, è in grado di monitorare gli asteroidi vicini all’orbita terrestre, calcolando la loro probabilità di impattare col nostro pianeta.

È noto agli esperti come fenomeni del genere non siano di certo eventi rari. Infatti, attorno a Marte sono presenti una miriade di asteroidi, i quali formano quella che è conosciuta come la principale della fascia di Kuiper.

Questa è una regione toroidale che si estende da Nettuno fino a Marte, ma la maggior parte degli asteroidi, tra cui alcuni protopianeti (quali Cerere, Vesta, Pallade e Igea), orbitano nella fascia principale, collocata tra Marte e Giove.

Le teorie sulla formazione di tale fascia sono diverse: la più accreditata afferma che essa si sia formata all’origine del Sistema Solare, a causa della forte attrazione gravitazionale esercitata da Giove sulle particelle di pulviscolo presenti, la quale non permetteva di aggregarsi e quindi di formare pianeti. Ed è sempre grazie a Giove, e alla sua forte attrazione gravitazionale, che gli asteroidi non giungono facilmente sul pianeta Terra. Giove, quindi, si presta ad essere quasi come un fratello maggiore che protegge il piccolo pianeta Terra.

Quindi tutti col naso all’insù, puntando il nostro sguardo verso il cielo, pronti a godere di uno spettacolo unico e irripetibile.

Giovanni Gallo

Broomstick Challenge: allineamento dei pianeti? Risponde la NASA

La nuova sfida social che ha stregato il web: ma la NASA interviene e smentisce

Fonte: Wired, 2020

Facebook, TIkTok, Twitter, YouTube: tutto il mondo social è impazzito, negli ultimi giorni, per la nuova global challenge. Si, perché la #BroomstickChallenge, la nuova sfida in cui si prova a far rimanere una scopa in equilibrio senza bisogno di supporto, ha stuzzicato l’estro scientifico di piccoli e grandi aspiranti fisici.

Il 10 febbraio 2020 è uscita una notizia direttamente dalla NASA: una volta ogni 3500 anni, per via di uno straordinario fenomeno nel nostro Sistema Solare, l’asse terrestre ha una inclinazione tale da…permettere a delle scope di rimanere in piedi da sé! Pensate che sia tutto molto strano e fantascientifico? Infatti lo è, e lo afferma la stessa Agenzia Spaziale americana, smorzando, con un video ufficiale su Twitter , l’entusiasmo dei più fantasiosi.

Fonte: Wired.it, 2020

Nel video, infatti, la NASA afferma: “Provateci oggi, domani o anche dopodomani. Funzionerà ogni volta, è solo questione di fisica”. Il trucco sta nel concetto di baricentro, campo della meccanica dei corpi rigidi. Ma come funziona?

Il baricentro, detto anche centro di massa, è il punto geometrico al quale corrisponde il valore medio della distribuzione della massa del sistema dove, cioè, può idealmente concentrarsi tutta la massa dell’intero sistema e, di conseguenza, il punto in cui si applica la forza di gravità.

Nel caso della nostra scopa, il baricentro è molto basso, in quanto la parte con le setole è più pesante del bastone. Se si riesce a trovare una posizione tale da far passare la retta di applicazione della forza di gravità dalla base della scopa, ponendola in modo simile ad un treppiedi, si può raggiungere la posizione di equilibrio, senza la necessità di particolari fenomeni cosmologici.

Per comprendere meglio questo fenomeno meccanico basti pensare alla Torre di Pisa: il campanile toscano, famoso per la sua pendenza, è il più chiaro esempio di come, se la retta di applicazione della forza di gravità passa per la base della struttura, il sistema rimane in equilibrio.

Che dire, nulla di strano…è solo fisica!

Giovanni Gallo

Lo studente di informatica, agitare bene prima dell’uso

Chi siamo? Da dove veniamo? C’è vita dopo la morte? Possono sopravvivere i neuroni ad una puntata di Temptation Island? Ma soprattutto, esiste qualcuno più stressato di un informatico? Se alle prime 4 domande la scienza non è ancora stata in grado di rispondere, la risposta all’ultima ve la do io: più stressato di un informatico c’è solo lo studente di informatica!

E se pensate che districarsi tra funzioni differenziali, derivate parziali e integrali doppi e tripli sia quanto di più terribile possa affrontare il malcapitato, vi sbagliate di grosso! Le domande di un orale di ingegneria sono bazzecole in confronto a quelle che un ‘non addetto ai lavori‘ pone costantemente al nostro povero studente.

meme-informatica

UniVersoMe, solo per voi, presenta:

LE 5 DOMANDE DA NON FARE AD UNO STUDENTE DI INFORMATICA

1.Ma tu che sei informatico…mi aggiusti il computer?

Partiamo con un evergreen. È questo il momento in cui puoi dichiararti ufficialmente studente di informatica. Non l’immatricolazione, non la prima lezione e neanche il primo esame dato. Chiariamo una cosa: non sono Bill Gates, non so perché il tuo portatile si sia bloccato al 16% degli aggiornamenti automatici, non so perché sia fermo su quella ‘schermata blu con scritto errore’ né tanto meno perché non si accenda più. Sì, ci so fare con i computer, ma questo non vuol dire che conosca la soluzione ad ogni problema (se controlli la mia carta d’identità il mio nome non è Google… e neanche Salvatore Aranzulla). E comunque, dammi ‘sto portatile che te lo formatto e torna tutto come nuovo.  

2. Ma tu che sei informatico…non è che sai come installare Office?

Sì, certo, le mie 21 materie nel piano di studi servono proprio a questo, a installare Microsoft Office sul tuo pc. È sempre stato il mio sogno; fin da bambino immaginavo il momento in cui, con la mia meravigliosa e sudatissima laurea in Ingegneria Informatica, avrei potuto scaricare e poi installare Office 2010 su tutti i computer del mondo. Non vedo l’ora di iniziare il corso di laurea magistrale per imparare ad installare anche Adobe Photoshop.                                                                                                                                                                     

3. Ma tu che sei informatico…riesci ad entrare nei computer degli altri?Io vedo Mr.Robot e lui lo fa sempre!

Beh, sfatiamo un mito: di tutte le cose che vedete nei film sull’informatica solo uno scarso 15% è verità. Per esempio non è che gli hacker sono cool come in TV e lavorano davanti a schermate nere con scritte verdi e toccando un quantitativo immenso di tasti a caso riescono ad entrare sul sito della Nasa e lanciare razzi in giro per lo spazio. No. Assolutamente no. Non funziona così.                                                                                                 

4. Ma tu che sei informatico…mi si è rotto lo schermo del cellulare e mi hanno chiesto 250 euro, lo sai smontare e riparare, no?

No, ti ricordi della magistrale in ‘Installazione Photoshop‘? Se prima non termino la specialistica non mi posso iscrivere nel master in ‘Riparazione schermi Iphone‘. Però te lo giuro, questione di mesi e mi immatricolo.                                                                                                                                                                                               

5. Ma tu che sei informatico…mi è venuta un’idea. Puoi hackerare Esse3 e convalidarmi tutte le materie?

Ma secondo te, se io fossi capace di fare tutto ciò sarei ancora qui a farmi Centro-Papardo tutte le mattine? A correre per prendere mezzi pieni di gente che nel 2018 non ha ancora scoperto l’esistenza del sapone? Ma soprattutto, se fossi in grado di entrare sul sito dell’Università e convalidarmi tutte le materie, secondo te, passerei ancora ogni giorno della mia vita a rispondere a tutti i cretini come te che mi fanno questo genere di domande?! 

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Scusate lo sfogo, ora posso tornare sui libri o a “smanettare al pc” da bravo nerd, come quasi sicuramente penserà la maggior parte di voi. E no, non me la prendo con nessuno di voi, in fondo è solo colpa mia. Avrei dovuto sapere sin dall’inizio a cosa sarei andato incontro. Comunque, se può consolarvi, sarete anche uno stress, ma lo stress più divertente che conosca! Se rifarei questa scelta? Certo! Analisi, matematica, fisica, nipoti parenti tombola a natale e mal di testa ricorrenti e tutto questo per un “ma tu che sei informatico“…