I segreti di Sagittarius A*: Fotografato il buco nero al centro della via lattea

Gli scienziati sono riusciti a fotografare per la prima volta il buco nero Sagittarius A* al centro della Via Lattea, la nostra galassia. Una scoperta sensazionale, che conferma la teoria della relatività generale di Einstein.

Indice dei contenuti:

Cos’è un buco nero?

La scoperta

Differenze con M87

L’immagine

Metodologie della scoperta

Futuro

Conclusione

Cos’è un buco nero

Il buco nero è un luogo nello spazio in cui la gravità è talmente attrattiva che nemmeno la luce può uscirne. Questo perché la materia è stata schiacciata in uno spazio minuscolo e ciò può accadere quando una stella sta morendo. Abbiamo già affrontato una spiegazione più dettagliata in un precedente articolo.

Fonte https://tg24.sky.it/

La scoperta

Durante le cinque notti nell’aprile 2017, la collaborazione EHT, ha utilizzato otto osservatori in tutto il mondo per raccogliere dati sia dal buco nero della Via Lattea sia da M87*. Le posizioni dell’osservatorio andavano dalla Spagna al Polo Sud e dal Cile alle Hawaii. Hanno raccolto quasi 4 petabyte (4.000 terabyte) di dati che, essendo troppi per poter viaggiare su internet, sono stati trasportati in aereo su dischi rigidi.

Differenze con il precedente buco nero della galassia M87

I dati di Sagittarius A* erano più difficili da analizzare. I due buchi neri hanno all’incirca la stessa dimensione apparente nel cielo, perché M87* è quasi 2.000 volte più lontano ma circa 1.600 volte più grande. Qualsiasi massa di materia che ruota attorno a M87* copre distanze molto maggiori, più grandi dell’orbita di Plutone attorno al Sole, e la radiazione che emettono è essenzialmente costante su scale temporali brevi. Ma Sagittarius A* può variare rapidamente, anche in poche ore. “In M87*, abbiamo visto pochissime variazioni in una settimana […] Sagittarius A* varia su scale temporali da 5 a 15 minuti”, afferma Heino Falcke, co-fondatore della collaborazione EHT ed astrofisico della Radboud University di Nijmegen, nei Paesi Bassi.

Fonte:
https://www.focus.it/scienza

L’immagine

A causa di questa variabilità, il team EHT ha generato non un’immagine del Sagittarius A*, ma migliaia, la cui immagine svelata qualche giorno fa, è la risultante di molte elaborazioni. Oltre a mostrare un anello di radiazione attorno a un disco più scuro, l’immagine elaborata conteneva tre “nodi” più luminosi. “Vediamo nodi in tutte le immagini che abbiamo creato”, dice Issaoun, astrofisico dell’Harvard and Smithsonian Center for Astrophysics a Cambridge, Massachusetts “ma ognuna aveva i nodi in punti diversi. I nodi mediati che appaiono nell’immagine sono probabilmente artefatti della tecnica di interferometria utilizzata dall’EHT”.

Ricostruisce le immagini da una parabola radiofonica idealizzata delle dimensioni della Terra, ma in cui solo minuscoli frammenti della parabola sono in grado di acquisire dati in un determinato momento. L’aspetto è diverso da quello di M87*, per il quale la regione più luminosa nell’immagine aveva una forma più a mezzaluna, il che potrebbe indicare una massa di materia più densa che viene accelerata lungo la direzione della linea di vista. Come affermato da Gomez, il team EHT ha condotto simulazioni di supercomputer per confrontare i propri dati. Ha così concluso che il Sagittarius A* sta probabilmente ruotando in senso antiorario lungo un asse che punta all’incirca lungo la linea di vista della Terra.

FONTE: https://tech.ifeng.com/

“Quello che mi fa impazzire è che lo stiamo vedendo di fronte”, dice Regina Caputo, astrofisica al Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland.

Il telescopio spaziale Fermi Gamma-ray della NASA, con cui Caputo lavora, aveva precedentemente rilevato gigantesche caratteristiche luminose sopra e sotto il centro della galassia, che potrebbero essere state prodotte dal Sagittarius A* durante periodi di intensa attività in passato. Ma quelle caratteristiche, note come bolle di Fermi, sembrano richiedere che la materia ruoti attorno al buco nero di taglio, piuttosto che di fronte, come si vede dalla Terra.

Metodologie della scoperta

Il Sagittarius A* è praticamente invisibile ai telescopi ottici a causa della polvere e del gas sul disco galattico. Ma a partire dalla fine degli anni ’90, Falcke e altri, si sono resi conto che l’ombra del buco nero poteva essere abbastanza grande da essere ripresa con brevi onde radio in grado di perforare il velo. Ma i ricercatori hanno calcolato che ciò avrebbe richiesto un telescopio delle dimensioni della Terra. Fortunatamente, la tecnica  dellinterferometria, che  implica il puntamento simultaneo di più telescopi lontani sullo stesso oggetto, potrebbe rivelarsi utile perchè, in effetti, i telescopi funzionano come frammenti di una grande parabola (vedi immagine di seguito).

Mappa illustrativa della costituzione dell’EHT ©Jacopo Burgio

I primi tentativi di osservare il Sagittarius A* con l’interferometria, hanno utilizzato onde radio di 7 millimetri relativamente lunghe e osservatori a poche migliaia di chilometri di distanza. Tutti gli astronomi potevano vedere un punto sfocato. I team di tutto il mondo hanno quindi perfezionato le loro tecniche e adattato i principali osservatori che sono stati aggiunti alla rete. In particolare, i ricercatori hanno adattato il South Pole Telescope e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile da 1,4 miliardi di dollari per svolgere il lavoro. Nel 2015, i gruppi hanno unito le forze come collaborazione EHT. La loro campagna di osservazione del 2017 è stata la prima a coprire distanze abbastanza lunghe da risolvere dettagli come le dimensioni del Sagittarius A*.

Futuro

Feryal Özel, astrofisico dell’Università dell’Arizona a Tucson, in una intervista svoltasi a Washington, ha affermato che il prossimo obiettivo del progetto è generare un filmato del buco nero per saperne di più sulle sue proprietà fisiche.

I ricercatori sperano di scoprire se Sagittarius A* ha i getti astrofisici. Molti buchi neri, incluso M87*, mostrano due fasci di materia che escono rapidamente in direzioni opposte. Essi sono ritenuti il ​​risultato dell’intenso riscaldamento del gas in caduta e alimentati dalla rotazione del buco nero. Il Sagittarius A* potrebbe aver avuto grandi getti in passato, come suggeriscono nubi di materia riscaldate sopra e sotto il centro galattico. I suoi getti sarebbero ora molto più deboli, ma la loro presenza potrebbe rivelare dettagli importanti sulla storia della nostra Galassia. “Questi getti possono inibire o indurre la formazione stellare, possono spostare gli elementi chimici in giro” e influenzare l’evoluzione di un’intera galassia […] e ora stiamo guardando dove sta succedendo.” afferma Falcke.

Conclusione

Ciò che abbiamo osservato non è una scoperta fine a se stessa, poichè avrà certamente implicazioni nel domani e nelle tecnologie future della vita di tutti i giorni. Quindi non ci resta che aspettare con il naso puntato all’insù.

Livio Milazzo & Gabriele Galletta

Fonti: Nature,   Eso

Basi del DNA nei meteoriti: siamo davvero figli delle stelle?

Le 5 basi azotate del DNA e dell’RNA, sono state ritrovate in frammenti di meteoriti. Gli scienziati, in passato, erano riusciti a trovare solo tre di esse (adenina, guanina e uracile). Tuttavia, qualche giorno fa, un team di ricercatori giapponesi affiancato dalla Nasa, è riuscito ad osservare anche le ultime due mancanti (citosina e timina), che probabilmente erano sfuggite alle precedenti analisi.

DNA e RNA

DNA e RNA sono gli acidi nucleici che costituiscono il materiale ereditario. Il primo è formato da quattro basi azotate: adenina, timina, citosina e guanina. Il seconda differisce invece per la presenza dell’uracile al posto della timina. Inoltre, il DNA presenta un doppio filamento e possiede come zucchero il desossiribosio, mentre l’RNA è a singolo filamento e vanta la presenza di ribosio. Entrambe le molecole sono costituite da basi azotate. Queste hanno un doppietto elettronico sull’atomo di azoto, ragion per cui manifestano delle proprietà basiche.

www.chimica-online.it

Le basi azotate

Le basi azotate sono parte costituente degli acidi nucleici insieme ad uno zucchero e al fosfato. Esse sono: adenina, timina, citosina, guanina e uracile. Si distinguono in purine (adenina e guanina) e pirimidine (timina, citosina e uracile) a seconda che si tratti di molecole a doppio o a singolo anello eterociclico azotato. Possiamo quindi considerarle come gli “ingredienti” alla base di qualsivoglia forma di vita sulla Terra.

La scoperta delle prime 3 basi azotate nei meteoriti

Circa 50 anni fa, dei ricercatori avevano già individuato la presenza di adenina, guanina e uracile in alcuni frammenti di meteoriti. La tecnica utilizzata prevedeva l’immersione dei frammenti in una soluzione contenente acido formico, un acido carbossilico con forte proprietà corrosiva e riducente, a temperature elevate. Citosina e timina devono essere “sfuggite” all’osservazione per via della loro natura facilmente degradabile.

www.meteorologiaenred.com

La scoperta delle basi mancanti

Recentemente, un gruppo di scienziati giapponesi dell’Università di Hokkaido, con a capo il geochimico Yasuhiro Oba ed in collaborazione con alcuni scienziati della Nasa, è riuscito ad elaborare una tecnica per estrarre le basi mancanti. Il gruppo di ricercatori, dopo una serie di tentativi, è riuscito ad individuare le due basi mancanti all’appello utilizzando una soluzione più fredda, così da evitare che timina e citosina si degradassero. Per l’esperimento, ha usato campioni di tre meteoriti diversi: Murray, caduto in Kentucky nel 1950, Murchison, rinvenuto in Australia nel 1969 e Tagish Lake, arrivato nella British Columbia nel 2000. I frammenti sono stati trattati utilizzando una tecnica di cromatografia liquida ad alta prestazione, accompagnata da una particolare spettrometria di massa, come si legge nello studio pubblicato su Nature.

Conclusioni

Insomma, col DNA ci abbiamo fatto di tutto. Siamo riusciti ad analizzarlo, estrarlo, clonarlo, eppure non siamo ancora riusciti a capire da dove derivi. Danny Glavin, co-autore dello studio presso la Nasa, afferma:

“Ora abbiamo le prove che il set completo delle basi azotate, componente della vita oggi, avrebbe potuto essere disponibile sulla Terra quando la vita è emersa.

Oggi non disponiamo delle tecnologie che provino con certezza da dove possa derivare la vita sulla Terra. Certo è però che questa scoperta rappresenta davvero una svolta: per citare Alan Sorrenti, magari siamo davvero figli delle stelle!

 Francesca Aramnejad

Per approfondire:

https://www.focus.it/scienza/scienze/vita-sulla-terra-fu-portata-dalle-meteoriti

https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/spazio_astronomia/2022/04/28/nei-meteoriti-tutte-le-lettere-dellalfabeto-della-vita_895555ff-3c68-4154-aa5e-4c569828dbe8.html

https://www.nature.com/articles/s41467-022-29612-x#:~:text=In%20addition%20to%20previously%20detected,and%206%2Dmethyluracil%2C%20respectively.

Un viaggio di 13 miliardi di anni: rilevata la luce della stella più lontana di sempre

Il telescopio spaziale Hubble della NASA ha stabilito un nuovo straordinario record: rilevare la luce di una stella esistita nel primo miliardo di anni dopo la nascita dell’Universo nel big bang, la stella più lontana mai vista fino ad oggi. Hubble detiene anche il record per la galassia più distante mai osservata. La sua luce ha impiegato 13,4 miliardi di anni per raggiungere la Terra.

Indice:

Le caratteristiche

La scoperta è un enorme salto indietro nel tempo rispetto al precedente detentore del record, rilevato da Hubble nel 2018. Quella stella esisteva quando l’Universo aveva circa 4 miliardi di anni (il 30% della sua età attuale), in un momento chiamato “redshift 1,5“. Gli scienziati usano la parola “redshift” perché mentre l’Universo si espande, la luce proveniente da oggetti distanti viene “spostata” a lunghezze d’onda più lunghe e più rosse mentre viaggia verso di noi. Si pensi che la luce di Icaro, la super gigante blu che in passato aveva detenuto il record, ha impiegato 9 miliardi di anni per raggiungere la Terra.

Immagine esplicativa sul Redshift Cosmologico e su come contribuisce alle informazioni del passato dell’Universo. ©Jacopo Burgio

La stella appena rilevata è Earendel, ma non è da confondere con la più antica mai conosciuta, battezzata nel 2013 con il nome ‘’Matusalemme’’. Essa è  così lontana che la sua luce ha impiegato 12,9 miliardi di anni per raggiungere la Terra, apparendoci come quando l’Universo aveva solo il 7% della sua età attuale, con redshift di 6,2. Gli oggetti più piccoli visti in precedenza a una distanza così grande sono ammassi di stelle, incorporati all’interno delle prime galassie dell’universo.

La scoperta

All’inizio non ci credevamo quasi, era molto più lontano della precedente stella più distante e con redshift più alto“, ha detto l’astronomo Brian Welch della Johns Hopkins University di Baltimora, autore principale del documento che descrive la scoperta, pubblicata sulla rivista Nature del 30 marzo. La scoperta è stata fatta grazie ai dati raccolti durante il programma RELICS (Reionization Lensing Cluster Survey) di Hubble, guidato dal coautore Dan Coe presso lo Space Telescope Science Institute (STScI), sempre a Baltimora. Welch afferma: “Normalmente a queste distanze, intere galassie sembrano piccole macchie, con la luce di milioni di stelle che si fonde insieme […]  La galassia che ospita questa stella è stata ingrandita e distorta dalla lente gravitazionale in una lunga mezzaluna che abbiamo chiamato Sunrise Arc“.

Dopo aver studiato in dettaglio la galassia, Welch ha scoperto una stella estremamente ingrandita che ha chiamato Earendel che significa “stella del mattino“. Ciò promette di aprire un’era inesplorata di formazione stellare molto precoce.  Welch spiega: “Earendel esisteva così tanto tempo fa che potrebbe non avere avuto tutte le stesse materie prime delle stelle che ci circondano oggi […] Lo studio di Earendel sarà una finestra su un’era dell’Universo che non conosciamo, ma che ha portato a tutto ciò che sappiamo. È come se avessimo letto un libro davvero interessante, ma abbiamo iniziato con il secondo capitolo e ora avremo la possibilità di vedere come è iniziato tutto“.

Un caso fortuito

Il team di ricerca stima che Earendel sia almeno 50 volte la massa del nostro Sole e milioni di volte più luminoso, rivaleggiando con le stelle più massicce conosciute. Ma anche una stella così brillante e di massa molto elevata sarebbe impossibile da vedere a una distanza così grande senza l’aiuto dell’ingrandimento naturale di un enorme ammasso di galassie, WHL0137-08, che si trova tra noi ed Earendel. La massa dell’ammasso di galassie deforma il tessuto dello spazio, creando una potente lente d’ingrandimento naturale (effetto lente gravitazionale), che distorce e amplifica notevolmente la luce proveniente da oggetti distanti dietro di essa.

Questa vista dettagliata evidenzia la posizione della stella Earendel lungo un’increspatura nello spazio-tempo (linea tratteggiata) che la ingrandisce e rende possibile il rilevamento della stella su una distanza così grande, quasi 13 miliardi di anni luce. Viene anche indicato un ammasso di stelle che si specchia su entrambi i lati della linea di ingrandimento. La distorsione e l’ingrandimento sono creati dalla massa di un enorme ammasso di galassie situato tra Hubble ed Earendel. La massa dell’ammasso di galassie è così grande che deforma il tessuto dello spazio, e guardare attraverso quello spazio è come guardare attraverso una lente d’ingrandimento: lungo il bordo del vetro o della lente, l’aspetto delle cose sull’altro lato è deformato come oltre che ingrandito. Credits: Science: NASA, ESA, Brian Welch (JHU), Dan Coe (STScI); Image processing: NASA, ESA, Alyssa Pagan (STScI)

Uno zoom naturale

Grazie al raro allineamento con l’ammasso di galassie ingrandito, Earendel appare direttamente o estremamente vicina ad una increspatura nel tessuto dello spazio. Questa ondulazione, definita in ottica “caustica“, fornisce il massimo ingrandimento e schiarimento. L’effetto è analogo alla superficie increspata di una piscina che crea motivi di luce brillante sul suo fondo in una giornata di sole. Le increspature sulla superficie fungono da lenti, che concentrano la luce solare sulla massima luminosità sul fondo della piscina. La caustica fa emergere Earendel dal bagliore generale della sua galassia natale. La sua luminosità è ingrandita mille volte o più. Gli astronomi non sono ancora in grado di determinare se si tratta di una stella binaria, nonostante la maggior parte delle stelle massicce abbia almeno una stella compagna più piccola.

Conferma con il telescopio James Webb

Gli studiosi e i ricercatori si aspettano che Earendel rimarrà molto ingrandito per gli anni a venire. Sarà, inoltre, osservato dal telescopio spaziale James Webb della NASA. La sua elevata sensibilità alla luce infrarossa è necessaria per saperne di più. Infatti, la sua luce è allungata (spostata verso il rosso) a lunghezze d’onda infrarosse più lunghe a causa dell’espansione dell’Universo. “Con Webb ci aspettiamo di confermare che Earendel è davvero una stella, oltre a misurarne la luminosità e la temperatura”, ha affermato Coe. Questi dettagli ne restringeranno il tipo e lo stadio nel ciclo di vita stellare.Ci aspettiamo anche di scoprire che la galassia Sunrise Arc è priva di elementi pesanti che si formano nelle generazioni successive di stelle. Ciò suggerirebbe che Earendel è una stella rara e massiccia povera di metalli“.

Perché è così importante?

La composizione di Earendel sarà di grande interesse per gli astronomi, perché si è formata prima che l’Universo fosse riempito con gli elementi pesanti prodotti dalle successive generazioni di stelle massicce. Se studi di follow-up scoprissero che Earendel è composto solo da idrogeno ed elio primordiali, sarebbe la prima prova per le leggendarie stelle di Popolazione III. Esse si ipotiza che siano le primissime stelle nate dopo il big bang. Sebbene la probabilità sia piccola, Welch ammette che: “Con Webb, potremo vedere stelle anche più lontane di Earendel, il che sarebbe incredibilmente eccitante. Andremo il più indietro possibile. Mi piacerebbe vedere Webb battere il record di distanza di Earendel“.

Nonostante appaia surreale, uno dei modi migliori per studiare il futuro del nostro Universo è apprenderne il passato e, grazie a queste stelle, è possibile farlo.

Gabriele Galletta

 

Fonte: Nasa

Artemis 1: il ritorno dell’uomo sulla Luna

19 dicembre 1972. Questa la data dell’ultima missione che ha portato l’uomo sulla Luna: l’Apollo 17. Fu un’operazione piena di record. Si tratta, infatti, del soggiorno più lungo sulla superficie del nostro satellite, caratterizzato dalla più alta quantità di campioni mai raccolti.
Dopo quasi mezzo secolo dall’evento, si realizza in questi giorni un nuovo progetto, finalizzato a riportare gli esseri umani sulla Luna entro il 2026.
Si apre, dunque, una nuova fase dell’esplorazione spaziale e l’interesse mondiale per il satellite aumenta.

INDICE

  1. Tre missioni, un obiettivo
  2. Artemis 1
  3. Una piattaforma di lancio storica
  4. Il razzo più potente mai utilizzato
  5. Un nome orbitante
  6. 2022: gli ospiti della Luna aumentano

Tre missioni, un obiettivo

Tra i vari progetti che interessano lo studio del nostro satellite, la missione Artemis pone le basi ad una nuova fase dell’esplorazione spaziale. Gli obiettivi sono di creare una base sulla Luna e realizzare l’hardware per i primi voli su Marte, programmati dopo il 2030.
La missione si compone di tre parti: la prima, Artemis 1, è pronta per prendere un volo automatico verso la Luna nei prossimi mesi. Nel 2024, invece, saranno tre gli astronauti pronti ad effettuare la missione Artermis 2. Verrà condotta attorno al satellite, senza tuttavia atterrarvi.  Nel 2026 si avrà, infine, il primo sbarco effettivo di Artemis e, l’anno successivo, la quarta missione permetterà di trasferire sul suolo lunare un cargo automatico.

Artemis 1

Questa missione sarà la prima di una serie di spedizioni sempre più complesse, per costruire, nei decenni successivi,  una presenza umana a lungo termine sulla Luna.
Non conosciamo con esattezza la data del primo lancio. È stato confermato dalla NASA che questo avverrà tra fine maggio e metà giugno. A tal riguardo Tom Whitmer, vicedirettore per lo sviluppo dei sistemi di esplorazione presso la NASA, ha comunicato:

Continuiamo a valutare la finestra di maggio, ma sappiamo che c’è molto lavoro da fare e potremmo slittare ancora.


In questa prima missione, a bordo del razzo, non vi saranno astronauti ma manichini.
Artemis 1 durerà 26 giorni e la navicella raggiungerà la distanza di 450.000 chilometri dalla Terra, ben oltre la Luna (che dista 384.000 chilometri). Volerà, dunque, più lontano di qualsiasi veicolo spaziale costruito dall’uomo fin ora.

https://www.google.com

Una piattaforma di lancio storica

Il decollo avverrà dal Kennedy Space Center della NASA, in Florida.
La piattaforma di lancio, il Launch Complex 39 B, ha una storia interessante.
Si tratta, infatti, della seconda rampa di lancio del Launch Complex 39, progettato per il decollo di quello che all’epoca era considerato il razzo più potente degli Stati Uniti (Saturn V). Il Launch Complex 39 B, in particolare, permise il lancio dell’Apollo 10, delle missioni Skylab, Apollo-Sojuz e di buona parte degli Space Shuttle.

https://commons.wikimedia.org

Il razzo più potente mai utilizzato

Il veicolo spaziale della missione Artemis I verrà lanciato con il razzo più potente del mondo, che circa una settimana fa ha raggiunto la piattaforma 39 B.
È in grado di portare in orbita terrestre bassa 75 tonnellate. Le future versioni, che verranno utilizzate nelle missioni seguenti potranno invece immettere in orbita fino a 150 tonnellate.
Orion, la navicella utilizzata durante la missione, passerà nello spazio più tempo di qualsiasi altra astronave e tornerà sulla Terra più rapidamente e con temperature mai raggiunte.
Il veicolo spaziale rimarrà in orbita con la Luna circa sei giorni, così da raccogliere dati e valutare le prestazioni dello stesso. Verrà poi eseguito un altro sorvolo ravvicinato, che porterà la navicella entro 100 km dalla superficie lunare. Sarà questa manovra a riportarla sulla traiettoria verso la Terra.
Quando rientrerà nell’atmosfera la sua velocità sarà pari a a 11 km/s, con una temperatura di circa 2760°C.
L’atterraggio della capsula dovrebbe avvenire al largo della costa della Bassa California, atteso dai subacquei della Marina degli Stati Uniti e dalle squadre operative della NASA Exploration Ground Systems.

https://bfcspace.com

Un nome orbitante

Caratteristica particolare di questa missione è l’inclusione del resto della popolazione mondiale nella stessa. È possibile registrarsi sul sito web della NASA e mandare il proprio nome intorno alla Luna cliccando qui. Nome e cognome saranno conservati su una memoria USB che volerà a bordo dell’Artemis 1 intorno al satellite terrestre. La procedura prevede l’inserimento dei propri dati e di un PIN personalizzato per generare la tua carta d’imbarco.
È, dunque, possibile divenire ospite virtuale della missione Artemis 1. In questo modo si riceveranno le ultime notizie ufficiali dalla NASA riguardo a questa missione nella casella di posta elettronica.

2022: gli ospiti della Luna aumentano

Il 2021 sarebbe dovuto essere uno degli anni più interessanti per quanto riguarda l’esplorazione lunare. Avrebbero dovuto aver luogo ben sei missioni verso il satellite. Nessuna di queste, tuttavia, è stata effettuata.
Sono state rimandate all’anno in corso, con l’aggiunta di quattro missioni già programmate.
Oltre Artemis 1, quest’anno verranno effettuate nove operazioni sul satellite (CAPSTONE, IM-1, IM-2, Luna-25, Chandrayaan, Mission One, KPLO, SLIM e Hakuto-R). Possiamo osservare come nuovi Paesi si stiano interessando negli ultimi anni alle esplorazioni spaziali. Oltre USA e Russia, che in quest’ambito vantano una storia ricca di spedizioni, Corea del Sud, Giappone e India manderanno in orbita quest’anno progetti da loro sperimentati, con tecnologie d’avanguardia.

L’interesse dell’uomo si rivolge ancora una volta alla Luna. La costruzione di una base stabile sul satellite pare essere un punto di partenza per esplorazioni spaziale più lontane all’interno del Sistema Solare.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

 

Ai confini del mondo: dove finisce il pianeta Terra?

Il pianeta Terra, un luogo così ospitale e pullulante di vita, è stato fin dall’alba dei tempi una  piccola roccaforte per la specie umana, immersa nelle profondità dell’Universo oscuro. In effetti, ci sentiamo talmente protetti da dimenticare di star fluttuando all’interno di uno spazio cosmico di dimensioni inimmaginabili. Basterebbe semplicemente mettere il naso fuori dal guscio gassoso che ci protegge per finire polverizzati in pochi secondi.

Proprio qui nasce l’interrogativo: dove finisce la Terra, e dove inizia lo Spazio?
Una domanda apparentemente banale, che però non trova una risposta univoca.

  1. Com’è formato il pianeta Terra?
  2. Strati che compongono l’atmosfera
  3. Il confine tra Terra e Spazio

Com’è formato il pianeta Terra?

La Terra, terzo pianeta per distanza dal Sole, è il più grande tra i pianeti terrestri (pianeti composti prevalentemente da roccia e metalli).
Ha una massa pari a quasi 6000 trilioni di tonnellate, che aumenta ad un ritmo di 107 kg all’anno. Il nucleo centrale è costituito prevalentemente da ferro, con una temperatura massima che raggiunge i 5000 gradi Celsius. A causa di queste caratteristiche e non solo, la specie umana è in grado di sopravvivere solo in un piccolo strato, che prende il nome di Crosta terrestre.
Essa è avvolta dall’atmosfera, uno scudo dall’ambiente esterno, freddo e inospitale, lo Spazio. Ciò che ci consente di sopravvivere, respirare e proliferare è questo ammasso di azoto, ossigeno, anidride carbonica e gas nobili.

 

Fonte: https://it.freepik.com/

Strati che compongono l’atmosfera

Lo strato più interno che compone l’atmosfera e che si sviluppa per  8-12 km, a seconda che sia in prossimità dell’equatore o dei poli, è la troposfera. Qui avvengono i fenomeni metereologici e si formano le nuvole, fondamentali per il ciclo dell’acqua e indispensabili per la vita.
Più in alto è presente la stratosfera, estesa verticalmente per circa 35km. Lì è presente uno strato di ozono, che  scherma dalle radiazioni dei raggi UV emesse dal Sole.
A sovrastarla è presente la mesosfera, letteralmente lo ‘strato di mezzo’, in cui si disintegrano i detriti celesti che, infiammandosi, regalano lo straordinario spettacolo che noi chiamiamo pioggia di ‘stelle cadenti’.
E’ poi presente la termosfera, dove la temperatura arriva fino ai 1500 gradi Celsius. Qui troviamo la Stazione Spaziale Internazionale. Il guscio più esterno è invece composto dall’esosfera, dove l’aria è estremamente rarefatta, ed è per questo che risulta ostico stabilire dei veri e propri confini al nostro pianeta. L’aria infatti, man mano che ci si allontana dalla crosta terrestre, diviene sempre meno densa.

Il confine tra Terra e Spazio

Nonostante sia pressoché impossibile definire un limite netto tra la Terra e lo Spazio, la Federazione Aeronautica Internazionale (FAI) ha tracciato un confine immaginario sulla cosiddetta ‘’linea Kármán’’, posta ad un’altezza di 100 km sopra il livello del mare.

Fonte: https://tech.everyeye.it/

mentre la NASA stabilisce il confine a 122 km. Approssimativamente indica la quota di rientro atmosferico, ossia la quota al di sotto della quale gli shuttle possono passare dalla manovra di rientro a propulsori a quella alare.

In generale dunque non vi è una risposta unitaria ad una domanda così semplice. Infatti ciò che definiamo con una singola parola, esiste  come un insieme di strati dell’atmosfera che, all’aumentare dell’altezza, divengono sempre più rarefatti.

E’ davvero complesso capire fino in fondo quanto sottile sia l’equilibrio che ci tiene in vita. Solo la scienza può mostrarci la straordinarietà del nostro mondo, in cui ogni più piccola parte riveste un’importanza fondamentale per il perpetuarsi della vita.

Giulia Accetta

 

BIBLIOGRAFIA

https://universome.unime.it/2021/02/20/dentro-il-buco-nellozono-cose-e-perche-deve-preoccuparci/?fbclid=IwAR08HxKGD9aDY3cYT2dhMsbgWbVjyoUwYaVvRuvn-YyAioVOAQI9aOn60iU

La corsa allo spazio tra costi e benefici

Qual è la cosa più sensazionale che abbiate mai fatto in 108 minuti? Il tempo di un’uscita in buona compagnia, un pranzo in famiglia, quasi, ahimè, il tempo che si impiega per percorrere in auto la tratta Messina-Palermo. Qualunque cosa abbiate potuto fare in quest’arco di tempo, non supererà mai l’impresa di Jurij Gagarin. L’astronauta russo, infatti, sessant’anni fa è stato il primo essere umano ad essere spedito nello spazio: completò un giro attorno alla Terra in ben 108 minuti (Jules Verne sarebbe impallidito al risultato). Era il 12 aprile 1961, quando la corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America era sempre più accesa. Fu proprio questa competizione per il dominio spaziale a far crescere esponenzialmente i finanziamenti per la ricerca su questo fronte, tant’è che alcune imprese ad oggi non sono state mai più ripetute. Poco più di un anno dopo, il presidente John Kennedy annunciava: “Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare le altre cose non perché sono facili, ma perché sono difficili! […] perché quella è una sfida che siamo disposti ad accettare, una che non siamo disposti a posticipare ed una che intendiamo vincere”. Così, con la missione Apollo 11, il 20 luglio 1969 Neil Armstrong e Buzz Aldrin furono i primi uomini a mettere piede sulla Luna, dove piantarono la bandiera americana come simbolo. Da quel momento, conclusasi anche la Guerra Fredda, la corsa alla supremazia spaziale rallentò molto, così come diminuirono gli investimenti.

Yuri Gagarin con la tuta spaziale – Fonte: skytg24.it

Per renderci conto dell’imponente crescita scientifica che ha caratterizzato quegli anni, immaginiamo una linea temporale. Partiamo dalla Grecia: Tolomeo studia gli astri ad occhio nudo. Ci vorranno circa 1500 anni prima che Galileo inventi il primo sistema di lenti capace di osservare i corpi celesti “da vicino”: il telescopio. È il 1609 e sono solo pochi visionari a credere nella teoria eliocentrica. Dobbiamo aspettare i primi decenni del ’900 per vedere i primi razzi a propellente, ma è solo nel ’42 che si riesce a spedirne uno oltre l’atmosfera. Da qui il primo satellite inserito in orbita terrestre, lo Sputnik 1, poi Gagarin e l’uomo sulla Luna: tutto concentrato, insomma, in pochi decenni.

Ma perché continuare a investire nell’esplorazione spaziale? È una domanda che potrebbe far indignare un qualsiasi astrofisico sommerso da formule e numeri, ma anche alimentare (come ha già fatto) diverse critiche, soprattutto sul web. La risposta è semplice. Basti pensare ad internet ed ai GPS che ci aiutano a trovare il ristorante di cui ci ha parlato un amico. O ancora, il semplice controllo delle previsioni meteo prima di uscire, per sapere se è meglio portare l’ombrello oppure no. Chissà cosa ne pensano i sopravvissuti ad uragani e inondazioni devastanti, salvati dai presagi tempestivi che ne hanno permesso l’evacuazione. Dalla salvaguardia delle foreste e l’avanzare degli incendi, allo scioglimento dei ghiacciai, al monitoraggio del buco nell’ozono e all’inquinamento atmosferico: tutti dati satellitari. Se volessimo parlare di benefici indiretti, si pensi, solo per fare un esempio, ai miglioramenti dati alla diagnostica medica: è grazie al telescopio Hubble che si può fare prevenzione individuando microcalcificazioni al seno, indicatrici di possibili tumori. E questi sono soltanto pochi ed essenziali benefici di cui godiamo giornalmente e che sono possibili grazie all’esplorazione spaziale, anche se sconosciuti ai più.

Analizzando i costi, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) nel 2018 ha ricevuto finanziamenti dai vari membri dell’Unione pari a 5,6 mld di euro con un PIL europeo pari a 13.483 mld di euro. Nel 2019 soltanto gli italiani hanno speso 110,5 mld in gioco d’azzardo. La NASA invece, sempre nel 2018, ha ricevuto finanziamenti per 19 mld di dollari; la guerra in Iraq ha avuto un costo complessivo di circa 2.400 mld di dollari. Come se non bastasse, secondo uno studio della London Economics, in Europa il ritorno economico diretto sugli investimenti ESA sarebbe di 3-4 euro per ogni euro investito. Le conclusioni che possono essere tratte da questi dati sono molto semplici.

Dopo lo sbarco sulla Luna, il progresso è stato in crescendo: basti pensare alle sonde Voyager (lanciate nel 1977) ancora attive, al telescopio Hubble mandato in orbita negli anni ’90, alla Stazione Spaziale Internazionale che è continuativamente abitata dal 2 novembre del 2000. Siamo anche riusciti a fare atterrare dei piccoli robot su Marte, in ordine: Spirit, Opportunity e Perseverance (atterrato il 18 febbraio). Non finisce qui: nel 2022 inizierà il programma Artemis che punterà a riportare l’uomo sulla Luna nel 2024.

Il rover Perseverance – Fonte: esa.it

È probabile che, alla base dell’esplorazione, ci sia più di tutto questo. È la voglia di conoscere insita in ogni essere umano, la paura di pensare che tra miliardi di galassie in un universo in continua espansione potremmo essere soli, persi in un oceano nero su una nave blu senza una rotta precisa, a spingerci ad esplorare le profondità dello spazio. È la possibilità di vedere il nostro pianeta da una prospettiva diversa, come la vide Gagarin che, via radio, disse:” Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”.

Giovanni Alizzi

Fonte immagine in evidenza: astronautinews.it

Siamo soli nella nostra Galassia? Alla scoperta dell’equazione di Drake

Una delle domande più grandi della storia dell’umanità è da sempre se siamo soli nell’universo. Sono sicuro che, scrutando nell’immensità delle stelle, se lo sia chiesto chiunque almeno una volta. Ma vi siete invece mai chiesti quante civiltà intelligenti ci sono nell’universo? In quest’articolo sorprendentemente scopriremo come rispondere al quesito.

Fino a quando non scopriremo effettivamente una civiltà aliena, possiamo solo fare congetture sulla probabilità della loro esistenza. È qui che entra in gioco la famosa equazione di Drake, che prende il nome dall’astronomo Dr. Frank Drake. Sviluppata negli anni ’60, questa equazione stima il numero di possibili civiltà intelligenti e comunicanti che attualmente esistono nella Via Lattea.

L’equazione è:

Sopra l’equazione originale, sotto una rivisitazione in chiave Universo Credit: University of Rochester

Dove i singoli termini sono:

Per dare un significato a quest’equazione, vediamo di dare un valore a ciascuno dei termini.

R – Il tasso di formazione delle stelle adatte nella Via Lattea

Le stime per il numero di stelle nella Via Lattea variano da un minimo di 100 miliardi a un massimo di 400 miliardi. Anche le stime dell’età della Via Lattea variano da un minimo di 800 milioni di anni a un massimo di 13 miliardi di anni. In base ai dati considerati il tasso medio di formazione stellare varia da 7,7 nuove stelle all’anno a 500.

Un avvertimento importante per i valori di cui sopra, è che il tasso di formazione stellare nella galassia non è costante nel tempo. Nei giorni più giovani della galassia, le stelle si formavano a un ritmo molto più alto. Oggi, le stime per questo valore complessivo vanno è di 3± 0,65  nuove stelle.

Un altro avvertimento è che, non tutte le stelle hanno le stesse caratteristiche. Ad esempio, le stelle molto massicce non sono considerate adatte. Alcune versioni dell’equazione di Drake aggiungono un secondo termine per stimare la frazione di queste stelle che sono come il nostro Sole. Una stella adatta dovrebbe avere una vita ragionevolmente lunga (circa 10 miliardi di anni) e dovrebbe produrre la giusta quantità di energia per riscaldare sufficientemente i pianeti ma non trasformali in toast. Si stima che il tasso di formazione di stelle di dimensioni solari sia dell’ordine di 1 all’anno.

fp – La frazione di stelle con i pianeti

All’epoca in cui fu creata l’equazione di Drake, gli unici pianeti conosciuti erano quelli del nostro sistema solare. Da quel momento sono stati scoperti circa 200 pianeti extrasolari.

Al tempo, si pensava che i pianeti si sarebbero trovati solo in sistemi a stella singola. Si credeva che le interruzioni gravitazionali in più sistemi stellari avrebbero impedito la formazione dei pianeti. Adesso è stato dimostrato teoricamente che questi sistemi stellari multipli possono avere pianeti.

Quindi quale frazione di stelle ha pianeti? Le stime vanno da un minimo del 5% a un massimo del 90%. Se usi un valore di 0,1 stai dicendo che credi che 1 stella su 10 avrà pianeti. In alternativa, se usi un valore di 1.0 stai dicendo che ogni singola stella avrà pianeti.

ne – Il numero medio di pianeti abitabili per stella

Nella sua equazione originale, Drake ha ottimisticamente assegnato un valore di 2 a questo parametro, il che significa che ci sono in media due pianeti simili alla Terra per stella. I fattori che devono essere considerati per attribuire un valore per questo parametro sono la composizione chimica della nebulosa solare da cui sono derivati i pianeti (la presenza di quantità sufficienti degli elementi necessari) e l’idea della zona abitabile di una stella (la gamma di distanze orbitali entro le quali può esistere acqua liquida).

Un’altra cosa da considerare è se la vita richiede necessariamente un pianeta simile alla Terra. Anche se è difficile per noi immaginare una vita che non richieda acqua liquida, la nostra idea di abitabile potrebbe essere comunque troppo restrittiva.

Scegliere un valore di 1.0 per questo parametro significa pensare che ogni stella con pianeti avrà un pianeta abitabile. Un valore di 0,5 significa che ci sarà un pianeta abitabile ogni due stelle con pianeti e così via.

fl – La frazione di pianeti abitabili in cui emerge la vita

Questo parametro è un jolly, in quanto abbiamo solo un esempio di vita. È difficile per noi dire quanto sia facile o difficile iniziare la vita in condizioni ambientali adeguate. Dei punti interessanti da considerare sono questi:

  • la Terra ha circa 4,5 miliardi di anni;
  • il periodo di formazione dei pianeti del sistema solare si è concluso circa 3,8 miliardi di anni fa;
  • si stima che i depositi sedimentari più antichi conosciuti, abbiano un’età compresa tra 3,5 e 3,8 miliardi di anni;
  • la prima testimonianza fossile di vita conosciuta sono cianobatteri, trovati in questi depositi.

L’implicazione di ciò è che la vita è iniziata piuttosto rapidamente sulla Terra. La grande incognita è quanto siano comuni le condizioni che hanno portato alla vita. Questo è uno dei motivi per cui la ricerca di prove della vita passata su Marte è così importante. Trovare o non trovare prove della vita passata e/o presente su Marte ci aiuterà a rispondere meglio a questa domanda.

Scegliere un valore di 0,01 per questo parametro significa pensare che la vita si sviluppa solo su 1 su 100 pianeti abitabili, mentre un valore di 1,0 significa che la vita si sviluppa su ogni pianeta abitabile.

fi – La frazione di pianeti con vita in cui si evolve una forma di vita intelligente

Dato che la vita si evolve su un pianeta, quanto è probabile che appaia una vita intelligente? Di tutte le specie esistite sulla Terra, solo una ha sviluppato l’intelligenza necessaria per sviluppare la tecnologia.

Dato che non esiste un parametro per distinguere la vita microscopica (che manca di complessità per sviluppare l’intelligenza) dallo sviluppo della vita macroscopica complessa, questo aspetto dev’essere considerato nella valutazione di questo parametro.

Mentre Drake credeva che la vita si sarebbe sviluppata su ogni pianeta con condizioni abitabili, ha stimato che la vita intelligente sarebbe emersa solo su 1 su 100 di questi pianeti.

Scegliere un valore di 0,001 per questo parametro significa pensare che la vita intelligente apparirà solo su 1 su 1000 pianeti con vita. Un valore di 1.0 significa che lo sviluppo della vita intelligente è una certezza su quei pianeti in cui si sviluppa la vita.

fc – La frazione di civiltà intelligenti con comunicazione interstellare

E se gli alieni non avessero l’equivalente di un Maxwell o di un Marconi o di un Edison? Possono essere abbastanza intelligenti da costruire città e mezzi di trasporto, ma inventeranno mai la radio? Drake era dell’opinione che 1 civiltà su 100 ci sarebbe riuscita.

Un valore di 1.0 significa che ogni civiltà sviluppa la radio e un valore di 0.001 significa che solo una civiltà su mille riesce nel compito.

L – Il numero di anni in cui una civiltà intelligente rimane rilevabile

Il parametro L trasforma l’equazione da un tasso in un numero. È anche un valore senza una base reale. Siamo l’unica civiltà intelligente che conosciamo e non sappiamo per quanto tempo rimarremo rilevabili. Una stima prudente per questo valore sarebbe di 50 anni sulla base della nostra esperienza fino ad oggi. Drake pensava che 10.000 anni fossero una buona ipotesi.

Una mia personale interpretazione dell’equazione

Di seguito vi è una spiegazione per i valori che ho usato.

R = 2 che è il doppio del tasso di formazione stimato di stelle simili al Sole.

fp = 0,45 che è la metà della stima più alta del 90% di queste stelle che hanno pianeti.

ne = 0,5 perché non credo che ogni stella che ha pianeti avrà pianeti abitabili. Ricorda che Drake ha assegnato un numero di 2 per questo parametro. La mia stima ottimistica è che per ogni due stelle con pianeti, ci sarà un pianeta abitabile.

fl = 0,033 senza basi solide, ho deciso che la vita emergerà solo su 1 su 30 pianeti abitabili.

fi = 0,015 ancora una volta ipotizzando che la vita intelligente si svilupperà solo su 3 pianeti su 100 con la vita.

fc = 0,5 perché sono ottimista sul fatto che se esiste una vita intelligente, c’è almeno una probabilità del 50-50 che sviluppino la tecnologia necessaria per la comunicazione interstellare.

L =10000 perché sono ottimista come Frank Drake sul numero di anni per i quali una civiltà intelligente trasmetterà la sua presenza tramite trasmissioni radio.

Sono rimasto molto sorpreso di vedere che la combinazione di valori che ho usato ha prodotto un risultato di 1.11 civiltà che attualmente trasmettono. Questo ci rende l’UNO. Ma basta poco per aumentare o diminuire questo valore.

Adesso prova tu!

Alla PBS, hanno un calcolatore di equazioni di Drake  in cui puoi inserire i valori per determinare quante civiltà possono essere trovate nella Via Lattea, secondo una propria valutazione.

Conclusione

L’equazione di Drake deve essere una delle equazioni più SWAG (Scientific Wild-Ass Guess) mai create a causa dell’incertezza associata ai suoi parametri. Svolge anche il compito di fornire una struttura al dibattito in corso sulla ricerca di intelligenza extraterrestre e sulla probabilità della sua esistenza. Il grande grado di incertezza associato a tanti dei suoi parametri ci dice una cosa importante: che abbiamo molto da imparare.

Se fossimo soli l’immensità sarebbe davvero uno spreco

 

Gabriele Galletta

Dentro il “buco” nell’ozono: cos’è e perché deve preoccuparci

Alla scoperta del “buco” nell’ozono: com’è fatto, cosa ha determinato la sua formazione e perché si trova in Antartide.  Continua a leggere “Dentro il “buco” nell’ozono: cos’è e perché deve preoccuparci”

Perseverance: il rover è su Marte

Dopo 7 mesi di estenuante attesa e 470 milioni di chilometri di spazio percorsi, alle 21:55, ora italiana, il rover Perseverance della NASA ha toccato il suolo di Marte. Ma perché questa missione è così importante?

Gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, USA, osservano il primo test di guida per Perseverance della NASA il 17 dicembre 2019.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Prima dell’ammartaggio: i ‘’sette minuti di terrore’’

Così viene definito il tempo necessario all’ammartaggio, in cui il centro di controllo non può correggere eventuali errori causati dai famosi sette minuti di ritardo tra la Terra e Marte. Tutto è quindi nelle mani dei sistemi di bordo a dir poco precisi del rover. Perseverance è entrato nell’atmosfera raggiungendo i 1300 C° ad una velocità di 1600 chilometri orari, protetto da uno scudo termico. Quando quest’ultimo si è sganciato, ha lasciato spazio all’apertura del paracadute di circa 21 metri che ha attutito la caduta, rallentando la discesa del rover a circa 400 chilometri orari. Da questo momento in poi sono entrati in gioco i retrorazzi, che hanno accompagnato il robot fino al suolo, facendolo scendere dolcemente tramite l’argano montato sulla sommità dei propulsori ed attaccato tramite cavi al corpo di Perseverance, per poi sganciarsi ed atterrare poco più distante.

Perseverance ha raggiunto sano e salvo il cratere Jezero, letto di un antico lago marziano, il 18 febbraio 2021. Il viaggio e l’esplorazione del pianeta rosso fanno parte della missione spaziale Mars 2020, iniziata proprio con il lancio della sonda lo scorso 30 luglio da Cape Canaveral in Florida.

Perseverance lanciato su un razzo Atlas V-541 dal Launch Complex 41 a Cape Canaveral Air Force Station, Florida.
Fonte: https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

Gli obiettivi della missione

Uno degli obiettivi di Perseverance è quello di cercare segni di antica vita microbica su Marte. Ciò permetterà alla NASA di studiare la passata abitabilità del pianeta. In particolare, gli scienziati sono interessati ai sedimenti trasportati dagli antichi fiumi nel cratere. Queste rocce sono molto importanti in quanto potrebbero tener traccia di sostanze organiche, segno della possibile vita passata di Marte. Il rover si impegna, inoltre, a raccogliere rocce vulcaniche, in modo tale da poter stabilire i cambiamenti geologici e ambientali nel corso del tempo.

Oltre a queste, innovative tecnologie verranno testate per aumentare i sistemi protettivi delle tute spaziali, in vista di possibili e future missioni umane sul pianeta rosso. Le missioni saranno supportate anche grazie allo studio dell’ossigeno estratto dall’atmosfera, volto a verificare con maggior chiarezza la possibilità di autosostentamento degli astronauti sul gemello della Terra.

Prima immagine di Marte da Perseverance.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Operazioni al suolo di Perseverance

Perseverance è dotato di sette strumenti, tra cui fotocamere, radar e sistemi laser per l’analisi del suolo e della sua composizione. Vi è anche un trapano rotante in grado di perforare il terreno di circa 5 centimetri. I frammenti ottenuti verranno raccolti e sigillati ermeticamente dentro tubi di titanio (il peso di ogni campione è di circa 15 grammi). Il rover trasporterà a bordo i campioni sigillati, fino a quando il team che si dedica alla missione deciderà di depositarli sulla superficie marziana.

Secondo il piano, Perseverance sistemerà le capsule in posizioni strategiche, in modo tale da poter essere raccolte da missioni future. A questo proposito, l’European Space Agency (ESA) prevede di usare il Sample Fetch Rover durante la missione Sample Retrieval Lander della NASA. Il rover dell’ESA raccoglierà i campioni che Perseverance ha depositato e li porterà al lander, dove saranno accuratamente conservati in un Mars Ascent Vehicle (MAV). Il MAV lancerà il container con i campioni dalla superficie marziana, mettendolo in orbita intorno a Marte.

Ingenuity

Insieme a Perseverance c’è Ingenuity, un drone di piccole dimensioni a forma di elicottero . Sarà utilizzato per testare l’effettiva possibilità di volare sul suolo marziano per potersi spostare con più facilità e a una velocità maggiore, in quanto il rover può percorrere pochi metri al giorno. Una serie di test di volo sarà eseguita su una finestra sperimentale di 30 giorni marziani che inizierà nella primavera del 2021. Per il primo volo, l’elicottero decollerà a pochi metri da terra, si aggirerà in aria per circa 20-30 secondi e atterrerà. Dopo di che, il team tenterà ulteriori voli sperimentali di crescente distanza e maggiore altitudine. Dopo che l’elicottero avrà completato la sua dimostrazione tecnologica, Perseverance continuerà la sua missione scientifica.

Rappresentazione artistica di Ingenuity sul suolo marziano.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Un barlume di speranza

Ieri il team della National Aeronautics and Space Administration ha raggiunto un grande obiettivo, dal momento che sul totale di missioni verso il suolo marziano, circa il 60% è risultato fallito. Perseverance rappresenta un barlume di speranza per avvicinarci ancora di più alla risposta alla domanda: siamo mai stati soli nell’Universo?

”Mi sono dato come legge di procedere sempre dal noto all’ignoto, e di non fare alcuna deduzione che non sgorghi direttamente dagli esperimenti e dall’osservazione.”

 

Serena Muscarà

 

Bibliografia
https://mars.nasa.gov/mars2020/mission/overview/

https://mars.nasa.gov/technology/helicopter/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/surface-operations/

https://www.esa.int/ESA_Multimedia/Images/2020/04/Perseverance_rover

https://mars.nasa.gov/news/8865/touchdown-nasas-mars-perseverance-rover-safely-lands-on-red-planet/

 

Gravity: un’avventura nello spazio, tra fisica e fantascienza

Il film di Cuarón ha stregato la critica, un po’ meno gli scienziati.

Non solo Nolan, anche Alfonso Cuarón ha provato a giocare con la fisica a Hollywood. Col suo “Gravity”, uscito nella sale cinematografiche nel 2013, ha raccontato un’avventura spaziale molto avvincente. Ma quanto accaduto nel film è fisicamente possibile? Scopriamolo insieme.

Lo specialista di missione Ryan Stone (Sandra Bullock) e il tenente Matt Kowalsky (George Clooney), dotato di jet pack, stanno riparando un pannello posto all’esterno dello shuttle, a circa 600 km sopra la Terra.

I nostri protagonisti si vedono qui muoversi con una facilità disarmante, nonostante in realtà la tuta degli astronauti sia piuttosto ingombrante e delicata. Chi la indossa, infatti, non riesce a muoversi così velocemente come è stato visto nel film. Inoltre, ha un campo visivo molto ristretto e sicuramente non rischierebbe in nessun modo di urtare contro una parte della struttura, in quanto potrebbe danneggiarla facilmente. Infine, l’uso del jet pack è previsto solo in casi di emergenza, poiché, nella realtà, gli astronauti sono collegati tramite un cavo alla struttura. Infatti, nemmeno gli strumenti vengono lasciati fluttuare senza essere stati prima connessi alla base.

Ad un certo punto, Houston li avverte che i russi hanno lanciato un missile su un loro satellite: ormai frantumato in mille pezzi, la sua distruzione ha generato una tempesta di detriti. Questi, a loro volta, hanno danneggiato altri satelliti, causando a loro volta altri detriti, tutti diretti verso lo shuttle di Stone e Kowalsky.

Uno scenario catastrofico, se non fosse che i cosiddetti Tracking and Data Relay Satellite System (TDRSS), ovvero i satelliti utilizzati per le comunicazioni, si trovano ad una altitudine di 36000 km, e quindi non possono mai essere danneggiati da detriti provenienti da orbite più basse. Ed anche se fosse stato possibile, la formazione di ammassi di detriti richiederebbe settimane, se non mesi o anni per accumularsi. Ultimo appunto: nel film, Houston dice che i detriti hanno raggiunto la velocità di 45000 km/h. È praticamente impossibile vederli arrivare! Ciò che accade è invece che gli ammassi di detriti vengono costantemente monitorati e, qualora dovessero sopraggiungere nei pressi delle stazioni spaziali, basterebbe modificare di poco la rotta per evitarli e continuare indisturbati col proprio lavoro.

A questo punto, i detriti raggiungono e distruggono lo shuttle e Stone si ritrova a fluttuare nello spazio. Fortunatamente però Kowalsky, grazie al jet pack, ben presto la raggiunge ed insieme si dirigono verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, a causa di una serie di urti dovuti all’arrivo brusco Kowalsky, per salvare Stone, scollega il cavo di sicurezza e si lascia andare nello spazio. Stone, a questo punto, sale sull’ISS riuscendo, dopo svariate peripezie, a raggiugere il veicolo spaziale Sojuz che le permette di raggiungere la stazione cinese Tiangong 1.

Pensare che una stazione spaziale sia perfettamente nell’orbita di un astronauta è molto fantasioso, ma diamolo per buono. Le stazioni, però, non sono dotate di portelli con maniglie esterne. Prima di aprire un portello (apertura che avviene verso l’interno, e non verso l’esterno), bisogna anzitutto depressurizzare l’airlock (una camera di equilibrio) e solo dopo entrare dentro la stazione. Infatti, la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno provocherebbe una forte spinta verso fuori che spazzerebbe praticamente via la nostra Sandra Bullock. Le navicelle Sojuz (che non sono pensate per fare passeggiate spaziali, come dice invece Kowalsky), inoltre, possono contenere al massimo tre persone. Visto che la ISS in genere è composta da 6 persone, se si trovasse abbandonata sarebbe di certo sprovvista dei Sojuz, che l’equipaggio avrebbe dovuto utilizzare per il ritorno sulla Terra.

Stone riesce infine ad usare la navetta di salvataggio cinese Shenzhou e a tornare, finalmente, sulla Terra. Qui, una volta atterrata, la vediamo prontamente alzarsi in piedi. Nella realtà non è così: gli astronauti devono affrontare un periodo di riabilitazione successivamente all’atterraggio per riacquisire il tono muscolare originale.

Oltre alle imprecisioni già elencate, ce ne sono diverse disseminate lungo tutto il film.

Per esempio, si vede più volte Stone mentre si toglie la tuta, apparendo in biancheria intima. Gli astronauti, in realtà, utilizzano biancheria più coprente e resistente, sotto una maglia speciale composta da decine di tubicini, contenenti acqua, che hanno la funzione di espellere all’esterno il calore corporeo. Di conseguenza, togliersi la tuta è un’operazione molto più lunga e delicata.

Anche l’utilizzo dell’estintore per spostarsi appare alquanto inverosimile: spostarsi con esso, nello spazio vuoto, senza calcolare prima con minuziosa attenzione e assoluta precisione posizionamento e orientamento, potrebbe comportare un effetto contrario a quanto voluto dalla nostra protagonista.

L’atteggiamento di Kowalsky, inoltre, appare piuttosto poco professionale e l’addestramento di sei mesi di Stone non sarebbe adeguato agli standard previsti per le missioni spaziali: Samantha Cristoforetti, la nostra amata astronauta tricolore, ha dovuto superare un addestramento di oltre due anni.

Potremmo continuare a lungo, descrivendo come le lacrime della Stone non dovrebbero staccarsi dal viso a causa della tensione superficiale o come i suoi capelli, in assenza di gravità, dovrebbero fluttuare sopra la sua testa.

Ma dopo molte critiche, è giusto spezzare anche qualche lancia in favore di Gravity, che presenta diversi aspetti veritieri. Infatti, le varie strutture (come la ISS e la navicella Sojuz) sono riprodotte fedelmente. La distruzione dei satelliti, con conseguente generazione di detriti, avviene anche nella realtà. Molto fedeli sono stati anche gli effetti della luce e la conservazione del momento angolare. Infine, la visuale della Terra dallo spazio è piuttosto verosimile.

Grazie ai suoi effetti speciali, Gravity è stato molto apprezzato dalla critica, vincendo numerosi premi e incassando svariati milioni di dollari al botteghino (a fronte di un budget di 100 milioni di dollari). Che dire, tutto sommato niente male!

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta